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RICCARDO MOTTA

CARLO VIDUSSO. L’ATTIVITÀ DIDATTICA E ARTISTICA

CARLO VIDUSSO. L’ATTIVITÀ DIDATTICA E ARTISTICA*

Premessa A distanza di quattro anni dalla morte di Carlo Vidusso avvenuta a Milano il 7 agosto 1978, la Rai – dietro suggerimento del noto pianista e musicologo Riccardo Risaliti1 – decise di riversarne su microsolco le registrazioni, conservate nei propri archivi, e rimaste sconosciute al grande pubblico. Il tutto, come avverte giustamente Risaliti, «non tanto per un bisogno repertoriale della discografia, ma per documentare con quel poco che resta delle innumerevoli esecuzioni effettuate da Vidusso, la portata storica di quel pianismo». Distribuito in esemplari limitati, l’album Omaggio a Vidusso rendeva giustizia – almeno in parte – a quest’artista così importante, la cui figura resta ancora non pienamente valorizzata. Il prezioso documento discografico era accompagnato da alcuni scritti, a firma di allievi ed estimatori del Maestro, che intendevano testimoniare così il loro personale affetto nei confronti dell’artista scomparso2. * Il presente saggio ha origine in un seminario dallo stesso titolo da me tenuto al Conservatorio Arcangelo Corelli di Messina nel giorno 30 marzo 2001. Ringrazio sentitamente la Signora Stella Vidusso Kuo Tseng-Me, vedova del Maestro, per l’affettuosità e disponibilità sempre mostratami, e per avermi gentilmente concesso l’autorizzazione a pubblicare ampi estratti dai manoscritti di Carlo Vidusso e dalle partiture da lui diteggiate. 1 RICCARDO RISALITI, recensione a Omaggio a Carlo Vidusso, cofanetto di LP edito dalla Fonit Cetra-Archivio RAI, LAR 24, in «Musica», n. 468 (1983). 2 Cfr. gli interventi di Maurizio Pollini, Piero Rattalino, Alberto Mozzati, Giorgio Vidusso, Marcello Abbado, nella presentazione all’Omaggio a Carlo Vidusso, LP (2), Fonit Cetra-Archivio RAI, LAR 24.

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Maurizio Pollini, l’allievo più prestigioso, sintetizzò solo in poche righe il lungo e proficuo rapporto didattico che intercorse con il Maestro. Piero Rattalino, allievo di Vidusso e poi suo collega al Conservatorio di Milano, ne sottolineò l’acume didattico e la vivacità dell’ingegno, non senza, tuttavia, rimarcarne gli aspetti grotteschi e maniacali. Giorgio Vidusso e Marcello Abbado, entrambi allievi di Vidusso, espressero senza mezzi termini l’ammirazione per il loro Maestro. Assolutamente toccante lo scritto di Alberto Mozzati3, che, riviveva le emozioni suscitate da un giovanissimo Vidusso alle prese, in concerto, nella Sala Puccini del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, con pezzi quali la Fantasia cromatica e fuga di Bach la Sonata in Si bemolle minore di Chopin e la Parafrasi sul Rigoletto di Liszt. Mozzati metteva soprattutto in luce – circostanza che trova adeguata sottolineatura nelle altre descrizioni – l’enorme talento e la singolarità d’artista. Ma la documentazione discografica, gli scritti dei musicisti che ho prima citato non fanno pienamente luce sul personaggio. A me sembra, infatti, che l’attività didattica ed artistica di Vidusso siano poco note e che riflessioni, ed ulteriori approfondimenti, trovino piena legittimazione considerato lo spessore artistico del pianista scomparso. Pertanto le motivazioni che mi hanno indotto ad occuparmi di questo musicista traggono le mosse, oltre che da personali ragioni affettive, anche dalla necessità di chiarire alcuni aspetti della sua complessa personalità. Cenni biografici e la carriera artistica e didattica L’attività artistica e didattica di Vidusso copre un arco di tempo che decorre dalla fine degli anni Venti fino al 1976/77, anni, questi ultimi in cui egli, sofferente e provato a causa di una grave forma di tumore, meditò di abbandonare completamente l’insegnamento.

3 Alberto Mozzati (1917-1982), pianista e didatta, amico e collega di Vidusso al Conservatorio di Milano.

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Si spense a Milano il 7 agosto 1978. Tuttavia i primordi dell’attività concertistica si possono fare risalire al 1922, anno in cui, tornato dal Cile, dopo aver conseguito il diploma al Conservatorio di Buenos Aires ed essersi affermato quale fanciullo prodigio, venne a stabilirsi in Italia, nella sua Trieste, dove tenne un concerto. I genitori, triestini, si erano trasferiti nel lontano Cile per motivi di lavoro; a Talcahuano il 10 febbraio 1911 ebbe i natali Carlo Vidusso. Successivamente allo scopo di consentire al promettentissimo figlio di seguire degli studi più severi ed offrirgli prospettive di carriera migliori, i genitori decisero di rientrare in patria. Per Carlo, infatti, che intanto a Buenos Aires aveva studiato con Ernesto Drangosch4, bisognava trovare un maestro adeguato al suo talento ed alle sue potenzialità veramente rilevanti. Si rivolsero all’illustre Alfredo Casella5 che, in quegli anni, teneva una cattedra di pianoforte presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma. Nella locandina del concerto di Trieste (30 ottobre 1922, si veda la Fig. 1) è dato adeguato risalto alla notizia che il concerto è da solo preparato, e che il pianista undicenne darà, in questa occasione, «l’addio alla sua Trieste per recarsi a Roma, onde irrobustire e perfezionare le belle doti artistiche della sua anima» (si allude all’imminente audizione con il Maestro Alfredo Casella). Purtroppo tale incontro non ebbe un esito positivo, in quanto Casella, pur essendo colpito dall’enorme talento di questo ragazzino, ma nello stesso tempo infastidito dalla sua sicurezza musicale, decise di non occuparsene6.

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Ernesto Drangosch, pianista, direttore d’orchestra, pedagogo nato a Buenos Aires nel 1822 e morto nel 1925. Studiò a Berlino dove ebbe modo di entrare in relazione con personaggi quali Max Bruch, Joseph Joachim, Ferruccio Busoni, Ignacy Paderewski, Arturo Toscanini, Artur Rubinstein; quest’ultimo lo ricorda nella sua autobiografia. 5 Alfredo Casella (1883-1947), compositore, pianista e didatta. 6 Questa circostanza mi è stata riferita personalmente da Vidusso nella sua abitazione di via Marocco 20 a Milano. Essa tuttavia è confortata dal riscontro documentale dell’annuncio del concerto, che però accenna al solo viaggio a Roma.

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Fig. 1

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I Vidusso contattarono, allora, Giovanni Anfossi7, professore al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano e che fu anche maestro di Arturo Benedetti Michelangeli. In quel conservatorio studiò, sino al settimo anno, composizione con Renzo Bossi e Giulio Cesare Paribeni. Conseguì il diploma di pianoforte nel 1931 pur avendo già acquisito il massimo titolo, a soli nove anni, al Conservatorio di Buenos Aires. A Milano, dove si era stabilito, Vidusso, del tutto casualmente, entrò in contatto con un ricco mecenate che, sinceramente interessato all’avvenire di questo ragazzino di dodici anni, gli propose di allietare – dietro compenso – i nebbiosi pomeriggi lombardi con delle esecuzioni al pianoforte; anzi con dei veri e propri concerti, a patto che i programmi, proposti a scadenza settimanale, fossero sempre diversi. È evidente che il giovane pianista, legittimamente desideroso di guadagnare, ogni settimana una piccola somma di denaro, accolse con entusiasmo la proposta dell’illustre personaggio – di cui è rimasto sconosciuto il nome – e si buttò a capofitto nello studio di programmi sempre diversi. I concerti, o intrattenimenti, avvenivano nella patrizia casa di questo nobiluomo che radunava amici e musicofili. Il Maestro Piero Rattalino, in un’occasione d’incontro, mi ha anche riferito che il padre di Vidusso cercò, attraverso taluni innocenti espedienti, di far apparire il figlio, durante le esibizioni, (non solo, ovviamente, nella casa del mecenate) sempre in età infantile, per dare maggiore risalto alla sua precocità di pianista. Lo vestiva con pantaloni corti, e, con commovente attenzione, radeva l’incipiente peluria delle gambe dell’attonito adolescente. Devo a questo punto precisare che la circostanza con lo sconosciuto benefattore non credo abbia alcun riscontro documentale; mi è stata raccontata dal Maestro – unitamente alle sue scelte di repertorio effettuate per quelle occasioni – nella sua casa di Via Marocco 20, a Milano, nel 1974. Egli mi confessò di aver tratto beneficio da queste esibizioni perché lo costrinsero a studiare ed a costruirsi il repertorio.

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Giovanni Maria Anfossi (1864-1946), pianista e compositore, allievo di Giuseppe Martucci.

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La carriera concertistica proseguì con alti e bassi (parallelamente a quella didattica) e si svolse dagli inizi degli anni Trenta fino al 1950, anno in cui – di fatto – smise di dare concerti. L’interruzione dell’attività concertistica sarebbe da imputare ad una difficoltà d’articolazione del terzo dito della mano destra; malanno certamente curabile ma che fornì al nostro l’input per abbandonare la carriera concertistica, almeno da solista. Per qualche anno, ancora, collabora con I Virtuosi di Roma (dove faceva il continuo); poi rinuncia definitivamente a presentarsi in pubblico, anche in complessi da camera. Sembra che proprio in occasione di questi concerti con I Virtuosi di Roma, per superare la «noia» di un accompagnamento privo di quelle difficoltà di meccanismo che gli erano tanto care, si impegnasse a suonare omettendo di usare, ad esempio, il quarto dito, od il terzo, allo scopo, ovviamente, di crearsi un ostacolo esecutivo e quindi un’occasione di interesse. Comunque i momenti salienti della sua carriera artistica possono così sintetizzarsi. Viene scelto da Ildebrando Pizzetti per la prima assoluta alla Scala di Milano dei Canti di una stagione alta (direttore lo stesso Pizzetti) e all’Augusteo di Roma sotto la direzione di Bernardino Molinari (1933), debutta alla Società del Quartetto di Milano nel 1934 con un programma che specificherò, nei dettagli, in seguito quando mi soffermerò sul repertorio di Vidusso. L’inizio delle integrali in concerto decorre dal 1940, unitamente all’esecuzione alla Scala del Secondo Concerto di Bramhs, per pianoforte, e la Petite messe solennelle di Rossini (con Gino Gorini e Herbert Von Karajan alla direzione). Ripetute le presenze in Sicilia: prima a Palermo, al Teatro Biondo nel 1937 e a Messina, dove figura in cartellone con recitals solistici, nel 1939, 1942, 1950 e con il trio nel 1941. Vidusso, infatti, nel 1936 aveva iniziato un sodalizio artistico con Michelangelo Abbado (padre di Claudio e Marcello) e Gilberto Crepax (sostituito poi da Benedetto Mazzacurati), dando vita ad una celebre formazione cameristica. Nel 1950, in occasione dell’anno bachiano esegue il Clavicembalo ben temperato in tre serate in molte città italiane ed a Milano (Politecnico e

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Teatro nuovo). A coronamento di una breve ma intensa carriera stanno le sue registrazioni radiofoniche (effettuate negli anni 1950/51/52) riversate su microsolco.

Gli incontri Gli anni dell’adolescenza e giovinezza di Vidusso furono costellati da una serie di incontri – taluni proficui altri meno – con pianisti, direttori d’orchestra, compositori. Particolarmente significativo fu quello con Wilhelm Backhaus perchè rimonta agli anni adolescenziali. Egli ebbe la ventura di assistere ad un concerto del celebre pianista tedesco – allora molto giovane – quando, ancora ragazzino, si trovava a Buenos Aires, (dove, come ho avuto modo di dire si era recato per studiare con Drangosch). Non so se dopo il concerto il giovane, ma precoce spettatore, ebbe l’ardire di avvicinarsi a quello che sarebbe diventato un suo idolo. Fatto sta che l’ammirazione e lo stupore che colsero Vidusso di fronte al «tecnico Backhaus» e alla sua leggendaria precisione, non lo abbandonarono mai. Il pianista tedesco, tuttavia era antitetico a Vidusso, anche se le scelte repertoriali di Backhaus – che agli inizi della carriera si proponeva come autentico virtuoso – erano talvolta coincidenti. Nei suoi recitals figuravano le Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, gli Studi op. 10 e 25 di Chopin (per molti anni nel repertorio di Vidusso) e alcune trascrizioni StraussElver che costituivano anche i cavalli di battaglia del pianista italiano. Questi ascoltò, ancora Backhaus a Milano, alla Società del Quartetto, esattamente il 6 marzo del 1927 alle ore 15, e registrò l’evento – per lui memorabile – alla fine del manoscritto del Preludio in Do maggiore del Secondo Volume del Clavicembalo ben temperato da lui più volte diteggiata. Il programma del concerto milanese, oggi, farebbe storcere il naso a molti critici e filologi in quanto era d’impostazione miscellanea. Esso conteneva: — J. S. Bach: dal Primo Volume del Clavicembalo ben temperato: Preludio e fuga in Do maggiore – Dal Secondo Volume: Preludio e fuga in Do maggiore

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L. v. Beethoven: Sonata Patetica in Do minore op. 13 R. Schumann: Studi sinfonici op. 13 S. Rachmaninov: 3 Preludi F. Chopin: 5 Studi e Scherzo in Si bemolle minore op. 31

Il commento di Vidusso, scritto di suo pugno – assieme alla dettagliata indicazione del programma nel foglio manoscritto è: «concerto indimenticabile». Egli incontrò pure Walter Gieseking negli studi RAI di Milano allorquando, nei primi anni Cinquanta, procedette alla registrazione dell’integrale di Iberia di Albéniz. In questa occasione ebbe modo di chiedere al grande pianista tedesco consigli circa l’esecuzione di un celebre quanto scomodissimo passo di Fête-Dieu. Ma un evento altrettanto importante fu un concerto del grande Dinu Lipatti che il giovane Carlo ascoltò a Milano, per la prima volta, con la Partita in Si bemolle maggiore di Bach (che, per inciso, aveva eseguito poco prima anche Gieseking). Egli mi disse che anche questo concerto – che era da collocarsi tra quelli memorabili – gli tolse molte, ma molte ore di sonno. Un altro importante incontro fu quello con Moritz Rosenthal8, grande virtuoso polacco, che ascoltò Vidusso e scrisse, di suo pugno, un giudizio entusiastico su di lui. Purtroppo questo documento, che insieme ad altre preziose testimonianze era in possesso della madre del Maestro, è andato perduto. Fu ascoltato da Arturo Toscanini il quale, alla fine dell’esecuzione batté la mano sulla gamba del brillante e promettente pianista dicendo entusiasticamente: «Bravo!» (questa importante circostanza mi è stata riferita dalla gentilissima Signora Stella, vedova del Maestro). Fu ingaggiato da Ildebrando Pizzetti per la prima esecuzione dei Canti della stagione alta, che eseguì alla Scala. Ma l’episodio più significativo e singolare fu quello occorso a Vidusso quando incontrò Artur Schnabel. Il grande pianista austriaco soggiornava per molti mesi 8 Moritz Rosenthal (1862-1946), pianista e virtuoso polacco particolarmente versato nel repertorio romantico.

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a Tremezzo, sul lago di Como. Vidusso era desideroso di studiare con Schnabel, pianista di tradizione classica, ma più fantasioso di Backhaus. Si fece ascoltare e Schnabel si dichiarò dispostissimo ad aiutarlo. Purtroppo la richiesta del pianista tedesco si rivelò imponente: ben cinquanta lire a lezione! Vidusso non essendo in grado di sostenere il peso di quest’onere economico rinunciò a studiare con Schnabel. Sfumata l’occasione di proseguire il proprio percorso artistico con una celebrità del concertismo internazionale il giovane Carlo lavorò da solo e «crebbe» autonomamente. Da quanto ho riferito credo che si possa facilmente arguire quale dovesse essere la personalità artistica di Vidusso se musicisti, per natura non inclini a giudizi lusinghieri nei confronti di colleghi e giovani pianisti, esprimevano valutazioni così entusiastiche nei suoi confronti. Di contro – riflettendo ancora sull’interesse che egli suscitava – appare strano che con nessuno degli artisti con cui egli ha avuto le occasioni d’incontro che ho appena citato, abbia cercato d’impostare una più assidua frequentazione, una collaborazione più ampia, uno scambievole rapporto didattico o professionale. Anche l’ostacolo delle famose cinquanta lire a lezione – che, beninteso, agli inizi degli anni Trenta erano una cifra ragguardevole – poteva facilmente essere aggirato solo se avesse avuto una profonda motivazione a «lavorare» con l’artista austriaco. Probabilmente egli cercava solo dei contatti, delle conferme al proprio talento e non una guida che lo sostenesse lungo il cammino del proprio progredire. Certamente c’è anche da aggiungere che la sua personalità musicale – pur in fase di crescente formazione – era restia ad accettare «manipolazioni» esterne, in quanto, le sue scelte artistiche e culturali, nelle linee fondamentali, erano già consolidate. Si consideri che Vidusso, nel periodo in cui facciamo riferimento – anni Trenta – aveva già debuttato alla Scala di Milano, era vincitore nel 1933 a soli ventidue anni – per concorso – della cattedra di pianoforte al Liceo Musicale di Padova, aveva partecipato, ricevendo una targa, alla più importante competizione pianistica del momento: il Concorso Chopin di Varsavia.

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Ciò nonostante sembrava un artista combattuto tra la necessità di dare un orientamento diverso al suo formidabile pianismo (da qui, forse, la richiesta didattica rivolta a Schnabel, avvantaggiandosi, così, di una prospettiva culturale che – alimentandosi solo del suo pur eccezionale virtuosismo – non lo avrebbe mai pienamente soddisfatto) e la tendenza, legittima per chi è tanto dotato, di sbrogliarsela da solo e non avere accanto nessuno. Sorge anche spontaneo il sospetto che Vidusso, in fondo, non avesse quest’ansia di approfondimento introspettivo verso i fatti della cultura. Mero sospetto, perché si collocò invece, tra gli anni Quaranta-Cinquanta, come autentico pionere attraverso un’operazione culturale coraggiosa, che, ancora oggi, trova ostacoli ad affermarsi. Altamente meritoria nella sua carriera artistica è stata, di fatti, l’intuizione di proporre le esecuzioni «integrali». In un momento storico in cui – fatta eccezione per Arthur Schnabel che presentò già dalla fine degli anni Venti l’integrale delle Sonate di Schubert e di pianisti, quali Backhaus, che eseguivano l’intero ciclo delle Sonate di Beethoven, l’idea di eseguire integralmente un corpus di composizioni concepite sin dall’origine come un tutt’uno (Studi op. 10 e 25 di Chopin, Clavicembalo ben temperato, Studi trascendentali e Studi da concerto di Listz, Iberia di Albéniz, Goyescas di Granados, ecc.) non era pienamente penetrata nelle coscienze degli artisti e degli ascoltatori. Il pianista italiano, forte dei potenti mezzi strumentali di cui disponeva e con un atteggiamento indagatore ed analitico da autentico studioso, eseguì, i due volumi del Clavicembalo ben temperato di Bach e fu tra i primi pianisti ad affrontare l’esecuzione degli Studi trascendentali di Listz oltre ai Grandi studi da Paganini e agli Studi da concerto, degli Studi e dei Preludi di Chopin, di Iberia e di Goyescas ecc. Considerato però che proprio sul Clavicembalo ben temperato Vidusso effettuò quella che a me sembra la revisione più significativa ed analitica da lui mai realizzata, sarebbe stato proprio interessante conoscere l’esecuzione di quest’opera alla luce di tutto l’imponente lavoro preparatorio che egli aveva organizzato.

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La carriera didattica La carriera didattica si svolse parallelamente a quella concertistica sino all’inizio degli anni Cinquanta. Essa lo vide impegnato, nell’insegnamento, come primo incarico, presso il Liceo Musicale di Padova (1933). Il Liceo Musicale di Padova aveva infatti bandito il concorso per una cattedra di pianoforte, tra i numerosi concorrenti vi erano Vidusso e Vincenzo Vitale9. I due si conoscevano già, e, ovviamente, come avviene tra persone di grande levatura, si stimavano reciprocamente, pur sostenendo metodologie didattiche diverse. Il concorso prevedeva, oltre all’esecuzione d’importanti composizioni scelte tra il repertorio romantico, classico, moderno anche l’esecuzione di un Preludio e fuga di Bach, estratto ventiquattro ore prima tra tutti i 48 del Clavicembalo ben temperato che il candidato era obbligato a presentare. Vidusso, pur dotato di una strabiliante capacità d’assimilazione, non aveva ancora maturato l’idea di eseguire a memoria – come fece in seguito – tutti i 48 Preludi e fughe di Bach. Pertanto pur avendoli studiati (o quasi) tutti, conosceva a memoria bene solo il XXI del Primo Volume. La fortuna volle che al momento dell’estrazione fosse sorteggiato proprio il numero ventuno. Vista la fortuità del caso a lui estremamente favorevole chiese ed ottenne dalla commissione il permesso di eseguire il pezzo seduta stante senza attendere le quarantotto ore. L’esecuzione sbalordì la commissione che trasse «l’erronea» conclusione che il candidato avesse in repertorio, a memoria, l’intero Clavicembalo ben temperato. Quando furono rese note le graduatorie finali, Vidusso si trovò a precedere – per pochi centesimi di punto – il suo illustre antagonista Vincenzo Vitale, e vinse la cattedra. Ma l’antefatto egualmente significativo come l’intera circostanza, fu che prima che la commissione si pronunciasse e formulasse la graduatoria, i due si erano

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Vincenzo Vitale (1908-1984), pianista e didatta napoletano, caposcuola ed arguto saggista.

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incontrati, e Carlo aveva mostrato riconoscenza al suo amico e collega per averlo indotto ad estrarre il Preludio e fuga. Infatti, in coscienza, non si era sentito proprio soddisfatto dell’esecuzione dei pezzi della prova precedente, ed aveva deciso di ritirarsi dal concorso. Era stato proprio Vitale a convincerlo a desistere da questo proposito incoraggiandolo a continuare con la fortunata conclusione che abbiamo visto. Egli fu sempre grato al suo collega ed amico per il sostegno ricevuto; di ciò ne rimane traccia nel Preludio XXI del Clavicembalo, più volte diteggiato, dove si legge: «devo la mia carriera didattica a questo preludio e fuga»10. Proseguì l’insegnamento presso il Liceo Musicale di Verona (1937) e quindi al Conservatorio di Bologna. Da Bologna, (dove subentrò ad Arturo Benedetti Michelangeli) al Conservatorio di Parma (1939) e successivamente a Milano (1951), dove vi rimase sino al 1977. Tra i suoi allievi sono almeno da ricordare: Marcello Abbado, Maria Rosa Bodini, Elisabetta Capurso, Leonardo Leonardi, Sergio Marzorati, Piero Rattalino, Maria Gloria Tanara. È invece infondata la notizia, riportata su alcuni dizionari, che cita il compianto Dino Ciani come allievo di Vidusso. A Milano ebbe come allievo privato Maurizio Pollini. Il rapporto tra i due, per le informazioni di cui dispongo, (attinte queste dalle conversazioni che spontaneamente nascevano durante le ore di lezione che il Maestro, generosamente, mi impartiva presso la sua abitazione di Via Marocco 20 a Milano ed al Conservatorio «G. Verdi»), credo non sia stato tra i più idilliaci. Si raccontano vari aneddoti a riguardo, ma vorrei qui riportarne uno, che costituisce veritiera circostanza, perché raccontatomi direttamente dal Maestro nel 1974. Premetto che il sodalizio artistico didattico tra i due si consolidò all’insegna degli Studi op. 10 e 25 di Chopin. Pollini pare avesse proprio iniziato dal Quarto Studio dell’op. 10 su suggerimento del suo Maestro. Questi 10

L’episodio cui faccio riferimento mi è stato riferito direttamente da Vidusso e confermato dal Maestro Vitale a Napoli nella sua casa di Via Mergellina. La coincidenza dei due racconti mi sembra la prova migliore della veridicità della circostanza.

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poteva proporre ogni sorta di diteggiatura al suo dotatissimo allievo che, sia pure, talvolta, riottosamente, alla fine le accettava. In occasione di una lezione proprio su questo studio, Vidusso impose la propria diteggiatura alla battuta 32 coincidentemente con quanto è generalmente consigliato: un giustificatissimo scambio di dito nella percussione ripetuta del Do diesis alla mano sinistra. Pollini non accolse di buon grado questo suggerimento e continuò a ribattere il Do diesis con lo stesso dito (cosa che gli riusciva agevolmente). Il suo maestro, che in quanto a diteggiatura era inflessibile, pose un aut-aut: «o cambi diteggiatura o ti indico la porta». L’atteggiamento ostinato di Pollini fece sì che Vidusso dovette veramente indicare al suo pupillo la strada per imboccare alla svelta l’uscio di casa. Tuttavia, pur convinto di avere coerentemente agito, si pentì di essere stato così rigido, e si rammaricò per aver perso il miglior allievo che avesse mai avuto. Fortuna volle che il pentimento colse anche il giovanissimo Maurizio che bussò alla porta del suo precettore e si sottopose nuovamente alle sue «amorevoli» cure. Vidusso non ebbe una carriera di respiro veramente internazionale, anche se suonò all’estero in numerose occasioni. Partecipò assieme al pianista Nunzio Montanari11, al Concorso Chopin di Varsavia dove ricevette una menzione premiata con una targa. Allo stesso concorso vi tornò quale giurato quando, dopo la vittoria di Maurizio Pollini, nell’edizione del 1960, crebbe la sua notorietà internazionale di prestigioso didatta. Il suo repertorio era assolutamente imponente. Come ho già avuto modo di dire, egli aveva potuto costituirsi questo bagaglio già in giovane età, attraverso quella curiosa esperienza «para-professionale» del mecenate. Ovviamente in tutto ciò era stato favorito dal suo talento e dalla sua vivacissima capacità di apprendimento. Questo repertorio includeva molte Sonate di Beethoven, tra cui le opp. 110 e 111, quasi tutto Chopin, molti pezzi di Listz tra cui la Sonata 11 Nunzio Montanari, pianista e didatta, professore di pianoforte al Conservatorio di Bolzano, fu il pianista del Trio di Trieste prima di Dario De Rosa e successivamente del Trio di Bolzano.

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in si minore, gli Studi trascendentali e i Grandi studi da Paganini, la Parafrasi sul Rigoletto (di cui dà notizia Mozzati), il Carnaval, gli Studi Sinfonici, e la Sonata in Sol minore di Schumann che fu un suo cavallo di battaglia (a questo proposito mi pare opportuno segnalare che Vidusso eseguiva, al posto del tradizionale «Presto» che costituisce il terzo movimento della sonata, il «Presto passionato» di cui esiste una versione per pianoforte e orchestra e che raramente viene incluso nell’opera). Ricordo che egli stesso però mi disse che non proponeva di frequente in concerto il Carnaval, gli Studi Sinfonici e la Sonata in Si minore12, perché non fu mai completamente soddisfatto del modo in cui li eseguiva. Aveva in repertorio un nutritissimo numero di concerti per pianoforte e orchestra; il Primo di Mendelssohn, il Primo di Chopin, il Secondo di Brahms, il Primo Concerto e il Totentanz di Liszt, il Concerto di Schumann e quello di Grieg, il Secondo di Saint-Saëns, il Primo di Cajkovskij, Notti nei giardini di Spagna di De Falla, il Concerto di Margola. Come si vede, era un repertorio di derivazione classica, che guardava più al tardo Ottocento che al Novecento, anche se Vidusso fu tra i primi a concepire e a realizzare l’integrale di Albéniz (Iberia) e di Granados (Goyescas). Ne costituisce un esempio il programma che egli eseguì per la Società del Quartetto di Milano, che cito a memoria avendo avuto modo di leggerlo in casa Vidusso: — J. S. Bach: Preludio e fuga per organo in Re maggiore — D. Scarlatti: 4 Sonate — J. Brahms: Intermezzo e Variazioni su un tema di Paganini (I e II fascicolo) — F. Chopin: Ballata op. 23 e 3 Studi (op. 10 n. 3, op. 25 nn. 6 e 11) — F. Liszt: Studio in Fa minore e Rapsodia ungherese n. 6 — S. Prokof’ev: Toccata op. 11 12

Carnaval e Studi Sinfonici di Schumann, Sonata in Si minore di Liszt.

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È un tipico programma da grande virtuoso in cui prevale quel carattere miscellaneo che oggi susciterebbe le critiche di quei «puristi» che non considerano che il pubblico, se pure interessato ai programmi monografici, non disdegnerebbe ogni tanto un recital maggiormente variegato e articolato. Purtroppo ogni altra documentazione è andata non solo perduta, ma addirittura distrutta da lui stesso che, alla morte della madre, bruciò tutto quanto riguardava la sua attività artistica, (così è andata al rogo anche la famosa «lettera testimonianza» che Moritz Rosenthal scrisse per Vidusso dopo averlo ascoltato ancora ragazzino). Era uno strumentista più incline ad un pianismo brillante (e le sue qualità tecniche glielo consentivano) che ad uno coloristico ed introspettivo, come dimostrano anche le sue incisioni discografiche. Purtroppo gli unici documenti sonori che di lui restano sono quelli riversati su disco dalla RAI, che aveva nel suo archivio importanti registrazioni. Alludo all’Invito alla Danza di Weber-Tausig, agli Studi da Concerto e ai Grandi studi da Paganini di Liszt, a Iberia (Libro III e IV) di Albéniz, a Goyescas di Granados, a Milhaud ed al Primo Concerto di Liszt. È chiaro che tutto ciò non basta a caratterizzare un artista, ma è pur sempre utile per darci un’idea delle sue tendenze culturali ed estetiche. Restando in tema di registrazioni discografiche vale la pena di accennare al «giallo Vidusso» e cioè alle registrazioni su microsolco attribuite a Vidusso e da lui stesso mai riconosciute. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, probabilmente a ragione degli scarsi controlli che venivano effettuati, nacque un’intensa attività di pirateria discografica principalmente ad opera di due case che avevano sede in Inghilterra: Allegro Royale e Royale. Ma anche altre case discografiche furono coinvolte: Allegro Elite, King, Vanity, Halo, Grammophone e Concertone. Sostanzialmente questa attività si svolse su due diversi fronti. Uno tendente ad attribuire a pianisti sconosciuti esecuzioni tratte da registrazioni live di grandi pianisti (come Kempff e Backhaus). Nel caso nostro, la casa inglese sfruttò il suo nome chiamandolo, in alcuni casi, Conni Vidusso e presentandolo come «a quite well- known italian

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pianist» (un pianista italiano abbastanza famoso) per alcune incisioni su LP. Ma in seguito Rattalino attestò che questi non aveva mai riconosciuto come sue quelle incisioni13. Si trattava del Concerto di Schumann, del Primo di Mendelssohn, del Concerto op. 11 di Chopin, del Concerto KV 414 e del Doppio Concerto KV 365 di Mozart. Nei dischi figuravano anche incisioni di singoli pezzi pianistici. Il metodo di lavoro Vidusso era un pianista dotato di una diabolica ed incredibile facilità di lettura. La veridicità di alcune circostanze accorsegli, veridicità attestata da testimonianze di persone non sospette (Mozzati, Rattalino, Vitale) è di difficile accettazione soprattutto, ove si pensi, alla spettacolarità degli avvenimenti. Il suo metodo di lavoro allora, viene letto ed interpretato come una naturale conseguenza di questa sua enorme versatilità strumentale. Ad esempio Rattalino sostiene che Vidusso, proprio perché provvisto di potenti mezzi, dopo aver letto un pezzo (ovviamente egli apparteneva a quella «fortunata» categoria di strumentisti per i quali la differenza tra la «prima lettura» e l’«esecuzione» non è poi così marcata) e dopo averlo suonato, lo metteva da canto perché si annoiava; per crearsi un nuovo interesse lo riditeggiava con un criterio che ai più sembrava assolutamente paradossale14. Non istintivamente rivolto all’introspezione, del brano ne mutava solo l’elemento estrinseco, reinventandolo digitalmente, rinnovando, così, di volta in volta, il proprio interesse. La convinzione, invece, che io ho personalmente maturato, sulla scorta dell’applicazione pratica di questo sistema, prima come allievo 13 Cfr. ERNST A. LUMPE, Pseudonymous Performers on Early LP Records, in «ARSC Journal», Vol. 21 n. 2, (aggiornato 11/1/99) (ultima consultazione 19/12/2000). 14 Cfr. PIERO RATTALINO, Da Clementi a Pollini. 200 anni con i grandi pianisti, Ricordi-Giunti Martello, Milano/Firenze, 1983, p. 446.

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di Vidusso poi come docente, è che le sue diteggiature si ispirassero ad una logica sotterranea che obbedisce a tre fondamentali principi: •

adottare una diteggiatura che coinvolga tutte le dita;



applicare una diteggiatura che dia assoluta prensilità;



diteggiare in modo da ottenere un legato di tipo organistico.

Tipico di Vidusso era apporre ad ogni nota un numero corrispondente alle cinque dita della mano. Tuttavia ammetteva anche il sei, il sette, l’otto, il nove ed, eccezionalmente il dieci. Il sei indicava le tre dita 5.4.3 assieme, con in mezzo il pollice, quando la sonorità doveva essere piena e corposa; il sette le stesse tre dita in posizione traversa per le ottave sonore sui tasti neri; l’otto il pollice che tiene assieme due tasti; il nove l’indice rovesciato per i suoni da prendersi leggerissimamente; il dieci il pugno chiuso sui tasti. Anche se questo era un lavoro che lo annoiava moltissimo, indicava il pedale in maniera alquanto particolareggiata. Le sue indicazioni di pedale erano talmente circostanziate che segnalava i casi in cui il pedale doveva essere abbassato ma non rialzato interamente, bensì per metà, un quarto, un ottavo. Segnava, inoltre, con due stanghette più scure ricalcate su quelle già stampate, tutti gli accorpamenti di battute che egli riteneva avessero, nel loro insieme, senso compiuto. Il significato da attribuire a quest’operazione è piuttosto incerto anche se, penso, che Vidusso volesse sottolineare gli incisi ed evidenziare, così, la simmetricità o meno di una frase. Ciò di cui andava, poi, particolarmente orgoglioso era quello di superare talune difficoltà pianistiche praticando i suoi famosi aggiusti: dividendo un passaggio tra mano sinistra e mano destra (come soluzione più agevole) quando esso è affidato, tanto per citare un caso frequente, ad una sola mano. Personalmente mi sembra di poter rinvenire nella diteggiatura vidussiana due nuclei generatori. Uno di tipo «ideologico» l’altro di tipo «strettamente pianistico».

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Il primo si riscontra nella chiara linea di tendenza volta ad esaltare l’impianto polifonico anche a costo di qualche sforzo digitale. La regola assoluta da rispettare è quella di non lasciare mai una nota se prima, essa, non abbia completamente concluso la sua risonanza. È chiaro che tutto ciò impone un’inusuale perizia per le soluzioni maggiormente rispettose del legato assoluto. Il secondo si manifesta nel principio dello «scambio» o sostituzione del dito. Emblematica in tal senso mi sembra l’analisi del Primo Preludio e fuga del Clavicembalo ben temperato, opera, verso la quale, ha profuso significativi sforzi quale interprete e quale didatta. Ho più volte accennato alle sue celebrate esecuzioni del Clavicembalo ben temperato, ma ugualmente pregevole è la sua revisione del Clavicembalo, mai andata in stampa15, che, a mio avviso, potrebbe costituire una possibile chiave di lettura della sua metodologia d’insegnamento. Il suo sistema didattico prevedeva anche l’uso sistematico del metronomo e l’adozione di un criterio meccanico per l’apprendimento dei pezzi da mandare a memoria. Quell’oggetto era onnipresente e risponde al vero che egli ne possedesse una quantità enorme. Ogni pezzo, anche quelli intrinsicamente refrattari alle imposizioni del tic-tac, veniva lavorato con il metronomo secondo una gradualità numerica che veniva sancita dallo scorrere della tacca lungo l’asta di esso. Queste «scalate» erano una prassi consolidata che non consentiva margini di autonomia alcuna. Altrettanto singolare mi sembra il procedimento che egli utilizzava, (senza tuttavia imporlo a differenza di quanto faceva con le diteggiature), per l’apprendimento mnemonico dei brani. Devo dire a tal proposito che secondo alcuni la memoria di Vidusso non era pari alle altre sue qualità (lettura, capacità d’apprendimento, capacità tecnica); tuttavia egli adottava un metodo che consentiva una rapida ed efficace memorizzazione. Esso consisteva nell’imparare, isolatamente, tutte le prime righe (della prima, seconda, terza e quarta pagina) le seconde, e così via dicendo. 15

Ms., collezione privata della Signora Stella Vidusso Kuo Tseng-Me.

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Era un sistema, come da lui stesso ammesso, assolutamente non rispettoso della logica musicale ma sintomatico degli sforzi meccanici cui egli si sottoponeva. Alla fine eseguiva tutto il pezzo, così ricomposto nella sua conseguenzialità discorsiva e temporale, corredato dal pedale, indicazioni timbriche e dinamiche.

Vidusso e il Clavicembalo ben temperato I criteri metodologici e didattici che ho avuto modo di descrivere trovano piena applicazione nel Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach, opera che, come ho già detto, è stata oggetto di un’interessante quanto approfondita revisione da parte di Carlo Vidusso. Aggiungo che egli usava apporre direttamente sulla partitura, cioè sulla carta stampata, la sua diteggiatura, con una penna a sfera. Limitatamente ad alcune composizioni (Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach, Fantasia cromatica e fuga dello stesso autore, Corale del Preludio, corale e fuga di Caesar Franck) Vidusso operava una vera e propria trascrizione; ricopiava, cioè, l’intera composizione sulla carta da musica e annotava, sotto o sopra ogni nota, la diteggiatura. Pertanto, quando parlo di «manoscritto», mi riferisco al risultato derivante da quest’ultima operazione. Ho scelto, come esemplificazione, il Primo Preludio e fuga di Johann Sebastian Bach, dal Primo Volume del Clavicembalo ben temperato che è «manoscritto» nel senso poco prima indicato. Il Primo Preludio viene intanto trascritto integralmente senza alcuna indicazione dinamica o segni di fraseggio. La diteggiatura è alquanto regolare, anche perché l’andamento delle quartine di sedicesimi non offre grandi spunti per modifiche digitali sostanziali. Alla fine, esattamente nella penultima battuta, quando viene proposto il motivo del Preludio sull’accordo di settima di dominante, emerge chiaramente un tipo di

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numerica «vidussiana»: 1-2-3 5-2-1 4-2-1-5. In essa traspare il principio della «diteggiatura a scambio» e dell’idea della «prensilità»:

Es. 1: J. S. Bach, Preludio BWV 846, batt. 31-35, manoscritto di C. Vidusso.

Molto interessante mi sembra l’esame della Fuga. Innanzittutto Vidusso scriveva le fughe copiando ogni voce su un rigo diverso usando solo le due chiavi di violino e basso. L’esecutore, pertanto, si trovava a dover leggere una fuga riportata su tre, quattro, cinque pentagrammi, a seconda delle voci che caratterizzavano la sua struttura polifonica. Erano segnalate tutte le entrate dei soggetti, anche quelli per moto contrario. Alla fine della composizione egli riportava il numero complessivo delle entrate del soggetto, e, in qualche fuga, anche quelle del controsoggetto. Ad esempio: ventuno entrate, distinte per moto retto o contrario. Le doppie stanghette segnalavano l’accorpamento di frasi o battute aventi un senso compiuto. Il confronto tra la revisione di Vidusso e quella di un qualsiasi altro revisore impone subito una considerazione che potrà apparire pleonastica, ma che è appropriata, sembra, ai fini della completezza della trattazione. Risulta intanto evidente che il modo di procedere del revisore milanese è totalmente estraneo alla concezione, ad esempio, di Alfredo Casella.

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Casella ammette, com’era in uso nel periodo in cui procedette alla sua revisione, segni di espressione, legature, indicazioni di dinamica, di agogica, e suggerimenti riguardanti le modalità esecutive16. Anche Bruno Mugellini17 indica, come Casella, la dinamica e il fraseggio, sia pure con un indirizzo musicale ed estetico oggi non più proponibile18. Invece nelle revisioni di Vidusso troviamo l’asettica trasposizione del preludio e della fuga, che sono entrambi trascritti (come abbiamo già avuto modo di notare, la fuga nella struttura tridimensionale o quadrimensionale risultante dalla collocazione delle voci su singoli pentagrammi, e il preludio, se di impianto polifonico, anch’esso riportato con le voci separate) senza alcun segno d’espressione. Ma è l’aspetto digitale che qui interessa; a tal proposito è giusto sottolineare, a riprova della versatilità e dell’acume didattico del Maestro, che esistono ben due revisioni di Vidusso del Clavicembalo ben temperato19. Difatti egli, come era solito fare, tornava dopo alcuni anni a riditeggiare ciò che aveva già diteggiato, non apportando però sostanziali modifiche. Nella seconda revisione del Clavicembalo, inoltre, formulò un’altra ipotesi, se così si può dire: poiché la lettura in partitura su tre e quattro righi poteva risultare troppo difficile, egli, successivamente adottò, una diteggiatura su due soli righi, per facilitare il compito dello studente. Ho precisato che non si ravvisano segni di espressione o suggerimenti circa le modalità esecutive. Tuttavia, dai miei personali ricordi, Vidusso, nei preludi che erano di andamento non dichiaratamente lento, propendeva per un’interpretazione brillante, pianistica. Nelle fughe, 16

Cfr. JOHANN SEBASTIAN BACH, Il Clavicembalo ben temperato, revisione di Alfredo Casella, Curci, Milano, 1946. 17 Bruno Mugellini (1871-1912), pianista e didatta, allievo di Giuseppe Martucci. 18 Cfr. JOHANN SEBASTIAN BACH, Il Clavicembalo ben temperato, revisione di Bruno Mugellini, Breitkopf und Härtel, Wiesbaden, (1908). 19 Entrambi i manoscritti fanno parte della collezione privata della Signora Stella Vidusso Kuo Tseng-Me.

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consigliava un andamento moderato, fatta eccezione per quelle in cui la brillantezza era intrinseca al carattere della composizione. In esse proponeva di differenziare timbricamente i divertimenti e auspicava che il soggetto fosse sempre messo ben in rilievo. In un’operazione così accurata come quella effettuata da Vidusso (trascrizione del preludio e della fuga, divisione delle voci su singoli pentagrammi, numerazione dei soggetti e dei controsoggetti, sviluppo accurato, anche se talvolta opinabile, degli abbellimenti) avrebbe giustamente trovato posto un’indicazione delle singole parti della fuga: esposizione, divertimenti, stretti, pedale. Egli, inoltre, avrebbe potuto segnalare, proprio al fine di soddisfare per intero la «curiosità» dello studente o dell’esecutore, le risposte tonali o reali e ricavarne così una sorta di percentuale. Fare, cioè, uno screening più approfondito, in senso strutturale, delle fughe bachiane. Ma veniamo adesso al confronto tra il Preludio e fuga diteggiato da Casella e da Vidusso. È subito evidente che la diteggiatura di Vidusso non è di tipo tradizionale:

Es. 2: J. S. Bach, Fuga BWV 846, batt. 1-3, manoscritto di C. Vidusso.

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Preliminarmente vorrei mettere in risalto che, a differenza di quanto si riscontra in altre revisioni, il salto di quarta, tra il Re e il Sol alla batt. 2 della Fuga, non risulta evidenziato con quella cesura che viene, per consuetudine, posta tra le due note; ma già nel controsoggetto, troviamo una diteggiatura non tradizionale: 4-1-2-3 4-1-3-4. Nella battuta successiva abbiamo 2-3-1-2. Comincia pertanto a delinearsi il principio secondo cui una nota, se prima è stata suonata con un dito, quando si presenta nel pezzo a breve distanza, deve essere marcata con un dito diverso. Nella fattispecie Fa-Mi-Fa-Re 2-3-1-2 (battuta 3) alla mano sinistra. Il raffronto con Casella (Es. 4) non ci dice nulla in proposito; questo revisore, infatti, non segna alcuna numerica limitatamente alla terza misura; ma proprio la mancanza di indicazioni di diteggiatura sta a dimostrare che egli ritiene il passo, digitalmente scontato. Nella batt. 4 al soprano troviamo il disegno a sedicesimi in cui (seconda e terza quartina) viene applicato lo stesso principio digitale, e cioè: 5-3-4-5 4-2-3-4:

Es. 3: J. S. Bach, Fuga BWV 846, batt. 4-6, manoscritto di C. Vidusso.

Sarebbe stato molto più semplice, ed in linea con un’idea tradizionale della diteggiatura, applicare invece il tipo di numerica che indica Casella: 5-2-3-4 5-2-3-4:

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Es. 4: J. S. Bach, Fuga BWV 846, batt. 1-4, revisione di A. Casella.

Questo revisore adotta un principio che trae la sua origine dalla considerazione che il cervello rifiuta un numero eccessivo di informazioni, e, pertanto, è sempre meglio che passaggi simili vengano diteggiati con la stessa numerica. Vorrei far notare ancora quanto avviene alla successiva batt. 5 (Es. 3) dove, per legare organisticamente il soprano al contralto, Vidusso sceglie una soluzione che prevede il passaggio del quarto dito sotto il terzo al soprano, mentre al contralto, conformemente ai suoi principi digitali, il sedicesimo che segue il Fa, già legato, viene preso con il secondo dito invece che con il primo. L’entrata del soggetto al basso, entrata numerata col 4, è caratterizzata dalla successione 5-5-5-5. Questa sembra un’apparente contraddizione al principio, già esposto, dello scambio di dito. Ma le ragioni di questa singolare numerica risiedono nella necessità di marcare energicamente il tema. Si tratta infatti della quarta entrata, di una fuga a quattro voci e tutte le prime entrate devono essere messe nel giusto risalto. Proseguendo quest’analisi pongo a confronto la numerica proposta da Vidusso con quella indicata da Alfredo Casella relativamente alla battuta 5 della medesima Fuga. Noteremo che la diteggiatura proposta dal didatta triestino, naturalizzato milanese (Es. 3), è più rispettosa del tracciato polifonico rispetto a quella utilizzata dal suo collega, nonché mancato maestro (Es. 4). Prova ne è il secondo dito sotto la quartina di sedicesimi del soprano Fa-Mi-Fa-Sol: autentica raffinatezza digitale che

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consente di ben legare la voce sottostante, il Re del tenore, con il Do del tenore alla mano destra20, alla battuta successiva. Diversa, invece, la soluzione prospettata da Alessandro Longo21 che propone di suonare il Fa del contralto con il pollice della destra, ed arrivare al Si, affidato alla sinistra, con il quinto dito. Così si è ovviamente costretti ad alzare la mano, respirando sull’entrata del tema al basso22:

Es. 5: J. S. Bach, Fuga BWV 846, batt. 4-5, revisione di A. Longo.

Nella battuta 6 (Es. 3) troviamo un’applicazione della diteggiatura che prevede lo scavalcamento del quarto dito della mano destra sul quinto dito; procedimento, questo, di derivazione clavicembalistica ed organistica di cui Vidusso fa abbondantemente uso. L’attenzione alla polifonia e, quindi, alla tenuta delle note, in Vidusso era maniacale. L’esempio più clamoroso è rappresentato dalla battuta nove nella quale il rispetto del valore del Do, croma, segnato, alla mano sinistra con la diteggiatura del secondo dito, era assolutamente obbligatoria ed oggetto di numerosi e rigorosi controlli: 20 Il lettore avrà certamente intuito che i numeri scritti sopra le note si riferiscono alla mano destra, quelli sotto alla mano sinistra. Ciò è importante perché non sono rari i casi in cui, una voce, o parte di essa, la cui esecuzione sembrerebbe affidata ad una mano, viene poi modificata proprio in ragione dell’apparizione della numerica sotto o sopra le dita. 21 Alessandro Longo (1864-1945), compositore, pianista e didatta, allievo di Beniamino Cesi. 22 Personalmente preferisco quest’ultima soluzione, più consona al modello interpretativo organistico bachiano, in cui le entrate dei soggetti vengono proposte, specie quando sono in levare (e la maggior parte dei soggetti bachiani sono in levare) con un leggero ritardo per conferire alla testa del tema maggiore autorevolezza.

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Es. 6: J. S. Bach, Fuga BWV 846, batt. 7-9, manoscritto di C. Vidusso.

Alla battuta 13 riscontriamo una di quelle tipiche diteggiature, apparentemente scomode, ma efficaci. La simultaneità dell’esecuzione delle due voci soprano e contralto (questa voce procede per sedicesimi) impone un ardito – ma efficace – allargamento della mano. La sinistra, poi, è costretta a prodursi in una prodezza digitale (tale è per le mani non troppo dotate) legando il Sol diesis al La. Nella medesima battuta ci imbattiamo su una risoluzione d’abbellimento nella quale, oltre ad evidenziarsi il fondamentale criterio digitale di Vidusso – che era quello dello scambio del dito – la fioritura, strutturalmente, presenta uno sviluppo scolastico sul quale innestare successivamente, un’interpretazione più libera:

Es. 7: J. S. Bach, Fuga BWV 846, batt. 13-14, manoscritto di C. Vidusso.

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Gli esempi potrebbero essere ancora numerosi e le comparazioni, senza dubbio, illuminanti. Ma lo scopo precipuo di questa mia breve analisi era quello di mettere nel giusto risalto l’applicazione pratica dei principi didattici di Vidusso (in particolare la diteggiatura) dai quali traeva origine l’attività quasi quotidiana del suo insegnamento. Le curiosità del Clavicembalo ben temperato Il lavoro analitico che Vidusso ha svolto sul Clavicembalo ben temperato ha fatto emergere talune curiosità che svelano aspetti inediti ed interessanti di quest’opera. Vidusso era piuttosto parco di osservazioni sulle partiture; costituiscono delle eccezioni quelle riportate sul Concerto in Mi bemolle maggiore di Liszt. Tuttavia nel Clavicembalo vi sono annotazioni, sparse qua e là, che denotano il suo carattere un po’ bizzarro ed originale, ma anche altre che invece confermano la sua capacità di analisi e il suo profondo spirito d’osservazione. PRIMO VOLUME Preludio XI: Preludio XIV:

troviamo l’osservazione di «2 in 2»23; Vidusso vede una citazione dal Rigoletto di Verdi24 che riporta a margine della partitura:

Es. 8: J. S. Bach, Preludio BWV 859, batt. 1-2, diteggiatura di C. Vidusso.

23 24

Vidusso accorpa le battute di due in due apponendo le sue famose stanghette. Atto II, Scena terza (numero 9 della partitura).

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Preludio XV:

c’è l’indicazione di 24/16 (mentre nel Preludio XXI del Secondo Volume quella di 22/16); Preludio XXI: «devo la mia carriera didattica a questo preludio»25; Preludio XXIII: «il preludio e fuga iniziano con la stessa nota»; Preludio XXIV: «preludio con i ritornelli»; II VOLUME Preludio IX: Preludio XI: Preludio XII: Preludio XVII

«tonalità di mi magg. che impone i ritornelli»26; «anche questo preludio, come il precedente, è costituito da episodi di 2 in 2»; «preludio con ritornello»; «il tema della fuga è tratto, o quantomeno identico, ad un frammento della fuga XII del primo volume»27.

La Sonata di Alban Berg Dall’analisi della Prima Fuga del Clavicembalo ben temperato emergono i principi fondamentali che animano la teoria digitale di Vidusso. Che questi siano i principi cardini del suo sistema lo dimostra la circostanza che un brano, dato alla luce, quasi trecento anni dopo la fuga bachiana, sia stato diteggiato applicando lo stesso criterio. Il riferimento è alla Sonata op. 1 di Alban Berg, che affascina per la sua intensità espressiva e la perfetta costruzione formale. 25

Si allude al concorso per la cattedra di pianoforte al Liceo Musicale di Padova, nel 1933. Alcune composizioni di Bach scritte nella tonalità di Mi maggiore figurano con i ritornelli (Suite Francese in Mi maggiore n. 1, Invenzione a 2 voci in Mi maggiore n. 6, Preludio IX in Mi maggiore del Secondo Volume del Clavicembalo ben temperato). Vidusso, che amava il paradosso, trasse la conclusione che questa tonalità quasi imponesse i ritornelli. 27 Cfr. la testa del tema della Fuga XVII del Secondo Volume del Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach con la battuta 25 della Fuga XII del Primo Volume, in particolare il frammento affidato alla mano sinistra. 26

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Vista l’omogeneità che intercorre tra le sue composizioni – omogeneità digitale, beninteso! – mi chiedo se sia possibile diteggiare Berg allo stesso modo di Bach. Pur ammettendo che l’organizzazione digitale di una composizione segua dei criteri rigidi, desunti aprioristicamente, è altrettanto vero che la pratica applicazione dovrebbe tener conto del contenuto musicale del pezzo, delle sue intrinseche caratteristiche. Accogliendo invece l’idea che la diteggiatura sia un fatto puramente meccanico e che, il revisore, non sia vincolato, nella sua opera di digitazione, al contenuto musicale del brano ed allo stile, la diteggiatura, può essere codificata a priori ed i criteri cui si ispira, possono essere applicati incondizionatamente. L’accentuazione degli elementi extramusicali, ad esempio, è stato uno dei punti saldi di una celebre scuola pianistica italiana; questa aveva posto nel giusto rilievo il rapporto intercorrente tra azione muscolare e sonorità predisponendo le condizioni fisiologiche di base per ottenere un sano approccio alla tastiera. Ma essa si era spinta anche ad individuare il tipo di attività muscolare necessaria per ottenere una determinata sonorità giungendo anche a sostenere che certi autori si suonano col braccio, altri con le spalle, certi con le sole dita, ecc.; un brano ha, invece, una sua propria dimensione sonora, musicale, psicologica che sfugge, talvolta, alle codificazioni pianistiche. Anche la diteggiatura dovrebbe pertanto tenere conto di alcuni aspetti, non eminentemente meccanici, ed armonizzarsi con essi. Il gesto pianistico, per esempio, in taluni non rari casi, rappresenta l’elemento di traino dell’esecuzione di un certo passaggio tecnico, di un disegno melodico e di un’accentuazione musicale e condiziona, ovviamente, la diteggiatura. A questo proposito devo precisare che alcuni celebri caposcuola italiani (Vincenzo Vitale, Alberto Mozzati, Antonio Trombone28, lo stesso Vidusso) hanno completamente azzerato il gesto come elemento di produzione 28

Antonio Trombone (1913-1985), pianista e didatta palermitano professore in quel Conservatorio per lunghissimi anni: è autore di un metodo per pianoforte (Il primo libro per lo studio del pianoforte) e varie raccolte di composizioni per principianti .

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della sonorità. Solo in alcuni rari casi hanno poi tentato di recuperarlo o come elemento scenografico o espressivo (la pausa di gesto), ma mai come punto di forza della loro didattica. Per inciso dirò che analizzando il modo di suonare di alcuni grandi pianisti di epoca non recente mi ha particolarmente colpito un filmato nel quale Josef Hofmann esegue il celebre Preludio in Do diesis minore di Rachmaninov. Chi conosce questa esecuzione (avendo avuto modo di visionare una video-cassetta che la riproduce) 29 noterà che ci troviamo di fronte ad una gestualità di tipo muscolare e non meramente scenografica che mira non ad ammaliare lo spettatore bensì a favorire le condizioni muscolari per una resa sonora ottimale dell’esecuzione. Ritornando ancora sulla Sonata di Berg30 mi sembra di poter rinvenire in essa la stessa struttura digitale (Es. 9) che ha animato la Prima Fuga di Bach: rispetto assoluto del dettato polifonico (a costo di qualche affaticamento muscolare) ed esaltazione di quei materiali melodici («residui motivici», come li chiama Adorno31) che costituiscono la caratteristica strutturale e compositiva del lavoro di Berg. La disamina specifica della partitura ci porterebbe ad una lunga analisi: valgano, tuttavia, a titolo d’esempio la battuta 1 nella quale, per consentire il legato alla voce superiore parte dell’accordo di terza è suonato con la mano sinistra, e la battuta 4 dove l’attenzione di Vidusso ha per oggetto il dettato polifonico e l’incipiente poliritmia.

29

Cfr. The Golden Age of the Piano: Great Pianists of the 20th Century, Philips, VHS 070 153-3, 1994. 30 La partitura della Sonata di Berg diteggiata da Vidusso fa parte della collezione privata della Signora Stella Vidusso KuoTseng-Me. 31 Cfr. THEODOR WIESENGRUND ADORNO, Alban Berg, Il Maestro del minimo passaggio, a cura di Paolo Petazzi, Feltrinelli, Milano, 1983, p.61.

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Es. 9: A. Berg, Sonata op. 1, batt. 1-7, diteggiatura di C. Vidusso.

Fantasia cromatica e fuga Un’esperienza che, a parer mio, è interamente da percorrere, è quella del Vidusso trascrittore. Vidusso, come più volte ho detto, era particolarmente attratto da un certo tipo di ingegneria pianistica, affidare, cioè, alla mano destra ciò che era scritto per la sinistra, e, viceversa. Tuttavia poco nota è la sua attività di trascrittore, di cui costituisce esempio la Fantasia cromatica e fuga di Johann Sebastian Bach. Questa composizione pone all’esecutore complessi problemi stilistici ed interpretativi. Il più arduo risiede nella difficoltà di conciliare, già nella fantasia l’aspetto improvvisativo con quello austeramente contrappuntistico. Il brano, nella revisione di Carlo Vidusso (Es. 10), è tutto manoscritto (ovviamente mai andato in stampa) 32; emerge palesemente il tentativo di 32

Il manoscritto fa parte della collezione privata della Signora Stella Vidusso Kuo Tseng-Me.

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armonizzare la sua innata tendenza a modificare, architettare, inventare, con il serio impegno di studioso attento a posporre ogni esigenza di protagonismo alle regole che un’esegesi accurata ed onesta della partitura impone. Ciò che all’inizio cogliamo è l’indicazione metronomica suggerita dal revisore. Essa, lungi dall’essere solo ed esclusivamente un’indicazione di velocità, è invece, espressione di una precisa idea musicale. Le scale ascendenti e discendenti devono essere proposte con autorevolezza, quasi un’improvvisazione estemporanea. L’indicazione metronomica posta all’inizio, 152 per la semiminima (lo stacco di tempo dello sviluppo, terza riga, invece è 100 per la semiminima) induce a ritenere che Vidusso abbia voluto esaltare il carattere enigmatico, come se ad una domanda (dominante) seguisse una risposta (tonica). Dalla terza riga il tempo è, come ho accennato, relativamente mosso: 100 per la semiminima. Si sviluppa così un disegno di terzine affidato alla mano destra e su di esse viene apposta una tipica diteggiatura a scambio; essa conferisce al passaggio brillantezza e aiuta a realizzare il «non legato». Il resto della partitura vede il frequente uso del pollice sui tasti neri. La diteggiatura di Vidusso consente in questo pezzo un’esecuzione energica, drammatica, e ritengo che tutto ciò non sia casuale ma espressione implicita di una precisa idea estetica. Proseguendo in questa breve analisi vorrei mettere in rilievo quanto avviene alla battuta 33 (Es. 11), dove, oltre ad imbatterci in una delle rarissime indicazioni che non riguardano la diteggiatura («con libertà di ritmo»), troviamo lo sviluppo degli accordi con figurazioni a terzine che a mio parere ne facilitano sia la comprensione che l’esecuzione. Nella medesima battuta fa capolino, come ho accennato, l’indicazione con «libertà di ritmo». Il suggerimento è senza dubbio pleonastico, ma esprime il desiderio di trascendere il fatto puramente meccanico digitale. Raramente, nelle sue revisioni, egli ha utilizzato considerazioni di tipo espressivo: ciò appare curioso se si pensi a quale dovesse essere la sua conoscenza del repertorio pianistico (per averlo praticato direttamente) e quali consigli esecutivi, espressivi avrebbe potuto segnalare in calce alla partitura. In linea con l’iniziale impegno program-

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Es. 10: J. S. Bach, Fantasia cromatica e fuga BWV 903, batt. 1-8, manoscritto di C. Vidusso.

Es. 11: J. S. Bach, Fantasia cromatica e fuga BWV 903, batt. 32-35, manoscritto di C. Vidusso.

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mato (conciliare il carattere improvvisativo con il rigore formale) nel recitativo (Es. 12) Vidusso sviluppa tutti quanti gli abbellimenti alla luce dei suoi personali principi, ma li incasella in una trasposizione scolastica, metronomica, non in sintonia con il carattere di recitativo strumentale di questa sezione. Troviamo, per chiarezza espositiva, il raddoppio di tutti i valori delle note allo scopo di rendere più agevole la lettura dei sedicesimi. Consigliava, secondo una giusta prassi, di arpeggiare sempre gli accordi eccetto quelli dissonanti, nei confronti dei quali l’arpeggio mitigherebbe l’urto

Es. 12: J. S. Bach, Fantasia cromatica e fuga BWV 903, batt. 47-55, manoscritto di C. Vidusso.

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causato dalla dissonanza. Nella Fuga, che è trascritta su tre pentagrammi, esiste qualche rara osservazione, in particolare nella battuta 27 e seguenti, dove Vidusso consiglia di fare emergere la linea del contralto. Le Variations seriéuses di Felix Mendelsshon-Bartholdy La struttura polifonica, che Vidusso ha esaltato nel Clavicembalo ben temperato di Bach, è egualmente presente in una composizione romantica: le Variations seriéuses di Mendelsshonn33, opera nella quale, per quanto possibile, attraverso una diteggiatura che sottolinea il tracciato polifonico, egli tende a realizzare il legato assoluto (Es. 13).

Es. 13: F. Mendelssohn, Variations seriéuses op. 54, batt. 1-18, diteggiatura di C. Vidusso.

33 La partitura delle Variations seriéuses di Mendelssohn con le diteggiature di Vidusso fa parte della collezione privata della Signora Stella Kuo Tseng-Me.

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Gli aspetti relativi alla tecnica del legato sono stati approfonditi da studiosi di cose pianistiche e da famosi didatti; Vidusso – e di ciò egli ne ha dato contezza nel Clavicembalo ben temperato – propende per il «legato di dito» che impone un uso molto parco del pedale e obbliga alla diteggiatura cosiddetta «a scambio». La matrice di tutto ciò è di derivazione classica, di quell’orientamento cioè che privilegia l’attività del dito, in ogni suo aspetto, relegando ad un ruolo gregario il braccio, la spalla e l’avambraccio. La valenza della tecnica del «legato di dito» è stata ampiamente riconosciuta da Chopin; egli pur ponendosi, di fronte ai suoi contemporanei, quale geniale innovatore sia sul piano esecutivo che su quello didattico (leggendaria era la sua meticolosità d’insegnante: incontentabile nel disegno di una frase, pretenzioso al massimo nella bellezza del suono) faceva uso del tradizionale legato di dito. A ragione di ciò il compositore polacco non amava il Thalberg pianista, che invece otteneva il suono legato attraverso una particolare quanto moderna pedalizzazione. La ragione storica, ovviamente, della diversa impostazione che Chopin e Thalberg avevano in ordine ad un aspetto così importante della tecnica pianistica è la seguente, a mio avviso. Chopin, per quanto possedesse un istinto didattico ardito e avveniristico (ricordiamo quanto egli stesso scrive negli Appunti per un metodo) 34 a proposito della diteggiatura, della posizione della mano, dell’avambraccio, rimane pur sempre ancorato alla tradizione classica, che vede nella polifonia «l’humus» entro cui si muove l’estro compositivo; la sua didattica, pertanto, ne è condizionata. Thalberg35 è invece propugnatore della differenziazione del «canto», della «melodia», dal suo accompagnamento attraverso due diversi atteggiamenti muscolari del braccio. In sostanza egli era orientato verso

34 Cfr. ALFRED CORTOT, Alcuni aspetti su Chopin, Curci, Milano, 1950, pp. 54-66. Nel decimo foglio del manoscritto di Chopin (trascritto a p. 63 del libro di Cortot) vi sono osservazioni sulla posizione della mano e sulla diseguale conformazione delle dita. 35 SIGMUND THALBERG, L’Arte del canto applicata al pianoforte, F.lli Bucca, Milano-Lucca, 1850.

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«la tecnica del peso del braccio», e, ovviamente, legava poco col dito perché il tasto era tenuto in fondo dal peso del braccio e il dito forniva solo il sostegno al braccio. A me pare che l’impostazione di Vidusso per come essa emerge dalle sue diteggiature, sia più vicina a Chopin che a Thalberg. Ondine e XI Variazione degli Studi sinfonici Un’ulteriore affermazione della tecnica del dito si rinviene in Ondine di Ravel (Es. 14), tratto dalla suite Gaspard de la Nuit. Vidusso propone un tipo di diteggiatura – ad esempio, nella seconda battuta, 3-4-3-3 5-3-3-5 3-4-3-3 5-3-3-5 – che se ad un tempo consente di eseguire chiaramente tutte le note di questa scomodissima quanto suggestiva pagina, peraltro risulta prima facie, disagevole e non in sintonia con il carattere generale del pezzo che richiede un’esecuzione vaporosa ed evanescente, cosa che questa numerica, più consona ad un’esecuzione «martellata», probabilmente forse non consente. Le ragioni che a mio avviso hanno indotto il didatta milanese a «sposare» le ragioni del dito, risiedono nell’area culturale e didattica d’appartenenza. Il suo nucleo d’origine era, come ho avuto modo di dire, sostanzialmente di derivazione classica (per Sâint-Säens il principe dell’esecuzione è il dito). Non fu influenzato dalle teorie di Deppe36, di Breithaupt37, di Matthay38, che avevano avuto scarsa incidenza nel nostro paese; conosceva Attilio Brugnoli39, ma, sollecitato da me affinché esprimesse un giudizio intorno alle nuove teorie di Brugnoli elaborate nella Dinamica pianistica 40, mi disse che aveva una grande paura

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LUDWIG DEPPE, Klavier Leherer, Lipsia, 1885. RUDOLF MARIA BREITHAUPT, Die naturliche Klaviertechinik, Lipsia, 1905. 38 TOBIAS MATTHAY, L’arte del tocco, F.lli Bucca, Milano-Roma, 1911. 39 Attilio Brugnoli (1880-1937), pianista e didatta. 40 ATTILIO BRUGNOLI, Dinamica pianistica, Ricordi, Milano, 1942. 37

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Es. 14: M. Ravel, Ondine, batt. 1-9, diteggiature di C. Vidusso.

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di suonare. Implicitamente avvertiva l’inutilità di quanto elaborato dal didatta romano. Se invece confrontiamo l’undicesima variazione degli Studi sinfonici op. 13 di Schumann (Es. 15) notiamo una circostanza, a mio parere, degna di nota. In questa pagina, particolarmente nell’accompagnamento affidato alla sinistra, vista la diteggiatura che Vidusso ha applicato in Ondine ci si aspetterebbe di trovare una consimile soluzione. Viceversa egli non appone una sostituzione di dito favorendo così, un’esecuzione più suggestiva e persino impressionistica. Questa potrebbe essere una contraddizione; ma il tutto va invece interpretato come il segnale dell’adattabilità delle rigide regole alle esigenze musicali che di volta in volta sopravvengono. Conclusioni e riflessioni Heinrich Neuhaus, nel suo celebre libro L’arte del pianoforte 41 si occupa del problema della diteggiatura e fissa dei principi che così sintetizza: • • •

la diteggiatura deve sempre seguire il senso musicale; la diteggiatura può adattarsi alla mano; va sempre rispettata la diteggiatura autografa indicata dall’autore.

Regole importanti, poste da uno dei più accreditati didatti del mondo, che annoverava tra i suoi discepoli nientemeno che Emil Gilels, Sviatoslav Richter e Radu Lupu (Neuhaus ammette, non senza civetteria, di avere avuto ben diciotto allievi vincitori di concorsi internazionali) 42. E tuttavia tali principi pedagogici mi sembrano assolutamente antitetici a quelli che risultano dall’esame delle diteggiature di Vidusso. 41 HEINRICH NEUHAUS, L’arte del pianoforte, a cura di Valerij Voskobojnikov, Rusconi, Milano, 1985, pp. 195-201. 42 HEINRICH NEUHAUS, Riflessioni, memorie, diari, a cura di Valerij Voskobojnikov, Sellerio, Palermo, 2002, p. 64.

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Es. 15: R. Schumann, Studi sinfonici op. 13: Variazione XI, batt. 1-10, diteggiature di C. Vidusso.

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Il didatta milanese non sempre rispettava le diteggiature autografe e la sua intolleranza a mutare la numerica da lui stesso imposta, dimostra quanto il suo atteggiamento fosse contrastante con il secondo postulato del didatta e pianista russo. Di contro la diteggiatura ed il senso musicale dovrebbero percorrere strade parallele; spesso, invece, quest’ultimo viene sacrificato all’insegna delle soluzioni pianistiche più agevoli. Gli aggiusti poi, se non altro, provocando un mutamento del timbro, costituiscono una discutibile autonomia del revisore nei confronti dell’autore. Vediamo pertanto, come due grandi didatti, appartenenti a due scuole diverse, pur accomunati da un’indiscussa credibilità, professino, su questo argomento, idee contrastanti, quasi opposte. D’altro canto non mi sembra che neppure nei vecchi e celebri trattati di pianoforte (Clementi, Hummel, Fétis, Adam, Czerny, Kalkbrenner ecc.) si trovino dei principi digitali che in qualche modo possano essere stati recepiti o fatti propri da Vidusso. Credo pertanto che l’attività di digitazione operata dal didatta milanese sia personalissima. Solo l’uso degli scavalcamenti farebbe pensare a Chopin (spesso confutato) 43 e ai clavicembalisti. Prima di concludere vorrei accennare alla sua attività compositiva e specificatamente alla Danza Cilena 44 che assieme alla Fantasia Cinese 45 costituiscono le sue principali composizioni per pianoforte composte in età giovanile. La Danza (Es. 16) è un lavoro di un precoce compositorepianista; ciò si deduce dalla testimonianza di Mozzati46, che lo ascoltò da adolescente (i due erano quasi coetanei, essendo nato Mozzati nel 1917), durante un concerto tenuto da Vidusso al Conservatorio di Milano.

43

Ad es. nel Notturno op. 27 n. 1, Vidusso sostituisce alcune delle diteggiature originali di Chopin con le proprie. La partitura del Notturno op. 27 n. 1 di Chopin diteggiata da Vidusso fa parte della collezione privata della Signora Stella Vidusso Kuo Tseng-Me. 44 CARLO VIDUSSO, Danza cilena, Edizioni Metron, Milano, 1945. (Edizioni Metron n. 622). 45 CARLO VIDUSSO, Fantasia cinese, Guglielmo Zanibon, Padova, 1935. 46 Cfr. l’intervento di Alberto Mozzati nella presentazione all’Omaggio a Carlo Vidusso, LP (2), Fonit Cetra-Archivio RAI, LAR 24.

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Es. 16: C. Vidusso, Danza cilena, batt. 1-9.

Ad un primo esame la composizione sembra riecheggiare l’impostazione formale di Alborada del Gracioso di Maurice Ravel dove troviamo una danza, una parte melodica e quindi la ripresa. Armonicamente presenta degli spunti interessanti ma ciò che più colpisce sono i frequenti riferimenti al pianismo di Liszt e Ravel attraverso delle vere e proprie citazioni. Le indicazioni metronomiche sono, ovviamente, apposte dall’autore. Appare tuttavia curioso che un virtuoso della statura di Vidusso abbia concepito una danza nella sua dimensione storica popolare, senza trarre elementi per una sperimentazione pianistica del tutto originale e più consona al suo istinto pianistico principalmente rivolto agli aspetti tecnico-meccanici della musica.

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Alla morte di Vidusso, la vedova, che è depositaria di tutte le composizioni da lui diteggiate, ha donato alla Biblioteca Civica Sormani di Milano (e non, come ci si sarebbe aspettati, alla biblioteca del Conservatorio dove pure il marito aveva insegnato per tanti anni) parte della sua consistente e preziosa biblioteca musicale, che comprendeva partiture rare e più di novanta edizioni del Clavicembalo ben temperato. Incamerata dalla Sormani come Fondo Vidusso, questa raccolta non è stata ancora catalogata né sistemata (alcuni scatoloni sono depositati in una sede distaccata) né è resa fruibile agli studiosi. In aggiunta la Sormani ha regalato alle istituzioni che ne hanno fatto richiesta (biblioteca del Conservatorio di Campobasso) alcune edizioni a stampa di partiture ritenute doppioni, e che invece erano edizioni e revisioni diverse della stessa opera collezionate da Vidusso a scopi didattici. In questo fondo si trovano le tre composizioni scritte e pubblicate da Vidusso: Intermezzo e Studio di fuga (1937), Fantasia cinese, Danza cilena.