Il Commento Di Tommaso Al de Trinitate Di Boezio

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Ai miei genitori

Indice

Introduzione

pag. 4

Capitolo I: da Boezio a san Tommaso.



18

1. Boezio



18

2. Il De Trinitate di Boezio



26

3. Il Commentarium di san Tommaso



29

Capitolo II: auctoritas e ratio.



33

Capitolo III: la mente umana di fronte al mistero.



55



55

2. La Trinità



78

Capitolo IV: la scienza teologica.



98

1. La teologia tra sapienza e scienza



98

2. Il metodo scientifico della teologia



126



142

Capitolo VI: oltre l’agnosia la scienza del mistero.



149

Bibliografia



161

1. Limiti della conoscenza umana e nozione di Dio

Capitolo V: san Tommaso come sant’Agostino, la creaturale ‘infermità intellettuale’ dell’uomo.

2

Introduzione

La fortuna del De Trinitate di Boezio nel XII secolo è pari all’interesse che il Commento di san Tommaso ha incontrato a partire dalla rinascita tomistica, che risale all’enciclica leonina Aeterni Patris del 18791 . L’onda iniziatasi con questa renaissance continua ancora oggi, arricchita dalla pubblicazione di note, articoli e studi che abbiamo cercato di tenere quanto più possibile presenti. Quest’opuscolo è parte del corpus teologico di Boezio che fu scoperto solo in un secondo momento rispetto alla sua produzione logica. Nonostante ciò, come ben rileva e dimostra la Vanni Rovighi2 , l’opera teologica di Boezio ebbe sul pensiero medievale un influsso ancora maggiore del De consolazione philosophiae soprattutto per ambiti filosoficamente così rilevanti come la dialettica e la metafisica. Il Grabmann si sofferma in diversi punti a sottolineare questo fatto3 , anche citando l’Harnack il quale afferma che non ai suoi scritti cristiani, bensì a quelli pagani (commenti ad Aristotele e De consolatione) deve Boezio la sua fortuna e la sua influenza presso la posterità. Ma questo per Grabmann è negare l’evidenza, vista l’enorme quantità di manoscritti, di glosse e di commenti fioriti attorno agli opuscula sacra di Boezio4 .

1

Leone XIII con quest’enciclica fece del tomismo la filosofia ufficiale della Chiesa Cattolica. Per una discussione sul valore e la legittimità di tale gesto si veda lo studio del Gilson Il tomismo e la sua situazione attuale, in Problemi d’oggi, Borla, Torino 1967, 11-82. 2 S. Vanni Rovighi, Studi di filosofia medievale, 2 voll., Vita e Pensiero, Milano 1978. 3 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1980, vol. I, 199-202. Lungo tutto il nostro lavoro ci siamo serviti unicamente del primo volume. 4 “Dalla grande quantità dei manoscritti dei testi teologici e dalle numerose glosse e commenti medievali, dovuti a volte alla penna di pensatori eccezionali ed influenti, si ricava chiaramente che questi Opuscula sacra godettero di grande considerazione in tutte le epoche della Scolastica e che influirono in misura notevole su tutta la speculazione medievale”, Storia del metodo scolastico, cit., 205. L’Obertello inoltre ci informa che “abbiamo notizia di circa 200 manoscritti degli Opuscoli sacri, che possono ridursi a 170 certi”, Severino Boezio, Accademia Ligure di scienze e lettere, Genova 1974, vol. I, 262.

3

Il Grabmann fa risalire tale successo già all’età carolingia, ad esempio presso Alcuino. Tra i commenti dei maggiori dotti medievali ricordiamo quelli di Scoto Eriugena, Remigio di Auxerre, Gilberto Porretano5 , pseudo-Beda, Clarembaldo di Arras e, infine, quello di san Tommaso d’Aquino oggetto del nostro studio. Lo Usener, a sua volta, fa risalire la prima testimonianza circa gli scritti teologici boeziani all’ottavo secolo, nella citazione che il grammatico Sedulius fa del quinto trattato. L’esistenza storica dell’autore di tale citazione non è, tuttavia, dimostrata con certezza inequivocabile. Resta invece significativa e unanime l’identificazione in Alcuino del precursore di quella scuola che, originatasi attorno a Scoto Eriugena, ha prodotto i primi importanti commenti all’opera teologica di Boezio6 . Secondo il Chadwick tanto i cinque opuscula sacra quanto il De consolatione, “il capolavoro che compose quando era imprigionato a Pavia nel 524-525”, danno a Boezio “il diritto ad avere una posizione significativa nella storia del pensiero”. Chadwick rileva che Boezio nei suoi cinque trattati di teologia cercasse, “da laico ben addestrato in dialettica, di mettere ordine nella tradizione teologica che, con la sua confusa terminologia di ‘natura’, ‘persona’ e ‘sostanza’, usava gli stessi termini in un senso per la Trinità, in un altro per la persona di Cristo. […] I Cristiani dell’età medievale talvolta avevano la sensazione che Boezio in questo modo avviasse i teologi su una strada che li avrebbe allontanati dall’esperienza religiosa, e immessi su un campo di battaglia costituito da dispute riguardanti dei tecnicismi”7 . Il Grabmann afferma che “anche gli altri scritti teologici di Boezio contengono, per quanto riguarda il metodo, punti di vista e modi di procedere interessanti” e “che si trovano in questi scritti gli elementi essenziali del metodo scolastico”. Ancora 5

“Gilberto de la Porrée è, ancora una volta, il testimone di una grande efficacia dottrinale, e il suo commento all’opuscolo penetrerà nell’abbazia di Bec sin dal 1160”, M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, Jaca Book, Milano 1986, 164. 6 Cf H. Usener, Anecdoton Holderi, Georg Olms Verlag, Hildersheim-New York 1969. 7 H. Chadwick, Boezio, il Mulino, Bologna 1986, 13-4.

4

Grabmann, occupandosi specificamente del trattato qui in esame, sottolinea che esso costituì per gli Scolastici un modello “per la trattazione metodica dei dogmi, specialmente di quello della Trinità”8 . A questo proposito il Grabmann, invitando ad una maggiore attenzione per l’influenza che gli scritti teologici di Boezio hanno avuto nello sviluppo del metodo scolastico, rileva che scopo di tali scritti era utilizzare la filosofia aristotelica per avvicinare il nostro pensiero alle verità di fede; e che però in nessun modo l’attività delle ragione può eliminare o anche solo trascurare il contenuto della Rivelazione: “anzi, la fede cattolica costituisce la base immutabile della speculazione teologica”9 . Oggi assistiamo al riemergere del problema della questione trinitaria nella misura in cui essa è sentita come sfida alla mente dell’uomo; in questo senso essa si sfiocca in un rivolo di altre questioni, che noi riassumiamo in due principali10 : lo studio e la determinazione dei limiti della conoscenza umana e il metodo delle diverse scienze, questione centrale dalla ‘crisi dei fondamenti’ di fine Ottocento in poi. Due aspetti legati tra loro poiché la mente umana, naturalmente desiderosa di sapere, si esprime secondo le sue differenti operazioni in altrettanti ambiti conoscitivi. Fino al XII secolo presso i teologi scolastici il contenuto metteva in ombra il modo in cui esso veniva espresso. Questo fatto ha sicuramente una sua valida ragion d’essere nell’identificazione, protrattasi appunto fino alla soglia del XIII secolo, tra teologia e 8

M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 208-9. Cf anche M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, vol. I, C. H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München 1911, 36: „Die theologischen Schriften des Boethius genossen im Mittelalter fast kanonisches Ansehen und wurden daher vielfach kommentiert, besonders aber das Werkchen de Trinitate”. Inoltre M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 164: “dei cinque trattati, il più diffuso e il più letto è, nel XII secolo, il De Trinitate: anche se non può sostenere il paragone con l’opera di Agostino, cui peraltro è coscientemente debitore, esso offre tuttavia ai teologi una materia e un metodo in qualche modo alternativi”. 9 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 205. 10 Ibid., 30: il Grabmann rileva che “al moderno pensatore si affaccia una quantità d’interrogativi e di problemi riguardo alla scienza del Medio Evo. Questi interrogativi intorno al rapporto tra ratio e auctoritas, tra metafisica e teologia, tra Aristotele e Cristianesimo, tra Scolastica e mistica nel pensiero medievale, le questioni circa l’autonomia e la dipendenza del pensiero scolastico, circa le relazioni dello Scolasticismo da un lato con la Patristica, dall’altro col pensiero moderno, tutti questi problemi dmostrano una realtà di fatto, che cioè la Scolastica e il metodo scolastico attirano ancora l’interesse dei nostri contemporanei”.

5

filosofia. Il processo di individuazione, cioè della presa di coscienza di un proprio specifico statuto metodologico, durò un secolo di crisi e portò infine alla separazione dei rispettivi ambiti. Nel rapporto tra forma e contenuto scientifici oggi avviene il contrario. Secondo il Galvan “nelle scienze moderne, dette ’sperimentali’, il metodo ha preso il sopravvento: esso ‘impone’ il tema e ‘si impone’ sul reale. In esso risiede tutto il potere della scienza.”11 Risuona a tal proposito l’eco del giudizio di Martin Heidegger, secondo cui il metodo non poté avere presso gli scolastici quello sviluppo e la relativa importanza che gli spetta: oggi invece esso non è più un mero strumento al servizio della scienza, “è anzi il metodo che ha preso a proprio servizio le scienza”. Il fatto che tale giudizio si trovi nell’introduzione al suo Sein und Zeit, è indicativo del fatto che il filosofo tedesco lega il problema del metodo a quello della necessità di un ‘nuovo’ metodo metafisico, nuovo non perché ancora mai esistito, ma “perché dimenticato e poi sepolto nel tempo”. Il medievale si immergeva a tal punto nella materia da trattare da perdere quella distanza necessaria per spiccare il volo dell’originalità. Alla base ci sarebbe, ancora secondo Heidegger, il predominio del riferimento all’autorità e l’eccessiva stima per la tradizione. La materia in loro aveva il sopravvento sulla tecnica. Ma a nostro avviso san Tommaso fa eccezione. Come vedremo la sua tecnica, frutto dell’arte dialettica della logica, fu in lui perfettamente coesa con la materia, la Trinità, la cui particolare difficoltà pose, sin dalle prime questioni discusse, il problema di come manifestare il Mistero. Tra credere e comunicare il dato rivelato vi è il mezzo della teologia della Sacra Scrittura, con le sue ‘dignitates’, principi primi che mediano tra il tema e il metodo della scienza della Rivelazione. Esse, infatti, partendo da ‘principi di per sé evidenti’, cause prime e metodo infallibile della scienza divina, forniscono 11

G. Galvan, Il concetto di modus scientiae nella filosofia di San Tommaso d’Aquino, in ‘Scientia’ und ‘ars’ im Hoch- und Spätmittelalter, vol. I, Walter de Gruyter, Berlin – New York, 1994, 189-203, 190.

6

conclusioni necessarie che muovono all’assenso della ragione. Col Galvan siamo convinti che “gli scolastici in genere e san Tommaso in particolare, non solo hanno dimostrato una notevole sensibilità per il problema metodologico, ma hanno anche elaborato indicazioni metafisico-epistemologiche sull’essenza e l’essere della scienza, sulle sue proprietà e sui suoi limiti, che possono ritenersi ancora valide”. Il Grabmann nota diverse sfumature nell’atteggiamento dei pensatori cattolici nei confronti del metodo scolastico: accettazione piena e consapevole della ratio interna ma non della forma esterna del procedere; o “applicazione quanto più possibile ampia della tecnica formale dello Scolasticismo nel campo filosofico e teologico”12 . Pur senza l’uguale molteplicità di implicazioni che otto secoli di accelerata evoluzione scientifica hanno apportato, nel XIII secolo i termini del dibattito erano già questi stessi che abbiamo appena accennato. Leone XIII, al cui nome resta legata l’enciclica citata in apertura e quindi tutto il moto di rinascita del tomismo, “ha indicato la dottrina e il metodo scolastici, quali appaiono concretamente in Tommaso d’Aquino, come norma ed ideale per la speculazione cattolica in campo filosofico e teologico”13 . Gian Luigi Brena, in un suo recente contributo sul passato e il futuro del tomismo, richiama alla memoria la critica al neotomismo, condannato per aver sostenuto una separazione troppo netta tra il campo della fede e quello della ragione e “perché dava per scontata la separazione moderna di filosofia e teologia”. Ma poi avverte che ciò che più importa per l’oggi e il futuro della filosofia scolastica è il suo metodo “come procedimento per cercare un raccordo tra fede e ragione che è riscontrabile in gran parte della tradizione cristiana”, e in maniera particolare nella filosofia medievale soprattutto

12

M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 36-9. Tralasciamo di menzionare la terza corrente che rifiuta in toto il metodo scolastico perché astorico e statico; il Grabmann ascrive tale interpretazione ad un’incomprensione di base delle caratteristiche essenziali e non formali di tale metodo, frutto in ultima analisi di una “soluzione del problema del rapporto fede-scienza ottenuta respingendo la religione nel campo del sentimento”. 13 Ibid.,cit., 34.

7

tomistica. Sottolinea poi il confronto attuato dalla teologia cristiana con le ‘ragioni’ di tutte le filosofie precedenti, più che per un’effettiva affinità di contenuti, in virtù della stessa pretesa di validità universale della fede cristiana. Alla base ci fu il ricorso prettamente cristiano al soprannaturale. Di qui il valore ancora attuale del metodo scolastico che, a differenza della neoscolastica, non ha privilegiato una determinata filosofia, pagana o cristiana che fosse, ma ha generato un modo universalmente capace, sul presupposto della fede e del dogma, di “assumere filosofie non esplicitamente cristiane preesistenti per esprimervi un pensiero sia teologico che filosofico disponibile al Vangelo o ad esso rispondente”14 . Un metodo dunque che sintetizza le dimensioni naturale e soprannaturale dell’umano nella sua integrità, tanto il dato che proviene dall’esterno quanto la nostra aspirazione ad esso. Per questo noi ci proponiamo di illuminare il rapporto tra la questione trinitaria e la nostra intelligenza, punto di fuga della questione del metodo della teologia che proprio nel XIII secolo conobbe la sua prima problematizzazione. Sono due temi legati tra loro anche sotto il rispetto propriamente teologico: il dogma della Trinità è infatti il cuore della teologia. La nostra tesi è dunque illuminare il metodo formulato qui da san Tommaso alla luce del mistero trinitario, dimostrando attraverso il continuo riferimento critico al testo il robusto legame tra i due momenti. In particolare ci interessa porre e attirare l’attenzione sul ruolo giocato presso l’Aquinate dal senso teologico del mistero e dell’ineffabile, proprio là dove egli ha impegnato tutte le sue forze razionali alla costruzione dello statuto scientifico della teologia. A tal proposito ci sembra indicativa la suggestione che deve essere venuta al Nostro dalla chiusa, indirizzata a Giovanni Diacono, dell’altro trattato boeziano Utrum Pater et Filius: 14

Tomismo ieri e domani, in A. Fabriziani (a c. di), Tomismo ieri e oggi, Fondazione Centro Studi filosofici Gallarate, GregorianaLibreriaEditrice, Padova 2001, 309-325.

8

“Haec si se recte et ex fide habent, ut me instruas peto; aut si aliqua re forte diversus es, diligentius intuere quae dicta sunt et fidem si poterit rationemque coniunge”. Sembra che san Tommaso, intraprendendo l’impegnativo commento di quest’opera, abbia raccolto l’invito di Boezio al posto del suo vero destinatario. Si giustifica così la scelta da noi fatta di studiare questo opuscolo per delineare l’ideale scientifico che san Tommaso elaborò della teologia. Si tratta infatti non di un semplice commento, bensì di un’opera a sé stante che esprime appieno aspetti determinanti del pensiero teologico dell’Aquinate. Dunque non un semplice omaggio dell’Aquinate al “véritable introducteur d’Aristote en Occident,”15 ma qualcosa di più. San Tommaso si appropria del metodo razionale boeziano che non è più semplice vocabolario di logica ma ossatura ni tima del discorso razionale, su cui tra l’altro si misura l’onestà intellettuale del procedere della ragione umana. Il trattato boeziano sulla Trinità gli si dev’essere sicuramente presentato come il terreno idoneo per affrontare le questioni relative al rapporto tra l’indagine razionale e la fede (e quindi tra filosofia e rivelazione), alla distinzione tra la teologia (nella sua doppia accezione di metafisica dei principi primi e di teologia della Sacra Scrittura) e le altre scienze speculative. Come già si è potuto apprezzare dal queste prime pagine introduttive, la nostra intelligenza degli aspetti scientifici della Scolastica ‘tomistica’ devono moltissimo agli studi del Grabmann il quale, infatti, dichiarando l’intenzione di voler “collocare Tommaso e il suo ideale scientifico in mezzo alle lotte intellettuali del suo tempo”, decide di toccare la questione più importante: “come sono ordinate tra loro, nel concetto

15

P. Mandonnet, Siger de Brabant et l’averroïsme latin au XIII siècle, Institut Supérieur de Philosophie de l’Université, Louvain 1911, 7; e continua: « (…). C’est lui qui, par ses nombreuses traductions du grec et ses autres écrits, forme le lien le plus fort entre la science grecque et le premier moyen âge latin. L’activité de Boèce comme traducteur semble avoir été très étendue. (…) Les critiques ne s’entendent pas sur le nombre des œuvres du Stagirite traduites par Boèce. Nous sommes portés à croire toutefois, que cette traduction a dû s’étendre aux travaux les plus importants d’Aristote. »

9

scientifico del nostro Santo, la Fede e la teologia da una parte e le scienze profane dall’altra? In quale senso ed ampiezza può parlarsi, secondo S. Tommaso, di un influsso della Fede e della teologia sullo studio delle scienze profane e della filosofia? (…) la trattazione più particolareggiata e profonda della dottrina tomistica sulla scienza è la sua Expositio super Boëtium de Trinitate, conservataci anche nell’autografo”16 . Quest’opera è dunque tra gli opuscoli di maggior valore di san Tommaso, anche in virtù del fatto che rappresenta l’elaborazione classica della sua dottrina scientifica17 . Rimasto incompiuto il disegno, iniziato negli anni 1906-1911, di affrontare in tre grossi volumi

l’intera

vicenda

della

sistemazione

intellettuale-scientifica

della

tradizione

religiosa cristiana -a partire dalla Patristica fino alla Seconda Scolastica (XIII secolo)- lo studioso bavarese ha pubblicato diverse opere di preparazione al terzo volume: esso non fu mai scritto, ma è interessante che del suo ultimo libro, Die theologische Erkenntnisund Einleitungslehre des hl. Thomas von Aquin auf Grund seiner Schrift “In Boethium de Trinitate”, l’autore stesso ebbe a dire che era da considerarsi come l’Ersatz parziale del terzo volume della Storia del metodo scolastico18 .

16

M. Grabmann, Il concetto di scienza secondo san Tommaso d’Aquino e le relazioni della fede e della teologia con la filosofia e le scienze profane, Riv. fil. neosc., XXVI, 1934, 127-155, 129. 17 Cf M. Grabmann, Die Werke des Hl. Thomas von Aquin, Verlag der Ascendorffschen, Münster 1931², 312. Traduz. nostra. 18 Die theologische Erkenntnis- und Einleitungslehre des hl. Thomas von Aquin auf Grund seiner Schrift “In Boethium de Trinitate”, Paulusverlag, Freiburg i. d. S. 1948, XI: “Das ganze Werk kann auch als ein Ersatz für den fehlenden dritten Band meiner Geschichte der scholastischen Methode, wenigstens was den hl. Thomas anbelangt, betracht werden”. Il sottotitolo dell’opera recita: Im Zusammenhang der Scholastik des 13. und beginnenden 14. Jahrhunderts dargestellt: egli ha infatti trattato l’opera in rapporto ai commenti di altri autori medievali (primo fra tutti quello di Bernardo di Trilia), volendo sottolineare maggiormente l’apporto storico del commento dell’Aquinate rispetto al mondo culturale della Seconda Scolastica. È molto interessante la ricostruzione che del piano di quest’opera fa Mario Dal Pra nella sua Presentazione all’edizione italiana della Storia del metodo scolastico, cit. Egli inquadra la trilogia grabmanniana nel più ampio contesto dell’intera sua produzione, di cui quella costituisce come il perno e lo scopo precipuo. Inoltre, egli avverte che parte delle conquiste teoriche del Grabmann sono ovviamente datate, visti i nuovi studi e le nuove scoperte relativamente al materiale bibliografico; ma alcune assunzioni restano tuttora classiche e anche metodologicamente valide. Prima fra tutte l’idea rivoluzionaria che tra Patristica e Scolastica non vi fu cesura ma continuità, “almeno sotto il profilo fondamentale dell’elaborazione dottrinale-teologica del cristianesimo” (XV). In definitiva si può concludere che “il significato dell’opera, nella sua lezione così vera, documentata e genuina del Grabmann, non pare proprio ancora coinvolto dal tempo o prossimo al tramonto” (XXIII).

10

Come rileva Chenu, componendo il suo commento al De Trinitate san Tommaso ha formulato il suo “discorso sul metodo”, in linea con una tradizione di pensiero continuata e conservata da Gilberto de la Porrée e Alano di Lilla. Lo stesso Boezio era stato a sua volta maestro di metodo per tutta la scuola di Chartres e per la scolastica in generale, per le quali la concezione e l’insegnamento metodologici boeziani significarono una vera e propria rivoluzione. Lo Chenu inoltre sottolinea che la posizione epistemologica di Boezio è enunciata nel modo più esplicito proprio nel De Trinitate, “opuscolo propriamente teologico, in cui, quindi, questo discernimento dei metodi è elaborato a uso e consumo dei teologi”19 : Boezio era convinto che la teologia avesse un suo proprio metodo specifico20 , che segue e al contempo trascende le leggi delle scienze umane21 . Questa convinzione è accolta e sviluppata fino alle sue estreme conseguenze da san Tommaso, per il quale l’essere dell’oggetto proprio di una scienza è un tutt’uno con il modo in cui questa scienza procede nella conoscenza di questo stesso oggetto: “quando san Tommaso parla di modus scientiae si colloca nella prospettiva metafisica propria di chi indaga l’essenza e il ‘modo d’essere’ di un determinato ente.”22 Il Neumann nel suo Gegenstand und Methode23 limita al solo secondo capitolo l’importanza rivestita dall’opuscolo boeziano per san Tommaso. Si tratta in effetti di un capitolo centrale, ma il cui contenuto non rende ragione di ciò che precede e di ciò che segue. La domanda centrale da cui sarebbe scaturito tale interesse è: “Cos’è la metafisica 19

Ibidem. Conviene chiarire una volta per tutte che presso i medioevali –e san Tommaso come vedremo non fa eccezione- mancava il vocabolo da cui deriva il nostro ‘metodo’: essi infatti utilizzarono con profitto il termine ‘modus’ per indicare il metodo della scienza, che traduce letteralmente il greco ‘tropos’. L’assenza del segno verbale corrispondente a quello moderno non significa peraltro che mancasse il concetto corrispondente: “anzi ci sembra che la ricchezza semantica del termine modus abbia consentito agli scolastici di disporre di un semantema estremamente duttile, applicabile alle molteplici sfumature implicate dal concetto di metodo” (cf G. Galvan, Il concetto di modus scientiae nella filosofia di San Tommaso d’Aquino, cit., 191). 21 M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, Jaca Book, Milano 1995³, 173. 22 G. Galvan, cit., 195. 23 S. Neumann, Gegenstand und Methode der theoretischen Wissenschaften nach Thomas von Aquin aufgrund der ‚Expositio super librum Boethii De Trinitate’, Aschendorffsche Verlagsbuchhandlung, Münster 1965. 20

11

e come è possibile?” La risposta di san Tommaso dipenderebbe a sua volta dalla convinzione che “la metafisica è mediata dalla teologia”24 . In conclusione della sua analisi lo studioso ritorna sul tema metafisico, diffondendosi sulla distinzione tra l’essere della metafisica e quello della teologia che seguono la distinzione sempre ben chiara in san Tommaso tra fede e ragione. Egli parla della costituzione di una ‘metafisica dell’infinito’ che non può contrastare con la fede, quando questa resti intrinsecamente legata al trascendente. Una metafisica così intesa che negasse -o meglio rinnegasse- i presupposti della fede, eliminerebbe non solo la possibilità della metafisica ma anche la sostanza della fede umana. La metafisica tenta di rivelare l’essere –nel quale essa ha il suo oggetto- attraverso il metodo appropriato. Oggetto della metafisica in questo senso è allora l’essente, attraverso cui l’essere della metafisica può essere espresso: cioè l’uomo. Assieme alla metafisica è in questione anche l’uomo. Perciò, la domanda circa i principi costitutivi dell’essente è al tempo stesso la domanda circa il principio della conoscenza: l’ontologia è cioè in ultima analisi metafisica della conoscenza. Vedremo nel corso dell’analisi del testo i passaggi di questa complessa e affascinante dottrina metodologica25 . Padre Elders, nella sua introduzione all’expositio di san Tommaso26 , ha sottolineato l’importanza del metodo nell’ambito di questa trattazione. Secondo lui “lo studio dell’Expositio in Boethii De Trinitate non solo ci permette di acquisire conoscenza del metodo seguito da san Tommaso nei primi anni della sua carrirea scientifica, ma ci mostra anche come egli risolse alcuni dei problemi più difficili. In prima fila tra questi c’erano la questione della relazione tra fede e ragione nell’attività scientifica, quello del

24

S. Neumann, Gegenstand und Methode, cit., VII-VIII. Traduz. nostra. Cf ibid., 161-8. 26 L. Elders, Faith and Sciences. An Introduction to St. Thomas’ “Expositio in Boethii De Trinitate”, Studia Universitatis S. Thomae in Urbe, Herder, Roma 1974. 25

12

principio di individuazione come pure il problema della natura, divisione e metodo delle scienze teoretiche”27 . Altro studioso che si è occupato di quest’opuscolo è Armand Maurer. Egli ne ha curato a distanza di un quarto di secolo due distinte edizioni: la prima delle questioni 5 e 6 è del 1963, l’altra delle prime quattro risale al 198728 . Già questo fa riflettere sulla sua visione ‘scissa’ della concezione scientifica dell’Aquinate in questo commento. Secondo il Maurer la prima metà dell’opuscolo ribalta la concezione tradizionale della teologia: “la teologia per lui, come per i Padri della Chiesa, era una riflessione sui misteri di fede per ottenere una comprensione di ciò che egli credeva, ma questa riflessione e comprensione prendevano ora la forma di una scienza, o meglio di una sapienza, modellata quanto più fedelmente possibile sulla nozione aristotelica di scienza”29 . Inoltre, “il suo obiettivo era una conoscenza ontologica piuttosto che empirica. (…) Il centro di attrazione per san Tommaso (…) non era la scienza empirica o matematica, ma piuttosto la conoscenza ontologica o filosofica, che attiene al profondo essere e alla struttura intelligibile delle cose”30 . Lo studioso che ha intrapreso l’intepretazione a nostro avviso più interessante è lo Hall31 , il quale ha gettato una luce decisamente nuova sul connubio tra metodologia della metafisica e metodologia di una teologia sistematica della Trinità, sintesi magistralmente espressa nelle pagine del presente Commento. Egli dedica un’introduzione ampia e dettagliata ai diversi aspetti illuminati dall’opuscolo, in particolare sottolineamo la sua attenzione per il riemergere della questione del metodo nella riflessione contemporanea.

27

Ibid., 3. Traduz. nostra. Rispettivamente: The division and methods of the sciences, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1963; e: Faith, Reason and Theology, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1987. 29 A. Maurer, Faith, Reason and Theology, cit., IX. Traduz. nostra. 30 A. Maurer, The division and methods of the sciences, cit., X-XI. Traduz. nostra. 31 D. C. Hall, The Trinity. An Analysis of St. Thomas Aquinas’ Expositio of the De Trinitate of Boethius, Brill, Leiden, 1992. 28

13

Definisce il metodo “la questione fondamentale nella scienza e nell’arte” e cita Nietzsche secondo cui “i metodi sono le verità più preziose32 ”. Le principali correnti del XX secolo che hanno interpretato la teologia trinitaria dell’Aquinate si possono a suo avviso riassumere in tre grandi movimenti: i partecipazionisti, i trascendentali e gli analogici, che condividono tutti una metodologia storico-critica e che secondo lo Hall non sono vere e proprie scuole ma “tematiche” centrali attorno alle quali si raccolgono diversi gruppi di teorici.33 Ognuna delle tre correnti ha sottolineato alcuni aspetti dialettici della dottrina trinitaria34 che lo Hall si chiede come sia possibile integrare gli uni con gli altri in una sintesi delle diverse posizioni e nota che la via è quella della metodologia teologica: “si può constatare che la metodologia (…) portata a compimento dall’Aquinate integra le metodologie dei partecipazionisti, dei trascendentali e degli analogici, insieme con le interazioni profondamente dialettiche osservate in ciascuna.”35 Si trattava, in altri termini, dell’an sit e del quid sit della ‘scienza divina’ e la prospettiva che rinveniamo presso san Tommaso considera entrambi i livelli di lettura, di modo che con questa sua opera giovanile egli si propose di rispondere a queste sollecitazioni accolte e rielaborate con ineguagliati sensibilità storica e genio personali.

32

Ibid., 7-9. Ibid., 3. 34 I primi propendono di più per la partecipazione del soggetto umano col divino attraverso l’intelletto agente; l’aspetto centrale della “partecipazione soprannaturale” è invece l’ingresso del soggetto umano in una ‘soggettività inter-personale’ con le persone divine; infine assistiamo all’emergere di una revisione di nozioni generalmente accettate nella filosofia dell’Aquinate, come il concetto di “analogia”, la cui esposizione studiosi del calibro di Fabro e Geiger vedono possibile solo sulla base della partecipazione. I due principali filoni di ricerca sono dunque quello partecipazionista e quello trascendentale: i primi dicono che l’Aquinate ha prodotto “una sintesi di Aristotele e del neoplatonismo plotiniano, con il risultato che essa può a volte essere chiamata aristotelismo specificato dal platonismo, e a volte un platonismo di base specificato dall’aristotelismo; per tutta questa discussione cf D. C. Hall, The Trinity, cit., 3-7 e 112-5. 35 Ibid., 7. 33

14

In merito alla dottrina esposta da san Tommaso sul mistero della Trinità lo Hall parla di agnosìa, un’improvvisa afasia che ad un dato momento costringe il teologo a fermarsi di fronte all’inspiegabile36 . Ci siamo però chiesti come possa l’agnosìa spiegare la ricchezza dell’impianto scientifico e razionale messo su dall’Aquinate. Per correggere questa prospettiva daremo quanto più possibile il quadro e le dimensioni di questo sforzo, frutto della fiducia nella possibilità data all’uomo di indagare il mistero. Un mistero, quello trinitario, che si rivela e –rivelandosi- genera conoscenza. Una conoscenza a sua volta sui generis, che sfocia come cercheremo di mostrare- nella mistica. Tra le risposte date dai moderni ai diversi interrogativi posti dalla scienza del Medioevo il Grabmann menziona proprio la “contrapposizione reciproca e identità fra Scolastica e mistica”, e noi cercheremo di vedere la soluzione data da uno dei massimi protagonisti di quella stagione culturale. Cercheremo di vedere come per l’Aquinate il mistero non è assenza di conoscenza, ma presenza di un ineffabile: in questo senso esso non è gabbia del metodo scientifico, ma domanda di una via nuova e insospettata di conoscenza. In generale possiamo dire che il metodo tomistico si pone come recupero di tutta la tradizione precedente e come valorizzazione –al suo interno- di tutto ciò che, sottoposto al vaglio della ragione, risulta utile alla sua sintesi teologica. Partiremo

perciò

da

una

serie

di

premesse

di

carattere

storico-monografico,

indispensabile per collocare l’operetta tomistica nell’ambito delle urgenze che furono all’origine della sua composizione.

36

Ibid., 119-120. Stupisce, ma non troppo, l’atteggiamento censorio di alcuni rispetto a questa idea dello Hall. In particolare Pasquale Porro (Commenti a Boezio, Rusconi, Milano 1997, 42 nota 7) al quale non sembra condivisibile l’affermazione secondo cui il commento sarebbe rimasto incompiuto a causa della agnosìa e “la convinzione che la parte non sviluppata avrebbe rappresentato in qualche modo la transizione verso una conclusione più squisitamente teologica”.

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Lumeggeremo poi alcuni aspetti che sono presenti nel testo, a volte in filigrana, e che rappresentano quasi altrettanti tasselli che lo stesso Aquinate seppe rielaborare e riunire nell’ambito della sua concezione metodologica. “Age igitur ingrediamur…”!

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Capitolo I: da Boezio a san Tommaso.

1. Boezio.

“Boezio: ultimo dei Romani e primo degli Scolastici”. L’espressione è di Martin Grabmann37 e “riecheggia un famoso giudizio che su Boezio pronunciò nel XV secolo l’umanista Lorenzo Valla: questi vedeva in Boezio un uomo dallo stile e dalla filosofia intaccati da barbarismi, ma nonostante questo gli riconosceva il diritto di essere proclamato l’ultimo scrittore classico in latino”38 . Anicio Manlio Torquato Severino Boezio lavorò tutta la sua vita d’infaticabile intellettuale all’accordo tra cultura pagana e cultura cristiana, vecchio e nuovo, filosofia e teologia, metafisica e sacra doctrina. La sua grande influenza sulla scientia christiana si diffuse dapprima nei monasteri e poi nelle scholae. Ingegno universale, teologo, filosofo e anche poeta (come testimonia iI suo De Consolatione philosophiae, misto di prosa e poesia), non poté portare a termine il suo progetto di conciliare Platone e Aristotele sul comune terreno della lingua latina. Preparò tuttavia la strada alla conciliazione di filosofia e teologia, sulla base di una filosofia dell’ente che con qualche variazione ha attraversato l’intera scolastica. Egli fece parte di un gruppo di pensatori che costituirono una cerchia, se non una vera e propria scuola. Si tratta dei cosiddetti pensatori 37

“Boezio, l’ultimo Romano, il primo Scolastico” è il titolo della terza parte della sua Storia del metodo scolastico, cit., 18, la cui origine è spiegata alla fine del medesimo paragrafo. 38 Cf H. Chadwick, Boezio, cit., 9. Chenu conferma tale giudizio, dipingendo Boezio come “creatore di un vocabolario” e “traduttore-modello”, e aggiunge che “Boezio fu il primo a insegnare all’Occidente a parlare il latino barbaro. Simile impresa, sempre delicata, doveva assumere, nel campo della filosofia e delle sue tecniche, una grande importanza, nella misura in cui la lingua latina era (…) molto povera”: La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 164-165.

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dell’Occidente latino dei secoli IV e V che “divennero quasi tutti cristiani; tuttavia essi non operarono (se si eccettuano Vittorino e Boezio) veri e propri tentativi di sintesi tra platonismo e Cristianesimo, ed ebbero importanza (talora assai grande) soprattutto come intermediari tra l’antichità e il Medioevo”39 . Chenu ha chiamato il XII secolo ‘Aetas Boetiana’ e, se non si può dire lo stesso del XIII secolo, Boezio continuò ad influenzare, direttamente e indirettamente, il pensiero medievale, ed è ormai universalmente riconosciuto che la sua influenza sul sapere medievale fu paragonabile solo a quella di Aristotele. La migliore presentazione del piano dell’opera di Boezio viene dal suo stesso artefice:

“Ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit, in Romanum stylum vertens, eorum omnium commenta latina oratione perscribam, ut si quid ex logicae artis subtilitate et ex moralis gravitate peritiae et ex naturalis acumine veritatis ab Aristotele conscriptum est, id

omne

ordinatum

transferam,

atque

id

quodam

lumine

commentationis illustrem, omnesque Platonis dialogos vertendo vel etiam commentando, in latinam redigam formam. His peractis non equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo revocare concordiam, et in his eos non ut plerique dissentire in omnibus, sed in plerisque quae sunt in philosophia maxime consentire demonstrem” 40 .

La cultura del quinto-sesto secolo è ancora sostanzialmente quella che la civiltà grecolatina aveva elaborato in lunghi secoli, nei quali la sua alleanza con il paganesimo sembrava naturale e inscindibile. È tuttavia già avanzato quel processo di assimilazione da parte del pensiero cristiano degli elementi meno compromettenti della cultura classica. Ha inizio così la formazione di un’autentica cultura cristiana di cui Boezio è “una punta 39

G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano 1981, vol. IV, 623. Comm. in librum Perihermeneias, ed. II, l. 2, c. 3, C. Meiser, vol. II, B. G. Teubneri, Lipsia 1880, 79-80. MPL 64, 433D. 40

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di diamante”41 . Per questo egli presenta un duplice volto: si tratta in realtà di due modi di manifestarsi della stessa personalità. Pensatore e uomo politico non si oppongono, così non si oppongono tra loro il cristiano e il filosofo. Tuttavia, il carattere laico di alcune teorie di teologia naturale espresse nella sua Consolatio sorprese già i contemporanei, che ritenevano tali teorie dannose per la fede. Ma ci si è spinti oltre mettendo addirittura in dubbio il fatto che Boezio fosse cristiano. Il Rand, che descrive Boezio quale uno dei “fondatori del Medioevo”42 , pone la questione se egli fosse cristiano o pagano. Il parere di altri storici invece, ci porterebbe a concludere che Boezio fu sicuramente cristiano per famiglia e per scelta personale. Ma il problema si poneva già per gli antichi e, riferendoci direttamente al testo oggetto del nostro esame, avremo la possibilità di vedere anche la posizione assunta da san Tommaso. Per un certo aspetto ci è sembrato di assistere al processo a Boezio, accusato di paganesimo e prosciolto con formula piena dall’Aquinate. Si tratta in particolare della quaestio 3 che rappresenta una sicura specola per l’osservazione di questo problema e che vede infatti l’ingresso di Boezio nella discussione sulla necessità della fede e sullo statuto della religione cattolica. Gli ultimi due articoli portano a compimento questo processo di riabilitazione: l’articolo 3 prepara la difesa per l’arringa finale dell’articolo successivo. Esso chiede se la fede, caratterizzata nel suo rapporto con la religione, possa essere chiamata “cattolica o universale”. Nel testo san Tommaso fa riferimento direttamente a Boezio il quale “riconosce entrambe queste ragioni della sua universalità”. Egli impegna a fondo la sua dottrina per testimoniare la verità della sua fede: in questo modo non fu più filosofo che teologo. Boezio deve perciò essere apparso all’Aquinate un mirabile esempio di credente che offre l’omaggio della sua filosofia quale riconoscimento esterno alla fede che professa. 41

L. Obertello, Severino Boezio, cit., 766. E. K. Rand, Founders of the Middle Ages, Dover Publications, New York 19572 , 135-180. L’autore chiama Boezio ‘the first of the scholastics’ e dedica a tutta la sua opera ampia attenzione e riconoscimento. 42

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Ma ancora nel terzo articolo la posizione di Boezio risulta equivoca: non definita era anche la posizione di san Tommaso sulla sua cristianità. La Sacra Scrittura –che è secondo sant’Agostino “il fondamento della religione cattolica” (De vera religione)afferma che il Padre e il Figlio sono tra loro differenti e, stando a Boezio, che “dalla disuguaglianza tra le tre persone segue la pluralità delle diversità”. La posizione di Boezio non sarebbe propria, dunque, della religione cattolica, in quanto conduce ad affermare che esistono diversi dèi. San Tommaso conferma con ben undici argomenti scritturali che è propria dell’ortodossia cristiana la tesi della ‘inequalitas’ delle tre Persone divine da cui discende l’inequivocabile eterodossia del punto di vista boeziano. Invece, all’ultima obiezione, secondo la quale “la posizione che Boezio espone non sembra essere quella propria della fede cattolica”, san Tommaso risponde che la successione cronologica dell’origine del Figlio e dello Spirito Santo dal Padre non implica alcuna forma di disuguaglianza nella Trinità. Questa la posizione di san Tommaso, che risolve sul terreno della controversia dottrinale un problema comune alla sensibilità storica medievale. Ma qui è in gioco a nostro avviso un’altra

questione

fondamentale

che

incide

nel

confronto

con

san

Tommaso:

l’importanza di Boezio -logico, traduttore e introduttore coi suoi commenti del corpus aristotelico- era oscurata dal marchio di ‘tiepido credente’ che il filosofo romano si era guadagnato con la Consolatio, suo laico testamento spirituale43 . Condannando gli Ariani come eretici san Tommaso prende decisamente le difese di Boezio. In realtà l’oggetto della controversia poteva ancora solo sembrare l’Arianesimo in conflitto con l’ortodossia sul dogma trinitario. Ci siamo chiesti quale importanza 43

Abbiamo sin’ora tacitamente accolto questa visione, ma ci sembra giunto il momento di correggerla con qualche utile osservazione. Lo Chenu ridimensiona questa prospettiva dicendo che, pur avendo la Consolatio di che accrescere le riserve dei credenti sulla filosofia boeziana, essa offre, al di là delle questioni propriamente teologiche, delle validissime risorse di cultura cristiana. A questo punto lo studioso rimanda agli storici che “hanno largamente analizzato le manifestazioni e l’efficacia di questo umanesimo , nel patrimonio dell’intera Cristianità” [basti pensare a Dante, che noi citiamo poco oltre] (cf La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 177).

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potesse rivestire affrontare una controversia dottrinale ormai risolta, almeno sul piano dell’ortodossia, più di nove secoli prima; e per questo abbiamo voluto leggere l’intera questione come la ‘riconquista’ di Boezio all’ortodossia, che in seconda battuta acquista così conferma e prestigio anche dall’ossequio di un logico della sua levatura. Ma al di là della sua filosofia, riservata agli intellettuali, la leggenda accolta da tutti i medievali testimonia del credito religioso goduto da Boezio. Secondo tale leggenda, Boezio è venerato come un martire della persecuzione di Teodorico, presso il quale egli sarebbe improvvisamente caduto in disgrazia44 . Dante tra gli altri, di cui è nota la stima e la familiarità alle opere del filosofo, dice di lui:

“per vedere ogni ben dentro vi gode / l’anima santa che ‘l mondo fallace / fa manifesto a chi di lei ben ode / lo corpo ond’ella fu cacciata giace / giuso in Cieldauro; ed essa da martiro / e da essilio venne a questa pace”.

(Paradiso, X, 124-129)

Nei due vocaboli santa e martiro Dante consacra il culto quasi religioso con cui il Medioevo onorò Boezio, un santo, per così dire, non ufficiale. In realtà sono incerti gli esatti limiti della formale adesione di Boezio alla religione cattolica: l’ispirazione di fondo si può sicuramente definire cristiana sebbene egli, neoplatonico per orientamento filosofico, abbia attinto alla dottrina etica dello stoicismo romano. Gli studi più recenti hanno invero dissipato molti dei dubbi e delle riserve sulla ‘proclamazione’ di Boezio non già tra i martiri misconosciuti dalla Chiesa ufficiale, quanto tra gli aderenti ad una fede intimamente accettata e pubblicamente difesa.

44

Lo Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 174, rimanda agli Acta Sanctorum, Maii, VI (1688), 702-710.

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Resta il fatto che nel XII secolo era un sentimento comune a tutti l’idea della fedeltà di Boezio alla Chiesa; Abelardo per tutti testimonia di tale convinzione: “(Boethius…) fidem nostram et suam, ne in aliquo vacillaret, (…) inexpugnabiliter astruxit”45 . Il cristianesimo di Boezio non può però essere considerato un problema avulso dalla sua opera istituzionale, e abbiamo già visto il suo impegno civile nella politica di riavvicinamento tra Chiesa cattolica occidentale e ortodossa orientale, né dal suo ricchissimo patrimonio letterario e di pensiero. Forse proprio tenendo presente la complessità della sua figura, lo Chenu ha indagato se Boezio possa essere definito teologo46 . La domanda sorge, in effetti, quando si consideri che, più che le sue opere logiche, furono letti e commentati i suoi Opuscula theologica. Ma, rileva lo Chenu, nel XII secolo Boezio inizia ad essere chiamato con l’appellativo di ‘philosophus’: più precisamente egli era stato “magis philosophus quam theologus”, e un secolo prima di san Tommaso sulla bocca dei credenti non si trattava ancora di un complimento, ma di un uomo non illuminato dalla luce della fede, non toccato dalla grazia divina. Gli agostiniani soprattutto rivolsero quest’accusa a Boezio, quale filosofo che conseguiva traguardi meramente e autonomamente razionali “in margine alla sua fede.” Abbiamo anche traccia di una pesante sedimentazione di questa condanna: “Boezio sarà annoverato tra quanti, per apprendere in un attimo le scienze (…), si sono consegnati al demonio”. Dunque, il fatto che Boezio fosse cristiano non è stato da subito posto fuori discussione e, data la natura del suo corpus theologicum, “si comprende facilmente come la

45

Theol. christ. , I; PL 178, 1165. Ci sembra interessante vedere come si pose, di fronte all’opera filosofica di Boezio una delle scuole più prestigiose del XII secolo: “il problema della creazione, dell’esigente nozione di un Dio creatore e non solamente demiurgo provvidente, si poneva ai commentatori della scuola di Chartres. Adottarono deliberatamente una esegesi favorevole, peraltro fondata su una tradizione stabilita già dalla scuola di Auxerre, nel IX secolo. Così Boezio è qui considerato, anche tra i ‘filosofi’, come totus catholicus” (M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 176-7). 46 M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XII secolo, cit., 174-177.

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discussione della loro autenticità sia strettamente connessa con quella dell’adesione o meno di Boezio al Cristianesimo”47 . Gli studiosi rigidamente contrapposti, soprattutto nel Settecento e nell’Ottocento, da un lato sostenevano il Paganesimo di Boezio, dall’altro la radicata Cristianità del suo mondo spirituale. Educati alla conoscenza del Boezio laico del De consolazione e dei commenti aristotelici, gli studiosi odierni hanno accettato solo alla luce di prove inequivocabili48 l’autenticità di opere così schiettamente religiose quali i cinque trattati in questione. L’Obertello conclude che l’autore dei trattati teologici “è un buon cattolico, che ha un vivo interesse per la dialettica, e sottolinea opportunamente la distinzione tra la ratio umana e la fides rivelata”49 . Ci permettiamo di suggerire che il punto non sta nel riconoscere alla luce di estenuanti e sottili ricerche un cristianesimo boeziano tirato per i capelli, si tratta invece di prendere atto del momento storico in cui due patrimoni culturali diversi per maturità e origine si incontravano e si davano il cambio sulla scena del decadente Impero Romano.

47

L. Obertello, Severino Boezio, cit. 252; cf anche 332. Quali il ritrovamento nel 1877 di un frammento attribuito a Cassiodoro, dove vi è l’esplicito riferimento ai “capita quaedam dogmatica” di Boezio; cf l’operetta dello Usener, cit. 49 Ibid., 261. La questione appena accennata circa l’autenticità degli opuscoli teologici di Boezio è nata in ambito moderno. In generale si può dunque dire che essa non fu messa in dubbio nel Medioevo, così come neppure il credito dato a Boezio quale massimo uomo di cultura del suo tempo, malgrado i sospetti contro Boezio ‘filosofo’. Fu solo un certo sospetto di naturalismo a ridurre nel XII secolo, e soprattutto negli ambienti agostiniani, il credito tradizionale degli opuscoli. La loro paternità è stata, invece, al centro di infuocate discussioni (almeno per quanto riguarda i trattati I-III e il V, essendo quella del quarto trattato ancor’oggi molto dubbia), discussioni oggi quasi del tutto sopite; ma il fatto che siano state in passato largamente accolte dimostra che la “sistemazione” degli opuscoli teologici nel quadro del pensiero e dell’opera di Boezio non si può ritenere né facile né pacifica. Il Jourdain ritiene profana l’ispirazione dominante del De consolatione e il cristianesimo del filosofo la logica conseguenza del suo Platonismo, che è secondo lui “la prefazione del Vangelo”. Di qui anche il dubbio sulla paternità boeziana dei cinque opuscula sacra e il fatto che i suoi contemporanei non annoverassero Boezio tra i sostenitori della fede cristiana. Per quanto riguarda le argomentazioni di quanti negano l’appartenenza di questo gruppo di opere a Boezio, non potendo “oggi essere sostenute più a lungo” (Obertello, cit., 332), rimandiamo all’esposizione esauriente che ne fa lo Usener alle pp. 48-59 dell’opera citata. Riportiamo soltanto l’idea di questi circa i trattati che interessano in questa sede: “Die beiden Abhandlungen über die Dreieinigkeit (Tr. I e II) sollen jünger als B. (scil. Boetius) sein, obwohl anerkannt wird, dass das darin behandelte Problem in die Zeit des B. allenfalls passe“. Facciamo solo ancora notare che, a differenza di quanto afferma Obertello (cit., 253) e sulla scorta del giudizio dello Usener che risale al 1969, la discussione sulla paternità boeziana degli opuscula sacra non è limitata al secolo scorso né si è oggi spenta. 48

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Dimostrare alla luce della sola ragione verità soprannaturali era consuetudine certo non inventata da Boezio, ma di tutta l’apologetica che lo aveva preceduto. L’impegno di Boezio fu il campo prettamente speculativo? Forse, ma resta il suo ideale di ‘conciliare ragione e fede’50 e “la precisa finalità pratica di confutare talune posizioni ereticali”51 . Nella loro introduzione all’opera di Boezio lo Stewart e il Rand così si esprimono: “Se ci si chiede perchè la Consolazione della filosofia non contiene alcuna traccia di riferimenti diretti alle dottrine che sono sviluppate nei trattati con mano così sicura e che sono al massimo all’interno di un’armonia con la Cristianità, la risposta è semplice. Nella Consolatio l’autore scrive di filosofia, nei trattati di teologia. (…) La filosofia appartiene ad un ordine, la teologia ad un altro. Essi hanno oggetti differenti. Quello della filosofia è capire e spiegare la natura del mondo attorno a noi; l’oggetto della teologia è invece capire e spiegare dottrine offerte dalla rivelazione divina”52 . Riteniamo che sia questa la strada giusta anche per la comprensione del metodo utilizzato da Boezio nello scrivere le sue opere teologiche.

50

Cf la chiusa dell’Utrum Pater et Filius, ed. Stewart-Rand, 36. Traduz. nostra. L. Obertello, Severino Boezio, cit., 770. 52 Ed. Stewart-Rand dei Trattati teologici, XIII-XIV. 51

24

2. Il De Trinitate di Boezio53.

Il De Trinitate di Boezio (521-522) è il primo dei cinque opuscula theologica attribuiti a quest’autore. Ma, sia pur citato come primo in quasi tutti gli elenchi dei cataloghi, esso fu scritto dopo il Secondo Trattato ed estende l’argomento presentato nell’opera precedente. Li accomuna, inoltre, l’intento dichiarato di scrivere per una élite di tecnici “già addentro a questi problemi”54 . Grazie allo studio dello Schurr55 , possiamo individuare il quadro storico entro il quale essi furono concepiti: la cosiddetta controversia teopascita. “Sappiamo che Boezio era stato indotto ad un’approfondita analisi della dottrina della Trinità dalla controversia ‘scita’ che era essenzialmente trinitaria e cristologica. Egli dedicò a questi problemi alcuni trattati teologici, e soprattutto il de Trinitate”56 . Tale collocazione ci fornisce innanzitutto la sicura indicazione cronologica secondo la quale il primo e il secondo trattato furono scritti negli anni immediatamente precedenti al 523, nel pieno cioè dello sviluppo della controversia. Essa si estende nel suo complesso tra il 512 e il 521, esattamente il periodo che abbraccia la stesura di tutto il corpus teologico boeziano. Inoltre, come già accennato e contrariamente a quanto sostenuto dalla maggior parte degli studiosi, Schurr pospone la stesura del De Trinitate a quella dell’Utrum Pater et Filius, vista la chiarezza d’esposizione di quest’ultimo e la struttura più elaborata e ‘sofferta’ del primo.

53

Nel corso del nostro studio ci riferiamo per praticità alla redazione del testo riportata da san Tommaso e che giunge fino alla riga 21 del secondo capitolo; per le citazioni dal resto dell’opera, invece, alla traduzione italiana della Consolatio philosophiae e degli Opuscoli teologici,cit., 357-377. 54 Cf la lettera introduttiva del I Trattato e la conclusione del secondo. 55 V. Schurr, Die Trinitätslehre des Boethius im Lichte der skytischen Kontroversen, Ferdinand Schöning Verlag, Paderborn 1935. 56 L. Obertello, cit. 276.

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Ciò dimostra dunque che Boezio è tornato sullo stesso argomento già trattato nell’Utrum Pater et Filius con il contributo di un trattato, il De Trinitate, arricchito dalla riflessione personale dell’autore stesso. Il De Trinitate è perciò opera più matura e completa, dove tra l’altro Boezio utilizza a fondo ciò che ha appreso e fatto proprio della dottrina di sant’Agostino. Si consideri, inoltre, il fatto che Boezio dedica questo trattato a Simmaco, all’attenzione del quale egli è solito sottoporre le versioni più complete dei suoi lavori. Come già accennato, lo Schurr ha indagato a fondo e in maniera completa l’occasione in cui furono scritti in particolare i Trattati I, II e V e l’ha collegata alle

controversie

religiose che laceravano la Chiesa di quel tempo e alle circostanze che portarono all’incarcerazione e alla tragica fine di Boezio. Queste ultime sono ancora avvolte dal mistero dell’incertezza dei dati in nostro possesso. Ciò che si è cercato di stabilire da parte degli storici è, innanzitutto, la serie di fatti che determinarono la sua caduta in disgrazia presso il re ostrogoto Teodorico nel giro di soli due anni (522-524) fino alla condanna a morte. Avanzata dal Rand57 , la tesi dell’intreccio di vicende ora politiche ora teologiche è stata definitivamente dimostrata dallo Schurr “in uno studio58 che rimane a tutt’oggi il contributo più vigoroso alla precisazione del contesto politico religioso in cui si collocano gli ‘antefatti’ della caduta di Boezio”59 . Boezio prese dunque parte, anche politica, alle dispute dottrinali del suo tempo, ma il quadro non sarebbe completo se non

57

E. K. Rand, Founders of the Middle Ages, cit., cap. V, nota 75: “The importance of the theological aspects of the case has become ever plainer in recent years. Thus Bury, in his edition of Gibbon (London, 1901), could remark in a note (IV, 201): ‘The condemnation of Boethius and Symmachus had nothing to do with religion, so that they are in no sense martyrs’. But in his History of the Later Roman Empire (London, 1923), I, 156, he admits that the execution of Boethius and Symmachus probably ‘had some connection with an Imperial edict which was issued about this time…’”. 58 Il riferimento è al suo Die Trinitätslehre des Boethius..., cit. 59 L. Obertello, Severino Boezio, cit., 42, nota 3.

26

si tenesse conto della “natura dei suoi rapporti con Teodorico, con il Senato, con Simmaco, con il suo circolo, con la corte papale e con la corte di Bisanzio”60 . Ciò che qui importa dire è che Boezio scrisse i suoi trattati trinitari spinto originariamente non dalla teologia partigiana, bensì dall’interesse scientifico personale di indagare in maniera speculativa e metodica sulla Trinità”61 . Egli struttura infatti il suo trattato “in maniera rigorosamente logica: Padre, Figlio e Spirito Santo sono un Dio, non tre dèi. Così insegna la Religione cattolica. La ragione cerca di penetrare in questo insegnamento di fede e ricerca in Dio l’Unità (cap. 1-3) e la Trinità (cap. 4-5), tentando poi di formulare una sintesi finale (cap. 6)”62 .

60

Ibidem. Non ci soffermiamo sulle complesse controversie religiose e sulle altrettanto complesse vicende ad esse legate, per le quali rimandiamo al già citato lavoro dello Schurr. Non possiamo però non dire almeno che Boezio visse tutto il dramma dello sfacelo dell’Impero Romano d’Occidente e del tentativo di quello orientale di Bisanzio, di costituzione relativamente più recente, di riunirsi alla primitiva origine dell’Impero. Ciò avveniva con segno inverso nell’ambito culturale: si trattò del tentativo della civiltà latina di far propri gli elementi essenziali dell’antica cultura greca. Protagonista della prima impresa fu Giustiniano, della seconda Boezio. 61 V. Schurr, cit., 221. 62 Ibid., 78.

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3. Il Commentarium di san Tommaso63.

L’opera –scritta da san Tommaso nel torno d’anni 1256-5964 - consta della redazione (incompleta: Proemio e primi due capitoli) del testo di Boezio, del commento letterale vero e proprio (expositio textus) e di sei questioni suggerite dal testo di Boezio e che, in gruppi di due, costituiscono la disputatio rispettivamente al Proemio, al primo capitolo e all’inizio del secondo. Ogni questione è poi ripartita in quattro articoli, per un totale di 6 questioni e 24 articoli. Ogni articolo segue la struttura classica della disputa: per ciascun tema proposto, vengono esposti inizialmente gli argomenti -‘obiezioni’- a favore di una possibile soluzione (normalmente quella rigettata dall’autore), e poi gli argomenti a favore della soluzione opposta -‘sed contra’; seguono quindi l’esposizione della propria soluzione al quesito (‘responsio’) e la replica a tutti gli argomenti prima presentati a favore della soluzione scartata (‘ad argumenta’). Questa disposizione -come confermano ad esempio le quaestiones disputatae del de Veritate- si era consolidata come vera e propria prassi d’insegnamento. In realtà, nel caso specifico del Commento al De Trinitate è difficile stabilire se esso rifletta effettivamente l’andamento di un corso di lezioni, o rappresenti piuttosto uno scritto elaborato da san

63

Ci siamo basati sull’edizione critica di Bruno Decker, Sancti Thomae de Aquino Expositio super librum Boethii De Trinitate ad fidem codicis autographi nec non ceterorum codicum manu scriptorum, Brill, Leiden 1965² (la prima è del 1955), che meritò l’elogio del Van Steenberghen (Le problème de l’existence de Dieu dans le commentaire de Thomas d’Aquin «In Boethium de Trinitate», 416): « Nous avons la bonne fortune de posséder, depuis un an à peine, une édition critique du commentaire De Trinitate. M. Bruno Decker mérite d’autant notre gratitude (…). Nous possédons aussi, depuis quelques années, un bon commentaire historique et doctrinal des deux premières questions, dans le dernier ouvrage du regretté Mgr Grabmann ». Quest’edizione sarà da noi citata nel corso dell’analisi semplicemente ‘Decker’. Per la traduz. it. invece ci riferiamo all’edizione a c. di P. Porro, Commenti a Boezio, Rusconi, Milano 1997. 64 Per la datazione del Commento tomistico si veda l’articolo dello Chenu La date du Commentaire de S. Thomas sur le ‘De Trinitate’ de Boèce, Revue de sciences philosophiques et théologiques, XXX, 1941, 432-4.

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Tommaso al di fuori di qualsiasi occasione pubblica. È vero che almeno in un’occasione del presente commento65 san Tommaso stesso si riferisce ad una delle questioni adoperando il termine disputatio, ma potrebbe trattarsi di una indicazione generica dovuta più che altro alla forma letteraria dell’opera. Il Decker afferma che “codices manu scripti, quotquot titulum integrum tradunt, habent ‘Expositio’, editio princeps Didascali ‘Tractatus’ et editio Soncinatis ‘Quaestiones’”. Non è questione oziosa o da filologi quella di determinare il genere letterario utilizzato da san Tommaso per questo commento: se si ha la pazienza di ripercorrere le tappe del passaggio dalla semplice glossa al testo fino alla forma più complessa della disputatio, ci si rende conto della parallela progressiva presa di coscienza del ruolo scientifico della teologia presso gli autori di quaestiones del XII-XIII secolo 66 . Per quanto riguarda, invece, la pratica dell’expositio litteralis, sappiamo che essa è una forma del cosiddetto commentum o commentarium che, a differenza delle altre due forme di commento medievale -la glossa e la parafrasi- studia il testo secondo uno schema introduttivo logico e lo spiega parola per parola e frase per frase67 . Nel commento di san Tommaso al De Trinitate di Boezio il lavoro della divisio e dell’expositio si lega alla quaestio, che supera per contenuto ed estensione l’analisi letterale del testo. Questo consente a san Tommaso una maggiore libertà rispetto non tanto all’argomento, quanto alla possibilità di trattare problemi attuali e di farlo con un metodo suo proprio, indipendentemente dall’impostazione del testo originale. Questo commento giovanile, infatti, possiede rispetto al testo interpretato una notevole

65

“…et huius partis expositio relinquitur disputationi”, exp. sec. cap., 135a; Decker, 160. Cf M. D. Chenu, Introduzione allo studio di s. Tommaso d’Aquino, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1953, 66-81 e A. De Libera, La filosofia medioevale, il Mulino, Bologna 1991, 28-34, oltre alla datata ma sempre fondamentale ricerca del Grabmann già citata sul metodo scolastico. 67 Per quanto riguarda la tecnica del commentario, cf Chenu, Introduzione allo studio di s. Tommaso d’Aquino, cit., 190-2, dove lo studioso francese, introducendo i commenti di san Tommaso ad Aristotele, presenta in maniera generale le due principali modalità di commento a disposizione e la scelta personale dell’Aquinate di mantenere in tutti i suoi commenti l’interpretazione minuziosa e letterale del testo originale. 66

29

autonomia, se confrontato per esempio con i commenti letterali ad Aristotele. L’analisi del testo boeziano nella sua fattispecie è affidato ad una sintetica parafrasi, mentre ad alcune questioni di particolare interesse didattico e scientifico l’Aquinate dedica il suo principale impegno teoretico. Tuttavia, ogni questione resta legata sempre in qualche modo al testo di base. In conclusione: la sia pur discontinua dipendenza dal De Trinitate di Boezio, conferisce all’opera dell’Aquinate unità di senso e solidità di costruzione. Il commento di san Tommaso si ferma all’inizio del secondo capitolo del trattato boeziano: considerando la struttura di quest’ultimo è chiaro che in realtà san Tommaso si fermò prima di iniziare a trattare nello specifico del mistero della Trinità. Ad eccezione della quarta questione, l’intero contenuto delle restanti cinque questioni si riferisce alle domande fondamentali della conoscenza umana in generale, e della conoscenza naturale e soprannaturale di Dio in particolare. Da tale trattazione emerge già chiaramente l’elaborazione del rapporto tra fede e sapere nel senso tipicamente tomistico di una chiara distinzione, ma mai separazione dei due ordini di conoscenza. Come nota lo Hall68 in questa expositio l’Aquinate è riuscito a formulare una particolare sequenza dei temi trattati, quale non gli è riuscita né nella Summa contra Gentiles né in quella Theologiae. Già il Weisheipl aveva notato che vi è come un salto tra le prime tre questioni e le ultime due: le prime avrebbero, infatti, un carattere chiaramente teologico e concernono ciò che si chiama sacra doctrina, mentre le ultime un carattere filosofico e trattano delle relazioni e dei metodi delle scienze speculative. Una menzione a parte merita per lo studioso la quarta questione, che la letteratura -salvo qualche eccezione che noi poi vedremo- ignora nella sua peculiarità.

68

D. C. Hall, cit., 46-47.

30

Rimandando a dopo la discussione sull’incompiutezza dell’opera e concentrando per il momento la nostra attenzione su ciò che ci è pervenuto e non su ciò che non possiamo leggere in nessun manoscritto, ci si spalanca l’enorme ricchezza di temi che l’opuscolo contiene. Il filo conduttore è sicuramente la conoscenza “ma dietro la difesa di un obiettivo almeno in apparenza così limitato si può ora scorgere, in ultima istanza, la trama essenziale della concezione che Tommaso ha ormai maturato a proposito della forma per lui più elevata della conoscenza naturale –quella che appunto va sotto il nome di filosofia prima”69 . In realtà, come vedremo, i temi affrontati da san Tommaso spaziano dall’ambito teologico tradizionale alle urgenze che l’attualità imponeva alla coscienza del teologo, primo fra tutti l’impostazione del problema -strettamente connesso al suo nuovo ruolo (magister artium)- dello statuto scientifico della teologia.

69

P. Porro, Commenti a Boezio, cit., 31.

31

Capitolo II: auctoritas e ratio.

In apertura del suo già citato lavoro sul metodo scolastico, il Grabmann presenta un giudizio dei contemporanei citando le parole del Krüger: “Presso i nostri contemporanei l’appellativo di Scolastico non gode buona fama. Quando sappiamo o crediamo di sapere che uno studioso –in particolare un teologo- gravato da un passato che ha per lui valore di autorità e senza affrontare in maniera viva i problemi dell’oggi, cerca invano di chiarire, servendosi di un metodo vetusto, un argomento altrettanto vetusto, ebbene noi definiamo costui uno scolastico”70 . Ma lo studioso bavarese riprende subito coraggio dalla convinzione che il metodo scolastico ha origini nella Patristica e assicura quindi una ricchezza di nuove scoperte che ripagano la fatica e l’audacia della sua ricerca. Prima di tutto egli avverte perciò di un vizio frequente nelle interpretazioni di tale metodo: esso non coincide col metodo delle scuole in cui pure vide la luce. La struttura triadica della ‘quaestio’ (obiezioni e controistanze-soluzione di principio del problemareplica alle obiezioni) la ricchezza speculativa in particolare della Seconda Scolastica. Il Grabmann vede nel dinamismo della relazione tra auctoritas e ratio il nerbo e il vero significato del metodo scientifico della Scolastica. In particolare la portata del significato della citazione d’autorità presso gli antichi è legata al connubio tra il pensiero scolastico e il cattolicesimo, per cui l’autorità veniva a coincidere spesso con la Sacra Scrittura. Il sodalizio tra auctoritas e ratio sarebbe poi il binomio meglio rappresentativo dell’intero metodo scolastico, e di quello di san Tommaso in particolare, poiché quest’ultimo univa 70

M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 11. Nell’introduzione a questa nostra trattazione seguiamo passim il primo capitolo di questo testo che porta il titolo ‘Il metodo scolastico e i nostri contemporanei’ (pp. 11-42).

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in sé filosofia aristotelica e dogma in un sistema teologico-filosofico universale. L’auctoritas permetteva di utilizzare le rationes degli antichi anche nella disputatio degli ‘articuli

fidei’,

attraverso

un

riferimento

consapevolmente

mediato

a

spiegazioni

razionali consolidate dal tempo e dall’esercizio costante della ratio. Secondo l’Aquinate auctoritas e ratio sono “i due principi motori del metodo teologico” e spiega anche in che senso: l’auctoritas garantisce la raltà e la verità dei misteri e dei fatti soprannaturali, mentre attraverso la ratio si cerca di penetrare nel come e nel perché di questo contenuto di fede per conseguirne una certa conoscenza. L’auctoritas risulta essere così la base sicura del discorso razionale che miri alla giustificazione e comprensione della fede, allo stesso modo di come il dogma trinitario già in Boezio rappresentava la solida base per la sua ricerca intellettuale 71 . La centralità del tema così presentato non permette di prescinderne nell’ambito di una presentazione del metodo tomistico, per quanto nel nostro caso si miri ad arricchirla d’un risvolto originale. Per questo partiamo senz’altro dal mostrarne l’importanza nello stesso testo del commento di san Tommaso. L’expositio si apre col prologo di san Tommaso, che rende chiari sin dall’inizio e binari sui quali ha intenzione di far viaggiare il suo metodo. Rileviamo innanzitutto un continuo riferimento a passi della Bibbia, massima autorità cui normalmente un magister artium ricorre per sostenere le sue tesi, e che qui in particolare è chiaro indizio del legame con la sapientia christiana, che la filosofia di san Tommaso desidera mantenere. Non a caso, il già citato incipit del prologo -“Ab initio nativitatis investigabo et ponam in lucem scientiam illius”- è un verso del libro della Sapienza (6, 24 secondo la Vulgata): san Tommaso parla come se la citazione sia presente nel testo stesso di Boezio e, in effetti, la spiega in riferimento all’intero corpus teologico boeziano. Ma in realtà si tratta 71

M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 50-51. Lo studioso rimanda anche ai passi relativi a questo giudizio dell’Aquinate.

33

di una sua scelta, come egli stesso spiega alla fine del prologo: ricercare “dal principio…” e non “il principio…” significa chiedersi fino a che punto può spingersi la mente umana nell’indagare la Trinità, generazione che è “l’inizio di qualunque altra generazione”. Ma sarà un’indagine che presupporrà come sua origine il solido fondamento del dogma, che resta vero al di là dei risultati della nostra ricerca. Mentre sant’Agostino si era avvalso di entrambi gli strumenti (si veda il primo libro del suo De Trinitate), l’autorità e la ragione, per trattare della Trinità, e mentre altri santi Padri, quali Ambrogio e Ilario di Poitiers, hanno seguito in tale trattazione la sola autorità, Boezio ha invece scelto di procedere “secundum rationes [argomenti razionali], praesupponens hoc quod ab alio per auctoritates fuerat prosecutum”. Quindi san Tommaso punta l’attenzione sul termine ricercherò, “con cui si designa appunto l’indagine razionale”. Il sapiente dunque ricerca a partire da ciò che, sulla base della sola autorità gli ‘antiqui’ avevano detto, e lo fa non dando più nulla per scontato. In realtà la dottrina della Trinità, che si inserisce in una tradizione teologica consolidata già nel quinto secolo, serve a Boezio quale solida base su cui costruire il suo impianto razionale72 . Lo stesso san Tommaso lo sottolinea ed ha un valore fortemente teoretico: ogni verità di fede può essere indagata, ma la certezza risiede altrove. D’altronde san Tommaso cita spesso Boezio nelle sue opere e la Summa theologiae fa spesso ricorso all’autorità del suo De consolatione e di questi saccheggia il vocabolario in merito alle definizioni di Aeternitas, Providentia, Fatus, Beatitudine… Il versetto citato in apertura ha, dunque, per san Tommaso un valore particolare: corrisponderebbe al piano di lavoro che lo stesso Boezio ha elaborato rispetto al modo, alla materia e al fine; si ha perciò l’impressione che la citazione appartenga allo stesso Boezio, mentre esso è il filo rosso lungo il quale si sviluppa il suo commento. Per capire

72

M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 207-8.

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il senso generale, qui così ben esemplificato, del modo di procedere dell’Aquinate, dobbiamo però ora approfondire quest’indagine. Già l’opera di Boezio ha un taglio speculativo che la distanzia dalla tradizione trinitaria precedente. In tutto il suo De Trinitate non fa menzione di una sola auctoritas, mentre si vede chiaramente come ogni riga dettata da san Tommaso, dalle obiezioni all’ultima risposta, si poggia sulle autorità dei filosofi o dei Padri che l’hanno preceduto, anche se poi corrette e personalmente interpretate. In questo senso il rapporto tra auctoritas e ratio è uno dei leitmotiv più seguiti e discussi anche se irto di nodi tuttora irrisolti. Chenu dice che leggendo contemporaneamente il De Trinitate di sant’Agostino e il De Trinitate di Boezio si ha la forte impressione che qualcosa è cambiato: non l’atmosfera culturale, troppo poco tempo intercorse tra i due, ma il clima sì, quello è diverso: si tratta del “carattere razionale del procedere”. L’assenza di tale carattere porta Boezio a condannare la dottrina di Eutiche e Nestorio nel V trattato: se essi hanno sbagliato è perché non hanno saputo definire i termini di natura, persona e sostanza; così “se gli Occidentali hanno ceduto all’eresia è perché non hanno determinato le equivalenze tra i vocaboli greci e latini. (…) L’indizio più rivelatore di questo razionalismo teologico si può forse trovare nella famosa regola che denuncia, tra i valori d’assenso, la debolezza dell’argomento d’autorità: ‘Locus ab auctoritate est infirmissimus’. Certo qui Boezio parla, nella scia di Cicerone, delle discipline razionali, non dell’ambito della fede; tuttavia, assicurata l’autorità della parola di Dio, è un fatto che, nella costruzione della teologia (…) le ragioni hanno un peso, pena altrimenti, come dirà san Tommaso, lo svuotamento dello spirito, ridotto dal rifiuto di pensare ad un’obbedienza sterile, senza radice nella verità”73 .

73

M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 176. In nota lo Chenu cita anche un passo delle Quodlibetali (IV, 18 a.) di san Tommaso in cui il concetto è ancora più chiaro: “Oportet rationibus inniti investigantibus veritatis radicem (…); alioquin, si nudis auctoritatibus magister quaestionem determinet, certificabitur quidem auditor quod ita est, sed nihil scientiae vel intellectum acquiret, et vacuus abscedet.”

35

Il termine ‘scolasticismo’, fa notare il Chadwick nella sua monografia, è invece termine di grande valore presso Proclo, “l’archetipo dello scolastico”, così come presso Boezio, in questo “suo allievo pieno di gratitudine”, perché nell’esegesi dei “testi venerabili” aiutava a darne un armonico quadro d’insieme. L’Obertello, soffermandosi su quest’aspetto, dice che la genialità di Boezio si espresse nel modo in cui riuscì, riordinando le notiones communes del suo tempo, a darci “uno tra gli ‘specchi’ più affascinanti della civiltà classica”74 . Su questa base si giustifica la valutazione altamente positiva che dell’’eclettismo’ boeziano dà lo studioso. Ed egli estende tale giudizio anche agli Opuscoli teologici, in cui la Tradizione cristiana e la Rivelazione, (rispettivamente la letteratura patristica e la Sacra Scrittura), prendono il posto dell’autorità dei testi aristotelici e platonici e la cui presenza, però, “non sopprime la libertà del pensatore, anzi la esalta e la incoraggia, fornendole un ‘sistema’ ideale al quale può commisurare le sue forze e le sue esigenze”75 . Infatti, abbiamo già notato che in questi cinque trattati Boezio, pur dichiarandosi apertamente cristiano, mette deliberatamente da parte qualunque ricorso all’autorità religiosa e fa riferimento soltanto alla guida della ragione naturale. Questo il tono in cui si esprime Chadwick, a parziale conferma di quanto egli stesso ha asserito poco prima (pag. 12) circa il fatto che, pur mostrando i trattati “una profonda conoscenza del pensiero di S. Agostino, allo stesso tempo segnano una separazione più forte di quella che Agostino avrebbe voluto vedere tra l’ambito della ragione e l’ambito della fede”. Ma in fin dei conti lo stesso “Boezio considera l’autorità della rivelazione e la Chiesa essenziali e decisive in questioni sulle quali la ragione può avere poco o nulla da dire”.

74 75

L. Obertello, Severino Boezio,cit., 449. L. Obertello, Severino Boezio, cit., 450.

36

Rispetto al copioso numero di commenti fioriti nel XII secolo76 , stupisce il relativo silenzio del XIII secolo. L’importanza di Boezio filosofo viene meno: questi deve cedere il posto ad Aristotele. “A partire dal secolo XII, la dialectica di Boezio venne copiata sempre più di rado, e alla logica vetus (che era costituita quasi esclusivamente di testi elaborati da Boezio) si sostituì nella seconda metà del secolo la cosiddetta logica nova, della quale entrarono a far parte nuove traduzioni dell’Organon e di altre opere aristoteliche, fino a che all’inizio del secolo XIII il moltiplicarsi di traduzioni e trattazioni originali rese possibile la formazione della cosiddetta logica modernorum, ormai priva di stretti legami di testi boeziani”77 . Al tempo di san Tommaso nelle questioni filosofiche lo Stagirita è, dunque, la prima autorità. Un ruolo secondario gioca Avicenna. Nelle questioni teologiche è decisiva l’autorità di sant’Agostino e talvolta dello Pseudo-Dionigi. Come per un processo edipico, Boezio è scalzato dalla sua ‘creatura’: la servile obbedienza a colui che per primo fece conoscere Aristotele all’Occidente è finita. Il metodo scolastico, proprio grazie all’opera logica di Aristotele, diviene scientifico e proprio attraverso questo metodo san Tommaso è da una parte fedele al testo dei trattati boeziani, dall’altra è libero di correggere, riportandole nella giusta misura, le argomentazioni boeziane. Il ruolo giocato da Boezio presso gli scolastici del secolo XII equivale per importanza a quello giocato da Aristotele presso san Tommaso: ed è ovvio visto che di Aristotele i primi conoscevano solo la parte logica. L’interesse dell’Aquinate per quest‘opera è comprensibile, quindi, solo alla luce della non facile posizione di un teologo di fronte ai nuovi sviluppi culturali.

76

In generale bisogna moderare “una visione troppo sommaria dello sviluppo della logica nel Medioevo, bisogna notare che le opere di Boezio, i suoi commenti come le sue opere personali, non l’alimentarono che in una riapparizione molto irregolare”. Tuttavia va detto che furono le sue opere teologiche (Opuscula) o para-teologiche (Consolatio) ad essere, nel IX secolo, le più efficaci”, M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 161. 77 L. Obertello (a c. di), La Consolazione della filosofia-Gli opuscoli teologici, Rusconi, Milano 1979, 89.

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Fuori d’ogni dubbio è tuttavia il merito di Boezio d’aver fatto conoscere Aristotele all’Occidente. È inoltre indubbio che l’ingresso massiccio di Aristotele nelle università medievali stimolò una generale evoluzione del pensiero, che segna una vigorosa cesura col passato. Tuttavia, non si può far finta di non sapere, e lo stesso san Tommaso lo terrà sempre presente nel dar vita alla sua sintesi, che molte delle dottrine aristoteliche, comunque interpretate, si scontravano irrimediabilmente con l’ortodossia cattolica. I commentatori arabi, è vero, ebbero sempre vivo, per la loro fede marcatamente monoteistica, il senso dell’unicità e dell’onnipotenza di Dio. Ma a parte questo dogma, che per altro trovava almeno in parte conferma nella tesi filosofica di Aristotele del ‘primo immobile’, restavano l’unicità e la mortalità dell’anima individuale, l’‘improvvidenza’ divina, la ‘creatio ex nihilo’ e l’eternità del mondo che solo la dottrina averroistica della doppia verità, recisamente rifiutata da san Tommaso, poteva salvare dalla condanna d’eresia. Si tratta dunque della ricezione generale che il mondo culturale in cui si formò ed operò san Tommaso fece dell’aristotelismo, l’ultima moda filosofica, che non poteva far però d’un colpo dimenticare la pesante eredità platonica. In questo senso il prologo del presente opuscolo contiene quasi in immediata apertura un’affermazione di capitale importanza:

“La ragione proceda da ciò che è posteriore a ciò che è primo, e dalle creature a Dio”.

Essa ha chiare origini aristoteliche e dichiara una particolare fiducia nella ricerca razionale. “Come infatti il principio della conoscenza naturale è la conoscenza delle creature ricavata dai sensi, così il principio della conoscenza che proviene dall’alto è la notizia della prima verità infusa per fede”. E continua con un’altra chiara indicazione di

38

metodo: “da qui dipende anche il diverso modo di procedere in un caso e nell’altro: i filosofi che seguono l’ordine della conoscenza naturale antepongono infatti la scienza delle creature a quella divina –e cioè la filosofia naturale alla metafisica- mentre i teologi procedono all’inverso, in modo che la considerazione del creatore preceda quella delle creature”. Filosofia e teologia procedono in direzioni di verso opposto e lanciano al sapiente la sfida del ‘concordismo’. È proprio dei filosofi anteporre la scienza delle creature a quella divina, e cioè la fisica alla metafisica (denominazione sotto cui dobbiamo ancora intendere tanto la teologia razionale quanto la scienza dell’ente in quanto tale), mentre il teologo muove da ciò che è più noto in sé (Dio e le sostanze separate) a ciò che è più noto per noi (le creature o effetti sensibili). Boezio ha scelto il metodo dei teologi e di conseguenza ha preso le mosse dalla “somma origine delle cose”: la “trinità dell’unico e semplice Dio”, primordiale generazione da cui ogni altra cosa scaturisce. E ne scaturisce in maniera imperfetta, parziale, “per quandam imitationem”. In Boezio san Tommaso rinviene quel legame, che sarà alla base della sua stessa filosofia, tra il naturale e il soprannaturale. Lo stesso termine ‘natura’ significa secondo san Tommaso in primo luogo nascita e, per derivazione, generazione. Naturale è perciò tutto quello che appartiene agli esseri creati ai quali il principio di generazione è intrinseco. La generazione da cui parte Boezio (e san Tommaso) è una generazione soprannaturale in assoluto, perché supera e trascende tutte le nature esistenti. La Grazia, invece

–azione soprannaturale di Dio sull’uomo-

ha sì un’origine formalmente

soprannaturale, quindi estrinseca, ma è intrinseca alla natura dell’uomo in quanto principio, ché altrimenti non avrebbe senso farne il punto di partenza per un’indagine che dalle creature procede verso il loro Creatore. La base di questa ricerca sarà, dunque,

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l’indubitabile realtà soprannaturale della Trinità, per giungere al ‘naturale’ assenso di fede della ragione umana. Che ogni nostra conoscenza abbia inizio dai sensi è uno dei capisaldi del pensiero aristotelico, anzi per il Filosofo la sensazione (áßóèçóéò) è talmente importante che se qualcuno fosse privo di un qualunque senso, sarebbe privo anche di qualche scienza. Scaturisce da questa nuova posizione la precedenza dal processo induttivo rispetto a quello

deduttivo,

con

il

risultato

che

“la

sensazione

produce

l’universale”78 .

L’introduzione di questo principio ebbe un effetto rivoluzionario che rappresentò l’alternativa, ultimamente vincente, alla gnoseologia platonica. Bisogna però distinguere tra auctoritas e Auctoritas! San Tommaso ancora nella Summa Theologiae si riconnette all’assioma boeziano: “licet locus ab auctoritate quae fundatur super ratione humana sit infirmissimus” (I pars, q.1 a.8 ad 2m). L’unica autorità che supera la ragione umana sembra essere anche per lui come per Boezio quella divina79 . Ma resterebbe un’idea altrettanto vaga e sterile come il richiamo all’autorità umana, più un devoto omaggio religioso che il sì di un uomo dotto e lo stesso Boezio meditò diutissime la questione trinitaria prima di scriverne. Così per l’Aquinate il sapere e la cultura sono un’opera progressiva e collettiva che dal contributo di ognuno costruisce qualcosa di grande. Il suo atteggiamento nei confronti dei più accaniti avversari fu sempre di conoscenza, mai di rimozione o mistificazione dei problemi posti sul tavolo della discussione: secondo lui bisogna conoscere la posizione avversaria meglio dei suoi stessi sostenitori per poterne meglio smascherare l’errore. È in sostanza un’altra versione del metodo aristotelico di esporre dapprima tutto ciò che i pensatori precedenti hanno detto sulla questione in gioco. Ma la struttura dell’intelligenza umana è una: uno dunque il sapere il metodo che poi la molteplicità del reale frastaglia in 78

Cf Analitici secondi, 100b5. M. Riquet, Saint Thomas et les “auctoritates”, in Études sur Saint Thomas (1225-1925), G. Beauchesne Éditeur, Parigi 1925, in part. pp. 147-155. 79

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una miriade di possibilità e sfumature. La ragione è per questo continuamente mossa a cercare, come un ideale scientifico, i principi immutabili della conoscenza. Il Commento al De Trinitate prova l’altro aspetto del modo di procedere tomistico che riveleremo più volte in seguito: le autorità permettono di ritrovare una continuità col passato che è generatrice di nuove traiettorie di ricerca. Così egli abolisce l’idea dell’autorità per la fede e del ragionamento per la ricerca scientifica: il punto di vista tomistico sull’argomento è totalizzante e comprensivo di tutte le capacità dell’uomo e dell’Umanità. Direttamente l’autorità non agisce sulle facoltà conoscitive dell’uomo quasi come un surrogato della teoria illuminazionistica: “così, quando san Tommaso ci dice che l’autorità può fondare la credenza ma non la scienza, non vuol dire che il ruolo dell’autorità in filosofia sia nullo. Solamente egli lo precisa e lo limita alla credenza che ci aiuta a preparare la scienza con passi rigorosamente certi ma irrimediabilmente difficili e lenti”80 . Per san Tommaso l’appello all’autorità è legittimo finchè essa conduce nella direzione del vero: egli discute tutto, dagli authentica ai magistralia, fino a ritrattare se stesso nelle sue precedenti posizioni81 . Anche per questo aspetto particolare del suo metodo, san Tommaso è “il principe dei teologi del secolo XIII (…). Si trovano in lui i due metodi costruttivi della teologia scolastica: il metodo di autorità e il metodo speculativo”82 . Quanto siamo ormai lontani dalla situazione del XII, quando -almeno inizialmente- col primo formarsi di un’organizzazione scolastica basata sui principi dell’auctoritas e della ratio, era emersa una sopravvalutazione dell’argomentazione conforme a regole!83 Il

80

Ibid., 155. Traduz. nostra. Per l’uso dell’autorità presso gli scolastici, rimandiamo a M. D. Chenu, La teologia nel XII secolo, Jaca Book, Milano 1986, 395-410; M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 259-307. Per il suo specifico significato in san Tommaso ancora dello Chenu Introduzione allo studio di san Tommaso d’Aquino, cit., 107-132. 82 M. De Wulf, Storia della filosofia medievale, vol. II, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1944, pag. 189. 83 Cf W. Pannenberg, Epistemologia e teologia, Queriniana, Brescia 1999², 215. 81

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Lang spiega bene questa sopravvalutazione della ‘tecnica’84 che esalta ancora di più l’equilibrio raggiunto dall’alta scolastica nella sintesi ancora una volta insuperata dell’Aquinate. Il luogo del presente commento, dove san Tommaso si occupa espressamente del problema è la q.2 a.3, dove indaga se nella scienza della fede, che tratta di Dio, sia lecito usare ragioni filosofiche e autorità. Già nella prima obiezione egli ricorre più che nei precedenti articoli all’autorità della Sacra Scrittura. Dovendo sostenere la tesi contraria, che cioè non è lecito nelle cose che appartengono alla fede servirsi di argomenti filosofici, l’Aquinate chiama in causa la massima autorità in materia di fede: i sapienti secondo gli uomini figurano qui come coloro per cui la Parola non è stata persuasiva; l’umana sapienza è stata, dunque, un ostacolo alla Rivelazione. Tutte le obiezioni si basano ampiamente su citazioni d’autorità: Ambrogio, per il quale “il sacramento della fede è libero da argomenti filosofici”; Girolamo, il quale in una visione viene punito per giudizio divino finché non si pente di aver osato leggere i libri pagani; ancora Girolamo il quale, in una Glossa esegetica, dice che i cattolici non devono avere “in comune con gli eretici neppure i nomi”, quindi non è lecito servirsi, come loro, di insegnamenti filosofici. Ma, nei sed contra, dove san Tommaso espone indirettamente la propria posizione, lo stesso Girolamo ammira, assieme alla loro scienza esegetica, l’erudizione mondana di diversi dottori della Sacra Scrittura ed assimila la sapienza mondana alla prigioniera di cui ci si può innamorare, ma che va ripulita da tutti gli ornamenti superflui perché dia una ricca discendenza. Molto significativa è l’immagine scritturale, in cui la sapienza mondana è simboleggiata dall’acqua e la sapienza divina dal vino: Isaia85 condanna “gli osti che mescolano l’acqua 84

Cf A. Lang, Die theologische Prinzipienlehre der mittelalterlichen Scholastik, Herder, Freibourg – Basel - Wien 1964, 21 e sgg.

42

al vino” in una città divenuta ormai infedele al suo Signore. Ugualmente fanno i “dottori che mescolano alla sacra dottrina insegnamenti filosofici”. Inoltre, ogni scienza deve rimanere coerente al proprio sistema di principi primi, evitando di assumere quelli di un’altra scienza: ma “anche la sacra dottrina ha i suoi propri principi, e cioè gli articoli della fede” e deve perciò procedere “ex propriis principiis” (iuxta propria principia, diremmo oggi). Per quanto riguarda questo argomento, secondo san Tommaso si deve dire che anche tra le scienze profane vi è una tale gerarchizzazione per cui i principi dell’una possono essere utilizzati dall’altra, nonostante che questa le sia inferiore. Per quanto detto, la metafisica “può servirsi di ciò che è provato nelle altre scienze”. E, analogamente, “quantunque siano posteriori per dignità” e per ordine di costituzione, le altre scienze possono essere utili alla teologia. Fermo restando che l’autorità di queste scienze non è infallibile come quella delle Scritture: ciò che conta, infatti, è “la validità di ciò che è detto” e, per questo, la teologia può accogliere alcune cose e respingerne altre che, pur provenendo dalla stessa fonte, non giudica corrette. La responsio esprime nella maniera fin’ora più compiuta i termini del concordismo di san Tommaso: “dona gratiarum hoc modo naturae adduntur, quod eam non tollunt, sed magis perficiunt”: il lume della ragione naturale non annulla quello della fede ma gli si aggiunge. Essi non possono perciò tra loro contraddirsi, né può essere l’uno falso e l’altro vero, (“quantunque il lume naturale della mente umana non sia in grado di mostrare ciò che viene manifestato dalla fede”), perché in tal caso “Dio stesso sarebbe per noi autore di una falsità”. È invece più giusto dire che tra la perfezione di ciò che ci è affidato per mezzo della fede e l’imperfezione delle nostre conquiste intellettuali corre una certa similitudine.

85

1,22 secondo la Vulgata.

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Inoltre, la sacra dottrina si fonda sul lume della fede, mentre la filosofia su quello della ragione naturale: è impossibile che i principi dell’una e dell’altra contrastino tra loro a meno di un uso scorretto della ragione stessa. Essa però può essere corretta dalla stessa filosofia la quale, in base ai suoi principi, può mostrare che la posizione assunta è o impossibile o non necessaria. In nessun caso la filosofia potrà raggiungere la perfezione della teologia, ma ne potrà contenere alcune similitudini ed alcuni preamboli: “così come la natura funge da preambolo alla grazia”. Essendo, dunque, la filosofia sorella e non nemica della teologia, può collaborare con questa in tre modi: -“ad demonstrandum ea quae sunt praeambula fidei”; -“ad notificandum per aliquas similitudines ea quae sunt fidei”; -“ad resistendum his quae contra fidem dicuntur”. Questi i tre servigi che la filosofia può rendere alla teologia. In primo luogo è, infatti, necessario conoscere (razionalmente) i “preambula fidei” nell’ambito stesso della fede, servendosi di argomenti naturali: “ ad esempio, il fatto che Dio esista e sia uno, e tutte le altre proprietà di questo tipo che possono venire dimostrate di Dio o delle creature nella filosofia, e che la fede presuppone”. In secondo luogo la filosofia può manifestare “per aliquas similitudines” ciò che appartiene alla fede, come fa sant’Agostino nella sua dottrina psicologica della Trinità, dove spiega in qualche modo il mistero servendosi di analogie prese dall’anima umana e dove persegue l’idea di ricercare la sostanza di Dio “sia attraverso la Scrittura che attraverso il Creato”, la conoscenza del quale ha luogo proprio nella filosofia. Infine, la filosofia può difendere la sacra dottrina dagli assalti di chi usa la ragione contro la fede riconoscendo la verità ovunque essa si trovi. Secondo sant’Agostino, infatti, i filosofi che hanno talvolta detto cose consone alla fede cattolica sono “possessori

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illegittimi” di verità che non dobbiamo temere, bensì sottrarre loro perché utili alla nostra dottrina. Ma è chiaro che bisogna conoscere la filosofia per poter contrastare coloro che se ne occupano per professione; questo permetterà ai dottori della Sacra Scrittura di non essere derisi per la loro ignoranza e di poter prendere posizione contro i filosofi con cognizione di causa. A questa triade di compiti che spetterebbero alla filosofia fa pendant quella proposta dai due scolastici pretomisti Guglielmo d’Auxerre e Odo Rigaldi, teologo francescano dipendente dal primo. Essi, quasi con le stesse parole, hanno raccomandato l’utilizzazione delle ‘rationes naturales’ a scopo teologico e ne hanno addotto tre ragioni: queste ‘rationes naturales’, queste dimostrazioni filosofiche debbono confermare la fede, allo stesso modo che i benefici che Dio ci fa rafforzano in noi la ‘caritas’ che già possediamo; devono inoltre servire alla difesa della fede contro gli eretici; devono, infine, condurre le anime semplici ad una migliore intelligenza della fede. A nostro avviso, un semplice confronto con quanto esposto da san Tommaso fa emergere un parallelo solo apparente. In quest’ultimo la filosofia difende la fede solo nella misura in cui costruisce un sistema razionale a partire dalle basi degli articoli teologici. San Tommaso e ogni sua riga, è vero, non sono comprensibili al di fuori della temperie delle dispute del XIII secolo, ma non è forse senza importanza che il Grabmann -colui che con maggior forza ha affermato questa ‘storicità’ del Doctor angelicus- afferma che “certamente una formulazione così chiara e fondamentale quale l’ha data Tommaso, non la si potrà trovare facilmente prima”86 . D’altronde i rappresentanti della più antica scuola domenicana, circa le relazioni della teologia con le scienze profane, non la pensavano diversamente: la filosofia era

86

M. Grabmann, Il concetto di scienza secondo s. Tommaso d’Aquino e le relazioni…, cit., 137.

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apprezzata non come scienza in sé, ma per i servigi che rendeva alla teologia. Il genio di san Tommaso non fu un fiore nel deserto, ed è utile considerare che anche Alberto Magno nella sua Summa theologica si è proposto la questione “utrum theologia habeat modum argumentationis”87 , ma si limita a parlare della forma argomentativo-difensiva dell’argumentatio e non tratta, come san Tommaso, anche della forma positiva dell’argomentazione teologico-scientifica, tendente all’acquisto di nuove cognizioni. “Tuttavia, coloro che si servono della filosofia nella sacra dottrina possono anche errare in due modi: in primo luogo, servendosi, contro la fede, di ciò che non è in senso stretto filosofia, ma rappresenta una corruzione o un abuso di essa; in secondo luogo, costringendo entro i limiti della filosofia ciò che è proprio della fede”, invertendo in tal modo la priorità della fede rispetto alla ragione. In questo caso non è più “l’intelligenza prigioniera nell’obbedienza a Cristo”, secondo quanto dice l’Apostolo, ma la fede ingabbiata e costretta negli angusti termini della filosofia: ci si risolve a credere solo e unicamente a “ciò che può essere ricavato dalla filosofia”, facendo della nostra mente i confini del soprannaturale. Nelle risposte alla tesi affermata all’inizio san Tommaso non nega certo le alte autorità ivi citate, ma avverte che l’errore sarebbe attribuire la precedenza al lumen naturale nelle cose di fede, facendo di quello la condicio sine qua non della fede stessa. Dio non rifiuta perciò la verità, da qualunque parte venga, purché non si confidi esclusivamente nella propria erudizione. Perciò “non si nega che i dottori sacri possano servirsi di essa come qualcosa di secondario”. Così nelle successive risposte, anche sulla base di altre autorità ‘teologiche’, san Tommaso dice essere degno di biasimo l’eccesso di fiducia nelle proprie capacità intellettuali, come Girolamo che “si immergeva nei libri pagani a tal punto, da disprezzare in qualche modo la Sacra Scrittura”. L’oste cattivo è colui che

87

I, q.5, memb. 3.

46

mescolando acqua e vino, ragione e fede, altera gli elementi di partenza nella loro natura: “ per questo coloro che si servono di insegnamenti filosofici nella sacra dottrina, riportandoli sotto l’obbedienza alla fede, non mescolano l’acqua con il vino, ma convertono l’acqua in vino”. Il Grabmann, commentando questo articolo, sottolinea che san Tommaso confuta con ragionamenti puramente filosofici le dottrine filosofiche contrarie alla fede, ponendosi in tal modo contro i metodi dei rappresentanti averroistici della dottrina della doppia verità88 . Essi sostenevano teorie di Aristotele o dei filosofi arabi e non si davano alcun pensiero di confutarle con ragioni filosofiche. Nel 1270, nel pieno delle controversie averroistiche e anno in cui il vescovo Stefano Tempier emise un primo decreto di condanna contro le tesi pseudoeretiche, san Tommaso tenne un discorso di cui il Grabmann riporta uno stralcio: “vi sono di quelli che studiano filosofia e insegnano dottrine che non sono per noi vere dal punto di vista della fede. Se loro si oppone che questo urta contro la fede, essi replicano che così dice Aristotele (…). Un tale rappresentante della filosofia è un falso profeta o un falso dottore, perché sollevare un dubbio e non scioglierlo val quanto affermare questo dubbio medesimo”. L’autorità delle Sacre Scritture in Esodo 21,33-34 dice che, se uno scava una fossa o apre una cisterna e non la copre, e un bue del prossimo vi cade, colui che ha scavato la cisterna è obbligato a riparare il danno. Così, coloro che sollevano dubbi (filosofici) riguardo alle verità di fede e non li sciolgono, aprono tali cisterne e non le coprono. Il punto di vista di san Tommaso si distingue dunque dal metodo degli averroisti perché “egli era compenetrato della persuasione che tra una verità di Fede rettamente intesa e una verità filosofica sicura non può esistere alcuna opposizione insolubile, e perciò afferma risolutamente la possibilità e il dovere di confutare questi argomenti filosofici,

88

M. Grabmann, Il concetto di scienza secondo s. Tommaso d’Aquino e le relazioni…, cit., 136-139.

47

contrastanti con una verità di Fede, con altri argomenti del pari filosofici.” Gli averroisti, invece, aggiungevano semplicemente la dottrina della Fede cattolica alle teorie filosofiche da loro razionalmente dimostrate e contrarie al dogma. Per san Tommaso è antiscientifico separare la filosofia dalla teologia e dalla fede ed ha gravissime conseguenze metodologiche perché rende equivoca, e quindi ultimamente priva di scopo, ogni indagine. Il Mandonnet rileva anche che a quel tempo all’università di Parigi dogmatizzare in filosofia significava anche “chiudere gli occhi sul Vangelo”89 . Ma all’incertezza e all’ambiguità dei filosofi che, se pure “aliquid veritatis dixit, non dixit eam sine admixtione

falsitatis”,

san

Tommaso

contrappone

la

chiarezza

e

la

certezza

dell’insegnamento rivelato: “multo plus potest fides quam philosophia: unde si philosophia contrariatur fidei, non est acceptanda”90 . Un altro esempio di confronto diretto tra auctoritas e ratio l’abbiamo nella quarta questione, che tratta in generale delle premesse razionali del dogma trinitario. Indagando sulle cause della pluralità, san Tommaso si chiede se l’alterità sia causa della pluralità. Considerata in sé la questione “è un esempio dell’uso della filosofia nel metodo teologico dell’Aquinate, ma non contiene esplicite riflessioni sulla natura del metodo teologico”91 . Secondo il Wyser, invece, il suo contenuto è puramente filosofico, legandosi infatti direttamente ed esclusivamente all’esposizione che Boezio fa nella seconda parte del primo capitolo sul principio e i modi della pluralità. San Tommaso, infatti, tratta “de his quae ad causam pluralitatis pertinent” e anche qui segue fedelmente i punti trattati nel testo boeziano.

89

P. Mandonnet, Siger de Brabant, cit., 109. Questo discorso, tramandatoci dall’Uccelli, è la reportatio di un uditore. Le allusioni alle pretese averroiste, alle questioni dell’immortalità dell’anima e dell’eternità del mondo autorizzano a collocarlo nel 1270. L’indiscussa stima e popolarità di cui l’Aquinate godeva a quella data, nulla toglie alla fermezza e all’audacia delle sue parole. 91 D. C. Hall, The Trinity, cit., 47. 90

48

In questa sede prendiamo in considerazione soltanto il primo articolo, degli altri tratteremo oltre. Inizialmente la Sacra Scrittura e Boezio concordano. Secondo la Sapienza sembra non esserci alcuna causa del numero, del peso e della misura: ogni cosa, infatti, è stata sin dall’origine disposta e creata sembra essere informata “dalla ragione essenziale dei numeri: questo infatti fu il modello principale nell’animo di chi le costituì”, così si esprime Boezio nel De institutione arithmetica (1,2), opera che completava il suo programma del quadrivio da inserire nell’insegnamento scolastico. Al numero, principio ontologico della logica boeziana, san Tommaso contrappone qui la sua ontologia dell’essere che rimarrà alla base di ogni metafisica posteriore. Per presentare la tesi opposta san Tommaso preferisce non contestare nulla di quanto già detto. È quanto accade praticamente sempre a questo punto: gli argomenti contrari sembrano avere un valore puramente funzionale alla profonda sintesi che offre la responsio. Tanto più che adesso si tratterebbe di smentire Boezio e Aristotele, i due punti di riferimento del suo metodo speculativo. Perciò nei tre argomenti sed contra egli cita solo due auctoritates patristiche e, infine, ancora Aristotele. Secondo Giovanni Damasceno la divisione, che consiste nella diversità o alterità, è causa del numero: “dunque la diversità o alterità è principio della pluralità”. In sintonia con questa conclusione Isidoro fa derivare ‘numero’ da “segnale della partizione” (nutus memeris), cioè “segno di divisione” o pluralità. In entrambi questi casi la citazione delle fonti è viziata: nel primo caso da una forzata interpretazione dell’Aquinate92 , nel secondo dal fatto meno significativo che la citazione non è reperibile in Isidoro. La stessa citazione

92

Cf Ioannes Damascenus, Expositio fidei, III,5, ed. B. Kotter, Die Schriften des Johannes von Damaskos, vol II, W. De Gruyter, Berlin-New York 1973, 118-119 (in particolare 119,29); PG 94, 1001. Il Damasceno opera un confronto tra la serie dei numeri e la Trinità e dice che, come le tre persone della divina Trinità “si uniscono distintamente e si dividono senza interruzione”, così anche il numero non opera alcuna divisione; poco oltre: “anche il numero non introduce divisione”. E’ chiaro che san Tommaso non fraintende il significato di affermazioni così chiare, solo sottolinea il numero come quantità discreta piuttosto che come continuum.

49

filosofica del decimo libro della Metafisica di Aristotele è subordinata a quella del Damasceno, come d’altronde già quella del secondo argomento. La risposta apporta alla base stessa del discorso boeziano alcuni elementi di novità, che presentiamo rapidamente. Abbiamo visto che secondo Boezio l’alterità è il principio della pluralità. In questo senso le cose sono molteplici in quanto sono diverse tra loro. Secondo san Tommaso ciò è vero solo in rapporto alle realtà derivate e composte: “nelle realtà posteriori e composte, infatti, causa della divisione in senso quasi formale (vale a dire, ciò in ragione di cui avviene la divisione) è la diversità delle realtà semplici e prime”. Rispetto dunque alla subordinazione processionale di origine neoplatonica, san Tommaso risponde che tutti gli enti primi hanno uguale ‘dignità ontologica’, sono tutti “plures primi effectus” e, in base a questo, ogni realtà semplice si distingue da ogni altra per il suo solo essere. L’essenza di ogni creatura rappresenta un’imitazione dell’essenza divina e, poiché quest’ultima è infinitamente imitabile, ogni creatura può imitare un aspetto diverso, o lo stesso aspetto secondo una gradazione maggiore o minore (secondo la maggiore o minore distanza dalla causa). La prima causa della distinzione sarà, dunque, la differenza tra ente e non-ente: le cose naturali sono molte in quanto sono diverse tra loro; ogni termine semplice, invece, si distingue dall’altro per il suo stesso essere. Ogni cosa che è esclude di essere tutte le altre che pure sono, ed è proprio perché ‘nega’ tutti gli altri enti. Per questo nell’ambito dei termini primi ogni negazione appare come immediata, perché im-mediatamente afferma qualcosa, ovvero ciò che non esclude. Subito dopo l’ente indiviso si ritrova l’uno, subito dopo l’opposizione ente non-ente procede (in realtà san Tommaso non usa questo verbo equivoco, piuttosto ‘invenitur’, meno connotato filosoficamente) la pluralità delle prime realtà semplici. In virtù di quest’ultima “tra più cose una si dice diversa rispetto ad

50

un’altra, perché non è quella”. In un certo senso perciò Boezio ha ragione nell’affermare che la causa della pluralità degli enti è l’alterità, che “si ritrova nelle cose in quanto ad esse ineriscono caratteristiche diverse.” Questo vale infatti per le realtà composte93 . Nelle realtà prime, invece, la pluralità è preceduta dalla divisione, e la diversità non può essere la causa della loro pluralità, “a meno che per diversità non si intenda la divisione”. La divisione non esige che i termini siano già enti distinti l’uno dall’altro, la diversità invece ha bisogno di avere già gli enti presenti alla sua attenzione per distinguerli in base alle diverse caratteristiche. La divisione “ha luogo attraverso l’affermazione e negazione” e non parte da enti già divisi, ma da una unità originaria. Bisogna distinguere i livelli di lettura: da un lato siamo all’estremo grado di astrattezza metafisica, dall’altro nel nostro mondo naturale di fronte a cose già create, di cui non ci è possibile scorgere l’origine. È come se sapessimo il finale di una storia, di cui ci sfugge l’antefatto. Abbiamo analizzato con attenzione almeno i passaggi essenziali dell’articolo per dimostrare come il discrimen che orienta la preferenza di san Tommaso è il dogma della Trinità, mentre egli chiama in causa Aristotele e l’aristotelismo boeziano per suffragare e spiegare tale dogma. Ma il limite di questi due filosofi coincide al tempo stesso col limite del ragionamento tomistico. Alla fine assistiamo ad un rovesciamento dei termini in gioco: ora è Boezio che è confermato dalla verità del dogma, e non più l’indagine razionale del dogma che ha bisogno della prova dell’autorità filosofica. Portiamo ora un altro esempio di come san Tommaso interpreti l’auctoritas filosofica, e ancora quella di Boezio. Si tratta di un passo della q.6 a.4 ad 1m, dove san Tommaso commenta Boezio, là dove questi al capitolo secondo dice: “ipsam inspicere formam”94 .

93

Che Boezio parli delle realtà composte è ultimamente dimostrato, secondo l’Aquinate, dal fatto “che adduce una dimostrazione relativa a ciò che è diverso per genere, specie o numero, cosa che ha senso soltanto in relazione alle realtà composte”. “Boezio intendeva per alterità la diversità che è costituita da determinate differenze, sia di tipo accidentale che di tipo sostanziale. Le realtà che sono diverse senza essere differenti sono invece le realtà prime, e non è ad esse che si riferisce qui Boezio” (resp. ad 5m). 94 Decker, 157.

51

Siamo nell’ambito della divisione delle scienze speculative e, secondo la VanniRovighi95 , l’Aquinate muta completamente il senso del discorso boeziano, là dove interpreta: “Boethius non intendit dicere quod per scientiam theologiae possumus ipsam formam divinam contemplari quid est, sed solum eam esse ultra omnia phantasmata”96 . In realtà, il riferimento della studiosa ad un presunto “argomentare dalle cose sensibili” di san Tommaso ci pare poco preciso e peraltro estraneo allo stesso Boezio. Inoltre il seguito dell’opera boeziana (per non parlare del proemio) che san Tommaso ha sicuramente letto se pur non commentato, testimonia del taglio razionale che il filosofo romano intese dare alla sua indagine. San Tommaso non stravolge il pensiero boeziano, lo prende nella sua integrità e lo completa nel quadro di novità culturali impensabili al tempo di Boezio, quando di Aristotele si conosceva solo parte dell’opera logica e nient’altro. È forse utile richiamare l’impresa boeziana di costituire una scienza teologica che sintetizzasse l’indagine intellettuale prettamente umana con la tensione al divino. E come per Boezio, anche per san Tommaso ciò che fa la differenza tra una dottrina vera e una falsa è la parola divina, non la misura del ragionamento umano. Tuttavia Boezio nel corso dei suoi sei libri “non si accontenta, mediante l’esposizione della dottrina cattolica, di acquisire una norma dogmatica per le sue deduzioni speculative; egli vuole anche aver ben chiaro il modo in cui devono venir trattati scientificamente i problemi della speculazione teologica”97 .

95

S. Vanni-Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 24-25: “Qui, trovandosi di fronte ad una teoria neoplatonica come quella di Boezio, che ammette chiaramente due modi di conoscenza: uno dal basso, per dir così, e uno dall’alto, per intuizione dell’intelligibile, Tommaso dà un’interpretazione che rovescia la concezione boeziana. Boezio, dopo aver ripreso da Aristotele la triplice distinzione del sapere teoretico (…) la commenta platonicamente (…). Tommaso con la massima disinvoltura afferma che questo (scil. “ipsam inspicere formam”) è il termine della metafisica, ma è un termine al quale arriviamo solo argomentando (altro che inspicere!) dalle cose sensibili, perché anche i primi principi, fondati sulle nozioni di ente, di uno e altrettali sono da noi conosciuti perché l’intelletto agente astrae nozioni dalle immagini sensibili (phantasmata). Secondo lui Boezio voleva dire solo che Dio è oltre ogni immagine sensibile”. 96 Decker, 228. 97 M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 208.

52

Concludiamo queste nostre osservazioni con il pensiero dello Chenu: “se la fede genera una scienza teologica, questa scienza si costruì nel quadro e secondo le leggi delle discipline umane, anche se le trascende”98 .

98

M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 173.

53

Capitolo III: la mente umana di fronte al mistero.

1. Limiti della conoscenza umana e nozione di Dio.

Tutta la lectio prima99 tratta del problema della conoscenza umana sia in rapporto al divino e sia, poichè ogni nostra conoscenza ha avvio dai sensi, in rapporto alle cose create. Compito non nuovo ma non per questo meno faticoso. Quanto detto da san Tommaso circa la laboriosa stesura del De Trinitate, trova conferma nelle parole del suo stesso autore: il proemio di Boezio si apre infatti con un “Investigatam diutissime quaestionem” che rende tutta la fatica di un’indagine così complessa. Boezio ammette d’aver messo per iscritto le sue riflessioni sulla Trinità solo dopo aver dato loro una “forma argomentativa razionale”. Egli aggiunge che si deve pretendere da lui “solo ciò che l’intuizione della ragione umana è in grado di raggiungere innalzandosi verso le altezze della divinità”. L’oggetto è, dunque, divino mentre il metodo è quello proprio dei filosofi. “Anche nelle altre arti, in effetti, si ritrova per così dire un identico limite, che segna fin dove può spingersi il cammino della ragione”: così lo stesso limite è nella medicina che, applicata in tutte le sue parti per sconfiggere una

99

Per comodità dividiamo l’intera opera in tre lectiones, ognuna delle quali si compone di expositio litteralis (di volta in volta al proemio, al primo e al secondo capitolo dell’opera boeziana) e due quaestiones. Una suddivisione simile compare per la prima volta nell’edizione dell’Uccelli (1880), con la differenza che si trattava di due lezioni che comprendevano le questioni dalla 3 alla 6, introdotte dalle altre due relative al proemio.

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malattia, libera il medico da qualunque responsabilità, nel caso in cui il malato non guarisca. Del breve proemio boeziano san Tommaso rileva il debito che Boezio ammette di avere nei confronti della dottrina di sant’Agostino, “originem et quasi subiectum” della sua opera. Pone poi l’accento su alcune informazioni che l’autore fornisce circa la materia, il motivo e lo scopo della sua opera: l’oggetto, cioè la Trinità; la causa efficiente, “il piccolo fuoco della nostra mente” e “la luce divina”; il metodo usato da Boezio, la forma argomentativa; e, infine, la causa finale, “id est quem finem intenda ex praedicta re”. Queste caratteristiche sono per san Tommaso quelle proprie di ogni proemio in quanto tale. Nel suo commento al De anima egli afferma: “Nel trattato sull’anima, che abbiamo dinanzi, Aristotele pone in primo luogo il proemio. Infatti chi scrive un proemio tende a conseguire tre risultati; vuole rendere chi ascolta: 1) ben disposto; 2) pronto ad apprendere; 3) attento. Lo scrittore dispone in maniera favorevole chi ascolta, se gli dimostra l’utilità della scienza; lo rende pronto ad apprendere se fa procedere l’ordine di sviluppo e la distinzione in parti dell’argomento; lo rende attento, se comprova la difficoltà della trattazione100 ”. L’Aquinate sottolinea le difficoltà cui Boezio è cosciente di andare incontro. Oltre alla difficoltà della materia, si presentano: “la concisione della scrittura”, “la sottigliezza dei termini usati” e la loro “novità” in riferimento a chi, trattando la stessa questione, non se ne è servito e “ad eos qui legunt, qui talibus verbis non sunt assueti”: tutti argomenti che saranno oggetto della discussione della seconda questione sulla “manifestazione delle verità divine”. In sostanza l’opera di Boezio non si propose d’essere pubblica quanto piuttosto elitaria, egli voleva fornire un trattato di raffinata dialettica frutto di uno studio approfondito. A

100

In De anima, I, lect.1, trad. it. di A. Caparello, Edizioni Abete, Roma 1975, 174.

55

tal proposito lo Schurr afferma che “in effetti presso Boezio la ricerca teologica non è dominata dall’intento di intervenire nella disputa pubblica a favore di un determinato orientamento, determinante è invece la problematica speculativa in sé”101 . Infine, san Tommaso pone l’accento su come il limite dell’opera rispecchi quello della ragione umana che non consente all’autore “di portare la questione ad una certezza perfetta”. Anche sant’Agostino aveva cercato a più riprese l’aiuto di Dio nella sua ricerca sulla Trinità. Un significativo esempio ne è il proemio dell’ottavo libro del suo trattato:

“Nunc itaque, in quantum ipse adiuvat Creator mire misericors, attendamus haec, quae modo interiore quam superiora tractabimus, cum sint eadem: servata illa regula, ut quod intellectum nostro nondum eluxerit, a firmitate fidei non dimittatur”.

Dopo l’expositio litteralis del proemio san Tommaso introduce e tratta le prime due questioni. La prima si occupa della “conoscenza delle cose divine”, la seconda della loro “manifestazione”. Cioè: prima è necessario ricercare fino a che punto possa l’uomo avvicinarsi alle verità soprannaturali, in particolare al supremo mistero della Trinità, e poi se e come possano tali verità essere espresse dall’uomo stesso. Ma come nota Van Steenberghen “la questione affrontata è più ampia e tratta della conoscenza di Dio, nella sua esistenza e nella sua natura; ma i due aspetti della questione sono intimamente legati”. Inoltre, “è la prima volta, nel corso della carriera di Tommaso d’Aquino, che il problema della conoscenza di Dio è posto esplicitamente in funzione della teoria della conoscenza”102 . 101

V. Schurr, op. cit., 220. Trad. nostra. F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 416. Egli nota pure che, “quanto alla prova propriamente detta dell’esistenza di Dio (…), non solo il commentario su Boezio non aggiunge nulla agli scritti anteriori di Tommaso, ma tale questione non è nemmeno trattata; non si trova, in questo commentario, alcuna forma concreta dell’esis tenza di Dio” (ibid., 432). Traduz. nostra. 102

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Una volta delimitato l’ambito delle nostre possibilità conoscitive nei confronti delle cose divine, san Tommaso passa ad affrontare i problemi relativi alla “manifestazione della conoscenza divina”. In questa seconda questione l’Aquinate approfondisce proprio la possibilità di indagare il dogma trinitario con un metodo scientifico. L’articolo 2 si allontana dal testo di Boezio per identificare la teologia quale ‘scientia fidei’ sulla base del concetto aristotelico di scienza. Abbiamo visto che già Boezio sottolinea il legame tra le nostre difficoltà nella conoscenza di Dio e la difficoltà insita nella questione trinitaria. Siamo infatti legati a ciò che i sensi ci offrono e ci permettono di conoscere. Questa posizione è però corretta dalla constatazione che tale forma di conoscenza è intrinsecamente viziata dall’apparente incapacità dell’uomo ad andare oltre, poichè “le creature di Dio sono un laccio per i piedi degli stolti” (Sap. 14,11). Ma in soccorso a tale debolezza creaturale dell’uomo è venuto Dio, fornendo al genere umano “un’altra sicura via di conoscenza”: la fede. In realtà san Tommaso dice: “suam notitiam mentibus hominum per fidem infundens”, la fede è cioè lo strumento scelto da Dio per infondere la sapienza. Si delinea già da queste battute iniziali un’idea di fede che va al di là del puro e statico dato rivelato, che fa della fede un soccorso della ragione, a disposizione d’ogni creatura. Così il proemio recitava: ”sed ne tantum a nobis quaeri oportet, quantum humanae rationis intuitus ad divinitatis valet celsa conscendere”103 . Ciò che colpisce è il significato equivoco di quell’intuitus: il concetto è infatti accostato da san Tommaso al tema agostiniano di Dio quale ‘primum cognitum’ dalla mente umana (q.1 a.3). Il metodo speculativo-razionale inaugurato dalla patristica e qui rappresentato da Boezio, esige una limitazione dell’aspetto puramente filosofico da parte

103

Decker, 49.

57

di quello teologico. Rispetto alle rationes necessariae di un Riccardo di S. Vittore, san Tommaso dimostra la assoluta indimostrabilità del mistero trinitario con le sole dimostrazioni naturali. Il grande tema che fa da sfondo alla seconda questione è quello della conciliazione tra l’indagine razionale e le esigenze della fede. Si è già detto che alcune verità non possono essere attinte con la ragione, e pertanto rimangono di pertinenza esclusiva della fede. Ma come ci si deve regolare a proposito di quelle verità di fede la cui comprensione abbiamo detto non essere preclusa alle forze della ragione? A questo punto è necessario vedere come san Tommaso si confronti con la dottrina agostiniana dell’Illuminazionismo. La teoria dell’illuminazione rappresenta la teoria sull’origine delle idee insegnata da sant’Agostino e nasce dal distacco critico del Dottore africano dalla teoria della reminiscenza delle idee di Platone, inquadrata nel contesto della tradizione cristiana. È

noto

infatti

che

sant’Agostino,

dipendendo

da

Platone,

ammetteva l’origine

extrasensibile delle nostre cognizioni, sebbene non dalle idee sussistenti platoniche, che egli trasporta nella mente divina, ma per un’influenza diretta di Dio, o illuminazione. Secondo sant’Agostino tutta la nostra conoscenza si opera al di dentro e dal di dentro, senza che mai nulla venga introdotto dall’esterno. A questo punto le possibilità sono tre: il pensiero può infatti o trovare già preformato ciò che trae da se stesso e che sembra ricevere, o che si riveli capace di produrlo o infine che riceva dal di dentro ciò che non può ricevere dal di fuori. Scartate le prime due ipotesi, resta la terza soluzione che in realtà è un aggiustamento della seconda come è presentata nel Menone platonico. Platone ha ragione quando afferma che l’anima trova in se stessa la verità, ma ha torto allorché conclude che essa se ne ricorda come ci si ricorda d’una conoscenza passata. “Se dunque sant’Agostino per illustrare la propria posizione utilizza

58

ancora termini quali ricordo e reminiscenza, occorre che essi vengano però intesi in senso assai diverso da Platone: qui la memoria platonica del passato fa posto alla memoria agostiniana del presente. Ciò esclude anche dalla dottrina agostiniana l’innatismo ‘nativista’, poiché sant’Agostino è convinto che ogni nostra conoscenza del mondo esteriore presuppone la sensazione. Di innatismo si può parlare solo a proposito dell’elemento di verità che è ‘innato’ -cioè insito- in ogni conoscenza, ma la cui origine non è né nelle cose né in noi stessi, ma in una sorgente a noi più interiore del nostro proprio interiore, cioè in Dio. “Il vero significato dell’illuminazione agostiniana è che l’azione illuminatrice di Dio è prima di tutto un’azione vivificante: illuminatio nostra participatio Verbi est, illius scilicet Vitae quae lux est hominum”104 . Ma il tema dell’illuminazione agostiniana è stata fatta oggetto di diverse interpretazioni, gravate da presupposti a lei estranei come l’´astrazionismo’ scolastico. In effetti l’essenziale è cogliere “l’unità profonda del pensiero di sant’Agostino, presentando tutta la sua dottrina come un passaggio del’anima a Dio, - dall’anima scoprendo Dio, presente in quella, come il principio necessario della sua attività intellettuale e come la fonte dell’essere universale, - a Dio, Saggezza infinita e dispensatore della beatitudine soprannaturale”105 . Non si tratta solamente d’una teoria della conoscenza, ma di una questione ben più ampia e profonda che presuppone l’esperienza personale. In realtà la critica di san Tommaso non è diretta contro la posizione agostiniana, ma contro coloro che l’hanno deformata. Tuttavia è proprio da un’interpretazione della teoria che scaturì per san Tommaso la possibilità di adeguarla al suo sistema. Ma andiamo con ordine.

104

De Trin., IV, 2, 4; PL 42, 889. É. Gilson, Introduzione allo studio di sant’Agostino, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983, 129. In realtà abbiamo seguito il Gilson lungo tutto questo nostro ragionamento, e rimandiamo ancora alle pp. 39-134 di questo suo splendido lavoro (in part. 99-134), dove è affrontato il tema dell’illuminazionismo agostiniano nella sua veracità. 105 Così si esprime Jolivet, citato da G. Madec, nell’edizione francese da lui curata del De magistro e del De libero arbitrio, Œuvres de saint Augustin, vol. 6, Desclée de Brouwer, Paris 1976, 543.

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In san Tommaso la dottrina agostiniana del maestro interiore viene accolta in un senso generico, come primato della divina veritas quale è presente nel lume naturale della ragione, senza però che ad essa venga riconosciuta una funzione essenziale nel processo di apprendimento. San Bonaventura invece introduce un’applicazione originariamente estranea alla lettera del filosofo di Tagaste: “la luce dell’intelletto creato non basta da sola alla comprensione certa di una qualunque cosa, senza la luce del verbo eterno”106 . Egli dunque afferma che oltre l’elaborazione che il nostro intelletto può compiere del dato d’esperienza sensibile vi è una presenza delle rationes eternae come ratio motiva della nostra conoscenza, che tuttavia non può ridursi alla semplice causalità efficiente esercitata da Dio su ogni creatura. San Tommaso riprende e rielabora a sua volta l’interpretazione del francescano. Per lui le rationes eternae sono causa essendi ma non cognoscendi della nostra conoscenza delle verità necessarie:

“i primi principi, la cui conoscenza è innata in noi, sono come similitudini dell’increata verità; onde in quanto noi giudichiamo attraverso di esse, si dice che giudichiamo delle cose attraverso le ragioni immutevoli o la verità increata”107 .

Contro tale interpretazione tomistica della dottrina agostiniana è interessante vedere la precisa polemica di Roger Marston:

“È chiaro che coloro i quali dicono che tutte le cose si vedono nel lume eterno perché si vedono nel lume derivato da esso, pervertono la dottrina di Agostino e, citando frammentariamente le sue autorità, le 106

Sermo IV, Christus unus omnium magister, 10, in Opera, vol. V, 569-570. Quaest. disp. de veritate, X, art.6, ad 6m. Cf inoltre la Summa theol., I pars, q.84, a.5: “Ipsum enim lumen intellectuale quod est in nobis nihil est aliud quam quaedam partecipata similitudo luminis increati, in quo continentur rationes eternae.” Questo passo è contemporaneo alla stesura dello scritto in esame, dove l’Aquinate puntualizza la sua critica. 107

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piegano al proprio senso, non senza offesa del Santo, eliminando ciò che precede e ciò che segue, ove pienamente si manifesta l’intenzione del Santo su questo problema”108 .

Ma vediamo meglio ora quale atteggiamento assunse il giovane maestro di teologia di fronte al grande dottore della Chiesa. Innanzitutto chiariamo che la posizione di Boezio, attraverso la quale egli opera la critica all’illuminazionismo agostiniano, è che “la rivelazione e la ragione sono considerati modi paralleli per discernere la realtà, e sotto questo aspetto Boezio si distacca in una certa misura da Agostino, per il quale Cristo è la ragione suprema di tutte le cose, e tutta la conoscenza è illuminazione proveniente da Dio. Boezio è meno fiducioso di Agostino (…) riguardo alla capacità della ragione di arrivare per illuminazione divina ad affermazioni adeguate su Dio”109 . Ma il senso dell’originale presa di distanza tomistica dall’epistemologia illuminazionista neoagostiniana e francescana sta nel fatto che, negare all’uomo la possibilità di conoscere (almeno) alcune verità intelligibili attraverso il proprio intelletto agente, significa negare il valore stesso della sua essenza –la razionalità- così come essa è stata costituita da Dio. La soluzione data da san Tommaso segue secondo Van Steenberghen tre fasi110 . In una prima sezione, l’Aquinate rifiuta ogni illuminazione straordinaria per la conoscenza naturale. Richiamando la distinzione aristotelica delle potenze attive e passive, egli afferma che questa distinzione si verifica nell’ordine dell’intelligenza, dove è possibile discernere tra l’intelletto agente e quello possibile. Ora, presso Avicenna, solo l’intelletto possibile è una facoltà dell’anima individuale, mentre l’intelletto agente è una sostanza separata. In una tale dottrina, l’anima umana non può realizzare il suo compito, che è la

108

Cit. nell’edizione del De magistro a cura di Tullio Gregory, Armando Armando editore, Roma 1965, 146. 109 H. Chadwick, Boezio, cit., pag. 280. 110 F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 418-419.

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conoscenza della verità, senza essere illuminata dalla luce estrinseca dell’intelletto agente. Ma

l’insegnamento

di

Aristotele

e

le

sacre

Scritture

–associati

ancora

indiscriminatamente da san Tommaso- contraddicono questa concezione e, perciò, noi ammettiamo la presenza nell’anima umana di entrambi gli intelletti, principi sufficienti dell’operazione naturale ora ricordata. Tuttavia –e siamo alla seconda parte- ogni conoscenza che superi l’efficacia naturale dell’intelletto agente esige una particolare illuminazione divina. Ogni potenza attiva creata è finita ed ha dunque un potere limitato; l’efficacia dell’intelletto agente si estende ai primi principi e alle conclusioni che si possono dedurre; al di là di queste verità naturali conoscibili, una luce divina è indispensabile. È questo il caso delle verità di fede (che devono essere rivelate da Dio), dei futuri contingenti e di tutte le altre verità analoghe. Nell’ultima sezione, san Tommaso afferma la necessità dell’intervento della Causa prima in tutte le operazioni della causa seconda. Dio non è solamente creatore, ma anche provvidenza, ed è questa che dirige e muove le potenze di ogni essere creato. Ogni creatura è dunque sottomessa al governo divino, come gli strumenti nelle mani dell’artigiano. A questo punto il Van Steenberghen rileva che il clima in cui san Tommaso non poté non prendere la propria personale posizione era influenzato da quello che Gilson ha definito “agostinismo avicennizzante”. Si tratta di un sincretismo che, iniziato nella seconda metà degli anni quaranta da Guglielmo d’Auvergne e Ruggero Bacone, identificava l’intelletto agente separato di Avicenna col Dio cristiano. Si trattava di una materia delicata che, in un certo senso, ammettendo la presenza di Dio come in qualche modo percepibile dall’uomo, poneva il problema della conoscenza di Dio in una prospettiva tutt’altro che aristotelica.

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Il principio che domina la posizione tomistica è invece il realismo di matrice aristotelica per il quale tutto ciò che è creato porta in sé, connaturati, i principi della propria attività naturale. L’atto creatore sarebbe imperfetto se non desse alla sua creatura, insieme con l’essere-per-agire, anche la possibilità effettiva di realizzarlo. A farne le spese è qui Avicenna111 e viene da chiedersi se san Tommaso non affronti solo parzialmente la questione: come san Bonaventura egli rifiuta l’intelletto agente separato del

filosofo

arabo

e

contemporaneamente

anche

la

dottrina

agostiniana

dell’illuminazione, che prevede la presenza di un lume obiettivo intelligibile nel quale l’intelligenza percepisce la verità necessaria ed eterna dei principi e il valore metempirico dei giudizi. Basta ammettere un intelletto agente personale per escludere questa dottrina? Van Steenberghen offre un’ipotesi di risposta ricordando quanto detto prima: san Tommaso accosta le questioni della conoscenza naturale e del raggiungimento delle verità soprannaturali: per lui, riconoscere che l’uomo è capace d’astrarre, è riconoscere che egli è capace di percepire la verità dei giudizi in maniera necessaria. Van

Steenberghen

ammette

che

“quelques

passages

mériteraient

plus

ample

discussion”112 , e noi crediamo che sia semplicistico credere che ad un immediato accostamento tra il problema della conoscenza delle verità naturali e quella delle divine corrisponda un altrettanto immediato accostamento nella soluzione che san Tommaso ci offre. Alla base della dottrina tomistica della “motion divine” è costantemente presente l’idea di uno scarto irriducibile tra atto creatore e creatura contingente. In questo modo pone

111

« Le lecteur a remarqué que, dans cet article, ni Augustin, ni Boèce ne sont ouvertement contredits; la critique est dirigée contre Avicenne, qui joue ici le rôle de bouc émissaire. Ainsi l’exigeait le respect de la tradition théologique et, en particulier, le souci de ne pas saper l’autorité doctrinale du grand Docteur africain », cf Van Steenberghen, Le problème…, cit., 420. 112 F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 421 e sgg. Lo studioso avverte qui che non è fuori discussione l’assoluta fondatezza della teoria dell’Aquinate, per il quale la capacità astrattiva dell’uomo coincide con la sua capacità di percepire la verità dei giudizi in maniera necessaria; inoltre che vi è in tale teoria il rischio dell’occasionalismo, per cui comunque alla fine le creature non avrebbero alcuna utilità nell’atto di conoscenza.

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meno problemi identificare l’intervento divino con la creazione: Dio crea le sostanze attive, nel senso che, creandole, dona loro il potere effettivo di produrre atti secondi, e lo fa dando loro l’‘intelletto agente’ che astrae e così produce l’inizio della nostra conoscenza. Questo salva, secondo san Tommaso, tanto la libertà umana quanto il fatto che Dio sia possibilità infinita. Ad un certo punto del suo prologo san Tommaso pone l’accento sul verso citato all’inizio:

“ricercherò (la sapienza) dal principio della generazione”

l’indagine non ha, dunque, intenzione di fermarsi a quell’origine divina, ma “ha inizio da essa per procedere ad altro”. Esistono due vie della conoscenza e i rapporti che san Tommaso vede tra di esse misura il grado della sua critica alla teoria dell’illuminazione di sant’Agostino. Tutta la prima questione si può considerare svolgimento di questa critica. Il primo articolo si apre, infatti, con la domanda “se la mente umana abbia bisogno, nella conoscenza della verità, di una nuova illuminazione da parte della luce divina”. È quesito fondamentale che ha impegnato le menti filosofiche sia prima che dopo san Tommaso e che ha portato, con diverse varianti, ora all’illuminismo ora al naturalismo. La responsio si basa quasi interamente sulla gnoseologia aristotelica. Contiene, infatti, soltanto un riferimento (ci riferiamo a quelli dichiarati) alla “auctoritas sacrae scripturae”. Nella nostra mens c’è tanto l’intellectus agens quanto quello possibilis. Infatti, nonostante l’opinione di alcuni, quali Avicenna, “le parole del Filosofo nel terzo libro Sull’anima sembrano piuttosto lasciare intendere che l’intelletto agente è una potenza dell’anima”. L’incontro tra la potenza attiva e quella passiva –“così come le altre

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potenze attive naturali, congiunte a quelle passive, sono sufficienti per le operazioni naturali”- garantisce che alcune verità siano conoscibili direttamente dal nostro intelletto agente senza bisogno di una luce soprannaturale. Altre verità, “facultatem rationis excedentia”, appartengono alla fede e il lume naturale dell’uomo ha bisogno di un “nuovo lume”. In realtà, spiega san Tommaso, l’intervento provvidenziale divino agisce anche nel primo caso, essendo l’intero creato sottoposto al governo divino”: l’efficacia di Dio deve essere considerata qui nel suo aspetto più generale, quello per cui la sua efficacia causale non si esaurisce nella creazione, ma si estende alla conservazione e all’ordinamento del mondo. Ogni conoscenza umana ha dunque bisogno della luce divina poiché, come tutte le potenze create, la sua efficacia è limitata; ma nella conoscenza delle cose naturali non riceviamo una ulteriore ‘illustratio’, bensì ‘solo motus et directione eius’, poiché “non c’è bisogno che la mente umana, che è mossa da Dio, sia investita da una nuova luce per conoscere ciò che è possibile conoscere naturalmente”. In altre parole la nostra mente si colloca comunque entro l’ordinamento predisposto e regolato nel suo insieme da Dio stesso. Nella risposta ad 6m san Tommaso fa direttamente riferimento all’auctoritas di sant’Agostino: nel libro VIII del suo Commento al Genesi, il Dottore africano spiega che la nostra mente è sì continuamente illuminata da Dio, ma con un unico lume e non con “uno di volta in volta diverso”; Dio dirige il lume naturale dell’uomo “ed è in questo senso che la mente non procede nella sua operazione senza l’intervento della causa prima”. Dalle altre opere di san Tommaso emerge più precisamente che, in attesa del lumen gloriae della nostra vita celeste, si contrappone su questa terra il lumen perfectivum fidei.

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Da quanto detto ci sembra che san Tommaso interpreti reverenter la tesi di sant’Agostino sull’illuminazione, riducendola però in un ambito naturale, come segno della dipendenza di tutti gli esseri dalla causa prima che, anziché limitare, potenzia la capacità causativa di ogni essere creato. Così anche il lume della ragione infuso da Dio è capace da solo di giungere alla verità relativamente agli intelligibili, intesi però non come le realtà separate, bensì come le immagini astratte dalla materia sensibile. Qui sta la vera differenza con sant’Agostino, puntualizzata nel corpo del presente commento, q.1 a.1 ad 2m: “per quel che riguarda le conoscenze naturali, Dio ci ammaestra in quanto produce in noi il lume naturale e lo dirige verso la verità, mentre nelle altre conoscenze Dio ci ammaestra anche infondendo in noi un nuovo lume”113 . Il secondo articolo della prima questione pone la domanda “se la mente umana possa pervenire alla conoscenza di Dio”. Secondo le obiezioni sembra che non sia possibile alcuna conoscenza positiva di Dio. Dionigi Aeropagita nella sua Teologia mistica afferma che “nel grado più perfetto della nostra conoscenza non possiamo congiungerci a Dio se non come a qualcosa di ignoto”. Secondo sant’Agostino “Dio sfugge ad ogni forma del nostro intelletto” e, inoltre, esiste una incolmabile sproporzione tra finito ed infinito, tra l’uomo e Dio, tra l’intelletto umano, “qui est in aliquo genere”, e Dio che è “extra omne genus”. L’enunciato della quinta obiezione -“la quiddità [quod quid est] (…) funge da termine medio per dimostrare l’esistenza”- pone il problema di come possiamo noi dimostrare l’esistenza di una cosa partendo dalla sua definizione. D’altronde noi non possiamo conoscere il ‘quid est’ di Dio: come possiamo allora sapere che Egli esiste? 113

In effetti però lo sforzo di conciliazione è puramente verbale; è appena mascherata una opposizione irriducibile delle dottrine. Come nota Van Steenberghen “alcuni autori hanno cercato di attenuare questa opposizione studiandosi di trovare, per esempio, in sant’Agostino l’equivalente dell’astrazione e sostenendo tale ipotesi col carattere vago e immaginativo dell’esposizione del Dottore africano sulla conoscenza, dove la mancanza di precisione tecnica sfuma in qualche modo i contorni della dottrina” (cf Van Steenberghen, Le problème…, cit., 431). Tutti i buoni storici riconoscono in realtà che il contesto storico e il clima psicologico nel quale si sviluppa il pensiero di sant’Agostino sono radicalmente estranei all’aristotelismo che costituisce invece la base del ragionamento tomistico.

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A tal proposito Van Steenberghen si chiede se abbia un senso sapere che Dio esiste, ignorando completamente ciò che Egli è, e che interesse ha conoscere l’esistenza di una X. Ma nella responsio san Tommaso precisa che una cosa può essere conosciuta in due modi: “per formam propriam” e “per formam alterius similem sibi”. La pietra è conosciuta

dall’occhio

“attraverso

la

specie della pietra”; la causa e l’uomo

rispettivamente attraverso “la similitudine dell’effetto” e “la forma della sua immagine”. Nel primo modo di conoscenza, poi, la forma può coincidere con la cosa stessa –ed è la conoscenza propria di Dio e degli angeli- o derivare dalla cosa. In quest’ultimo caso la forma può essere ricavata per astrazione dagli oggetti conosciuti, alla maniera in cui il nostro intelletto conosce le realtà naturali; o attraverso la forma che la stessa realtà conoscibile imprime sulla nostra facoltà conoscitiva, al modo in cui –nel sistema avicenniano- le intelligenze celesti (e in primo luogo il dator formarum) imprimono direttamente le loro forme sulle anime umane. Rispetto a queste distinzioni, la conoscenza dell’uomo si può collocare solo nel secondo tipo, quella che dalla “forma dei suoi effetti” risale alla conoscenza dell’esistenza della causa. Infatti: noi non conosciamo le altre cose attraverso la loro essenza; né Dio può imprimere in noi la sua forma, dal momento che una forma infinita non può in alcun modo essere ricevuta da un intelletto finito; né infine possiamo conoscere l’essenza divina per astrazione, dal momento che il nostro intelletto agente è in grado di astrarre le verità intelligibili solo attraverso i fantasmi, le immagini che i sensi gli presentano. Inoltre, gli effetti consentono una conoscenza generale della causa solo quando sono ad essa pari o almeno proporzionati, ma non è questo il caso del rapporto tra le creature e il Creatore.

67

Questa conclusione si basa sulla distinzione per cui certi effetti eguagliano (in perfezione) la potenza della causa e ne rivelano, quindi, pienamente la natura; altri, invece, non eguagliano la causa (sempre rispetto alla perfezione) e tali effetti non permettono di conoscere la natura della causa, ma solamente la sua esistenza. In quest’ultimo caso la conoscenza dell’effetto gioca, nella dimostrazione dell’esistenza della causa, il ruolo che gioca la quiddità della causa in una dimostrazione d’esistenza a partire dalla forma della causa114 . Il che vuol dire che, nel nostro stato di viatori, noi possiamo giungere solo alla conoscenza “quia est”, poiché Dio eccede all’infinito qualsiasi creatura. Tuttavia, secondo quanto affermato da Dionigi Areopagita nei Nomi divini, per quanto non giunga che alla conoscenza dell’“an est” e mai del “quid est”, “la mente umana progredisce in tre modi nella conoscenza di Dio”: per via di causalità, se guardiamo all’efficacia della causa sui suoi effetti; per eminenza, se ci riferiamo alla similitudine della causa che resta negli effetti; infine per rimozione, in relazione all’aspetto per cui gli effetti si allontanano dalla loro causa. Sul piano metafisico, queste nostre forme di conoscenza di Dio si basano sulla proporzione che esiste tra creatura e Creatore. In genere essa è “un certo rapporto tra due cose che convengono reciprocamente in qualcosa” e lo fanno o secondo lo “stesso genere della quantità e della qualità”, o “in aliquo ordine”, ed è questo il caso della proporzione “tra la materia e la forma, tra chi fa e ciò che è fatto e in altri casi di questo tipo”. La proporzione del primo tipo è impossibile tra uomo e Dio visto che, come già osservato, “non conveniunt in aliquo genere”. 114

Allusione alla teoria aristotelica della dimostrazione dell’esistenza di una cosa: l’esempio tipico è quello dell’eclissi (la dimostrazione dell’esistenza futura di un’eclissi di sole a partire dalla definizione di quest’ultima), che in realtà mostra quanto sia impossibile questo genere di dimostrazione, poiché noi non conosciamo l’essenza della cosa: questo è quello che si verifica nella conoscenza di Dio e, più generalmente, in ogni conoscenza di una causa a partire dai suoi effetti. Il punto di partenza della dimostrazione non può dunque essere che la definizione reale dell’effetto, che a sua volta costituisce la definizione nominale della causa. Tutto il lessico è mutuato dal secondo libro degli Analitici Secondi.

68

Il secondo tipo, invece, essendo tra l’altro l’unico possibile “tra la potenza conoscitiva e il conoscibile”, si addice al rapporto uomo-Dio, ma l’infinito eccesso di quest’ultimo rispetto alla sua creatura non permette di “conoscerlo così come Egli conosce perfettamente se stesso”. Resta, però, fermo che Dio sarà conosciuto, come forma che coincide con la sua essenza, solo nella Patria Celeste, mentre nella nostra conoscenza terrena di Lui “le negazioni risultano vere, mentre le affermazioni sono inappropriate”, come dice Dionigi nel secondo capitolo della Gerarchia celeste. Infatti, ci resta ignota l’essenza di Dio (il suo quid est), ma “si può tuttavia conoscerne l’esistenza (il quia est)”. In realtà, la distinzione tra essenza ed esistenza vale solo nel nostro ‘status viae’ dove ci è possibile conoscere solo l’an est, mentre che Dio è uno e trino lo apprendiamo grazie alla fede e non riguarda la sua essenza. La conoscenza quia è quella relativa al puro darsi di una cosa o di un evento, in contrapposizione alla conoscenza della sua causa (propter quid). Conoscere il ‘che’ di una cosa (quia) equivale pertanto a conoscerne il ‘se è’, il semplice fatto che c’è. “In tale cammino della conoscenza, tuttavia, la mente umana può progredire soprattutto quando il suo lume naturale viene corroborato da una nuova illuminazione, quella cioè assicurata dal lume della fede e dai doni della sapienza e dell’intelletto, per mezzo dei quali si dice che la mente possa elevarsi al di sopra di sé nella contemplazione, in quanto riconosce che Dio è al di sopra di tutto ciò che può comprendere naturalmente”. Perciò è proprio nel rapporto col suo Creatore che la mente umana realizza se stessa al massimo grado. Alla base di questa soluzione data da san Tommaso, vi è la teoria aristotelica della scienza, supposta da san Tommaso. Per lo Stagirita la scienza propriamente detta è “scire per causas”, cioè deduzione delle proprietà di un soggetto a partire dalla sua essenza. Quanto all’esistenza del soggetto, la maggior parte delle volte essa è conosciuta

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attraverso l’esperienza, tuttavia può a volte essere dimostrata a partire dall’essenza e, in questo caso, la definizione serve di più all’argomento. In questo secondo articolo san Tommaso affronta dunque il principale avversario della ragione umana: l’agnosticismo, i cui argomenti sono respinti alla luce della dottrina di Dionigi. La conclusione di quest’articolo è che Dio è conosciuto per opposizione alle creature, cioè in maniera negativa. Nell’articolo successivo san Tommaso si chiede “se Dio sia il primum cognitum per l’uomo.” San Tommaso respinge la dottrina (resa poi celebre dopo la morte dell’Aquinate da Enrico di Gand, ma già diffusa in precedenza in ambito francescano) secondo cui Dio rappresenta il primo oggetto conosciuto dalla nostra mente. Approfondisce in tal modo la domanda dell’articolo precedente ed entra nell’ambito dell’ontologismo. Questa dottrina, agli antipodi dell’agnosticismo, è il fideismo di quanti pretendono fare di Dio il primo oggetto della nostra conoscenza in ordine cronologico. Stando a quanto già visto, la nostra conoscenza ha sempre inizio dai sensi e dagli oggetti sensibili, al punto che la stessa attività dell’intelletto agente presuppone la materia prima dei phantasmata su cui esercitare la propria capacità astrattiva. Secondo la posizione opposta, sembrerebbe, invece, che –“come la luce è nota all’occhio prima delle cose che sono viste per mezzo della luce, e i principi sono noti all’intelletto prima delle conclusioni”- così Dio, il fondamento che rende possibile ogni nostra conoscenza, sia “primum, quod a mente cognoscitur”. Nella risposta san Tommaso giunge ad affermare che è falso che Dio sia il primo oggetto della conoscenza umana; consistendo infatti la beatitudine dell’uomo nel conoscere Dio ‘per essentiam’, saremmo tutti beati già su questa terra. Né è giusto sostenere che non Dio sarebbe conosciuto per primo, bensì l’”influsso della sua luce”; di questa, infatti, la

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mente umana, l’abbiamo già detto, non può conoscere l’essenza (il quid est). Ma a ben vedere neanche l’esistenza (l’an est): questa infatti sarà sempre conosciuta per seconda, visto che ci accorgiamo di possedere un intelletto solo quando comprendiamo qualcosa e questo qualcosa sarà il nostro primo intelligibile. Pertanto, sia “secondo l’ordine delle diverse facoltà” sia “secondo l’ordine degli oggetti all’interno di una stessa facoltà”, Dio risulta comprensibile solo a partire da altro115 . Nel primo caso, infatti, i sensi precedono l’intelletto nella conoscenza; nel secondo l’intelletto agente rende intelligibili “le forme che astrae dai fantasmi” e non quelle separate (che sono già “ex se ipsis intelligibiles”): quelle e non queste sono le prime ad essere da noi conosciute. Prima di concludere questo articolo, san Tommaso dice che Dio è ‘per se notum’ “perché la sua essenza è il suo stesso essere (sant’Anselmo, Proslogion) ma non è invece noto per noi, perché noi non vediamo la sua essenza”. Importante è che san Tommaso non nega che “per mezzo dei principi innati possiamo facilmente percepire che Dio esiste”, ed è in questo senso che la nostra conoscenza di Lui si dice in noi innata. Come nota Van Steenberghen116 , il quesito svolto in questo articolo pone in termini abbastanza

nuovi

il

problema

dell’evidenza

dell’esistenza

di

Dio.

Tale

nuova

formulazione sarebbe dettata dalla maniera in cui l’autore affronta il problema della nostra conoscenza di Dio in questo scritto, come abbiamo visto nell’analisi del primo articolo.

L’articolo

comprende

infatti

due

sezioni.

Nella

prima

l’autore

rifiuta

categoricamente la tesi della conoscenza di Dio, tanto nella sua forma ontologica quanto

115

Come ricorda polemicamente l’Apostolo ai pagani e ai giudei che cercano di scusare con l’ignoranza di Dio la loro condota ingiusta. Cf Rm 1, 19-20: «…,poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute,…» 116 Cf F. Van Steenberghen, Saint Thomas d’Aquin contre l’évidence de l’existence de Dieu, Riv. fil. neosc., LXVI, 1974, 671-681.

71

in quella dell’illuminazionismo moderato. Nella seconda sezione, san Tommaso espone la sua dottrina. In realtà san Tommaso “si preoccupa di non scalzare l’autorità dottrinale del grande Dottore africano”, prendendo discretamente ma fermamente le distanze dalla dottrina agostiniana dell’illuminazione. Secondo sant’Agostino la nostra intelligenza conosce per prima cosa non l’essenza divina in se stessa, ma il ragionamento creato dalla luce intelligibile prima (influentia luminis ipsius). Per san Tommaso, dunque, l’illuminazione divina non ha altro effetto che dotarci di un’intelligenza capace di realizzare la propria attività naturale. Ma la nostra intelligenza non è l’oggetto primo della nostra conoscenza intellettuale: essa non è conosciuta se non attraverso una riflessione sulla sua attività, e questa stessa spiegata inizialmente dall’oggetto conosciuto. Il primo conosciuto per noi è il sensibile; e il primo conosciuto dall’intelligenza è il suo oggetto proprio, che è interamente forma astratta dal sensibile. Tra queste forme astratte, le prime conosciute sono le più estese, le più universali prima di quelle che lo sono meno, il tutto prima delle parti. Lo stesso ordine lo si ritrova nella conoscenza sensibile, dove le forme più generali ed estese sono percepite subito. Ponendo a confronto questo passo con altri dello Scriptum super Sententiis (1254) e del De Veritate, quest’ultimo contemporaneo al Commento al De Trinitate (1256-59)117 , Van Steenberghen rileva ancora che, se la prospettiva di questo articolo è differente, il problema fondamentale resta sempre lo stesso. In effetti, se Dio fosse il primo oggetto conosciuto dall’intelligenza umana, bisognerebbe porre necessariamente la sua esistenza come l’oggetto di un’evidenza immediata: il primum notum è necessariamente per se notum, perché ciò che non è evidente deve essere dimostrato e non è dunque il primo conosciuto. 117

Il Van Steenberghen nota inoltre che «…l’article du De Veritate était nettement une reprise de celui des Sentences, réorganisé et simplifié,…», Le problème…, cit., 431.

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Ma il parallelismo tra il terzo articolo del De Trinitate e gli altri due testi citati circa questa questione si limita alla tesi generale e a qualche citazione comune: a parte questo, lo sviluppo dell’articolo è nuovo. Il progresso qui realizzato consiste nel fatto che qui non è più alla base la prova anselmiana, ma la teoria agostiniana della conoscenza; inoltre, il problema della nostra conoscenza di Dio è trattato alla luce di un’esposizione solida e precisa circa la natura della conoscenza umana, nella quale san Tommaso opta decisamente per Aristotele contro il platonismo e l’agostinismo. “Il terreno è stato preparato dal primo articolo. Per lui l’uomo è un soggetto conoscente volto al mondo sensibile; la sua attività intellettuale è naturalmente ordinata all’attività dei sensi ed è da questi inseparabile su questa terra”118 . Un’analisi più approfondita del problema è la monografia sul ‘per se notum’ di Tuninetti che dà un taglio logico all’indagine sulla natura dell’autoevidente119 . A differenza di san Tommaso che discute i principi dell’evidenza120 , la gnoseologia boeziana non fa mai uso dell’espressione per se notum, ma il concetto è in lui ben presente e, nel suo commento al De Ebdomadibus, san Tommaso spiega che le espressioni termini, regulae e communis conceptio animi corrispondono all’idea di qualcosa che è evidente, ora ‘omnibus ora ‘solis sapientibus’. Del resto lo stesso Boezio nel suo proemio al De Trinitate dichiara che il linguaggio e la materia del suo trattato non sono accessibili a tutti, e san Tommaso nel quarto articolo della prima questione del suo commento al De Trinitate, dove si chiede “se le cose divine debbano essere velate con termini oscuri e nuovi”, cita le sacre Scritture: “Non date ai cani ciò che è sacro” (Mt. 7,6).

118

Ibid., 430. Rispetto a questo articolo, in quello successivo sullo stesso argomento del 1974 (…), Van Steenberghen mantiene la stessa posizione critica. 119 L. Tuninetti, “Per se notum”. Die logische Beschaffenheit des Selbstverständlichen im Denken des Thomas von Aquin, Brill, Leiden - New York - Köln 1996. 120 L’intera opera di san Tommaso declina nei contesti più diversi l’uso di questa espressione in contrapposizione a ciò che è ‘notum per aliud’ o ‘per alia’.

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Nella tradizione scolastica in cui san Tommaso si formò, vi sono esempi di come l’evidenza dei principi primi, possa corrispondere, mutatis mutandis, all’evidenza degli ‘articuli fidei’ della sacra doctrina. In realtà questi ultimi sono “principia probantia et non probata” (Rolando da Cremona) come accade invece in tutte le altre scienze subordinate. La teologia, a differenza di queste, parte da principi che nessun’altra scienza ha preventivamente dimostrato: essi sono ‘provati’ in Dio e presso tutte le sostanze separate. Essi sono tanto ‘conclusiones’ quanto ‘principia’ sui generis. Nella sua Summa aurea (1215-29) Guglielmo d’Auxerre distingue tra gli articuli fidei e i principi dimostrativi. Tale distinzione è il contributo del filosofo al riconoscimento dello status scientifico della teologia121 . Dunque, riferita alle ‘conclusiones’ la teologia è scienza, procede cioè secondo il ragionamento, anche se in un senso particolare. Infatti, continua il francescano Odo Rigaldi nella sua Quaestio de scientia theologiae (1245-47), in senso proprio la teologia non è affatto una scienza come le altre, perché i suoi principi presuppongono il sostegno della Grazia. La teologia è una scienza come le altre solo se si considera che anche in essa si può distinguere tra gli assiomi –verità a tutti accessibili, le assunzioni di base –gli articoli di fede- e le conclusioni. L’anonimo della Quaestio de divina scientia (1230-40) nella prima questione afferma a tal proposito che

“in scientia duo sunt: quandam per se nota, ut principia, quorum acceptio dicitur intellectus, et ex his per se notis sciuntur alia, ut conclusiones; et dicuntur ‘scita’ quae ex per se notis veniunt in notitiam. Hoc non est in theologia, cuius principia sunt articoli qui non noscuntur nisi per fidem; ergo quae sequuntur ex his, non sunt scita sed credita”.

121

Cf M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 86-87.

74

Autore di saggi importanti nella direzione di una “teologia deduttiva a partire da assiomi” fu Alano di Lilla

122

, che ha collegato la sua all’impresa perseguita da Boezio, in

particolare al suo opuscolo De ebdomadibus e alla teoria delle communes animi conceptiones, vocabolo stoico dei principi supremi: “la teologia, costruita su questi teoremi, su queste regulae, come si dirà allora, sarà nel senso più pregnante del termine, un’ars fidei (…). Di fatto, Boezio fornirà alcune tra le migliori di queste formule assiomatiche, e l’opera di Alano, le Regulae come l’Ars fidei, fu a volte posta nei manoscritti esplicitamente sotto la sua autorità”. La seconda di queste opere in particolare tentava di realizzare una costruzione assiomatica della teologia sul modello di Euclide. Di fronte a questa ricca tradizione san Tommaso conclude che “dell’esistenza di Dio non abbiamo alcuna conoscenza immediata in senso proprio (…). Inoltre, qualcosa o è autoevidente o è conclusione di una dimostrazione, ma l’esistenza di Dio è stata dimostrata anche dai filosofi antichi” ergo…123 . È questo il risultato della ricerca condotta dall’Aquinate nello Scriptum di commento alle Sentenze di Pietro Lombardo (1252-56), che nelle Questiones de Veritate (1256-59) riceve un’ulteriore precisazione. Qui l’Aquinate rifiuta la posizione di Mosè Maimonide, secondo il quale l’esistenza di Dio non è né in sé evidente né dimostrabile; quella di Avicenna, secondo cui Dio è solo dimostrabile; quella, infine, di Anselmo che, nel suo Proslogion, ritiene evidente l’esistenza di Dio e su questa certezza basa la prova della Sua esistenza. Infine, un ultimo aspetto sottolineato dal Tuninetti a proposito della posizione di san Tommaso rispetto a questa discussione. L’Aquinate si prefigge, caratterizzando l’evidenza di Dio, non di dimostrare quest’ultima, ma di prender atto che le cose stanno 122 123

M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 171. L. Tuninetti, “Per se notum”…, cit., 13.

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così. Aver definito le condizioni perché un’affermazione sia evidente o meno non vuol dire averne spiegato la ragione, ma solo che se queste condizioni si verificano allora ‘si verifica’ anche l’evidenza del principio. In altre parole la nostra conoscenza delle condizioni di tale principio non ne determina a sua volta l’evidenza reale. È un’operazione -quella della nostra mente- prettamente ‘a posteriori’. Questa osservazione ci serve per dire che la nostra intelligenza dell’evidenza di qualunque cosa è sempre seconda alla realtà di quell’evidenza stessa: come dire che la ragione è subordinata al dato. Introducendo le sue quinque viae per la dimostrazione di Dio nella Summa Theologiae I, q.2 a.1, san Tommaso chiarisce che la proposizione “Dio esiste” è vera, ma non evidente; di lui si sa cosa sia esistere, ma non che cosa sia Dio; diversamente, l’affermazione: “il tutto è più di una parte” è vera ed è evidente; di questa infatti conosciamo il valore dei due termini: tutto e parte124 . Il fatto che però di Dio sia proprio l’esistere, permette la via della dimostrazione della sua esistenza. Come afferma l’Apostolo, infatti, noi andiamo “come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi” (At 17, 27).

124

Citiamo i passi della Summa Theologiae nell’edizione a cura di Dal Sasso e Coggi, Compendio della Somma Teologica di San Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1989.

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2. La Trinità.

Nella nostra introduzione abbiamo osservato la centralità della questione trinitaria nell’ambito dell’opuscolo tomistico, nel senso che bisogna guardarsi dal considerare il dogma come frutto del caso e mero pretesto per una trattazione di metodologia scientifica. Per questo dedichiamo un intero capitolo ai luoghi in cui san Tommaso ha discusso razionalmente di tale dogma. Ma non è tutto. Il commento tomistico si ferma esattamente un attimo prima di entrare nel cuore del tema trinitario, e questo è un fatto. Tuttavia, solo al momento di tirare le conclusioni vedremo chiarite le ragioni di questa ‘scelta’ in ordine alla nostra personale proposta interpretativa. Ci sembra opportuno inserire nell’ambito di questa sezione il primo articolo della seconda questione che domanda “se sia lecito condurre un‘indagine sulle cose divine”, per poi passare al dogma trinitario. La citazione delle Sacre Scritture sembrerebbe già mettere a tacere qualunque tentativo della nostra mente di affacciarsi al divino; l’Ecclesiastico 3,22 recita infatti: “Non cercare le cose più elevate e non indagare su quelle più difficili”, e le cose di fede sono indubbiamente le più difficili. Secondo Pr. 25,27 “chi cerca di scrutare la maestà sarà schiacciato dalla gloria” e, come nota il Nostro, “una pena non può essere inflitta se non in ragione di una colpa”. Inoltre, Ambrogio afferma: “dove si richiede la fede, metti da parte gli argomenti”, e proprio “nelle cose divine […] si richiede in modo particolare la

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fede”. Sant’Ambrogio (nel de Fide) ammonisce che “non è lecito scrutare i misteri superiori; è lecito sapere che è nato, non discutere in che modo sia nato”125 . Per san Gregorio “fides non habet meritum, cui humana ratio praebet experimentum”. Ma è un male non riconoscere alcun merito alla fede: bisogna concludere che non è lecito argomentare razionalmente sulle cose di fede, quasi che la possibilità di dimostrare razionalmente alcuni articoli svuoti di senso e valore il dono della fede. Inoltre i misteri divini vanno onorati col silenzio: “dobbiamo quindi astenerci da ogni ricerca sulle cose divine”. Chi si muove tra le cose divine non ha alcun fine raggiungibile, perché “tra Dio e noi corre una distanza infinita”. La ragione avrebbe un moto in direzione dell’infinito e “nessuno si muove verso l’infinito, come dice il Filosofo”. Anche i sed contra trovano l’incipit in una auctoritas religiosa: “Siate sempre pronti a dare una risposta a chi vi chiede la ragione di ciò che accogliamo per fede” (1 Pt. 3,15). Ma solo la possibilità di un’argomentazione razionale sulle cose che appartengono alla fede permette che ciò avvenga. E uno dei ruoli fondamentali che la ragione riveste per la fede è opporsi ai suoi detrattori: infatti, “quelli che si oppongono alla fede non possono essere confutati se non per mezzo di argomenti”. Più specificamente sant’Agostino 125

Torna qui la distinzione, in Aristotele soltanto logica e in san Tommaso anche reale, tra essenza ed esistenza. Cf R. McInerny, cit., 241: “Aristotle recognized a logical distinction between essence and existence, but not their real distinction.” Roland-Gosselin chiarisce che la distinzione tra quod est e quo est, nel senso di opposizione tra esistenza ed essenza, è un’interpretazione sbagliata dell’originale definizione boeziana, in cui san Tommaso credette di poter rintracciare la dottrina da lui esposta nel De ente et essentia: “ Boèce, pas plus d’ailleurs qu’il n’admettait une matière dans les substances spirituelles (…), n’avait jamais songé à distinguer l’être de l’essence. En bon et strict aristotélicien, Boèce n’avait parlé que de substance première, ‘quod est’, et de forme ‘quo est’. Subito dopo lo studioso sottolinea che: “saint Thomas n’est pas responsable de la transformation que subit peu à peu la pensée de Boèce, à la faveur de l’équivoque à laquelle prêtait le terme ‘esse’, employé par Boèce, selon l’usage d’Aristote, au sens de forme, mais qui de lui-même en quelque sorte devait retomber à son usage normal et courant, et signifier le plus souvent: être, exister», M. D. Roland-Gosselin, Le «De ente et essentia» de saint Thomas d’Aquin, Vrin, Parigi 1948, XIX Così la Vanni-Rovighi: “In realtà Boezio intendeva con esse l’essenza e con quod est l’individuo; esse era per esempio l’umanità, il quod est l’uomo individuo; ma come alla teoria della composizione di materia e forma in ogni sostanza creata –teoria di Avencebrol- si cercò una paternità cristiana in Agostino, così alla teoria avicenniana della composizione di essenza ed essere si cercò una paternità cristiana in Boezio”, in: Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 52 nota 13. Infine, rimandiamo al De Libera, La filosofia medioevale, cit., in particolare pp. 38-40, per una puntuale analisi delle implicazioni e degli sviluppi della semantica boeziana attraverso Gilberto di Poitiers e Alano di Lille.

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chiarisce tale compito nel primo libro del suo De Trinitate: “con l’aiuto del Signore Dio nostro cerchiamo di spiegare anche ciò che ci chiedono, e cioè in che modo la Trinità sia un unico Dio”. La risposta si apre con la distinzione tra ragione, destinata “alla ricerca delle cose divine”, e intelletto, destinato “alla loro contemplazione”: entrambi testimoniano che “la perfezione dell’uomo consiste nel congiungersi a Dio con tutto ciò che è in suo possesso”. Cita a sostegno di quest’idea il bellissimo passo dell’Etica a Nicomaco126 :

“non bisogna però seguire coloro che consigliano all’uomo, in quanto è uomo e mortale, di limitarsi a conoscere le cose umane e mortali; al contrario, per quanto è possibile, bisogna cercare di farsi immortali e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi”.

Da questa posizione possono derivare tre occasioni di peccato: la presunzione di credere di essere “in grado di comprendere perfettamente” le cose divine; il razionalismo, far cioè precedere la ragione alla fede “in ciò che appartiene alla fede”, mentre dovrebbe essere il contrario; e, infine, “spingersi nell’esame delle cose divine oltre la misura delle proprie capacità”. In questo modo san Tommaso abbozza una chiara gerarchizzazione tra ragione e fede: sbaglia chi “intende credere solo a ciò che si può dimostrare con la ragione”. Alla prima obiezione san Tommaso risponde che ciò che eccede la misura umana è ciò che supera le capacità dell’uomo, e non quelle “digniora secundum naturam”. Ciò che importa è, dunque, che l’uomo si mantenga nell’ambito delle proprie possibilità conoscitive; mentre, se anche nel considerare le cose più piccole, qualcuno va al di là di esse, “incorre facilmente in errore”. Così si comportano gli eretici che “considerano oltre la misura conveniente o il creatore o le creature”. 126

X c.7, 1177b31-34.

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Nella responsio ad 5m san Tommaso distingue tra ragione dimostrativa e ragione persuasiva. Una cosa è, infatti, l’aiuto ‘negativo’ che la ragione può offrire alla fede, altra cosa quello ‘positivo’. Il primo porta all’assenso necessario di fronte agli ‘articuli fidei’, annullando di fatto la volontarietà, e quindi la libertà dell’uomo di fronte alla Rivelazione. La “ratio persuasoria”, invece, è “ricavata da alcune somiglianze e applicata a ciò che appartiene alla fede”, evitando così di svuotare quest’ultima del suo senso intrinseco. Abbiamo connotato l’una posizione come negativa e l’altra come positiva, in base al fatto che, “quantunque ciò che appartiene alla fede non possa essere dimostrato, non può neppure, d’altra parte, essere confutato in modo dimostrativo”; ma applicare la ragione per dimostrare necessariamente la fede sarebbe la più grande presunzione: non resta dunque che il ruolo della ragione quale ordinatrice dall’esterno degli articoli di fede. Essa in tal modo “non fa apparire evidenti i suoi (scil.: della fede) oggetti (dal momento che qui non ha luogo il processo di risoluzione nei principi primi che possono essere riconosciuti dall’intelletto)”. Ed è in questo quadro che dev’essere valutata la funzione del lumen fidei: esso non ci fa vedere direttamente Dio nella sua essenza, ci permette solo, via negationis, di riconoscere ciò che non possiamo propriamente conoscere. Da quanto detto già si profila la natura ancipite che san Tommaso riconosce alla teologia: essa procede in modo affermativo per quel che riguarda l’esistenza di Dio e le altre proprietà dimostrabili naturalmente; in modo negativo per tutto ciò che riguarda invece l’essenza divina. Per quanto riguarda poi il silenzio con cui onorare Dio, esso non è assenza di discorso mentale quanto il riconoscimento di come la nostra scienza attorno a Lui non è e non può essere “piena comprensione”.

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In merito al settimo arg., in effetti, tra noi e Dio c’è una distanza infinita e, perciò, Egli non può rappresentare in alcun modo lo scopo del moto della creatura; tuttavia, “ogni creatura tende ad assimilarsi sempre più a Dio per quanto le è possibile”, perciò la mente umana è naturalmente chiamata a conoscerLo. Si può dunque parlare di scienza divina, purché si tenga presente che in questa scienza il punto di partenza è comunque rappresentato dalla fede. Occupiamoci ora della nostra possibilità di conoscere la Trinità. Il quarto articolo della prima questione domanda “se la nostra mente sia in grado di pervenire alla conoscenza della divina trinità”. San Tommaso parte dall’idea che il concetto di trinità si ritrova tanto nelle creature, “enti in quanto enti”, che in Dio, “primo ente”. Questo permette di dire che “naturali ratione sciri potest quod in deo sit trinitas”. Fin qui le obiezioni: poi i termini del discorso si rovesciano. Nella risposta san Tommaso afferma che la trinità delle persone nell’unicità della sostanza di Dio “nullo modo potest demonstrative probari”. La nostra conoscenza di Dio, come già detto, parte infatti dagli effetti: “e pertanto con la ragione naturale possiamo conoscere di Dio solo ciò che può essere percepito a partire dalla relazione che gli effetti possiedono verso di Lui: ad esempio tutto ciò che indica la sua efficacia causale […]. La trinità delle persone, tuttavia, non può essere percepita a partire dalla stessa efficacia causale divina, dal momento che quest’ultima è comune a tutta la trinità” e che, quindi, non costituisce motivo di discrimen nell’ambito della sostanza divina. Rispondendo alle obiezioni san Tommaso dice che la molteplicità che si riscontra nelle creature è unità in Dio, perciò una trinità del mondo sensibile non prova nulla circa quella divina (si tratterebbe di pura associazione mentale, assolutamente non necessaria in merito “ad personarum distinctionem”).

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Alla sesta obiezione -che stabiliva esserci in Dio “una forma di comunità” in base alla considerazione che “non vi può essere possesso felice di alcun bene al di fuori di una comunità” (e in Dio vi è il massimo bene)- san Tommaso risponde che “Deus autem maxime est sibi sufficiens” e, quindi, non ha necessariamente bisogno di una vita trinitaria (comunitaria) per essere sommamente felice. La settima obiezione affermava, in base alla necessità della trinità, la connessa necessità dell’esistenza a tal riguardo di “argomenti non solo probabili, ma anche necessari” (Riccardo di S. Vittore, De Trinitate, libro I). Ebbene, l’Aquinate risponde riprendendo la distinzione tra ciò che è evidente per sé e ciò che è evidente per noi. Pertanto, tutto ciò che è necessario ed evidente (autoevidente) non rientra altrettanto necessariamente nelle nostre capacità razionali. San Tommaso conclude questa prima questione dicendo che “con la ragione naturale si può arrivare a conoscere che Dio esiste (an sit), ma non che è uno e trino”, nemmeno il senso religioso dell’uomo può questo. Circa la fermezza con cui san Tommaso preclude alla ragione umana qualunque possibilità di affermare la trinità, e che è espressa dal fatto che secondo l’Aquinate questo non è possibile nemmeno per remotionem, Van Steenberghen propone l’ipotesi che “forse egli vuol dire che il concetto di trinità è un concetto positivo e come tale non può essere attribuito a Dio attraverso la semplice negazione delle imperfezioni delle creature”127 . A nostro avviso quest’ipotesi è credibile: san Tommaso nel corpo dell’articolo (resp. ad primum) ha affermato che la Trinità divina non è in alcun caso rapportabile a quella che si può ritrovare presso le creature. Non vi è dunque una differenza tale che la modalità

127

F. Van Steenberghen, Le problème…, cit., 432.

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della partecipazione possa colmare per via negativa: anche formalmente i due livelli sono incompatibili; ne resta una semplice associazione d’idee. Tutta la lectio secunda espone le ragioni del credente di fronte al dogma trinitario, offrendo significativi esempi dell’applicazione del metodo razionale tomistico all’ambito del dogma. A questo punto dell’opusculum san Tommaso inserisce infatti il primo capitolo del De Trinitate di Boezio e poi la sua esposizione letterale. Seguono altre due questioni, la terza e la quarta, la prima delle quali è incentrata sulla fede e pone una serie si domande: se essa sia utile o fin’anche necessaria all’uomo; quale rapporto abbia essa con la religione; se una fede obbediente al dato rivelato possa e a quale titolo dirsi cattolica; infine, quale sia il suo ruolo di fronte al dogma trinitario. La fedeltà al testo boeziano è chiara: l’incipit del primo capitolo del De Trinitate recita infatti: “Christianae religionis reverentiam plures usurpant; sed ea fides pollet maxime ac solitarie quae (…) catholica vel universalis vocatur”128 . Dunque, la terza questione in particolare ci pare si possa ancora ritenere, assieme alla vera e propria expositio del testo, parte integrante dei preliminari. Il tema così approfonditamente trattato conferma la tesi dello Chenu secondo cui san Tommaso fu prima di tutto teologo, e nella sua teologia approfondì gli elementi di novità che la rivoluzione culturale del suo tempo faceva emergere129 . Il primo articolo della terza questione indaga “sulla comunione della fede”. Secondo Boezio la fede si fonda non su un’affermazione umana, ma su una certezza fondata sul soprannaturale: la dottrina ortodossa attorno alla Trinità afferma che non vi è differenza tra le Persone divine, tutte e tre sono lo stesso unico Dio. Egli divide il problema

128

Decker, 101. Così anche la Vanni-Rovighi: “Tommaso d’Aquino fu e volle essere teologo”, e aggiunge che non bisogna dimenticare che “fu teologo a modo suo (…), e che nella sua concezione della teologia l’indagine razionale (ossia la filosofia) ha un posto e una funzione essenziale”, cf Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 40. 129

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trinitario in due parti: l’unità dell’essenza contro gli Ariani (cap. I) e la trinità della persone contro Sabellio (cap. III, che san Tommaso non commentò). Abbiamo visto come Boezio fosse legato alle circostanze storiche delle controversie dottrinali

che

contrapponevano

l’Occidente

all’Oriente:

perciò

la

sua

prima

preoccupazione è affermare con forza l’esistenza di una sola autentica fede cristiana, superiore a tutte le eresie. Secondo la sua stessa etimologia l’eresia sceglie una parte della dottrina rivelata e ne fa nascere una ‘setta’: a questo nuovo centro si possono sottomettere diverse corrente ereticali, tributando ad esso la reverenza propria solo della fede cristiana, che riconosce l’unica vera autorità in Dio. Affrontare il dogma della Trinità vuol dire prima d’ogni altra cosa fondare il principio e la causa della fede cristiana. Tutto il commento di san Tommaso ai primi due capitoli di Boezio consta perciò dell’indagine sulla fede e sulla Trinità. Più precisamente san Tommaso tratta il tema del significato della fede considerandolo nel suo rapporto con la religione e non più come seconda via della conoscenza umana. Come contenuto delle verità divine, che non sono immediatamente percepibili dai sensi, gli articoli di fede sono privi di evidenza. Sembra dunque che non ci sia alcuna possibilità per la mente dell’uomo di superare la carenza di intelligibilità. In realtà questa conclusione di san Tommaso mira ad evitare l’errore di equiparare verità naturali e soprannaturali, per non mescolare i due ambiti e per lasciare sempre tra i due una zona d’ombra su cui la nostra mente può continuare a gettare luce. Per quanto detto, almeno il primo e l’ultimo articolo di questa questione possono essere considerati esemplificazioni del rapporto tra la ragione e il dato, ora della tradizione cristiana ora della rivelazione.

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Scendiamo ora nello specifico della questione trinitaria che trova ampio spazio nella quarta questione. L’intera questione 4 si occupa infatti del problema della pluralità e di ciò che ne è la causa. San Tommaso approfondisce ulteriormente il concetto di differenza, continuando a seguire il testo boeziano là dove dice: “Ora, la differenza secondo il numero è prodotta dalla varietà degli accidenti”. Nella risposta san Tommaso cerca di fare chiarezza nella terminologia partendo dalla definizione della triplice diversità di cui parla il testo di Boezio: come l’identità, “anche la diversità può dirsi in base al genere, alla specie e al numero”. Anche qui emerge chiaramente il realismo tomistico. L’Aquinate si propone di indagare la causa di queste diversità con riferimento al fatto che in ogni individuo composto si possono considerare tre aspetti: la materia, la forma e il composto stesso, cioè il singolo individuo. La diversità secondo il genere si riduce alla diversità della materia, quella secondo la specie alla diversità secondo la forma, “mentre la diversità numerica si riduce in parte alla diversità della materia, e in parte alla diversità degli accidenti.” Il genere non è però conoscibile attraverso la materia considerata in se stessa, essendo questa “secundum se ignota”, bensì attraverso la materia considerata sotto l’aspetto per cui è conoscibile. “E la materia è conoscibile in due modi: per analogia o proporzione”, come il legno rispetto all’albero, cioè in rapporto alle cose naturali; o “per mezzo della forma, attraverso cui la materia possiede l’essere in atto”. Ogni cosa infatti passa dalla potenza all’atto perché la propria materia è ‘investita’ dalla forma, ed è questo passaggio che rende conoscibile la materia. Alla stessa maniera la diversità del genere si ricava in due modi: sulla base del diverso rapporto analogico nei confronti della materia dei diversi generi (sostanza, quantità e qualità, per esempio, hanno un modo peculiare di ‘trattare’ la materia, che è di volta in volta diverso), ed è il caso dei cosiddetti ‘generi sommi’ o categorie; ma anche,

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poiché la materia è perfezionata dalla forma, attraverso la considerazione che “il perfezionarsi della materia nell’atto, che è la forma, consiste nel partecipare –per quanto imperfettamente- a una determinata similitudine dell’atto primo, in modo tale che ciò che risulta composto di materia e forma sia in qualche modo intermedio tra la potenza pura [la materia] e l’atto puro [Dio]”. In quest’ultimo caso il genere non è mai in rapporto con la nuda materia, ma con una materia già sempre accompagnata da una determinata forma. La similitudine con l’atto primo è la forma e assume diversi gradi di perfezione: alcuni enti infatti sussistono, altri vivono, altri conoscono e altri, infine, comprendono. “Ciascuna forma rimane tuttavia unica e identica: la similitudine più perfetta include infatti tutto ciò che possiede quella meno perfetta, oltre a qualcosa di più”. L’insieme di materia e forma così definito (il ‘sinolo’ aristotelico) è ancora ‘materiale’, nel senso lato di qualcosa di potenziale che funge ancora da materia per una perfezione superiore, rispetto ai gradi dell’ascesa verso la perfezione assoluta. Proprio questa maggiore o minore prossimità alla perfezione dell’atto primo ci permette di dire che la materia è il principio delle differenze generiche. Ma in quell’insieme, come appena anticipato, è presente anche la forma che fa sì che la materia partecipi in maniera più o meno elevata della perfezione della causa prima: le differenze formali sono, possiamo dire, l’altro lato della stessa medaglia, dello stesso ente che tende alla perfezione. “Così dunque risulta chiaro in che modo la materia determini la diversità nel genere e la forma determini la diversità nella specie”. In generale quindi le parti del genere e della specie sono rispettivamente materia e forma, di conseguenza l’individuo singolo sarà formato da questa materia e questa forma, e le variazioni di queste ultime producono la diversità numerica. La forma presa in generale rimarrebbe, però, uguale a se stessa se non si unisse alla materia e ricevesse da questa la distinzione. Non si può trattare, quindi, di una materia presa per sé -ché sarebbe ancora

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priva di differenziazioni- bensì di “hac materia distincta et determinata ad hic et nunc”. Ciò a sua volta è reso possibile dalla categoria della quantità, senza la quale la sostanza risulterebbe indivisibile, e più in generale dal fatto che la materia è signata, cioè soggetta alle dimensioni. Le dimensioni però possono essere ‘terminate’, avere cioè “una misura e una figura determinate, così che possano essere collocate, come enti perfetti, nel genere della quantità”; oppure ‘interminate’, senza cioè tale determinazione, quantunque non possano mai realmente sussistere soltanto nella loro natura di dimensioni, “e in tal modo esse si collocano nel genere della quantità come qualcosa di imperfetto”. È solo in virtù di quest’ultimo tipo di dimensioni che la materia diventa questa materia, che a sua volta individualizza la forma. Le dimensioni terminate non permetterebbero di distinguere più individui all’interno della stessa specie, mentre le dimensioni interminate ci danno la posizione determinata che la materia occupa di volta in volta nello spazio. Infatti, nel caso in cui san Tommaso avesse preferito applicare all’individuo dimensioni già connotate, avremmo avuto la paradossale conseguenza di perdere la certezza dell’identità numerica (pari a uno!) di uno stesso individuo. Questa soluzione ha fatto parlare di un duplice approccio di san Tommaso al problema dell’individuazione delle sostanze composte, indispensabile per la duplice esigenza di spiegare da un lato gli elementi comuni, dall’altro la divisione delle forme sostanziali in individui della stessa specie. Rispetto alla posizione di Boezio san Tommaso recupera il fatto che alcuni accidenti fungono da causa della diversità numerica: le dimensioni, infatti, sono anch’esse accidenti, appartenenti al genere della quantità; ma va specificato che il loro ruolo è indissociabile da quello della materia. Gli altri accidenti, invece, fungono da principio di conoscenza della distinzione degli individui, e solo in quest’altro senso si può dire che concorrono all’individuazione.

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Il principio che regola la distinzione è dunque la materia signata che, rispetto all’uomo, è questa carne e queste ossa dell’individuo concreto, e non la carne e le ossa in generale (‘materia comune’), che rientrano nella sua definizione fisica e non nella sua individuazione. Su questa base san Tommaso discute le ultime righe del primo capitolo del testo boeziano, chiedendosi nel terzo articolo se due corpi possano sussistere o possano essere pensati nello stesso luogo. Secondo Boezio “due corpi non potranno occupare uno stesso luogo” perché, anche se astraiamo tutti gli accidenti dall’oggetto, resta comunque diverso il luogo, che è un accidente a sua volta: i tre uomini dell’esempio boeziano possono dunque occupare un luogo diverso perché sottomessi alla contingenza degli accidenti. Le sostanze separate non rientrano in questa differenziazione. Ci sembra evidente che questa posizione è al limite dell’eresia, poiché per evitare la subordinazione ariana, finisce col propendere più per l’indifferentismo trinitario, estrema conseguenza del Monofisismo. In effetti però, come già notato, più che prendere posizione nella controversia dottrinale, Boezio voleva approfondire speculativamente il mistero trinitario. La duplice valenza della posizione boeziana può a nostro avviso essere ricondotta al fatto che in lui coesistono indiscriminatamente il logico e il filosofo. A tal proposito è interessante vedere come san Tommaso distingue i due metodi di indagine. Il logico non considera alcuna differenza tra l’ambito delle sostanze corruttibili e quello delle sostanze incorruttibili, che appartengono evidentemente per il metafisico a generi qualitativi diversi. Il metafisico dunque distingue le sostanze separate da quelle derivate, ed è su questa base che san Tommaso considera il rapporto tra il naturale e il soprannaturale secondo una sintesi tuttora insuperata. Tale distinzione si basa sul fatto

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che il logico considera ogni genere sempre nel suo aspetto formale, mentre il metafisico considera tanto l’aspetto formale quanto quello materiale130 . Potrebbe stupire che le poche righe di Boezio diano modo a san Tommaso di costruire un intero articolo; stupisce meno, e aiuta a capire la presa di posizione dell’Aquinate, quando si consideri la storia cui il problema è legato. Il problema sollevato è uno, ma si dirama e si articola in diversi sottoproblemi che vanno dalla filosofia della natura alla metafisica. Nel suo commento al De Trinitate san Tommaso accenna a tale problema già nella seconda questione, art. 3 ad 5m, con l’esempio dell’acqua e del vino che, uniti assieme, non restano due cose diverse giustapposte, ma assumono una nuova sostanza. Il secondo punto è nella quarta questione, art. 2 ad 3m, e il problema è finalmente affrontato nella risposta alla sesta obiezione del terzo articolo della medesima questione. I problemi sono: la sostanza dei composti, il principio di determinazione delle sostanze corporee e, infine, l’unione dell’anima con il corpo (se e come ciò possa avvenire). Il problema è impostato in maniera logica da Boezio e, per quanto appena notato, esige ore la correzione dell’Aquinate. Dapprima la posizione di Boezio è smentita da otto argomenti che spaziano dal campo della logica formale –in cui vale l’assurdo che affermazione e negazione possono essere vere nello stesso tempo131 - a quello dell’autorità scritturale, fino all’astrologia tolemaica. 130

La distinzione del genere si ricava da una materia che è già un composto in cui è presente l’elemento formale, perciò le definizioni del logico e quelle del filosofo naturale (e del metafisico) non possono sempre coincidere. 131 L’affermazione ‘due corpi sono nello stesso luogo’, infatti, non implica ripugnanza tra i concetti coinvolti perché nel soggetto non è incluso l’opposto del predicato; se così non fosse, se cioé tale proposizione fosse considerata impossibile, sarebbe impossibile anche che per miracolo due corpi occupino lo stesso luogo. In realtà, anche l’interpretazione dello Elders (cit, 81) su questo punto, per la verità poco approfondita, sembra rilevare più la dimostrazione qui dell’ubiquità di un unico corpo –con particolare riferimento a quello del Cristo risorto- che non la compresenza simultanea di due corpi in luogo solo. Nella sua risposta a questa prima obiezione, san Tommaso distingue due casi di proposizione non vera: nel primo neppure un miracolo può far sì che essa si verifichi (p. es. “razionale è irrazionale”); nel secondo, ed è quello che interessa qui, bisogna considerare un certo punto di vista. In quest’ultimo caso calza l’esempio di un morto che torni in vita (escluso che il ‘morto’, essere “ormai privo di qualsiasi principio di vita”, possa resuscitare per propria capacità): un miracolo può, infatti, intervenire e far sì che qualcosa di

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Ci soffermiamo ora sul contenuto della responsio ad 6m. Secondo la sesta obiezione in un composto “gli elementi non si corrompono nel misto”: ognuno dei quattro elementi è presente assieme agli altri nello stesso luogo (il composto) e secondo il proprio moto naturale. Si tratta del grosso problema del rapporto tra la forma sostanziale e il corpo e della loro unione nel singolo. Per la storia della filosofia e della scienza della natura della tarda Scolastica il problema presentò un certo motivo d’interesse: la Scolastica non ha infatti cercato di trovare un’interpretazione per la costituzione della sostanza materiale che concordasse con le basi della sua metafisica, a differenza di quanto faceva nel campo delle scienze naturali. Una sostanza materiale è per la filosofia scolastica da un lato un “compositum” di materia e forma, d’altro lato un misto dei quattro elementi (acqua, aria, fuoco, terra). In questa doppia interpretazione coincide la metafisica aristotelicoscolastica con la dottrina degli elementi, che dal canto suo rappresentò nel Medioevo un sistema a parte. Ad Averroè era già evidente l’ambiguità dell’unione di più elementi, ora individuum ora miscuglio di più sostanze individuali. Ma in realtà i due aspetti della questione confluirono nel problema di come dovesse intendersi la possibile coincidenza di compositum (di materia e forma) e mixtum (di quattro elementi). La Scolastica ha ereditato in merito le due soluzioni principali della filosofia araba (l’avicenniana e l’averroista); contrastando però entrambe con i principi fondamentali della metafisica aristotelico-scolastica, essa ne fornì una terza, quella tomistica, che evitava le difficoltà per cui le altre erano fallite. Veniva salvato il lato metafisico a

apparentemente contraddittorio si realizzi. In modo miracoloso può dunque accadere che due corpi si trovino nello stesso luogo. Non esisterebbe, dunque, alcuna impossibilità metafisica che due corpi siano nello stesso luogo: “God can provide a basis for the distinction of bodies without the division of matter” (cf G. Thery, L’augustinisme médiéval et le problème de l’unité de la forme substantielle, Revue de philosophie, XXX, Parigi 1930, 660-689, 662).

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discapito di quello filosofico-naturale; questo fu allora sufficiente, visto che i problemi delle scienze naturali rimanevano ancora ai margini della sfera dell’interesse speculativo. La soluzione tomistica, la voce della scolastica più matura, esclude che gli elementi si mantengano nel misto substantialiter; è invece che le forme elementari delle sostanze vengono distrutte e solo le loro qualità partecipano al miscuglio. Anche contro questa soluzione si sollevano una serie di obiezioni. Ma san Tommaso afferma anche che dalle qualità elementari si sviluppa una qualità intermedia, che conserva qualcosa di entrambi gli estremi; come i colori medi conservano qualcosa degli estremi, per esempio il pallidum qualcosa del nero e del bianco. La qualità media così sviluppata è la propria qualitas mixti e contemporaneamente la propria dispositio ad formam corporis mixti, proprio come le qualità semplici sono le ‘propriae dispositiones’ per le forme elementari. Per san Tommaso ogni forma esige una previa disposizione della materia nella quale essa deve venire accolta, e questa disposizione ha il carattere di una alteratio ed è un fenomeno che si svolge a livello delle qualità e che prepara la generatio (la nascita della forma sostanziale). La responsio di san Tommaso concentra l’analisi speculativa sul problema centrale della questione: la possibilità che più corpi occupino lo stesso luogo. Nelle cose che sono presso di noi questo è evidentemente impossibile: sappiamo, perché lo sperimentiamo ogni giorno, che “quando in un determinato luogo sopraggiunge un corpo, da quello stesso luogo ne viene espulso un altro”. Ma non si può accettare la conclusione di alcuni, secondo i quali ciò è dovuto ad una caratteristica essenziale dei corpi, ché altrimenti questi non potrebbero stare in nessun caso insieme. Due corpi possono stare in rapporto al luogo in due modi: in un primo caso in relazione ad un determinato luogo; nel secondo modo in base alla stessa natura corporea degli oggetti, per cui essi sono ‘essenzialmente’ in un luogo, non per caratteristiche esterne, ma per la somiglianza tra le dimensioni del

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corpo stesso e del luogo in questione. Le dimensioni ineriscono, infatti, ad ogni corpo senza alcuna eccezione e questo, assieme al fatto che qui si tratta non di un determinato luogo ma del luogo “inteso in senso assoluto”, ci porta a dire che la causa del fatto che più corpi non possono essere contemporaneamente nello stesso luogo “deve essere ascritta alla natura stessa della corporeità”. Per la sua soluzione del problema san Tommaso si richiama anche alla Fisica di Avicenna il quale, escludendo che né la forma né la materia presa in se stessa siano ciò a cui conviene d’essere propriamente nel luogo, ammette come necessario che sia la materia in quanto tridimensionale a rapportarsi al luogo. Perciò, è impossibile che più corpi così intesi possano occupare lo stesso luogo, in quanto essi finirebbero col coincidere: verrebbe, infatti, a mancare l’unico elemento che li distingueva, e cioè le dimensioni, che starebbero nello stesso e identico rapporto con lo spazio. È, dunque, la natura stessa della corporeità ad impedire che due corpi occupino lo stesso luogo. L’Aquinate segue fino ad un certo punto Avicenna, mentre poi nella responsio ad sextum preferisce l’interpretazione di Averroè, che permette il passaggio ad una soluzione del problema sul più conveniente piano metafisico. Nella risposta alla sesta obiezione san Tommaso prende dunque chiaramente la sua posizione: se pure si ammette col sesto argomento che gli elementi permangono nel corpo misto secondo la loro forma sostanziale, non si può però ammettere che vi rimangano come corpi in atto, altrimenti “nessun corpo misto sarebbe veramente uno, mentre di fatto è uno in atto e molti in potenza”. Per san Tommaso la tesi più attendibile è quella di Averroè, contenuta nel Commento al terzo libro Sul cielo e il mondo: le forme degli elementi né rimangono nel misto né si corrompono totalmente; “da esse, in quanto assumono gradazioni differenti, risulta una forma media.” Le forme elementari, dunque, si ritrovano, le une più le altre meno, nel

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misto, ma qui necessita per san Tommaso un accorgimento: a condizione che questo avvenga in maniera virtuale nelle loro qualità proprie, queste ultime soltanto si uniscono per formare una qualità media, poiché le forme sostanziali non sono suscettibili di più e di meno. Le qualità elementari rappresentano, perciò, quasi i “propria instrumenta” delle forme le quali, “secundum se”, non permangono, lo possono fare solo perché conservate e ‘veicolate’ nelle qualità. Ridotto in estrema e logica sintesi, tutto si concentra sul rapporto tra le qualità proprie degli elementi e la qualità media propria del misto. Ponendo le prime come estremi e la seconda come sintesi tra questi, possiamo dire che la qualità media non contiene gli estremi come partes sui, né come componenti reali, bensì ‘secundum quandam convenientiam’, nel senso che essa ha con entrambi in comune qualcosa che le qualitates contrariae non hanno in comune tra loro. Le qualità estreme non causano quella media, né esse sono realiter in essa contenute, esse hanno con la qualità media solo una certa similitudo. Si vede come, partita dalla domanda boeziana “se due corpi possano sussistere o possano essere pensati nello stesso luogo”, la questione è condotta da san Tommaso attraverso l’attualità dell’unione dell’elemento spirituale con quello materiale e di quanto resti della loro sostanza nel nuovo individuum. Facciamo solo un’ultima osservazione sulla responsio. San Tommaso accenna sin d’ora la distinzione tra il metodo matematico e quello filosofico. In precedenza, (resp. art.2), san Tommaso aveva delineato la differenza tra il logico e il filosofo in base alla formalizzazione che la logica opera della materia da trattare. Qui egli, sulla base del fatto che l’estrema irriducibilità di un corpo rispetto al luogo risiede nella materia, osserva che “gli argomenti matematici non possiedono in questa materia un sufficiente valore dimostrativo”: le realtà naturali, infatti, posseggono qualcosa che gli enti matematici non

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presentano, e cioè la materia sensibile. La filosofia poggia sul solido terreno della realtà che i nostri sensi avvertono quotidianamente ed ha per oggetto la natura contemplata con il lume dell’intelletto: questo è importante per non confondere la metafisica, che è la quinta essenza della filosofia, con astrazioni prive di contenuto oggettivo, cioè con una disciplina priva di qualunque terreno di confronto con le altre scienze. Ciò che è rimasto irrisolto anche in san Tommaso è cosa ne sia delle qualità, visto che la forma sostanziale degli elementi deve essere distrutta nella realizzazione del composto e che a entrare in gioco in quest’ultimo è la qualità media, che costituisce la qualitas propria del misto. Il problema non è di poco conto: trattando della Trinità, infatti, si poneva l’imbarazzo se le singole Persone che la compongono restano o meno con le proprie peculiari determinazioni, se cioè queste vanno perdute nel formare l’unità perfetta delle tre diverse sostanze, o se invece resti come insopprimibile la loro individualità. Si tratta, dunque, di capire se le prime qualità dipendano o no dalla forma sostanziale e se esse si sviluppino e muoiano con la qualità media del composto, e se quindi la forma stessa introdotta nella materia determini o no dal canto suo una qualitas media. Tuttavia, è questo lo sviluppo più completo della teoria dell’Aquinate: il mantenimento dell’identità numerica delle qualità nel cambiamento della forma sostanziale. Ma a questo punto, e infine, sembra che il cerchio si chiuda tornando ad Avicenna: alla domanda ‘come si mantengano nel misto le qualità degli elementi’, san Tommaso risponde che le qualità operano solo in virtute formae substantialis e che, per questo, nel misto restano le virtutes delle forme elementari. In altre parole: le forme sostanziali degli elementi vengono conservati in virtute (o virtualiter) nel composto; col che viene anche realizzata la formula aristotelica: “salvatur enim virtus eorum.”

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L’alternativa non si giocava, dunque, tra il reale mantenimento e il rapporto di similitudine delle qualità, bensì tra la semplice distruzione e il “manere secundum quandam convenientiam”. “Das ist also die ‘tertia opinio’, die neben die Thesen Avicennas und Averroes’ tritt und mit diesen zusammen den Ausgangspunkt bildet für die Diskussion des Problems im späten 13. und 14. Jahrhundert”132 . Possiamo, perciò, concludere col Roland Gosselin che “tutti gli elementi nuovi della teoria dell’individuazione si trovano raccolti nella bella sintesi che si legge nel Commentario al De Trinitate di Boezio, nel quale è giusto vedere il compimento delle opere precedenti” 133 . L’ultimo articolo di questa quarta questione ribadisce in una prospettiva diversa quanto già detto: la domanda “se la varietà del luogo contribuisca in qualche modo alla differenza numerica” non è una ripetizione o pura obbedienza alla forma del commento, ancora una volta essa riallaccia coerentemente l’analisi fisica all’argomento trinitario. “La diversità numerica è causata dallo stesso principio da cui viene causata la necessità della diversità dei luoghi in corpi diversi”, e cioè la materia soggetta alle dimensioni, la ‘materia signata’. Per questo Boezio può affermare che la diversità dei luoghi, essendo tra tutti gli accidenti il più vicino alla causa della diversità numerica, può esserne considerata non solo il suo segno esterno, ma appunto la sua causa. Boezio ha ragione se ammettiamo che individuazione e luogo hanno la medesima radice. Nelle singole risposte agli argomenti in contrario, san Tommaso spiega meglio questo concetto importantissimo: si tratta della categoria analogica del ‘segno’. Tutti gli accidenti, escluse le dimensioni interminate, non sono propriamente la causa della

132

A. Maier, An der Grenze von Scholastik und Naturwissenschaft. Studien zur Naturphilosophie des 14. Jahrhunderts, Essener Verlagsanstalt, Essen 1943, 40. Si veda, inoltre, G. Thery, cit. Per un’analisi più diretta della dottrina tomistica sull’argomento, invece, si veda: Summa contra Gentiles, II, c. LVI; Summa Theologiae, I, q. LXXVI, a.4 e Le Correctorium corruptorii Quare (ed. P. Glorieux, Bibl. Thomiste IX, 1927), in primam partem Summae art. XLVIII (p. 203 e sgg.). 133 M. D. Roland-Gosselin, cit., 107.

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diversità numerica, quanto un suo segno indicativo, “e ciò vale soprattutto per la diversità locale, che ne è il segno più immediato.

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Capitolo IV: la scienza teologica.

1. La teologia tra sapienza e scienza.

Innanzitutto, bisogna chiedersi se sia appropriata la classica suddivisione della filosofia speculativa nell’ordine proposto da Boezio: naturale, matematica e divina. Il ragionamento di san Tommaso si fonda su due considerazioni. Prima di tutto l’idea che il soggetto della matematica e della fisica sono parti del più grande soggetto trattato dalla metafisica. In seconda istanza, il fatto che si è ormai consumato il passaggio dalla metafisica dell’ente alla teologia, scienza divina quale scienza del primo ente, che è Dio. E questo secondo passaggio si lega automaticamente al primo: “il soggetto della scienza divina, che è la filosofia prima, è infatti l’ente, di cui la sostanza mobile, di cui si occupa il filosofo naturale, non è che una parte”. San Tommaso conferma l’ordine proposto da Boezio. La fisica e la matematica sono per noi anteriori, poiché ogni conoscenza umana inizia dai sensi. La teologia, infatti, ha bisogno innanzitutto delle nozioni determinate dalle scienze naturali e poi della matematica, che la aiuta nello studio delle sostanze separate. Tutte le altre scienze, infine, “concorrono al suo compimento ottimale”. Non bisogna però intendere questo mutuo rapporto come un circolo 134 : se è vero, infatti, che “la metafisica da una parte presuppone cose che vengono provate in altre scienze, e

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Sicuro riferimento ad Avicenna Metafisica I, cap.3. Rimandiamo a J. F. Wippel, Aquinas and Avicenna on the relationship between first philosophy and the other theoretical sciences (In De Trin., q. 5, a. 1 ad 9), in Metaphysical Themes in Thomas Aquinas, Studies in Philosophy and the History of Philosophy, X, The

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dall’altra provvede essa stessa a provare i principi delle altre”- non si può dire che esista un rapporto di questo tipo tra i principi che la scienza naturale riceve dalla filosofia prima e l’uso che quest’ultima ne fa. Il filosofo primo, infatti, prova le cose che riceve dalla filosofia naturale attraverso “alia principia per se nota”, e similmente il filosofo primo non prova i principi che consegna a quella naturale per mezzo dei principi che riceve da quest’ultimo, ma ancora “per alia principia per se nota”. Non si dà, dunque, alcun circolo, quanto piuttosto uno scambio biunivoco tra la teologia e le altre due scienze. Inizialmente, infatti, sono per noi più noti gli effetti sensibili, tant’è che la nostra conoscenza procede ‘a posteriori’, cioè attraverso una demonstratio quia che ci fa apprezzare solo l’esistenza, il ‘che’ di una cosa, il suo ‘se è’ (an est). Giunti alla conoscenza delle cause prime, possiamo invece ricavare il ‘propter quid’, che spiega la causa che è dietro “quegli effetti di cui ci eravamo serviti per la dimostrazione dell’esistenza (quia) delle cause”. In tal modo la scienza naturale aiuta la scienza divina consegnandole la sua osservazione dei dati sensibili, “mentre quella rende noti i principi della prima. E per questo Boezio pone per ultima la scienza divina, perché essa è tale per noi”. In questo senso la teologia è chiamata anche meta-fisica, perché è appresa da noi a partire dalle cose sensibili, che sono oggetto della fisica; e filosofia prima, “in quanto le altre scienze, ricevendo da essa i loro principi, vengono dopo di essa”. Nella suddivisione Boezio si rifà ad Aristotele alla luce della preminenza dell’oggetto della teologia. Boezio, inoltre, uomo religioso e teologo oltre che filosofo, distingue bene tra teologia e metafisica -influenzato anche sicuramente dalla dottrina platonica delle idee immobili e assolutamente separate dalla materia- ma non porta alle estreme conseguenze Catholic University of America Press, Washington D.C. 1984, 37-53, dove lo studioso dimostra che “la sua (dell’Aquinate) dipendenza da Avicenna è di gran lunga più grande di quanto possa far pensare il breve riferimento nel testo. Sembra che egli sia fortemente dipendente da Avicenna sia per l’obiezione concernente la possibilità della circolarità sia per i diversi passaggi della sua risposta a questa obiezione”, p. 53. Traduz. nostra.

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la concezione platonica del mondo sensibile. L’uomo conosce astrattivamente per gradi realtà che sono differenti tra loro per il loro diverso grado d’astrazione dalla materia e dal movimento. In Boezio la matematica, con non poche difficoltà, assume un posto intermedio tra la fisica e la

teologia: i suoi oggetti sono infatti astratti dalla materia, mentre quelli delle

altre due scienze sarebbero realtà effettivamente esistenti. Gli oggetti della matematica soffrono invece del loro essere a metà strada tra oggetto di scienza (‘intellegibilia’ appunto) e realtà cui tale oggetto si riferisce. La sintesi offerta da san Tommaso supera quella già “assai efficace” data da Boezio 135 . L’Aquinate nel suo Commento insegna che il ‘termine’ della conoscenza non è identico ma analogo secondo i tre diversi gradi astrattivi: sensus (fisica), imaginatio (matematica) e intellectus (teologia). Il criterio rispetto a Boezio muta così considerevolmente: la fisica è una scienza non separata secondo l’essere dalla materia, la matematica lo è secondo l’essere ma non secondo la definizione, metafisica e teologia sono separate dalla materia sia secondo l’essere che secondo la definizione 136 . Ma la migliore definizione tomistica della teologia nel suo rapporto con le altre scienze è data nel secondo articolo della seconda questione dove, occupandosi della possibilità di “costruire una scienza delle cose divine”, introduce l’importante distinzione, di matrice agostiniana, tra sapienza e scienza: “ergo est sapientiae et scientiae recta distinctio: ad sapientiam

pertineat

aeternarum

rerum

cognitio

intellectualis,

ad

scientiam

vero

temporalium rerum cognitio rationalis” (De Trinitate XII, 15, 25). Sembra, dunque, che

135

Cf L. Obertello, Severino Boezio, cit., 586. Ci preme sottolineare che è su questa base che teologia e metafisica si distinguono: infatti, alcuni ‘intellectibilia’ sono sempre separati dalla materia, altri a volte sì e altre no. La posizione di san Tommaso aggiunge dunque almeno due elementi di novità rispetto a Boezio: la distinzione tra astrazione e separazione e la limitazione dell’importanza dell’illuminazionismo pseudoagostiniano (che, come abbiamo già visto, giocò invece quasi un ruolo di sutura tra le incongruenze del sistema boeziano). Le differenze tra i due sono già tutte nella diversa terminologia: l’åãêýêëéïò ðáéäåßá della cultura classica di contro alla summa scolastica. 136

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la più alta patristica abbia inteso esserci due direzioni completamente opposte tra il culto delle cose divine e lo studio delle cose naturali. La responsio riprende, reinterpretandola, la distinzione introdotta in apertura di articolo: delle cose divine può sicuramente esservi scienza in quanto, come per qualunque (altra) scienza, anche in quella divina desumiamo “in modo necessario alcune cose da altre già note”. Nel prologo abbiamo visto che la metafisica significava indifferentemente metafisica dell’ente e teologia razionale: ora scopriamo che la scienza che si occupa delle cose divine è in realtà duplice, perché altra è la scienza che procede dalle creature al Creatore, “la filosofia prima”; altra è la scienza che muove per fede dalle stesse realtà divine, la “sacra doctrina”. La scienza delle cose divine può essere riguardata da diversi punti di vista: a partire dai sensi, attraverso le creature, cioè rispetto a noi; oppure rispetto a se stessa, dunque massimamente conoscibile, ma solo da Dio e dai beati. Dal primo modo di considerare la materia divina è nato il tipo di scienza tramandataci dai filosofi antichi: è la filosofia prima, la metafisica dell’essere. L’altro punto di vista è quello dello sguardo stesso di Dio che vede le cose per come sono in sé e non è assolutamente accessibile all’uomo: “è possibile invece solo partecipare in qualche misura di esso e avvicinarci alla conoscenza divina, in quanto, attraverso la fede infusa in noi, possiamo penetrare nella verità prima in virtù di essa”, e questa è la scienza divina. Così tra l’uomo e Dio è possibile un parallelo: il primo può, da ciò che accoglie per fede, “aderendo alla verità prima”, procedere ‘secundum modum nostrum’, argomentando dai principi alle conclusioni, “in modo tale che le cose che teniamo per fede fungano per noi, in questa scienza, quasi da principi, il resto quasi da conclusioni”. Allo stesso modo di Dio che, aderendo anch’Egli, nel conoscere se stesso (=principi primi), alla verità prima,

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“conosce anche tutte le altre cose, nel modo a Lui proprio (e cioè attraverso il semplice intuito e non in modo discorsivo)”. Sapienza e scienza non si rapportano tra loro come due opposti, pur distinguendosi tra loro. La sapienza è qualcosa di più della scienza, cui si aggiunge. Dice bene Aristotele nel sesto libro dell’Etica: “la sapienza è il vertice di tutte le scienze, che regola tutte le altre in quanto tratta dei principi supremi”. Nella Metafisica è chiamata “Dea delle scienze”, proprio perché ha la sua stessa origine, non solo il suo oggetto di studio, in tali principi. Sapienza è il nome proprio di questa scienza suprema, “mentre la denominazione scienze rimane riservata alle arti inferiori”. L’Aquinate paragona poi la scienza al ‘proprio’ e la sapienza alla ‘definizione’: allo stesso modo che il ridere dell’uomo non rientra nella definizione di uomo come animale razionale, la sapienza si distingue dalla scienza in base a qualcosa di esterno alla definizione della scienza stessa, in base cioè al compito di dirigere le scienze. Dunque per fare della teologia una scienza non è necessario conoscere l’essenza divina. In un altro modo si può dire che la non conoscenza dell’essenza divina può costituire la quiddità di quest’ultima stessa: cioè, delimitando i contorni di ciò che in realtà non ci è possibile afferrare, giungiamo comunque a distinguere questo qualcosa dal resto. Nella risposta ad 4m san Tommaso afferma che ogni scienza ha principi e conclusioni: l’uso della ragione è a metà strada tra l’assenso nei confronti delle conclusioni e quello nei confronti dei principi. In particolare nel caso della scienza delle cose divine i principi di fede “non fungono quasi da conclusioni, ma quasi da principi”: essi, quali “principia naturaliter nota”, vengono approvati per induzione e non per mezzo della ragione dimostrativa. San Tommaso prende avvio di qui per parlare delle “scientiae subalternatae”. Anche presso molte scienze umane vi sono principi evidenti a tutti e “che occorre desumere

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dalle scienze superiori”. Solo a chi possiede queste ultime, saranno chiari i principi delle scienze subalternata corrispondenti. La conoscenza che Dio ha di se stesso regge i capisaldi della nostra fede; essi ci sono rivelati da Dio stesso e ci sono da Lui comunicati attraverso suoi testimoni. Ciò che in Dio è per sé noto viene, dunque, da noi presupposto. Alla scienza di Dio (=che Egli ha di se stesso) è subalternata la nostra scienza divina. Il fatto che l’intelletto sia in genere nelle altre scienze principio che riesce a condurre alle conclusioni, non ne fa l’unico possibile principio di una qualsivoglia scienza. L’intelletto è sempre principio primo ma non sempre quello prossimo; nelle scienze subalternate quest’ultimo è la fede, mentre chi possiede la scienza superiore pone il suo intelletto quale principio primo, “in quanto questi è certo, per mezzo dell’intelletto, delle cose che nelle scienze subalternate vengono semplicemente credute”. Similmente, della scienza suprema di Dio il principio prossimo è la fede, il principio primo l’intelletto divino. La fede è infusa in noi per condurci ad avere conoscenza di ciò in cui crediamo, “così come chi ha una conoscenza meno elevata, quando raggiunge la scienza di chi possiede un sapere più elevato, arriva a comprendere o sapere ciò che prima si limitava soltanto a credere”. Il punto più interessante dell’intero articolo è sicuramente la prima obiezione e la risposta di san Tommaso che abbiamo appena brevemente esposto. In un articolo sulla posizione di san Tommaso circa la distinzione tra scienza e sapienza, lo Owens assume una posizione critica nei confronti dell’Aquinate: allo studioso sembra, infatti, che la prima obiezione che spontaneamente sorge, in chi legge queste pagine, sia che le altre scienze non possono in alcun senso filosoficamente possibile essere considerate ‘proprietà’ della sapienza, tanto nella sua forma secolare (la metafisica) che in quella sacra (la teologia)137 . 137

J. Owens, A Note on Aquinas, ‘In Boeth. de Trin.’ q.2 a.2 ad 1m, The New Scholasticism, Washington DC, LIX, 1985, 102-108.

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Da questo lo studioso americano deduce che il punto di vista dell’Aquinate potrebbe essere inteso nel senso che le competenze in metafisica siano il risultato delle competenze in matematica, astronomia, ottica etc.; come se la sapienza fosse la semplice somma di tutte le altre scienze dello scibile umano. Né la metafisica né la teologia sacra sarebbero perciò l’essenza dalla quale le altre scienze sgorgherebbero e che esse necessariamente presupporrebbero: “uno può essere un biologo o un ingegnere senza essere né un metafisico né un teologo”138 . Ammettendo un tipo di dipendenza come la intende Aristotele -la ‘sapienza’ come “scienza sovrana e più di tutte degna di far da guida, e in quanto ad essa tutte le altre scienze, come ancelle, giustamente non possono replicare”139 - si corre il rischio di vedere una distanza ‘essenziale’ tra i diversi modi di conoscenza dell’essere. Tanto più che Aristotele continua nello stesso passo dicendo: “infatti, fra coloro che conoscono la medesima cosa secondo differenti modi, noi diciamo che conosce di più che cos’è la cosa colui che la conosce nel suo non-essere; e anche fra coloro che la conoscono nel primo modo, c’è chi la conosce più di un altro, e più di tutti la conosce chi ne conosce l’essenza, e non la qualità o la quantità o il fare e il patire”140 . Secondo lo Owens la proporzione secondo cui la sapienza sta alle altre scienze come la definizione sta al suo ‘proprium’ è in contrasto con il “dividitur contra” che lega i due membri della proporzione. Al di là della inesatta interpretazione dell’espressione, rimandiamo direttamente al testo, più precisamente all’incipit della stessa prima responsio, dove san Tommaso dice: “Ad primum ergo dicendum quod sapientia non dividitur contra scientiam, sicut oppositum contra suum oppositum, sed quia se habet ex additione ad scientiam”.

138

Ibid., 103. Metaf. II, 2, 996b10-12. 140 Ibid., II, 2, 996b15-19. 139

103

Lo studioso prosegue dicendo che in un passo dell’ultima questione (q.6 a.1 ad 1m) lo stesso Aquinate afferma che una scienza sbaglia se procede da principi che non le appartengono: ma questo assioma sarà difficilmente rispettabile se le scienze inferiori devono essere riguardate come una proprietà di quella superiore. In realtà, ci sembra difficile ignorare a tal proposito che san Tommaso, soprattutto nella quinta questione, dimostra che la scienza divina (metafisica o teologia che sia) ha le proprie basi nella realtà sensibile, che è oggetto di studio della scienza naturale (o fisica); e che non fa problema che una scienza, anche superiore (perché tale è il suo oggetto), utilizzi le conclusioni di un’altra disciplina come principio di un proprio ragionamento. Ma allora, si chiede nella sua veste di scettico lo studioso: “Che tipo di distinzione ha dunque in mente l’Aquinate in questo passo?” Egli, infatti -pur rendendosi conto che l’Aquinate esclude la soluzione ‘opposto contro opposto’, poiché la sapienza e le scienze inferiori, entrambe scienze, non condividono lo stesso genere e perciò non possono dirsi ‘opposte’- continua a cercare dove sia la ragione della differenza tra i due gradi di ‘scienza’. Seguendo questa direzione egli si richiama al Filosofo, che fa dipendere la ‘scientificità’ delle scienze ‘seconde’ dalla perfetta ‘scientificità’ della ‘prima’, che è appunto scienza par excellence. L’essenza scientifica delle altre non esisterebbe dunque di per sé ma solo “through focal reference to it [scil.: la perfezione di primo grado della sapienza]”. Ma una scienza, obietta a questo punto lo studioso, è tanto più perfetta quanto più le cause più elevate sono conosciute e questo è possibile però solo alla sapienza, mentre le altre scienze fanno del loro meglio per realizzare la nozione di conoscenza attraverso le cause. Questa è la prospettiva aristotelica, mentre lo Owens ammette che san Tommaso riconosce che compito di una qualunque disciplina è giungere a spiegare nel modo migliore le proprie cause supreme, sia che si tratti delle cause prime in assoluto, come nel

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caso della sapienza, sia che si tratti dei propri principi primi, ed è il caso delle scienze ‘inferiori’. Tutte le scienze condividono la stessa essenza, solo che la sapienza ha uno status di coordinatrice rispetto alle altre. Perciò, la differenza tra i due tipi di scienza è da ricercare non in una caratteristica interna all’essenza o alla definizione di uno dei due tipi, bensì in questa proprietà estrinseca della sapienza rispetto alle scienze inferiori. Secondo lo Owens tanto la scienza divina quanto le altre scienze rispondono alla condizione essenziale per essere definite scienze: sono, cioè conoscenza attraverso lo studio delle cause. Perciò non si può dire che san Tommaso con la metafora della definizione intendesse necessariamente una subordinazione o un contrasto tra quella e le scienze profane141 . Lo Owens non fa però alcun cenno del fatto che la sapienza, studiando l’in se dell’ente in quanto ente, costituisce per forza di cose il presupposto, la base di qualunque altra indagine naturale, nel pieno rispetto dei principi e dei metodi propri di ogni altra disciplina. La dignità, la pienezza di ogni disciplina resta nel suo ambito, non può realizzarsi al di fuori di sé. È questa d’altronde a nostro avviso la posizione di Aristotele -che lo stesso Owens non manca di citare- quando formula il paragone tra l’ambito della medicina, cui inerisce in diversi modi il ‘sano’, e quello della scienza, che ha per oggetto l’essere nelle sue molteplici manifestazioni142 , e conclude:

“Ora come di tutte le cose che sono dette ‘sane’ c’è un’unica scienza, così è anche negli altri casi. Infatti, non solo compete a un’unica

141

Cf J. Owens, cit., 106: “The property, though its notion implies its subject, remains outside the subject’s strict definition. In both cases –science versus wisdom, property versus definition- the distinguishing feature lies outside the definition of the subject. In neither case does the one become the opposite of the other, as each would be if the distinguishing features were specific differentiae within the essence”. 142 Cf Metaf., 4, 2, 1003a33-b19.

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scienza lo studio delle cose che si dicono in un unico senso, ma anche lo studio delle cose che si dicono in diversi sensi, però in riferimento ad un’unica natura (…). È evidente, dunque, che gli esseri saranno oggetto di un’unica scienza, appunto in quanto esseri”.

Rimandando oltre la nostra esposizione della sintesi magistrale che san Tommaso ci ha offerto, facciamo solo un’osservazione. Ci sembra che lo Owens sottolinei troppo la differenza tra la teologia e le scienze profane, pur ritenendo che sia solo una differenza di soggetto -o meglio di grado del soggetto in atto (l’essere)- a farne due distinti saperi. Anche la teologia sarebbe dunque una scienza, ma ad un livello nettamente superiore alle altre, e da tale altezza essa sembra impartire ordini, ascoltati o meno, alle proprie subordinate. Questa distanza serve a collocare in due generi diversi i due diversi tipi di scienza, ma se evita la loro opposizione essenziale non spiega a nostro avviso la loro comune radice scientifica. San Tommaso andò oltre. Non si trattava in lui della semplice distinzione dei rispettivi ambiti di competenza della filosofia e della teologia, oggetto già dell’attenzione generale della teologia scolastica anche prima di lui143 . Era invece un tema scottante che lo riguardava in prima persona, quale esponente di un ordine di predicatori al suo primo confronto diretto con i maestri profani. 143

In questo senso il caso p iù tipico fu proprio il maestro di san Tommaso, sant’Alberto Magno, tra i primi sostenitori di una introduzione senza riserve dell’aristotelismo nell’Università delle arti di Parigi. Pure lui distingue tra ciò a cui può arrivare la filosofia da ciò che è oggetto di fede. Nel suo Commento alle Sentenze (L. I, dist.III, a.3). Alberto risolve la questione “an ista cognitio naturalis differt a cognizione fidei? (…) Et videtur, quod in nullo.” In realtà nella solutio indica le differenze tra la conoscenza filosofica di Dio e quella che si ha per fede. “In quinque differunt ad minus”: 1) in primo luogo “in comparatione scientiae ad scientiem”: nella conoscenza filosofica si procede con la sola ragione (“processus naturalis subest rationi”) mentre nella fede si va oltre la ragione (“est supra ratione”); 2) la seconda differenza sta “in principiis in quibus accipitur cognitio ipsa”: la filosofia parte da premesse che devono essere per se nota, ossia immediatamente evidenti, mentre nella fede c’è un lumen infusum che “informando conscientiam, rationem convincit magis ex amore quodam voluntatis, quam ex probatione rationis”; 3) in terzo luogo “in efficiente cognitionem”: la filosofia parte dall’esperienza delle cose create, mentre la fede parte da Dio stesso; 4) “quarta est in cognito”: la conoscenza naturale non ci avvicina alla nozione del “quid est”, cosa che accade invece attraverso la conoscenza per fede; 5) infine, “ex parte subiectorum”: la filosofia è un procedimento puramente teoretico, mentre “fides est in intellectu affectivo, etiam informis”, dove perciò è anche ammessa la contraddizione (Cf in proposito S. Vanni–Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 14 nota 23).

106

San Tommaso non volle ridurre la teologia ad una scienza esoterica e sostenne che è necessario che la teologia possegga un lessico, un ambito e un metodo suoi peculiari. La questione ha un certo interesse se viene ricondotta nell’ambito delle prime discussioni sulla deontologia professionale dei maestri di teologia, sviluppatesi nell’Università parigina intorno alla metà del secolo. Le provocazioni ‘filosofiche’ del laicismo universitario furono dunque il teatro della “straordinaria sintesi di fede e ragione, di teologia e filosofia”144 quale fu l’opera dell’Aquinate. In questo senso dunque non si può dare alcuna ideale ipostatizzazione dei rapporti tra fede e ragione, che nacquero innanzitutto a livello istituzionale con la posizione “ancillare” della filosofia rispetto alla teologia145 . Accogliendo infatti i maestri e gli studenti più giovani, la Facoltà delle arti è subordinata di conseguenza alla facoltà di teologia. La cornice è la crisi del XIII secolo, quando la teologia è costretta a fare i conti con un’ancilla, nella fattispecie appunto la Facoltà delle arti di Parigi, che dichiara battaglia alla sua domina. Tutto ciò avveniva prima ancora dei riflessi teorici di questo conflitto, che ebbero in san Bonaventura il loro primo e più vivace portavoce146 . Ma i dissensi e i contrasti tra i maestri della Sacra Scrittura e quelli delle Arti profane non giocarono alcun ruolo nel caso dell’Aquinate. L’ambiente universitario parigino fu l’humus in cui san Tommaso trovò stimolo per le sue ricerche, ma mai per accese dialettiche contro gli avversari. La Facoltà delle Arti fu, infatti, l’erede diretta delle

144

A. De Libera, cit., 381. Rimandiamo all’interessante articolo di Tullio Gregory Filosofia e teologia nella crisi del XIII secolo, Belfagor, XIX, Leo S. Olschki, Firenze 1964, 1-16, dove il filosofo traccia un percorso storico che descrive il quadro in cui nasceva il “problema dei rapporti tra filosofia e teologia o, più precisamente, si profilava (…) il contrasto tra una determinata filosofia, estranea al cristianesimo, e il patrimonio di dottrine che la riflessione medievale era venuta via via organizzando in un sapere intrinsecamente cristiano” (p. 3). 146 La nostra fonte è ancora il De Libera, cit., 91. L’autore continua dicendo che “negli anni 1260-1270 le aspirazioni degli ‘artisti’ si cristallizzano in rivendicazioni e in istanze di ogni genere, le quali testimoniano una presa di coscienza delle condizione di ‘filosofo’, contemporaneamente alla nascita di un certo ideale di vita autoregolata, ideale che trova in se stesso la propria giustificazione”. 145

107

scuole di logica del XII secolo, perciò un patrimonio utilissimo per l’esordiente teologo147 . Chiarita la posizione della teologia rispetto alla scienza e definito il rapporto e la gerarchia tra fede e ragione naturale, passiamo perciò ora a vedere ciò che riguarda specificamente la sacra doctrina, che diventava in quegli anni una disciplina universitaria a tutti gli effetti al pari delle altre della Facoltà delle arti di Parigi. L’ultimo

articolo

della

quinta

questione

discute

dell’oggetto

della

teologia,

precedentemente ammesso dall’Aquinate con un semplice processo di esclusione, e chiede “se la scienza divina si occupi di ciò che è privo di materia e di movimento”. La scienza divina verte su Dio e gli Angeli. Questi due oggetti sono privi di materia e di movimento, ma non permettono di escludere qualunque rapporto della loro scienza con questi due accidenti. Infatti, per giungere alla nozione Dio l’uomo deve passare attraverso gli effetti sensibili. Per san Tommaso le argomentazioni portate a sostegno di questa tesi non sono ultimamente probanti: infatti, come la scienza naturale assume alcuni principi della matematica, così anche la teologia può servirsi accidentalmente di principi materiali per esprimere i propri principi; bisogna tener presente che ciò di cui una scienza si serve per manifestare altro non le appartiene necessariamente. La risposta presenta la soluzione completa che san Tommaso dà del problema.

147

Per la posizione di san Tommaso di fronte ai rivolgimenti culturali della sua epoca, in particolare nel suo rapporto con l’università di Parigi coinvolta in prima linea nella crisi del XIII secolo, rimandiamo a due contributi fondamentali raccolti nel volume Il pensiero di Tommaso d’Aquino e i problemi fondamentali del nostro tempo, Herder, Roma 1974. Il primo di Chenu: S. Thomas innovateur dans la creativité d’un monde nouveau, pp. 27-33, che parla di una crisi istituzionale e dottrinale ai tempi di san Tommaso (1220-1260) e “se questa parola ha un senso, nell’analisi sociologica dei cambiamenti, essa vale certamente per il secolo di san Tommaso, presso il quale essa si inscrive come in filigrana” (p. 31). L’altro di Van Steenbergen: Thomas d’Aquin devant la crise du XIII siecle, pp. 35-44, che parla di “una crisi culturale di estrema gravità” e si chiede come san Tommaso abbia reagito di fronte a questa situazione e, prima di tutto, se avesse egli percepito il pericolo che minacciava la cristianità del XIII secolo, se ne avesse misurato la posta in gioco e, infine, quale fu l’efficacia della sua azione.

108

Secondo san Tommaso la cosa più importante da fare per chiarire la questione è stabilire quale scienza debba essere chiamata ‘divina’. Come sostiene Aristotele presentando le basi della sua Fisica, ogni scienza deve proporsi come primo compito di considerare i principi del proprio “genus subiectum”, e sarà tanto più perfetta quanto più perfettamente chiarirà questi determinati principi. I primi principi devono necessariamente essere enti al massimo grado, il che consente loro di esprimere massimamente la propria natura ma anche di fungere da principio dell’ente per ogni altra cosa. Devono, inoltre, essere quanto più completi possibile, perciò contenere tutto al minimo della potenza ed essere per conseguenza atto al massimo grado. Infine e proprio per quanto presupposto, devono essere assolutamente privi di materia. A questo ‘identikit’ corrispondono le cose divine, “perché se il divino esiste da qualche parte, esiste –soprattutto- in questa natura, cioè nella natura immateriale e immobile, come si dice nel VI libro della Metafisica”148 . Queste realtà divine sono, dunque, enti perfetti in sé e contemporaneamente principi comuni di tutti gli enti: per il concetto di ‘per se notum’ già chiarito precedentemente, il lume della nostra ragione naturale non può pervenire ad essi -pur in sé massimamente noti- se non a partire dagli effetti. A questo livello si sono innalzati i filosofi che sono riusciti a contemplare con la sola ragione le vette del divino e vi hanno costruito quella che essi chiamano ‘scienza divina’, che studia l’ente in quanto ente, quell’ente cioè che è comune a tutti gli enti. Ma quelle stesse realtà divine hanno una propria evidenza ontologica, una propria capacità di manifestazione che può astrarre dai loro stessi effetti: per questo l’Apostolo parla di ciò che è proprio di Dio come di qualcosa che nessuno ha mai veramente conosciuto, e che lo Spirito è stato inviato a rivelare. 148

VI, 1, 1026a20. Aristotele nel primo capitolo del sesto libro della sua Metafisica svolge l’ipotesi se ci sia una natura immobile cui far corrispondere una ‘scienza prima’; in caso contrario si deve ammettere che il primo posto spetta alla filosofia della natura (o fisica) che scalzerebbe le altre due.

109

A questo punto facciamo una scoperta:

“dunque la teologia o scienza divina è duplice: una in cui le realtà divine vengono considerate non come il soggetto della scienza, ma come principi del soggetto, e tale è la teologia che è portata avanti dai filosofi, e che con altro nome viene chiamata metafisica; l’altra invece che considera le stesse realtà divine per sé come soggetto della scienza, e questa è la teologia che viene esposta nella Sacra Scrittura”.

Qualcosa può, infatti, dirsi separato dalla materia secondo l’essere in due modi: perché è la natura della cosa stessa separata che ‘contiene’ l'impossibilità di congiungersi alla materia; o in modo che non sia proprio di quella natura l’essere nella materia e nel movimento, ma solo una possibilità contingente. Alle realtà divine compete essenzialmente -in senso assoluto- il fatto di non essere nella materia e nel movimento; agli oggetti della metafisica (ente, sostanza, potenza, atto) compete la possibilità di non essere nella materia e nel movimento, per quanto talvolta (o anche spesso) essi si trovino nella materia e nel movimento. La metafisica (o teologia filosofica) ha le realtà divine in questo secondo modo, come soggetto del proprio studio; e nel primo modo come principi di tale soggetto. La teologia della Sacra Scrittura, invece, considera propri principi le realtà separate secondo il primo modo, soggetto della propria indagine le altre, anche se queste ultime hanno alcune cose che sono nella materia e nel movimento. Notiamo che san Tommaso nella revisione del testo del suo commento si discosta dalla sua prima scelta di seguire Aristotele e Boezio, distinguendo ora tra abstractio e separatio, indicando così chiaramente la sua personale concezione della metafisica. Il metafisico non astrae nulla da nulla, egli tratta infatti le cose esattamente per quello che sono senza doverle ricavare da altro. “Ciò equivale a dire che, se si può esprimere questo

110

giudizio: ‘non tutti gli esseri sono materiali’, ne consegue l’esistenza di un nuovo oggetto di ricerca”149 . In questi termini si spiega così l’enorme ricchezza del termine ‘doctrina sacra’ che potrebbe sembrare anacronistico rispetto all’evoluzione della teologia nel XIII secolo. San Tommaso stesso infatti distingue tra Scrittura e teologia, fede e teologia. Ma “il termine doctrina sacra non è affatto decaduto”, esso copre ancora tutto il campo del sapere cristiano, dalla sacra scriptura alla speculazione teologica. La teologia resta comunque una e la fede è ciò che ne tiene insieme i diversi e nuovi significati150 . Attraverso quest’opuscolo san Tommaso si prefiggeva dunque di persuadere della razionalità degli articoli di fede, nell’ambito del passaggio storico dalla doctrina sacra alla formazione della teologia come ‘scienza’ che si consumò proprio a cavallo tra XII e XIII secolo. Ne sono tappe le dottrine trinitarie di Boezio, sant’Agostino e, infine, san Tommaso. Boezio è solo l’inizio di tale processo, poiché eredita da Aristotele (Metafisica, libro I) l’idea della metafisica come scienza dei principi. Lo Chenu riconosce a Boezio il ruolo di aver compiuto molteplici tentativi di costruire una teologia deduttiva a partire da assiomi, preliminarmente definiti. Secondo lui nei suoi trattati Boezio ha intrapreso, in atto e già nella riflessione metodologica, “il disegno di un sapere teologico in cui la fede fa uso di ragioni, in una fiducia nella natura dello spirito che sorprende l’assolutismo di certi credenti. A buon diritto è il primo degli scolastici, anche in teologia”151 . Simile il giudizio del Grabmann, per il quale l’impostazione generale degli opuscoli teologici di Boezio, e in particolare lo sforzo di chiarire ed illuminare la materia di fede con l’aiuto

149

J. A. Weisheipl, Tommaso d’Aquino, Jaca Book, Milano 1994², 142. Cf M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 114-5. 151 M. D. Chenu, La teologia nel dodicesimo secolo, cit., 175-6. 150

111

della filosofia, ha fornito al metodo scientifico della teologia scolastica uno dei modelli più alti152 . Mentre tuttavia in Boezio il centro delle discipline è la filosofia, cui la logica va subordinata, in san Tommaso la teologia è al centro di una disputa infuocata per l’affermazione del suo status di scienza. L’ultima parola dell’Aquinate su questo argomento rappresenta già l’idea matura che egli, nelle sue opere successive, potrà solo meglio precisare ed esprimere153 . San Tommaso non prese semplicemente posizione rispetto alla teologia precedente, egli propose una speciale sintesi di tutto senza eliminare nessuna delle precedenti posizioni. Si trattava in generale di tre correnti: una che confondeva i due ordini e le altre che avevano preferenze troppo esclusive per l’uno o per l’altro. Al primo caso corrispondeva l’agostinismo, che rispose alle esigenze della scolastica fino al prevalere del peripatetismo. Per gli agostiniani il lume naturale della ragione e quello soprannaturale della grazia divina sono sullo stesso piano, provengono entrambi direttamente da Dio -come due raggi dello stesso sole- e tra loro non poneva non che una differenza di più o di meno.

152

M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 211. La Vanni-Rovighi conferma la nostra idea, confrontando un passo dell’Expositio al De Trinitate di Boezio (q.2 a.3) con un passo del primo libro della Contra Gentiles (capitolo secondo): “la dottrina dei rapporti tra filosofia e teologia è esposta quasi con i medesimi termini in questo scritto (scil. L’Expositio) e nella Contra Gentiles.” Seguendo il filo del ragionamento della studiosa, possiamo dire che entrambe queste opere sono come ellissi, i cui due fuochi sono: l’uno le verità di fede che superano ogni potere dell’umana ragione, l’altro quelle che possono essere raggiunte dalla ragione naturale. Nella Contra Gentiles e nell’Expositio in Boethium i due ordini di verità sono facilmente riconoscibili, “nella Summa theologiae, invece, verità naturali e verità soprannaturali sono esposte nell’ambito dello stesso trattato (per esempio, nella prima parte, dopo le questioni su Dio accessibili alla ragione si passa subito alla Trinità)” (cf S. Vanni-Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 27 e 28 nota 56). Ci sembra opportuno dire che nelle due opere precedenti l’indagine di san Tommaso era come diretta a sciogliere alcuni nodi metodologici, pur nella trattazione di determinati temi, mentre la Summa theologiae rappresenta la mirabile sintesi tomistica di tali difficoltà che possiamo riassumere in questo breve passo: “la teologia, che adopera senza discussione le prove della rivelazione, adopera anche argomenti di ragione. Essa infatti disputa con quelli che ammettono qualche cosa in base a ciò che ammettono; confuta quelli che nulla ammettono sciogliendo le loro obiezioni”( prima pars, q. 1 a. 8, pp. 10-11 dell’ed. it. cit.). 153

112

Dall’altra parte gli averroisti esaltavano esageratamente la ragione facendo derivare direttamente da Dio l’illuminazione dell’intelletto agente separato, non sospettando neppure che potessero esistere verità inaccessibili alla ragione. Per Avicenna, invece, in possesso dell’uomo resta almeno l’intelletto possibile. Per tornare alla posizione degli agostiniani, mentre essi in genere si preoccupavano poco di stabilire i fondamenti razionali della fede accettata senz’altra argomentazione, si mostrano troppo benigni verso la ragione, di cui si servono senza preliminari accorgimenti anche nell’ambito della fede. Per san Tommaso invece un semplice compromesso tra le diverse posizioni, mescolando semplicemente il tutto, avrebbe significato perdere qualcosa di ognuna di esse. San Tommaso non fu il primo che pensò di assicurare uno statuto di scientificità alla teologia, fu invece sicuramente il primo a basare con insistenza la sua originalissima soluzione sull’autorità di Aristotele. In generale, i due tentativi della scolastica si possono ricondurre a due proposte: la ‘teoria dell’illuminazione’ e la teoria tomistica della subalternazione. Diciamo subito che la prima soluzione si fermò ad un ruolo ‘negativo’ della ragione, in questo famula che offre il suo servigio di semplice sostegno alla fede. La soluzione tomistica invece andò oltre, riconoscendo l’autonomia e la dignità della ragione e delle scienze mondane, facendo così della teologia una scienza a parte. Tuttavia, entrambe le teorie condividono un particolare concetto di evidenza: la prima deve accontentarsi di un’evidenza imperfetta e differente da quella matematica; la seconda di un’evidenza ‘di seconda categoria’, pari ad un concetto di scienza alla continua ricerca di un compimento ultimo. La soluzione di matrice agostiniana equipara l’uomo a Dio nel mentre fa della verità rivelata un’esperienza accessibile all’uomo: questi comprende in maniera mistica gli

113

articoli di fede già sulla terra. Essi sono osservati dalla mente umana come prima veritas, senza intermediari di sorta, attraverso la diretta illuminazione del lumen divinum. Prima di vedere la soluzione dell’Aquinate riferiamo della posizione ‘intermedia’ di un gruppo di teologi -si tratta di Filippo il Cancelliere (1160-1236), Guglielmo d’Auvergne (1180-1249) e Alberto Magno (1193 o 1206-1280)- che evitarono intenzionalmente di parlare dell’evidenza che le verità di fede acquisterebbero a mezzo della grazia. Preferirono collocare i principi teologici sullo stesso piano della conoscenza naturale. In ultima

analisi

la

loro

posizione

si

può

riassumere

nell’espressione

“informatio

conscientiae” con la quale Filippo indicò l’azione della luce della fede, in cui questi teologi videro un “lumen obumbratum”, che influenza più l’affetto che l’intelletto: la certezza dell’assenso di fede riposa, dunque, su una libera decisione frutto della grazia e dell’intelletto umano da essa illuminato. Ma questa dottrina non fu utilizzata per risolvere la questione della teologia come scienza nel senso strettamente aristotelico: tale domanda non fu mai posta espressamente. Entrambe le dottrine appena esposte, pur non escludendo la comprensibilità degli articoli di fede, furono condannate da san Tommaso, come abbiamo visto, in quanto portavano nel senso di una teologia come “cognitio defectiva”. Come già visto, il primo articolo della prima questione affronta tale questione preliminare, la cui soluzione orientò in maniera decisiva il pensiero dell’autore nell’esame del problema di Dio: si tratta del confronto di san Tommaso con i sostenitori della dottrina dell’illuminazione divina, coloro cioè che, soprattutto tra i francescani, ritengono impossibile che la mente umana possa acquisire una qualsiasi verità (tanto intorno alle cose create quanto a maggior ragione alle intelligibili) senza l’intervento della luce divina.

114

Nel Commento al De Trinitate154 abbiamo visto san Tommaso guardarsi bene dal caratterizzare gli articoli di fede come “principia per se nota”: l’azione diretta della luce divina si esprime nella difesa del credente dalla deviazione dall’ortodossia. In tal modo egli distingue precisamente il ruolo ‘negativo’ da quello ‘positivo’ della ragione: essa nel primo caso è infatti illuminata dalla grazia perché sappia tenersi lontana dall’errore e dall’eresia. D’altro canto san Tommaso lavorò per fare della teologia una scienza ‘positiva’, in grado cioè di far derivare da cause certe conclusioni necessarie, attraverso il ragionamento dialettico. Siamo così giunti alla seconda parte della sintesi tomistica: la ‘dottrina della subordinazione o subalternazione’ la cui esposizione trova ampio spazio già nel presente Commento a Boezio. San Tommaso mutua l’idea di scienza subordinata da Aristotele, e la applica alla teologia: interpreta cioè la teologia come scienza derivata al fine di rivendicarle il titolo di scienza nel senso pieno della parola155 . Nei suoi Analitici Secondi Aristotele aveva configurato il concetto di scienza derivata o subordinata nel quadro del rapporto dell’ottica alla geometria o della dottrina dell’armonia all’aritmetica156 . I principi di una scienza di questo tipo non vengono conosciuti all’interno della medesima, ma mutuati dalla scienza sovraordinata157 . Così, la dottrina dell’armonia presuppone dei principi che trovano la loro giustificazione non in questa stessa dottrina, ma nell’aritmetica.

154

q.2 a.2 obj.5: «omnis scientia procedit ex principiis per se notis, quae quisque probat audita, aut ex principiis quae ab his fidem habent. Sed articuli fidei, qui sunt prima principia in fide, non sunt huiusmodi, quia neque sunt per se nota neque ad principia per se nota resolvi possunt demonstrative.”, nella risposta a questa obiezione san Tommaso non rigetta l’obiezione in sé, bensì la sua estrema conseguenza contro la scientificità della teologia. 155 “Tommaso fu il primo ad applicare alla teologia il concetto aristotelico di scienza subalternata. Ma non fu il primo in assoluto a rifarsi alla subalternazione per la gnoseologia teologica”. Così A. Lang, nel suo Die theologische Prinzipienlehre der mittelalterlichen Scholastik, cit., 164-5, che si riferisce a san Bonaventura , il quale subordina la teologia alla Sacra Scrittura. 156 Anal. Sec. I, 7; 75b. 157 Ibid., I, 9; 76a.

115

San Tommaso trasferisce questo modello alla teologia, assumendone come conoscenza sovraordinata la conoscenza di Dio e dei Beati, che hanno una visione chiara degli articoli di fede, che la nostra teologia deve presupporre sulla base dell’autorità. Nella seconda questione a.2 ad 5m san Tommaso dice:

“etiam in scientiis humanitus traditis sunt quaedam principia in quibusdam earum quae non sunt omnibus nota, sed oportet ea supponere a superioribus scientiis, sicut in scientiis subalternatis supponuntur et creduntur aliqua a scientiis superioribus, et illa non sunt per se nota nisi superioribus scientibus. Et hoc modo se habent articuli fidei, qui sunt principia huius scientiae, ad cognitionem divinam, quia ea quae sunt per se nota in scientia, quam deus habet de se ipso, supponuntur in scientia nostra et creduntur ei nobis haec indicanti per suos nuntios, sicut medicus credit physico quattuor esse elementa”158 .

Ora, nella responsio dello stesso luogo appena citato san Tommaso afferma:

“divinorum notitia dupliciter potest aestimari. Uno modo ex parte nostra, (…). Alio modo ex natura ipsorum, et sic ipsa sunt ex se ipsis maxime cognoscibilia, et quamvis secundum modum suum non cognoscantur a nobis, tamen a deo cognoscuntur et a beatis secundum modum suum” 159 .

San Tommaso non paragona gli articoli di fede ai principi delle scienze profane, bensì ai “principia naturaliter nobis insita”: il punto di partenza è il patrimonio intellettuale proprio dell’uomo, non qualcosa che la teologia deve alle altre scienze. Poiché dunque san Tommaso non subordina la teologia e i suoi principi a nessuna delle altre scienze

158 159

Decker, 89. Ibid., 86-7.

116

umane, bisogna ammettere che essa riceve tali principi dalla Rivelazione: la scienza perfetta di Dio e dei beati è la scienza subalternante, la teologia quella subalternata. Più tardi nella Summa Theologiae (circa dieci anni dopo, la prima pars è infatti del 1257) san Tommaso pone in primo piano la sua dottrina della subalternazione e ne fa il perno della sua dimostrazione della natura scientifica della teologia; ormai egli pressuppone l’esposizione della teoria ritenendo di non dover fornire ulteriori prove, poiché essa è ormai parte integrante della sua dottrina dei principi160 . Il passo più significativo recita:

“Et hoc modo sacra doctrina est scientia, quia procedit ex principiis notis lumine superioris scientiae, quae scilicet est scientia Dei et beatorum. Unde sicut musica credit principia tradita sibi ab arithmetico, ita doctrina sacra credit principia rivelata sibi a Deo” 161 .

Così il fisico sfrutta le conoscenze che sono state raggiunte dal matematico prima di lui, e non si dà certo pena di dimostrarle di nuovo. Come si vede si tratta anche nel caso della teologia non più di un’evidenza dei principi sui generis, irriconducibile cioè alla comprensibilità umana. San Tommaso, infatti, riesce a mantenere una continuità del principio aristotelico anche nel campo del soprannaturale. Tutte le scienze presuppongono un bagaglio minimo di conoscenze già date e accettate ‘per credenza’, e allo stesso modo alla teologia è tramandato un patrimonio conoscitivo che non deve essere ulteriormente dimostrato. La ragione sufficiente della ‘continuità’ si trova in teologia nella fede come è intesa da san Tommaso alla q.3 a.1 ad 4m:

160 161

Cf A. Lang, cit., 163. I, q.1 a.2.

117

“unde et in fide qua in deum credimus non solum est acceptio rerum quibus assentimus, sed aliquid quod inclinat ad assensum; et hoc est lumen quoddam, quod est habitus fidei, divinitus menti humanae infusum” 162 .

“Ciò che colpisce in questa soluzione dell’antinomia evidenza-fede, non è tanto l’abilità tecnica della risposta quanto il suo inserimento nella trama medesima del problema: essa discende ‘da premesse proprie ed intrinseche’ (ex propriis et intimis) e non è un estrinseca derivazione da una premessa costituzionalmente inadeguata a questo nuovo oggetto; essa costituisce invece una valorizzazione della nozione stessa di scienza che aveva suscitato l’antinomia e che, analizzata nella sua struttura e nelle condizioni del suo esercizio, rivela ora una segreta consonanza con questa disciplina, inaudita per Aristotele, che è la teologia. Ciò che sembrava dover troncare ogni contatto, assicura invece la persistenza delle correlazioni normali. La teoria aristotelica della scienza, del resto, consiste proprio in ciò”163 . Per quanto riguarda la validità scientifica di qualunque disciplina sappiamo che san Tommaso non ha mai sopravvalutato le capacità conoscitive dell’uomo, anche rispetto agli oggetti sensibili. La scienza teologica subalternata non fa eccezione:

“Ille qui habet scientiam subalternatam, non perfecte attingit ad rationes

sciendi,

quodammodo

nisi

cum

in

quantum

cognitione

eius

eius,

cognitio

qui

habet

continuatur scientiam

subalternantem; nihilo minus tamen inferior sciens non dicitur de his quae supponit, habere scientiam, sed de conclusionibus… et sic fidelis potest dici habere scientiam de his quae concluduntur ex articulis fidei” 164 .

162

Decker, 114. M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 106. 164 De Ver., q.14 a.9 ad 3m. 163

118

Infatti, pur introducendo più tardi nella Summa Theologiae (I pars, q.1 a.2) un paragone con la geometria, chè come questa la sacra doctrina parte da principi certi, san Tommaso sa sin d’ora di dover venire a capo della difficoltà rappresentata dal fatto che gli articoli di fede non hanno per la nostra conoscenza quell’evidenza postulata per i principi d’una scienza in senso aristotelico, e tuttavia questi articoli di fede possono essere punto di partenza di una scienza deduttiva che proceda per via dimostrativa. Inoltre abbiamo visto (q.5 a.4) che san Tommaso distingue una teologia come metafisica dell’ente e una come scienza divina della Sacra Scrittura. Sembrerebbe ovvio per quanto detto che ad esse corrispondano rispettivamente la teologia come scienza subordinata e la scienza di Dio e dei beati come scienza subordinante. In questo senso sembra condurre anche quest’altro passo del Commento:

“huius scientiae [scientiae subalternatae] principium proximum est fides, sed primum est intellectus divinus, cui nos credimus, sed finis fidei est nobis, ut perveniamus ad intelligendum quae credimus, sicut si inferior sciens addiscat superioris scientis scientiam, et tunc fient et intellecta vel scita, quae prius erant tantummodo credita”165 .

“Da un capo all’altro di questa spiegazione gioca dunque espressamente l’equivalenza articuli fidei-principia, perno dell’articolazione tra la scienza di Dio e la teologia”166 . Se la Summa Theologiae farà della teoria della subalternazione il centro della conoscenza di Dio, non aggiunge in realtà nulla di nuovo all’impostazione che san Tommaso aveva dato nel suo Commento al De Trinitate. Già qui infatti teoria dell’illuminazione e subalternazione vanno di pari passo, anche se abbiamo visto ampiamente che si tratta di una vistosa correzione della dottrina agostiniana, dove l’intelletto agente del lume

165 166

q.2 a.2 ad 7m. Decker, 89-90. M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit.,108.

119

naturale risulta illuminato dalla luce divina solo una volta, come immagine impressa dell’intelletto divino, ma poi lasciato alla libera iniziativa dell’uomo. Nella Summa il posto d’onore per la spiegazione della scientificità della teologia spetta invece

alla

subalternazione,

mentre

il

linguaggio

di

matrice

agostiniana

viene

completamente scalzato. Evidentemente ormai san Tommaso ha dato forma definitiva alla sua idea di scienza divina, ed espressioni quali lumen fidei e intelligentia principiorum intellectus, di sapore squisitamente psicologico, mal si prestavano ad un’esposizione che doveva rientrare in una sorta di ‘catechismo’ “per la formazione dei principianti” (anche se sappiamo della difficoltà dei concetti e del linguaggio che la Summa presenta). In altre parole nel commento a Boezio siamo ancora nell’interessante cantiere di una costruzione che vede la luce solo un decennio più tardi, dopo lunga riflessione del Dottore Angelico. Come sappiamo dallo stesso ordine domenicano e già dal XIV secolo si sollevarono dubbi su questa soluzione, dubbi che limitarono nuovamente la pretesa di scientificità della teologia in senso strettamente aristotelico, a causa dell’assenza dell’evidenza razionale dei suoi principi. Si attuò quasi un ritorno alla dottrina vista sopra secondo cui la teologia non offre nessuna certitudo evidentiae, ma soltanto una certitudo adhaerentiae (Alessandro di Hales), ed è una “scientia secundum pietatem et informationem affectus” (Alberto Magno). In generale si può dire che i teologi scolastici preferirono riferire la razionalità degli articoli di fede alle rationes naturales, piuttosto che alle auctoritates, col che era obliterata la possibilità del discorso tomistico: mancando la fiducia nel depositum fidei, veniva meno la fonte stessa dell’evidenza degli articoli di fede. La scoperta, introdotta

120

dall’alta scolastica, della distinzione del piano naturale da quello soprannaturale era sconosciuta ai primi teologi. Gli esponenti della prima scolastica (XII secolo) non furono capaci di approfondire e sanare questa frattura in nome di un ideale più alto di razionalità, pregiudicando di fatto per il futuro la soluzione di san Tommaso. Quando quelli parlavano di rationes, intendevano le rationes necessariae, senza la connotazione di ragioni soggettive propria della tarda scolastica: così i successori di san Tommaso squalificarono la soluzione dell’Aquinate. Il passo dall’esitazione dei suoi confratelli e dall’opposizione dei francescani al rifiuto di Duns Scoto fu breve: questi ritenne incolmabile la carenza del richiamo ad un’evidenza che su questa terra è inaccessibile e spetta solo a Dio e ai santi167 . In effetti, “anche la teoria scientifica di san Tommaso d’Aquino non fu priva di un certo compromesso. Tommaso ammette l’inevidenza dei principi teologici e la sottolinea anzi con insistenza; egli si deve perciò accontentare di un concetto di scienza subordinata e di second’ordine, e precisamente di un “modus defectivus” di questa scienza, poiché l’evidenza della teologia su questa terra non può essere affatto realizzata. Le obiezioni contro la sua teoria rimandavano sempre a questa carenza della teologia e spiegano che perciò non può esistere alcun parallelismo perfetto della teologia con le scienze subalternate”168 . Anche lo Chenu riconosce i limiti della scientificità di qualunque disciplina scientifica subalternata, e noi abbiamo già sottolineato il senso del limite di qualunque conoscenza umana che fu sempre vivo nel senso religioso dell’Aquinate. La subordinazione che intercorre tra la scienza subalternante e quella subalternata riguarda il metodo e non l’oggetto: nel caso della teologia è sempre l’insieme delle 167 168

Cf A. Lang, cit., 166. Ibid., 164.

121

sostanze separate (Dio, angeli e anima) l’oggetto di studio, ma il modus sciendi è evidentemente altro. Tuttavia, la forza della scienza subalternata sta proprio nella misura con cui riesce ad emanciparsi dalla scienza di riferimento da cui ha origine. Nel corso del suo sviluppo la scienza subalternata aggiunge sempre qualcosa di nuovo ed estraneo a quest’ultima, di modo che ormai il teologo può prescindere dal risalire alla dimostrazione o solo alla nozione dei primi principi (in pratica è ciò che abbiamo visto accadere di norma in tutte le altre scienze umane). Eliminato finalmente il vincolo che rendeva gli ‘articuli fidei’ pensabili solo in funzione dei principi primi di verità, le due rispettive discipline sono ora estranee l’una all’altra, quanto al loro oggetto e al loro metodo169 . Sotto quest’ultimo rispetto la teologia è inferiore in maniera infinita alla conoscenza perfetta che Dio ha di sè stesso, in virtù sempre della distanza ineliminabile tra ciò-che-una-cosa-è e come-essa-è-per-noi. Altro è il caso della geometria che tratta della grandezza e che è superiore alla prospettiva che tratta della grandezza visuale: la prima è superiore alla seconda ratione subiecti, secondo cioè il suo oggetto. La teologia, almeno inizialmente, è inferiore alla conoscenza del divino in sé solo per il modo: successivamente si origina anche, quale frutto imperfetto della disciplina umana, una conoscenza inferiore anche secondo l’oggetto. “La

dissociazione

all’epistemologia

tra

i

aristotelica,

due

tipi

poiché,

di sul

subalternazione piano

delle

è

chiaramente

conoscenze

estranea

umane,

la

subalternazione dei principi è connessa a quella degli oggetti.” Invece “in teologia, non è per cogliere un oggetto diverso da quello della scienza di Dio, che il teologo ‘crede’ i principi che riceve da quest’ultima; è piuttosto perchè quell’oggetto stesso cui egli perviene tramite la fede è una realtà misteriosa totalmente inaccessibile alla ragione”.

169

Cf M. D. Chenu, La teologia come scienza nel XIII secolo, cit., 116.

122

Come già visto, sant’Agostino aveva già trovato un equilibrio perfetto tra credenza e procedere razionale: la fede per il Dottore africano sta tra l’’intellegere’ e l’’opinari’, poiché la sua certezza e la sua necessità va vista sia rispetto all’uomo che rispetto alla sorgente di ogni conoscenza. Alla base sappiamo esserci la teoria dell’illuminazione: senza il lume interiore della fede la conoscenza che noi possiamo avere della verità sarebbe inutile e senza frutto. “Quod intelligimus, debemus rationi; quod credimus, auctoritati” (De utilitate credendi), frase che va intesa non nel senso di un passaggio diretto tra li comprendere e il credere, quanto nel senso dell’esistenza di due origini della conoscenza umana, il lume soprannaturale (Dio) e quello naturale (l’anima), che si rapportano tra loro, come diceva già Plotino, come il sole alla luna: l’anima razionale riceve da Dio la sua luce, cioè la vita beata e il lumen intelligentiae veritatis170 . Su questo punto san Tommaso preferisce Boezio il quale si comporta maggiormente da filosofo. Anche per lui esistono quasi due livelli del reale e della conoscenza umana, ma gli è estraneo il dualismo di lume infuso per fede e lume naturale di sant’Agostino, sostituito dal nuovo binomio di ratio e intelligentia, che sono i due modi di andare oltre i puri dati del senso e dell’immaginazione per cogliere le realtà immateriali: l’uno discorsivo e meditato, l’altro intuitivo e immediato171 . L’Aquinate adegua tale distinzione al caso specifico della teologia. Prima di noi vi è un altro Soggetto conoscente, Dio, rispetto al quale noi conosciamo imperfettamente ciò che egli conosce in modo perfettissimo. Ma proprio qui si congiungono al massimo livello fede e ragione. Nonostante che “il rapporto sussistente tra il credente e Dio sia, sul piano epistemologico e su quello reale,

170

Per sant’Agostino rimandiamo ai seguenti lavori: O. Du Roy, L’intelligence de la foi en la trinité selon saint Augustin, Études Augustiniennes, Parigi 1966, 123-148 e 463-466; P. T. Camelot, “Quod intelligimus, debemus rationi”-Note sur la méthode théologique de saint Augustin, Historisches Jahrbuch, Köln, LXVII, 1958, 397-402. 171 Cf S. Vanni Rovighi, L’unità del sapere secondo Tommaso d’Aquino, in Studi di filosofia medievale, vol. II, Vita e Pensiero, Milano 1978, 73.

123

molto diverso da quello che sussiste tra il fisico e il matematico”, fede e teologia non giungono né portano a ‘credere’ verità diverse o anche solo distinte tra loro. Abbiamo visto che “Fides (…) est quasi habitus principiorum theologiae”172 , assicurando continuità tra il lume della teologia in quanto lume di fede e lume di scienza, una continuità tale per cui essa è una scienza completamente a parte. Lo Chenu è convinto che la scienza teologica cui perviene l’Aquinate è scienza quasisubalternata e perciò imperfetta, dove la categoria dell’analogia -come la relazione trinitaria di Boezio (cap. V)- mette in luce l’inadeguatezza di ogni nostro discorso su Dio173 .

172

Comm., q.5 a.4, ad 8m. Decker, 199-200. Di Dio noi non possiamo predicare nulla in maniera sostanziale, né si può obliterare quel ‘quasi’ usato da san Tommaso parlando del rapporto tra teologia e fede. 173

124

2. Il metodo scientifico della teologia.

In generale si può dire che il prezzo da pagare per il raggiungimento di uno statuto scientifico della teologia fu quello della sua specializzazione, tanto disciplinare quanto lessicale. Da qui siamo ricondotti nell’ambito dei ‘modi scientifici’, tema che fu tra le prime preoccupazioni di san Tommaso al suo ingresso tra i magistri di Parigi. Per quanto già visto della quinta questione, possiamo definire l’intera lectio tertia la parte propriamente ‘scientifica’ dell’opuscolo. Ma oltre alla suddivisione delle scienza speculative, essa contiene la specifica discussione del metodo delle rispettive scienze. Nell’expositio litteralis del secondo capitolo del testo di Boezio san Tommaso spiega che la Metafisica di Aristotele prescrive che prima della scienza è necessario indagare il modo di procedere della scienza 174 . Bisogna chiedersi cosa sia scienza, cosa non lo sia, e nel primo caso quale sia l’autentico metodo scientifico. Boezio apre il suo secondo capitolo dicendo: “entriamo in argomento”. Col verbo ‘ingredi’ esorta a ricercare più addentro alle cose già esposte, cercando di scrutarne “gli stessi intimi principi”. È necessario cioè oltrepassare il puro dato fenomenico presente immediatamente alla conoscenza, al fine di penetrare nell’intimità delle cose, di coglierne i principi costitutivi, la loro verità profonda che rimane occulta rispetto ad una visione superficiale. La maniera di tale procedere deve poi essere conveniens, cioè consona al modo in cui ogni cosa ‘vuole’ essere conosciuta.

174

Conviene chiarire una volta per tutte che presso i medioevali –e san Tommaso non fa eccezionemancava il vocabolo da cui deriva il nostro ‘metodo’: essi infatti utilizzarono con profitto il termine ‘modus’ per indicare il metodo della scienza, che traduce letteralmente il greco ‘tropos’. L’assenza del segno verbale corrispondente a quello moderno non significa peraltro che mancasse il concetto corrispondente: “anzi ci sembra che la ricchezza semantica del termine modus abbia consentito agli scolastici di disporre di un semantema estremamente duttile, applicabile alle molteplici sfumature implicate dal concetto di metodo”. Cf G. Galvan, cit., 191.

125

Presso l’Aquinate il discorso boeziano assume la forma di una specie di proporzione alla quale deve sottostare ogni discorso scientifico perché sia corretto. Già nel commento letterale san Tommaso va oltre Boezio. Ma non si tratta di infedeltà al testo, quanto, come abbiamo già avuto modo di vedere, di un’attualità impellente che esige un nuovo impegno e nuove risposte. Di certe cose si deve discutere in modo “congruo”, che vuol dire?: che il modo di trattare una materia delicata come un dogma di fede deve essere adeguato all’oggetto trattato e a chi conosce; in altre parole: il soprannaturale impone un metodo proprio, per cui il soggetto conoscente non può più seguire l’immaginazione, che astrae dalle cose sensibili i phantàsmata, ma deve ricorrere all’intelletto, che solo può rendere intelligibili queste altre realtà. Perciò Boezio citando l’Etica a Nicomaco del Filosofo, diceva che bisogna “cercare di acquisire certezza di qualunque cosa così come essa è”: credere, infatti, di poter raggiungere sulla Trinità una certezza matematica o tale quale quella della conoscenza sensibile, significa non vedere il vero in se del Trascendente. “Modus, quo aliqua discutiuntur, debet congruere et rebus et nobis”175 , dice san Tommaso: vediamo ora di chiarire meglio cosa intenda con quello che il Galvan chiama ‘principio della doppia congruenza’. I termini in gioco sono tre: il soggetto conoscente, l’oggetto conosciuto e -termine medio- l’abito scientifico. Non si viene così a costituire un semplice rapporto biuniovoco tra soggetto e oggetto, bensì una doppia contemporanea relazione tra i due termini estremi da una parte e l’abito scientifico dall’altra. Quest’ultimo è perciò determinato tanto rispetto al soggetto che all’oggetto: “sono due momenti di un tutto (la conoscenza scientifica) che si condizionano mutuamente, che non si possono separare e che non si

175

Decker, 158.

126

possono determinare se non in rapporto al tutto. Perciò la determinazione del modus di un

abito

scientifico

può

essere

condotta

convenientemente

solo

verificando

simultaneamente i due estremi della relazione secondo la loro reciproca influenza”176 . I verbi che Boezio usa e che san Tommaso riprende sono ‘intelligere’ (o anche ‘intellegere’), leggere dentro, e ‘capere’, prendere, quest’ultimo sostituito da san Tommaso con ‘cumprehendere’, di medesimo significato. Ogni cosa va conosciuta secondo i suoi propri gradi di eminenza ontologica e le relazioni che in base a questi essa intesse col tutto. Bisogna, in altre parole, restare continuamente fedeli alla ‘res’ e tornare sempre ad essa, senza la quale il nostro impulso alla conoscenza non esisterebbe. L’intelligere è per l’Aquinate ‘actus intellectus’, e in contrapposizione con l’afferrare del secondo verbo sembra voler indicare la dimensione passiva della conoscenza, l’assimilazione

dell’intelletto

alla

cosa,

dunque

la

garanzia

del

mantenimento

dell’oggettività. La dimensione attiva è dunque data del ‘capere’ e il cum del suo sinonimo aggiunge un carattere intensivo e olistico: in questo caso il soggetto aggiunge del suo all’immagine della cosa che la nostra mente riceve. Rispettivamente l’intellectus presiede al primo esercizio della facoltà conoscitiva, la ratio al cumprehendere. L’intellectus è per san Tommaso principio e termine della ratio, così come l’intellegere porta a compimento il capere. Anche presso san Tommaso questi non sono due diversi gradini della conoscenza umana, rispondono piuttosto a due modi diversi di conoscere e presuppongono la metafisica tomistica, dove l’essere ha dignità e preminenza ontologica di fronte alla semplice pretesa conoscitiva: la conoscenza umana non può dunque ultimamente esaurire la conoscibilità della cosa, il suo essere. Inoltre, come in Boezio anche in san Tommaso la scienza è intermedia tra il soggetto e l’oggetto, per evitare gli estremi del soggettivismo e del’oggettivismo: il primo è

176

G. Galvan, cit., 197.

127

controllato dalla ‘comprehensio’ il secondo dall’‘intellectio’. L’aderenza perfetta alla cosa, il puro atto intellettuale con cui se ne ammette in assoluta semplicità la sua verità, è l’ideale scientifico. Non si tratta di una mera rappresentazione delle proprietà e delle caratteristiche che il soggetto conoscente deve possedere per accingersi alla conoscenza della cosa: il livello speculativo è ben più elevato e riguarda, tanto presso Boezio quanto presso san Tommaso, il piano metafisico, piuttosto che il problema didattico della comprensibilità di un insegnamento o le attitudini soggettive del ricercatore. Anzi, bisogna dire che il metodo scientifico che ne emerge si misura in rapporto all’intellettualità dell’uomo, di modo che “la riflessione sulla natura della scienza e del metodo non richiede solo una fondazione metafisica, ma anche gnoseologica e antropologica. Il metodo, invero, non è riducibile a una ‘tecnologia’ del sapere scientifico che prescinda da una concezione dell’essere, della verità e del rapporto dell’uomo all’essere. Discettare su questioni epistemologiche senza chiarire tali presupposti rende inconcludente la discussione”177 . Come abbiamo mostrato metodo e oggetto di una stessa scienza sono tra loro intimamente irrelati: ogni disciplina scientifica indaga una parte della verità dell’oggetto trattato e lo fa in un modo che le è esclusivo, cogliendo cioè una proprietà essenziale dell’abito scientifico. Il modus scientiae si conforma pienamente in san Tommaso secondo il suo realismo- al modus essendi. Il costante riferimento di questa questione, come della successiva, è la critica tomistica all’idea che ci sia un secondo punto di partenza della nostra conoscenza che non siano i sensi: Aristotele domina dunque incontrastato. Innegabile è però l’esistenza di qualcosa

177

G. Galvan, cit., 201 nota 38. La più chiara e convincente dimostrazione di questo ce la dà sant’Agostino che imposta tutto il suo De Trinitate sull’idea dell’uomo immagine di Dio-Trinità, e perciò cerca l’immagine della Trinità anche nel sensibile -essendo questo ‘sensibile’ la “parte superiore dell’anima.”secondo le tre facoltà razionali dell’anima, memoria – intelligentia – voluntas che si dividono in due ordini corrispondenti al loro duplice oggetto, la conoscenza di sé e la conoscenza di Dio: memoria-intelligentiavoluntas sui e memoria-intelligentia-voluntas Dei.

128

che, come dice lo stesso Boezio nel suo secondo capitolo, non è solo ‘abstractum’ ma anche ‘separabile’: di quest’oggetto si occupa la teologia. Inoltre, tutta la discussione precedente non è passata invano e apporta a questa conclusione una luce nuova e originale: la gnoseologia antropologica costruita nelle quattro questioni precedenti sostanzia di sé le fondamenta stesse dell’epistemologia di san Tommaso. Dopo la suddivisione delle scienze speculative, la seconda parte del secondo capitolo del testo boeziano “mostra i modi congrui a ciascuna delle scienze citate [nella questione precedente]” e di questi approfondisce il modo di procedere più conforme all’indagine sulla Trinità. Siamo nell’ambito della divisione delle scienze speculative, oggetto dell’intera questione 5. Ma san Tommaso coglie qui l’occasione per toccare in maniera più specifica il modo di

procedere

dell’intelligenza

umana

di

fronte

ai

suoi

oggetti

di

conoscenza.

Un’occasione propizia, vista la posizione intermedia della matematica e del suo ‘modus sciendi’ rispetto alla conoscenza dell’invisibile da una parte, e quella del puro dato sensibile dall’altra, irrimediabilmente legata all’elemento materiale. L’articolo 3 della quinta questione indaga se la matematica “si occupi di ciò che è nella materia, prescindendo dal movimento e dalla materia stessa”. Qui san Tommaso, trattando delle scienze matematiche, tratta del rapporto tra l’oggettività e la soggettività della conoscenza umana. Ci interessa la responsio dell’articolo dove si trova il discorso sui tre tipi di astrazione. Esso è di importanza capitale per comprendere i termini e le premesse dell’impostazione metodologica dell’Aquinate. Infatti a livello speculativo, quello privilegiato da san Tommaso, fu il ‘principio di astrazione’ il mezzo attraverso cui nella tarda scolastica le

129

discipline speculative portarono a compimento la definizione del proprio ‘genus subiectum’. Il testo che ci accingiamo ad analizzare è assai tormentato e l’edizione critica del Decker ci mostra come solo dopo tre rifacimenti san Tommaso sia giunto alla redazione definitiva del passo. Dopo questo duro lavoro di ripensamenti, il pensiero dell’Aquinate trova qui, al terzo tentativo, la sua sistemazione definitiva sull’argomento, che non conoscerà nelle sue opere successive altre evoluzioni di rilievo178 . Il Geiger179 ha analizzato a fondo le differenze tra le redazioni di questo testo: egli rileva un’attenzione particolare dell’Aquinate per il momento soggettivo, di contro al primo articolo ed anche al secondo, dove ancora prevaleva per così dire la materia conosciuta. Puntualizziamo i passaggi salienti di quest’articolo. Tutta la prima redazione parte dall’idea della similitudine tra l’intelligenza e l’intelligibile; inizialmente l’incipit della responsio suonava infatti:

“Dicendum quod operatio intellectus completur secundum hoc quod intellectus (assi) conformatur intelligibili. Unde dicit Algazel quod scientiaest assimilatio scientis ad rem scitam, et Philosophus in XI Metaphysicae quod intellectus intelligit secundum transumptionem intelligibilis”180 .

Seguendo Boezio, san Tommaso ritiene ancora che l’intelletto possa separare ciò che non è separato nella realtà:

178

S. Vanni-Rovighi, L’unità del sapere secondo Tommaso d’Aquino, cit., 72. Seguiamo il suo articolo Abstraction et séparation d’après s. Thomas in De Ttrinitate, q.5, a.3 apparso la prima volta nel 1947 sulla Revue de sciences philosophiques et théologiques (pp. 3-40), poi pubblicato all’interno del volume Philosophie et Spiritualité, 2 voll., Éditions du Cerf, Paris 1963, vol. I, 87-124. Il Geiger segue per l’edizione del commentario quella curata dall’Uccelli nel 1880. Noi invece quella più recente del Decker (1955). Questi in appendice alla sua edizione critica ha raccolto le liturae in autographo che riportano appunto le tre redazioni della responsio in questione, segnalando anche in corsivo le parole che san Tommaso aveva cancellato già nella prima stesura. 180 Decker, 231. 179

130

“Et inde est quod ea quae inveniuntur secundum rem coniuncta dividuntur quandoque per operationem intellectus. Unde Boethius in libro De hebdomadibus: multa sunt, quae cum separari actu non possunt, animo tamen separantur et cogitatione”181 .

Rileva però già qui un limite, poiché

“Non tamen omnia, quae sunt coniuncta secundum rem, possunt separari per intellectus. (…) Non tamen intellectus potest inter quaelibet duo separare”182 ,

e spiega che ciò che può stare senza altro può essere conosciuto senza di esso, mentre ciò che non può trovarsi senza un’altra cosa non può essere conosciuto indipendemente da quella. La dipendenza dell’esse dall’essenza, che san Tommaso ha sempre avuto presente, limita la conoscenza che possiamo avere di qualunque cosa che non sia già separato in natura. La soluzione di quest’impasse è avviata nella seconda redazione che introduce la distinzione -mantenuta anche nella terza- tra la semplice apprensione e l’azione del comporre e del dividere. In generale, ciò che è importante notare è che san Tommaso non abbandona mai il piano della semplice apprensione della quiddità, che dia ragione di un’irriducibile oggettività del conosciuto. Tuttavia, ancora nella seconda redazione l’Aquinate dà il suo credito alla successione cronologica di simultaneità, anteriorità e posteriorità in riferimento a quelli che poi vedremo essere i tre gradi astrattivi. L’incipit di questa seconda redazione sostituisce il riferimento alle operazioni intellettuali con quello ai “modi abstractionis” presente nella prima: evidentemente san Tommaso tentava così di dare in qualche modo ragione dell’oggettività del processo conoscitivo,

181 182

Ibid. Ibid., 232.

131

trasferendo la ‘soggettività’ delle prime ai modi delle diverse operazioni dell’intelletto. Subito dopo parla infatti di “duae actiones” che rappresenterebbero quasi le “rationes eorum”. I modi astrattivi non compaiono affatto nella terza ed ultima redazione: di questo tipo di distinzione san Tommaso tratterà nel primo articolo della questione successiva. Qui egli parla invece di “duplex operatio intellectus”183 , che alla fine diventa astrazione –nelle sue due manifestazioni di abstractio formalis e abstractio universalis- e di separazione:

“Sic ergo intellectus distinguit unum ab altero aliter et aliter secundum diversas operationes; quia secundum operationem, qua componit et dividit, distinguit unum ab alio per hoc quod intelligit unum alii non inesse. In operatione vero qua intelligit, quid est unumquodque, distinguit unum ab alio, dum intelligit, quid est hoc, nihil intelligendo de alio, neque quod sit cum eo, neque quod sit ab eo separatum. Unde ista distinctio non proprie habet nomen separationis, sed prima tantum. Haec autem distinctio recte dicitur abstractio, sed tunc tantum quando ea, quorum unum sine altero intelligitur, sunt simul secundum rem” 184 .

Da questo il Geiger conclude che “la distinzione tra astrazione e separazione è stata adottata da san Tommaso, di preferenza alla distinzione tripartita dell’astrazione, per una decisione meditata. (…) Se san Tommaso l’ha abbandonata per una classificazione più complessa, ci devono essere state serie ragioni dottrinali che hanno determinato questa scelta”185 . E più avanti lo studioso dice che tale nuova distinzione “non presenta affatto tre gradi che rifletterebbero un’operazione uniforme in tre diversi livelli”186 . L’intelletto più che distinguere coglie l’intelligibilità del reale nelle sue differenti direzioni: in questo

183

La prima operazione riguarda la natura stessa della cosa compresa; la seconda l’essere della cosa, che nelle sostanze composte è dato dall’unione dei principi della cosa stessa, mentre nelle separate si identifica con l’essenza. 184 Decker, 183. Il corsivo è nostro. 185 L. B. Geiger, cit., 104. Traduz. nostra. 186 Ibid.

132

senso “al posto di tre gradi d’un astrazione formale, noi abbiamo dunque operazioni dell’intelligenza e strutture obiettive differenti dalla semplice apprensione e dal giudizio negativo da una parte e, dall’altra, dal rapporto del tutto alle sue parti accidentali, della forma al suo soggetto, all’interno di un’unità complessa; infine abbiamo l’indipendenza ontologica di diversi modi dell’essere. “Lungi dal tendere verso l’uniformità, sia da parte del soggetto sia da parte dell’oggetto, san Tommaso sottolinea le differenze, inizialmente solo quelle dell’oggetto, che di conseguenza portano con sé le differenze degli atti del soggetto”187 . In questa direzione va l’affermazione, mantenuta da san Tommaso fino alla redazione definitiva dell’articolo, secondo cui “veritas intellectus est ex hoc quod conformatur rei”188 , sottolineando fin dall’inizio la dipendenza del processo mentale dal dato reale e, tirando le somme di questo discorso, dice: “tertia (distinctio) secundum tandem operationem quae est abstractio universali a particulari; et haec competit etiam physicae et est communis omnibus scientiis”189 , col che è chiaro che nessuna scienza può prescindere dall’astrazione propria della fisica, quella che fonda il metodo induttivo: ognuna delle tre scienze astrae, dal momento che ogni scienza tralascia ciò che è accidentale e prende in considerazione ciò che è per sé. Da un capo all’altro di questa responsio domina Aristotele: dall’intellezione degli indivisibili del cap. 6 (in part. 430a26-28) all’astrazione matematica e naturale del cap. 7 del primo libro del suo De anima. Facciamo ora alcune importanti osservazioni conclusive. Alla fine della responsio (ci riferiamo ormai solo alla redazione finale) san Tommaso cambia completamente impostazione rispetto all’iniziale bipartizione dei tipi astrattivi: vediamo i termini della questione. L’astrazione è di due tipi: quella che riguarda l’unione della forma con la 187

Ibid. Decker, 182. 189 Ibid, 186. 188

133

materia o dell’accidente col soggetto; l’altra che riguarda l’unione del tutto con la parte. La prima è l’astrazione della forma dalla materia sensibile; la seconda è l’astrazione dell’universale dal particolare, cioè del tutto essenziale dalle sue parti accidentali. Poi san Tommaso conclude (ergo) che l’operazione dell’intelletto ha una triplice distinzione: “una secondo l’operazione dell’intelletto componente e dividente, che può essere chiamata separazione in senso proprio, e che compete alla scienza divina o metafisica”; in questo campo è possibile la separazione della sostanza anche dalla quantità, cioè la considerazione della materia senza le sue determinazioni spaziali. “Un’altra (…) che consiste nell’astrazione della forma dalla materia sensibile, ed è quella che compete alla matematica; la terza (…) consiste nell’astrazione dell’universale dal particolare, ed è quella che compete anche alla fisica. Le operazioni sono ora tre, di cui due sono appunto questi due tipi di astrazione, mentre la separatio costituisce la terza operazione, che è introdotta dall’Aquinate ad un certo punto del testo senza un’adeguata spiegazione. Propriamente parlando in effetti non ci sono diversi modi di conoscere. Vi sono invece diverse operazioni intellettuali per quanti sono gli atti conoscitivi, in cui l’anima umana resta sempre una, e ognuna di esse esiste perché è la più adeguata a quel determinato atto conoscitivo. La realtà dal canto suo è complessa, ma non molteplice. Dov’è allora il punto che ci permette di sciogliere questo nodo? Quando si parla di astrazione della forma dalla materia a proposito delle cose sensibili, non si intende propriamente la forma essenziale, ma quella accidentale: la prima infatti è interdipendente dalla materia corrispondente, “e una non può essere compresa senza l’altra”. Corre, quindi, una grossa differenza tra separazione e astrazione: la prima distingue che due cose non ineriscono punto tra loro; nella seconda, l’operazione con cui l’intelletto comprende il quid est di una cosa non dipende dalla comprensione dell’essenza dell’altra. Questo tipo di

134

distinzione è l’astrazione vera e propria, a condizione che “quelle cose di cui una si può comprendere senza l’altra sono insieme nella realtà”. Allora ogni relativismo è bandito ed è così ancora una volta salvata sotto molteplici punti di vista l’unità del sapere, ma soprattutto ci possiamo spiegare quell’apparente incongruenza come la coscienza di un salto incolmabile tra due realtà diverse: il naturale e il soprannaturale. Così si spiega tanto l’errore di Pitagora che quello dei platonici: non aver compreso la differenza tra le ultime due forme di astrazione e la prima che è invece propriamente separazione; essi posero gli enti matematici e le idee universali separati dai sensibili, incorrendo nell’idealismo che non riconosce alcuna realtà sensibile alle forme essenziali. Di qui scaturisce la soluzione di realismo moderato che san Tommaso diede nell’ambito della disputa degli universali, contro coloro i quali facevano delle immagini astratte dalla materia idee eterne abitanti un mondo inattingibile. Nella terza parte del primo articolo della sesta questione san Tommaso -indagando l’opportunità e, nel caso, la necessità dei modi di procedere proposti da Boezio per ognuna delle tre discipline speculative190 - approfondisce con particolare attenzione il metodo della scientia divina. Prima di passare direttamente al modo scientifico che qui ci interessa, quello della teologia, ci sembra interessante occuparci brevemente del metodo matematico. Seguendo il padre Chenu possiamo dire che il punto di partenza per la definizione del metodo matematico come disciplinabiliter è la distinzione tra ars e disciplina che ha contribuito ad orientare disciplina verso valori tecnici determinati191 .

190

“In naturalibus igitur rationabiliter, in mathematicis disciplinabiliter, in divinis intellectualiter versari oportebit”. Decker, 157. 191 M. D. Chenu, Notes de lexicographie philosophique médiévale – ‘Disciplina’, Revue de sciences philosophiques et théologiques, Vrin, Parigi, XXV, 1936, 686-692.

135

La certezza infallibile della matematica, in virtù della quale ogni scienza che mostri di possederla si dice ‘disciplina’, pone in gioco il termine scienza, e infatti le ultime due questioni rappresentano l’’affondo’ tomistico contro i detrattori della teologia intesa come ‘epistème’ in senso aristotelico. Il ragionamento dell’Aquinate si sposta rapido dal senso vago di sapere pedagogicamente trasmesso (“acceptio disciplinae”) a quello, appunto, più strettamente aristotelico, che si fonda

sulla

certezza

tipica

degli

assiomi

matematici.

“Ciò

che

fonda

queste

considerazioni, filosofiche e pedagogiche, è la teoria dell’astrazione, principio di determinazione e di classificazione delle scienze secondo l’epistemologia aristotelica”192 . Il procedere disciplina(bi)liter della matematica si colloca tra la metafisica e la fisica, “nel senso che, rispetto alle forme corporee da conoscere fuori della materia sensibile, lo spirito umano ricorre contemporaneamente all’imaginatio e alla ratio (…). Così è fissato, nel campo psicologico, il contenuto del termine disciplinalis, attraverso un ricorso attivo all’immaginazione e per il contemporaneo uso della dimostrazione, -che non è sbagliato definire lo spirito matematico”193 . Resta la scienza divina e il modo “intellectualiter procedere”. Come la scienza naturale ha il diritto di precedenza sul modo di procedere della ragione, così compete soprattutto alla teologia il modo dell’intelletto. Ma la ragione differisce dall’intelletto come la molteplicità differisce dall’unità o, per usare immagini che lo stesso Boezio utilizza nel quarto libro del suo De consolatione, come l’eternità sta al tempo e il cerchio al suo centro. La ragione, infatti, ha la capacità di abbracciare campi molto ampi, ma di cui può raccogliere solo una conoscenza semplice. Seguendo Dionigi nel settimo capitolo (VII, 2) del suo De divinis nominibus194 , possiamo dire che l’anima umana coglie più cose

192

Ibid., 688. Traduz. nostra. Ibid., 692. 194 “Anche le anime hanno il discorso razionale, in quanto si muovono diffusamente e in circolo attorno alla verità degli esseri, rimanendo inferiori alle intelligenze unitive per la divisibilità e la larghezza della 193

136

nelle loro interrelazioni, mentre l’intelletto angelico coglie come un punto e in maniera immediata la verità di ogni cosa nella sua singolarità: l’intelletto umano è, invece, troppo debole e la sua capacità di concentrazione troppo ridotta. Così come Dio -che, conoscendo la propria essenza, conosce tutte le cose- gli angeli, anch’essi sostanze separate (dalla materia), riescono a considerare una sola semplice verità, e da questa e in questa acquisiscono la conoscenza di tutta la molteplicità. Esiste un rapporto biunivoco tra la ragione e l’intelletto: per risoluzione la considerazione razionale termina in quella intellettuale; a sua volta quest’ultima è principio di quella razionale secondo la composizione o ‘inventio’. Il primo è un movimento che risale dalle conclusioni ai principi, risolvendo le prime nei secondi; composizione è il movimento opposto, che procede dai principi alle conclusioni195 . Nel primo caso, spiega lo stesso san Tommaso, “la ragione raccoglie da più cose una sola semplice verità”; nel secondo “l’intelletto comprende in uno la molteplicità.” L’apice di tutta l’attività razionale umana, incalza l’Aquinate, è la “intellectualis consideratio” e “l’intera considerazione della ragione termina in tutte le scienze, secondo la via della risoluzione, nella considerazione della scienza divina”. Una certa forma di ‘compositio’ si ha quando la ragione procede dagli effetti alle cause, “per il fatto che queste ultime sono più semplici degli effetti, e sono dotate di una permanenza più stabile e uniforme”. Di conseguenza, proseguendo su questa strada, l’ultimo gradino sarà raggiungere le cause supreme più semplici, cioè le sostanze separate. Questo avviene quando la ragione procede da una cosa all’altra ‘in senso reale’; ma può anche avvenire che essa proceda da un termine all’altro soltanto dal punto di vista della considerazione, per esempio attraverso cause estrinseche. Pure in questo caso le vie sono due: la composizione, dalle varietà. Ma in seguito alla riduzione in ellisse dai più nell’uno, possono essere stimate degne di intellezioni simili a quelle degli angeli, per quanto è possibile e raggiungibile da parte delle anime”. 195 Nella traduzione del Maurer, op. cit., troviamo la terminologia, a noi più vicina, di ‘analisi-sintesi’; con il Porro noi ci atteniamo, invece, al lessico scolastico e manteniamo la coppia concettuale ‘risoluzionecomposizione’.

137

forme più universali a quelle più particolari, o la risoluzione, dal particolare a ciò che è più universale. Ora, ciò che è più universale è più semplice ed è “comune a tutti gli enti, e perciò il termine ultimo della risoluzione in questa via è la considerazione dell’ente e delle proprietà che gli appartengono in quanto tale”. Ma proprio quest’ultimo è ciò di cui si occupa la scienza divina, dal che risulta chiaramente che la sua considerazione è soprattutto e al massimo grado intellettuale. Inoltre, essa è principio di quella razionale e fornisce i principi a tutte le altre scienze, motivo per cui è chiamata filosofia prima. Nel cammino di risoluzione, prima della teologia, incontriamo la fisica e poi la matematica: per questo la scienza divina è chiamata anche metafisica, perché “la considerazione intellettuale è il termine di quella razionale”. Con san Tommaso possiamo concludere che: - alla teologia compete in modo precipuo il modo ‘intellectualiter’; - questo non esclude anche nella scienza divina il ricorso alla ragione; - perciò, il modo di ragionare della scienza divina tra-scorre dai principi alle conclusioni, ma la distanza tra i due termini è più breve che nelle altre scienze e, perciò, il suo metodo è più prossimo alla considerazione intellettuale; - “anche la conoscenza della fede spetta soprattutto all’intelletto: infatti non accogliamo le verità di fede per mezzo di un’indagine razionale, ma le accettiamo attraverso un atto semplice dell’intelletto”. Noi, però, non arriviamo mai ad una vera ‘comprensione intellettuale, che costituisce invece il nostro premio celeste; - all’uomo è, dunque, concesso di raggiungere, se non una vera e propria uguaglianza, almeno una similitudine con la conoscenza angelica relativamente al suo termine; - Dio stesso è superiore all’intelletto umano per ciò che riguarda la Sua essenza, ma non per la Sua esistenza. Solo ai beati è tuttavia concessa la Sua intima conoscenza. Inoltre, la

138

scienza divina non si occupa soltanto di Dio, ma anche di altre cose “che non eccedono l’intelletto umano, anche nello stato di viatori, per ciò che riguarda la conoscenza della loro essenza”; - san Tommaso tenta, in ultima analisi, di ricostituire in unità il regime bifronte della metafisica aristotelica: e lo fa non con la semplice subordinazione gerarchica della componente ontologica a quella teologica, ma col doppio movimento che raggiunge l’ente per due vie parallele. Allo stesso modo la metafisica è origine e meta della nostra conoscenza per un doppio movimento, (“come se essa fosse in qualche modo, circolarmente, prima e dopo di sé”): è ultima nel processo di risoluzione (ultra-fisica); ma è prima nel processo di composizione, perché precede ogni altra scienza 196 . Con lo Chenu possiamo riassumere l’intera questione nel seguente precetto, che rappresenta il proposito in cui Aristotele aveva condensato il suo spirito:

“Optimum dictum videtur, eruditi est hominis unumquodque, ut ipsum est, ita de eo fidem capere temptare”197 .

Grazie alle estreme conseguenze cui Boezio aveva condotto il processo astrattivo della sua logica, viene fondata un’epistemologia dotata del principio di autonomia delle diverse scienze. Questo è dovuto alla possibilità di isolare l’oggetto proprio di ogni scienza, il che –è vero- porta con sé il rischio di un formalismo che rappresenta il giusto prezzo da pagare per questa emancipazione. In questo senso Boezio è ancora una volta ‘traduttore’ di Aristotele: “Boezio non trasmette soltanto la classificazione delle scienze a partire dai gradi di astrazione, ma anche il senso profondo dei livelli d’intelligibilità che si impongono alla vita dello spirito umano.

196 197

Cf l’Introduzione del Porro alla sua edizione dei commenti tomistici a Boezio, 30. De Trinitate, cap. II. Decker, 157.

139

Gli stessi agostiniani, alla cui mentalità totalitaria ripugnavano queste autonomie poetiche, lasciarono che queste grandi regole di discernimento e di metodo si conficcassero, come un cuneo, nel dualismo materia-spirito che sostiene il loro spiritualismo”. Ma bisogna al contempo rilevare la componente neoplatonica del pensiero boeziano, che d’altra parte costringe continuamente la mente umana ad aborrire “il passaggio omogeneo dal logico al reale”: è un parlarsi addosso continuare a interrogare se stessi, isterilirsi sul proprio discorso dialettico; occorre invece spezzare il circolo e ‘far parlare’ gli oggetti esterni, lasciando che l’astrazione introduca l’unico elemento soggettivo, estraneo al reale. Ma cosa ne è della dialettica dopo questa critica al suo fondamento? “Avrà ancora valore la dialettica, e in che modo, per le nozioni più universali, l’essere, il vero, il bene? Il neoplatonismo gioca qui, in Boezio e nella teodicea dei suoi discepoli, contro la logica aristotelica”198 .

198

Abbiamo seguito con discrezione la traccia dello Chenu alle pp. 172-3 del suo La teologia nel dodicesimo secolo, cit.

140

Capitolo V: san Tommaso come sant’Agostino, la creaturale ‘infermità intellettuale’ dell’uomo.

La sesta è l’ultima delle questioni che la tradizione manoscritta ci ha tramandato del testo tomistico. Abbiamo già notato che san Tommaso si ferma proprio un passo prima della trattazione diretta del tema oggetto del suo commento. A questo punto sussistono due questioni concernenti la sua l’integrità: se bisogna intenderlo come un’ennesima incompiuta; e se sì, quali ipotesi si possono avanzare sulla ‘parte mancante’ alla luce anche della prima pars della Summa Theologiae qq. 27-43. L’ultimo capoverso dell’expositio litteralis non è chiaro. San Tommaso rimanda alla disputa per quanto riguarda la trattazione sui “modi congrui a ciascuna delle scienze…”199 , dando così modo di pensare che il resto del secondo capitolo del trattato boeziano sia oggetto di analisi non solo degli ultimi tre articoli (come una semplice osservazione dei titoli rende subito chiaro) ma anche, e in primo luogo, del resto della stessa expositio. Poi, però, l’expositio si chiude non facendo più menzione della materia trattata appunto nei tre articoli finali, eccezion fatta per un’osservazione200 che rimanda semplicemente al testo boeziano. Bernardo Gui, dopo Guglielmo di Tocco il principale biografo di san Tommaso, riferisce un episodio che sembra confermare l’idea di un’incompiuta. Mentre dettava una parte della sua Expositio De Trinitate, san Tommaso era così assorto nella sua meditazione che

199 200

“…et huius partis [modorum congruorum] expositio relinquitur disputationi”. Decker, 160. “…, cuius [formae] condiciones consequenter exponit ingrediens ad propositam inquisitionem”. Ibidem.

141

non si era accorto che la candela che manteneva in mano aveva iniziato a bruciargli il dito. Lo Elders cita Nicola Trevet che scrive: “sed super librum eiusdem de Trinitate expositionem inchoatam nequaquam perfecit”201 . Uccelli suppose che “commentarium inabsolutum remansisse non quia sanctus Doctor ‘expositionem inchoatam non perfecit’, ut Trivetus…tradit, sed potius quia fasciculus, qui finem opuscoli complectebatur, excidit”. Questa congettura è sostenuta dal fatto che alla fine dell’ultima pagina (f.103 o 104) nel corso dell’esposizione san Tommaso scrisse le prime parole del testo di Boezio richiamandosi al foglio che segue. Contro questa opinione, sembra al Decker impossibile che un unico fascicolo fosse sufficiente per contenere la stesura di tutta l’Expositio di Boezio e tuttavia gli esempi in tal senso sono numerosi. Ciononostante, secondo lo studioso quel riferimento di san Tommaso, e gli altri rintracciabili, provano soltanto che il filosofo aveva intenzione di continuare l’esposizione iniziata: “ma se l’abbia davvero continuata –per non dire portata a termine– non sappiamo. Anzi, è da ipotizzare che san Tommaso abbia lasciato incompleta l’esposizione, visto che in tutta la tradizione manoscritta non vi è traccia del resto dell’opera (…). Ignoriamo d’altronde il motivo per cui san Tommaso non abbia portato a termine l’esposizione, e la datazione dell’opera mostra chiaramente che non fu a causa della morte prematura”202 . Il Decker propende dunque più per l’ipotesi negativa. Altri studiosi sono anche giunti a chiedersi perché san Tommaso avrebbe o meno voluto terminare l’opera203 , fino al caso limite della ricostruzione congetturale dello Hall204 , che

201

L. Elders, cit., 16. Decker, 43. Entrambe le citazioni dell’Uccelli sono del Decker che nell’introduzione alla sua edizione critica tratta “de quaestionibus ad historiam Expositionis spectantibus”. 203 Si veda per esempio il Neumann che, citando Nicola Trivet (“sed super librum eiusdem de Trinitate expositionem inchoatam nequaquam perfecit”), giunge alla conclusione che san Tommaso voleva trattare 202

142

anzi si stupisce della completa assenza nella letteratura di tentativi di completare l’opera nella sua parte mancante. Questi pone, infatti, come una semplice possibilità l’impresa di anticipare ciò che l’Aquinate non ha scritto205 . Egli ritiene inoltre che la causa della parzialità dell’opera -al di là della messe di nuovi impegni accademici di san Tommaso che lasciavano poco spazio a qualunque altro lavoro- sia la difficoltà dell’agnosìa presente nello stesso trattato206 . Il passo immediatamente successivo sarebbe stato secondo lo studioso trattare della Trinità, un passaggio a suo avviso eccezionalmente difficile da compiere. Dei due perni dell’opera -il metodo metafisico e il metodo della teologia trinitaria sistematica- sarebbe proprio quest’ultimo la parte mancante. Infatti, le ultime due questioni sono state le più analizzate filosoficamente, con particolare attenzione al concetto di ‘separatio’ e alle sue implicazioni ontologiche.

commentando esattamente fino al punto in cui la tradizione ci informa. Il filosofo avrebbe trovato tutti gli spunti che gli servivano a tale scopo già nei capitoli iniziali del trattato boeziano. Cf S. Neumann, cit., 9. 204 D. C. Hall, cit. 47. 205 In qualche modo l’Aquinate tratta temi del terzo capitolo dell’opusculum boeziano, ma solo perché già introdotti dal primo capitolo e poi meglio approfonditi. Hall parte dunque dall’evidenza che l’opera non è mai stata continuata e prende le mosse dallo stesso testo –quello boeziano- che l’Aquinate avrebbe ancora avuto sotto gli occhi se avesse effettivamente continuato il suo commento Nel secondo capitolo Boezio aveva stabilito che alla Trinità non si addice il ‘tre’ come lo intendiamo noi naturalmente, cioé sulla base di una distinzione spaziale fra oggetti tra loro distinti. I capitoli 3-6, perciò, avrebbero potuto o dovuto contenere secondo lo Hall una trattazione di questo punto. Innanzitutto, il fatto che per la mente finita dell’uomo non vi è nella Trinità alcuna differenza: ciò non significa che essa non sussista, ma solo che non è percepibile da noi per i quali solo l’esistenza di Dio è, mentre nella sua essenza –a noi ignota- tutto resta agli occhi della nostra ragione indistinto. Il secondo passaggio sarebbe la conclusione che nell’amb ito della trinità l’unica distinzione possibile è la “relazione di un identico con un altro identico”. Inoltre, dire che Dio è ‘soggetto’ delle nostre predicazioni è improprio, per lo meno nel senso naturale dato a questa espressione. Senza addentrarci oltre in questa direzione possiamo dire che se l’Aquinate avesse continuato a seguire Boezio, avrebbe con lui concluso che predicati come ‘padre’ o ‘figlio’ sono termini relativi e e le relazioni non aggiungono né sottraggono termini ma intercorrono tra termini, i quali esistono indipendentemente dalle relazioni: “Se dunque il Padre e il Figlio sono predicati secondo la categoria della relazione e non differiscono in nulla (…) altro che per la sola relazione, e se poi la relazione non viene predicata rispetto a ciò di cui si predica per così dire in se stessa, e secondo la realtà di cui vien detta, non darà luogo ad un’alterità delle realtà di cui vien detta, ma, se così può dirsi (…), delle persone” (De Trin., cap. V: ediz. it. dell’Obertello, cit., 375). Lo Elders (cit., 16) ricostruisce il numero delle questioni mancanti, in tutto ventidue, che avrebbero completato il commento tomistico all’opera di Boezio: “If St. Thomas would have made questions concerning the entire text of Boethius’ in the way he did on its first part, some four more questions on chapter tow would have been necessary, four on chapter three, eight on chapter four, four on chapter five and two on chapter six”. 206 D. C. Hall, cit., 119.

143

Tuttavia, il ruolo di queste ultime per lo status del linguaggio teologico non è stato sviluppato da san Tommaso e perciò non trova posto nella letteratura critica. Ci siamo soffermati su queste congetture per sollevare qualche dubbio su una visione a nostro avviso monotematica, e per questo riduttiva, del piano generale dell’opera: per san Tommaso la Trinità non consiste nell’esemplificazione –quasi un pretesto- del proprio metodo teologico-speculativo. A nostro avviso il troncamento dell’opera -‘voluto’ o meno da san Tommaso- corrisponde al limite oggettivo imposto dall’effettiva parzialità della trattazione del domma trinitario. Per noi infatti l’architettura e la sequenza dei temi trattati testimonia del preciso intento di risolvere questioni più urgenti: nel suo commento l’Aquinate si è fermato non a caso a metà circa del secondo capitolo, esattamente fino all’esposizione del metodo, delle possibilità e dell’ambito della nostra scienza delle cose divine, mentre subito dopo Boezio inizia a trattare specificatamente del problema trinitario da lui stesso fissato e formulato. “Ultimamente, l’umana natura non può superare i limiti della sua comprensione, ed anche i tentativi teologici pieni di fede di penetrare nel mistero della Trinità finiscono più in una posizione di orante ‘agnosìa’ che di vittoria accademica”207 . Sembra allo studioso questa la migliore e più compiuta sintesi tomistica di metodo e Trinità, anche considerato che il “Trattato sulla Trinità” presente nella Summa Theologiae non fornisce riflessioni metodologiche, se non quelle che si rifanno alla prima questione della prima parte sullo status e il metodo della teologia, che appaiono comunque troppo brevi e semplicistiche. In questo senso si può intendere la conclusione del commento tomistico come l’estrema prova dialettica della teologia, e il fatto che san Tommaso non abbia ulteriormente

207

Ibid., 120.

144

seguito Boezio rappresenta quasi la presa d’atto che non c’era più nulla di possibile da dire. È ormai chiaro che la conoscenza umana e l’argomento trinitario sono strettamente legati tra loro. Per il solo fatto che anche tale indagine è condotta dall’uomo, un problema apparentemente lontano dalla gnoseologia stricto sensu si trasforma automaticamente in una discussione sulle capacità conoscitive dell’uomo stesso. Come osserva infatti lo Hall “in quanto la natura fondamentale dell’uomo è considerate come ‘imago Dei’, la questione trinitaria è anche ultimamente una questione antropologica. Ugualmente, la ‘questione antropologica’, in quanto è sollevata dalla coscienza umana piena di fede, è anche ultimamente la ‘questione trinitaria’”208 . In questo campo san Tommaso si muove in linea con le conclusioni di sant’Agostino. Scritto circa un secolo prima di quello boeziano, il De Trinitate di sant’Agostino, modello di quello boeziano e punto di riferimento del pensiero teologico tomistico, si conclude con l’immagine evangelica di un uomo infermo e debole che implora la guarigione spirituale del medico che può tutto: sant’Agostino si rende conto di non “aver detto nulla che sia degno di quella suprema e ineffabile Trinità”209 e di non essere riuscito a aportare alla luce della comprensione umana la distinzione fondamentale tra generazione e processione, chè così avrebbe spiegato come mai non chiamiamo ‘Figlio’ tanto Gesù quanto lo Spirito Santo, pur provenendo entrambi dal Padre210 . Per Agostino i quindici libri della sua opera furono più un maestoso tentativo che un successo211 . Cominciato nel 399, il De Trinitate fu terminato dal vecchio Agostino nel 419 o forse più tardi212 . Il mistero trinitario si rivelò insondabile213 .

208

Ibid., 9. l. XV, cap. 27, 50. Per il De Trinitate di sant’Agostino utilizziamo l’edizione latino-italiano Città Nuova Editrice, Roma 1973. 210 Cf II, 3, 5 e XV, 25, 45. 211 Cf XV, 25, 45: “quamvis et in ipso intellectu conatum me senserim magis habuisse quam effectum”. 209

145

Come sant’Agostino anche san Tommaso sentì sempre più insistente -ma già da giovanissimo- il senso del limite della conoscenza umana, “il presentimento di una immensa zona di realtà e di verità che sfugge all’intelligenza umana e verso la quale tuttavia è diretta una segreta aspirazione dell’uomo”214 . Secondo la testimonianza di Bartolomeo da Capua, a Reginaldo da Piperno che lo esortava a terminare la sua Summa san Tommaso rispose: “Raynalde, non possum, quia omnia quae scripsi videntur michi palee”215 . Non è perciò senza importanza che il suo Commento al De Trinitate, l’opera in cui meglio avrebbe potuto fornire un’indagine razionale del mistero trinitario, sia anch’essa rimasta incompiuta. Rispetto al De Trinitate agostiniano216 quello di Boezio si pone come approfondimento logico-filosofico del dogma, mentre il commento di san Tommaso a sua volta risulta essere l’analisi più penetrante, sia pur incompiuta, delle condizioni soggettive ed oggettive delle nostre facoltà conoscitive di fronte alle profondità di questo mistero. Per il Dottore africano tra l’uomo e Dio intercorre una “somiglianza simile e dissimile” allo stesso tempo: “ciò permette al vescovo di Ippona di conservare, nonostante la speculazione ardua e fiduciosa, la trascendenza divina e il senso del mistero; e perciò gli permette di evitare il grave errore di coloro, i quali pur partendo dalla fede, spingono tanto avanti l’indagine teologica da pretendere di ridurre al livello della ragione il contenuto del mistero trinitario”217 . Le ultime parole dell’Aquinate che indagano al

212

Cf il Prologo: “I libri sulla trinità, sommo e vero Dio, li cominciai da giovane e li ho pubblicati da vecchio. 213 Cf l. XV, cap. 26. 214 S. Vanni-Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, cit., 40. 215 Cit. in ibid., 37. 216 “Nel De Trinitate (di sant’Agostino) la filosofia è in funzione della teologia e la teologia in funzione della mistica”, Introd. dell’ediz. cit. del De Trinitate agostiniano, XLIII. 217 Introd. dell’ediz. cit. del De Trinitate, XLI. Sono questi gli stessi ‘semirazionalisti’ il cui errore per altro verso sant’Agostino condanna in apertura del primo libro, come coloro i quali “disprezzano di partire dalla fede e sono tratti in inganno da uno sconsiderato quanto fuorviato amore della ragione”. L’errore consiste più precisamente nell’applicare a Dio le categorie proprie solo delle cose sensibili.

146

massimo grado il problema della Trinità alla luce della ragione naturale e al riparo della fede nell’unico Dio, sono agnosìa e senso del mistero218 .

218

Così si esprimerà qualche anno dopo: “La ragione umana da sé non può conoscere la Trinità, perché essa da sé conosce Dio in quanto causa del mondo, e Dio ne è causa in quanto è uno nell’essenza, non in quanto è trino nelle persone”(Summa Theol., I, q.32 a.1;ed. it. cit., p. 40).

147

Capitolo VI

Oltre l’agnosìa la scienza del mistero.

I tre articoli conclusivi della sesta questione (e dell’intero commento) trattano di come il nostro modo di conoscere -proporzionato alla nozione degli oggetti sensibili- sia in grado di rapportarsi alle cose divine. Al secondo articolo san Tommaso chiede “se sia necessario rinunciare del tutto all’immaginazione nelle cose divine”. Abbiamo evidenziato ‘tutto’ perché, come si sarà forse notato, le ultime due questioni non consentono una soluzione univoca. Per questo san Tommaso ha qui indebolito la forza argomentativa dei sed contra a tutto vantaggio della responsio, che guadagna ampiezza e un ruolo determinante nella soluzione della disputa. Sembra che la scienza divina non possa fare a meno di fondarsi sull’immaginazione. Infatti la stessa Sacra Scrittura, che è la trattazione più compiuta delle realtà divine, ricorre spesso all’immaginazione attraverso figure sensibili. La comprensione di tali cose ha bisogno poi di due elementi: l’intelletto, che si serve nel suo procedimento dei fantasmi, e “l’illuminazione del raggio divino” e questo, per esprimerci con i termini del primo capitolo della Gerarchia celeste di Dionigi, “è impossibile che (…) risplenda per noi in altro modo se non in quanto avvolto dalla varietà dei sacri veli”, dove i ‘sacri veli’ stanno per le immagini delle realtà sensibili.

148

Abbiamo anche visto come il primo gradino per giungere alle cose divine è la considerazione delle realtà sensibili, che sono come gli effetti delle soprannaturali, e il principio della nostra conoscenza è l’immaginazione. Ma nella risposta san Tommaso distingue innanzitutto tra principio e termine che in ogni conoscenza sono due cose diverse e cronologicamente successive l’una all’altra. Il primo spetta all’apprensione, il secondo invece al giudizio, in cui può dirsi compiuto il processo della conoscenza. La conoscenza comincia dunque coi sensi, per poi procedere con la fantasia, e da questa estendersi fino all’apprensione intellettiva, “dal momento che i fantasmi si rapportano all’intelletto come oggetti”. Il principio non può, dunque, cambiare, ma il termine sì: la nostra conoscenza può, infatti, arrestarsi ora nei sensi, ora nell’immaginazione, ora infine nel solo intelletto. Mentre ai primi corrisponde la conoscenza delle cose sensibili, il giudizio matematico supera

il

limite

posto

da

quello

dei

sensi

e

trova

quindi

il

suo

termine

nell’immaginazione. Infine, il terzo genere di conoscenza ha il suo termine nell’intelletto e spetta alla conoscenza delle realtà divine. Queste infatti non dipendono da alcun tipo di materia né secondo la considerazione né secondo l’essere, “e tuttavia possiamo pervenire alla conoscenza di tali realtà solo a partire da ciò che apprendiamo con i sensi o con l’immaginazione”. Le tre vie -causalitatis, excessus e remotionis- sono quelle indicate da Dionigi e passano tutte per la conoscenza sensibile, poiché la nostra nozione di Dio può essere solo negativa,

relativa

cioè

a

qualcos’altro

che

apprendiamo

con

i

sensi

o

con

l’immaginazione. Ma su questi ultimi non possiamo ‘fondarci’, nel senso di giudicare le realtà

divine

come

se

fossero uguali alle realtà che apprendono i sensi o

149

l’immaginazione: “deduci [fondarsi] ad aliquid est ad illud terminari (…). Et propter hoc peccant qui uniformiter in his tribus speculativae partibus procedere nituntur”219 . Per questo la sacra scrittura ci introduce alle realtà superiori iniziando con quelle rappresentabili dai nostri sensi, perché capiamo che esse sono solo la soglia, presso la quale non bisogna indugiare se ci si vuole innalzare alle realtà prive di materia220 . Ma si pone ora l’interrogativo “se il nostro intelletto possa vedere la stessa forma divina”, oggetto dell’articolo successivo. Abbiamo visto che non ci è possibile cogliere Dio e le altre sostanze separate nella loro essenza e che però non ci è preclusa la nozione dell’esistenza del soprannaturale. Dionigi, nella sua prima lettera al monaco Gaio, nega che si possa avere visione di Dio stesso, e chi afferma di averLo visto e di aver compreso ciò che ha visto, non ha visto Dio stesso ma qualcuna delle sue opere. Come dice il Filosofo nel secondo libro della sua Metafisica, “il nostro intelletto si comporta verso le cose più evidenti come l’occhio della nottola nei confronti del sole”, come un animale notturno la vista dell’uomo non può sopportare la visione della forma divina. La risposta si basa sulla ormai consueta distinzione tra quid est e an est (cioè essenza ed esistenza di una cosa) che corrispondono alle due questioni fondamentali distinte da Aristotele negli Analitici Secondi. Come sappiamo, a questo fa pendant il duplice modo in cui noi possiamo conoscere una cosa. In particolare, nel caso dell’essenza occorre o un modo immediato, portandoci sullo stesso piano della quiddità della cosa, o mediato,

219

Decker, 217. I ‘fantasmi’ sono, dunque, una componente irrinunciabile del principio della nostra conoscenza, ma questa non deve necessariamente fermarsi ad essi. Tuttavia “il fantasma è principio della nostra conoscenza come ciò da cui ha inizio l’operazione dell’intelletto, e non in modo transitorio, ma permanente, come un vero e proprio fondamento dell’operazione intellettuale (così come i principi di una dimostrazione devono permanere nell’intero procedimento di una scienza)”. Esiste dunque un ininterrotto e ineludibile vincolo tra la realtà e la nostra anima, tale che senza la conoscenza dei fantasmi viene meno automaticamente anche la conoscenza dell’intelletto; e “tuttavia, il giudizio sulle realtà divine non si forma secondo l’immaginazione”. 220

150

utilizzando la conoscenza di altro che possa mostrarci adeguatamente la quiddità di quella determinata cosa. Ma a noi è concessa solo la conoscenza del sensibile e non dell’intelligibile; tuttavia, possiamo procedere attraverso relazioni e analogie tra le cose che ci sono già note anche tra le realtà invisibili. Ma in realtà le nature sensibili non esprimono adeguatamente l’essenza di alcuna sostanza separata, “almeno dal punto di vista della considerazione naturale”: in effetti, san Tommaso ha già spiegato che dal punto di vista della considerazione logica le sostanze materiali e quelle separate potrebbero essere considerate come appartenenti allo stesso genere; ma il fisico e il metafisico non considerano le cose in quanto predicabili, ma in quanto esistono in atto, e da quest’altro punto di vista è evidente che i loro oggetti appartengono a generi assolutamente diversi. Perciò su questa terra e con queste capacità intellettuali, né la via della conoscenza intellettuale né quella della rivelazione può farci conoscere l’essenza delle sostanze separate. San Tommaso fa riferimento sia alla rivelazione nel senso di tutto ciò che del soprannaturale possono comunicarci per analogia le forme sensibili, sia come raggio della rivelazione divina. Quest’ultimo può innalzarci fino a farci conoscere qualcosa che altrimenti ci rimarrebbe ignoto, ma -poiché come dice Dionigi nel primo libro della sua Gerarchia celeste- ci giunge secondo le nostre capacità, “non arriva tuttavia a farci conoscere in modo diverso da quello che ha luogo a partire dalle cose sensibili”. Delle sostanze separate possiamo, dunque, conoscere l’esistenza ma non l’essenza. Tuttavia, di nessuna cosa si può conoscere l’esistenza se non se ne sa, almeno in maniera confusa, qualcosa dell’essenza. Non posso riconoscere qualcuno se non ne conosco, almeno per un vago ricordo, i tratti fisici, pur ignorandone le generalità; questo accade perché, come spiega il Filosofo all’inizio della Fisica, “le realtà definite sono conosciute

151

prima delle parti della definizione”221 . Dunque, non è possibile concepire un uomo se non se ne conosce in qualche modo l’esistenza, pur ignorandone la definizione. Aristotele continua aggiungendo che “all’inizio i bambini chiamano ‘papà’ e ‘mamma’ tutti gli uomini e le donne che vedono e solo in seguito sono capaci di cogliere entrambi i genitori nella loro individualità”. Evidentemente di fronte alle sostanze semplici siamo meno che neonati, poiché nessuna nostra definizione può afferrare la loro essenza. Per quanto riguarda Dio, infatti, il genere prossimo o remoto non può aiutarci a individuarne l’esistenza, poiché in Lui essenza ed esistenza coincidono, quindi nessun genere può caratterizzare accidentalmente la contingenza del suo ‘esser-ci’. Come già abbiamo visto, al logico è possibile trattare le realtà intelligibili alla stessa stregua di quelle sensibili, perché egli considera le intenzioni in senso assoluto; ma per il fisico e il metafisico le realtà corruttibili e materiali e quelle incorruttibili e immateriali non possono convenire: nelle prime, infatti, l’essenza si dà nell’essere delle cose, che muta secondo la misura della potenza e dell’atto e fa sì che ogni cosa sia secondo il proprio genere. Al posto della conoscenza del e per genere, nel caso delle sostanze in-corporee ci resta l’unica possibilità della conoscenza di tipo negativo, che abbiamo già distinto nei tre modi possibili secondo la dottrina di Dionigi: “quante più negazioni giungiamo a riconoscere, tanto meno confusa è la conoscenza che possiamo avere di esse”. Questa è in particolare la ‘via remotionis’ e solo in questo modo Boezio ammette che la forma divina possa essere ‘vista’, cioè “attraverso la rimozione di tutti i fantasmi, e non in modo che se ne possa conoscere l’essenza”. Tutti gli argomenti iniziali, tanto le obiezioni quanto quelli in contrario, vanno letti e risolti in questa chiave: i primi si riferiscono alla conoscenza perfetta dell’essenza, gli altri alla conoscenza imperfetta di cui si è parlato.

221

I, 1, 184a23-b14.

152

La visione di Dio riveste in san Tommaso, come d’altronde per tutta la teologia cristiana, una grande importanza legata ad una tensione naturale e ‘creaturale’ dell’uomo verso il suo Creatore. Nella Summa Theologiae222 san Tommaso affronta in maniera compiuta l’argomento alla q. 12 in cui si domanda “come conosciamo Dio”. L’incipit anche lì è la gnoseologia e la psicologia aristoteliche, guidate dall’idea che “ogni essere è tanto più perfetto quanto più si avvicina al suo principio”. Ora, il nostro fine ultimo è la visione di Dio che rappresenta per noi tanto il principio di ogni nostra conoscenza che l’oggetto stesso della visione intellettiva. L’occhio e la fantasia umani non possono giungere a tale conoscenza, se non ‘aumentati’ del lume di gloria che ci rende simili a Dio, cioè ‘deiformi’, e che si conquista nell’altra vita in proporzione alla carità di ciascuno. Tuttavia -qui per la temporalità della nostra condizione terrena, lì per la finitudine dell’intelletto creato pur illuminato dal lume della gloria- noi non siamo comunque in grado di abbracciare l’infinita conoscibilità di Dio. San Tommaso anche nella Summa concluderà:

“Alla cognizione nostra concorrono la forza della mente e le immagini mentali; Dio può rafforzare l’una e infondere le altre, come avviene nei profeti, e così per grazia si può avere una più alta cognizione delle cose di Dio”223 .

Chiude il commento la domanda “se la visione della forma divina possa aver luogo attraverso qualche scienza speculativa”. Siamo con ciò condotti al culmine della suprema forma di conoscenza del soprannaturale, dove vien meno ogni parola e ciò che conta è il silenzio.

222 223

G. Dal Sasso- R. Coggi, Compendio della Somma Teologica di San Tommaso d’Aquino, cit., 19-21. Summa Theologiae, I pars, q. 12 a. 13; ed. it. cit., p. 20. Il corsivo è nostro.

153

Le obiezioni ammettono che sia la sapienza e non qualche scienza speculativa la disciplina deputata alla conoscenza delle sostanze separate. Felicità ultima dell’uomo è, infatti, comprendere intellettualmente le sostanze separate e, secondo il Filosofo, è necessario che la felicità, che è l’operazione più perfetta, sia oggetto di ciò che al massimo grado esprime le potenzialità dell’intelletto, ovvero la sapienza. Ma questa rientra tra le scienze speculative e perciò esiste una scienza capace di vedere la forma divina. San Tommaso invece distingue due tipi di felicità: una imperfetta nel nostro stato di viatori, che è quella di cui parla Aristotele e che scaturisce dalla contemplazione delle sostanze separate attraverso la sapienza; l’altra perfetta che coincide con la vita eterna e con la visione beatifica delle essenze delle sostanze separate; lì non vi sarà più bisogno di alcuna scienza, poiché saremo illuminati dal lume di gloria. In generale si può dire che tutte le speculative tendono alla conoscenza delle sostanze separate come al proprio fine supremo: secondo un celebre adagio aristotelico sarebbero infatti tutte vane se non perseguissero questo fine. Ma non può darsi una scienza speculativa in grado di comprendere appieno le sostanze immateriali. In tutte le scienze si procede sempre -tanto nella dimostrazione delle proposizioni che nella ricerca delle definizioni- da qualcosa che è già noto e che non ha bisogno di essere ulteriormente spiegato o dimostrato. Infatti, secondo un notissimo principio aristotelico, non è possibile attraversare l’infinito, “per questo l’intera considerazione delle scienze speculative può essere ricondotta ad alcuni termini primi, che l’uomo non deve imparare o ritrovare, perché altrimenti si andrebbe all’infinito, ma di cui deve possedere naturalmente la conoscenza”.

154

Dunque, tutte le conoscenze hanno il loro principio comunque nel mondo naturale e niente può essere conosciuto nelle scienze speculative, se non ciò a cui si possono estendere queste conoscenze naturali. Ma è evidente che senza il contributo del soggetto conoscente le immagini delle cose naturali resterebbero immagini sensibili solo in potenza: infatti, è il lume naturale dell’intelletto agente che rende evidenti tali realtà, rendendo i fantasmi intelligibili in atto. Resta che anche i principi primi quali l’ente, l’uno e così via iniziano nei sensi e nella memoria: “e così anche tali principi non possono condurci al di là di quelle cose di cui possiamo avere conoscenza a partire da ciò che viene afferrato dai sensi”. Non si può saltare il gradino del sensibile, iniziando direttamente il nostro iter conoscitivo per esempio dal livello astrattivo-matematico, e tantomeno da quello soprannaturaleteologico. In conclusione: nessuna scienza speculativa può farci pervenire alla conoscenza delle sostanze separate, per quanto attraverso il confronto con le cose sensibili possiamo conoscerne l’esistenza e alcune loro proprietà formali. Le quiddità delle cose sensibili sono incommensurabili con quelle delle sostanze immateriali: c’è uno scarto infinito tra queste e quelle e l’uso dello stesso termine è un semplice caso di equivocità. Dicendo “ipsam inspicere formam quae vere forma neque imago est”224 Boezio ha dunque voluto intendere non già che attraverso la scienza teologica possiamo contemplare l’essenza della stessa forma divina, ma solo che essa è al di là di tutti i fantasmi”. Tuttavia, conclude san Tommaso -e qui si ferma il Commento- noi possediamo già infusi quei principi che preludono alla nostra conoscenza perfetta delle sostanze separate, ma non precisamente quelli che ci consentono già sin d’ora e senz’altro di conseguirla:

224

Decker, 157.

155

“Quantunque infatti l’uomo tenda per natura verso il fine ultimo, non è tuttavia per natura che può conseguirlo, ma solo attraverso la grazia, a causa dell’eminenza di questo stesso fine”.

Le estreme conseguenze di questo principio sono contenute nella bellissima frase en ouverture della sua Summa Theologiae:

“Cum igitur gratia non tollat naturam sed perficiat, oportet quod naturalis ratio subserviat fidei sicut naturalis inclinatio voluntatis obsequitur chiaritati” 225 .

Seguendo la suddivisione interna del commento di san Tommaso possiamo provare ora a ricostruire gli elementi del suo metodo teologico. Il metodo dell’Aquinate ha come base la fede, una via di conoscenza sempre pronta a confrontarsi con quella rappresentata dalla pura ricerca razionale. Ma è un confronto che non rinnega mai quella prima identità, che ha proprio nel dogma trinitario il suo nucleo creativo. La ‘relazione’ di cui parla Boezio nel seguito non commentato del suo opuscolo è il nesso intrinseco del mistero trinitario e allo stesso tempo la categoria che permette la libertà e l’audacia di quel confronto. L’essere radicato nella tradizione in un modo così ragionevolmente fedele costituisce il pregio del metodo scolastico e tomistico in particolare. Il punto di partenza è la realtà che stimola l’azione conoscitiva dell’uomo; ma il soprannaturale interroga oltre la nostra mente e urge un ulteriore approfondimento di quel primo gesto. Interviene dunque la fede, ma una fede inscritta nella tradizione che veicola da secoli il dato rivelato, oggetto esso stesso di questo secondo tipo di

225

I pars, q.1, a.8 ad 2m.

156

conoscenza. Da qui si è generata una scienza umana che rende possibile l’accesso ad una certa nozione degli articoli di fede. La forma in sé di questa realtà altra, che è Dio nella sua ineffabile unitrinità, è l’origine e il termine di ogni nostra conoscenza. Qui si innesta il vissuto dell’uomo che salva anche l’effettiva contraddizione tra ‘preriflessivo’ e ‘concettuale’. Il metodo tomistico è la via della conoscenza umana par excellence, proprio riconoscendo all’esperienza religiosa di ognuno la possibilità di farsi ‘scienza’ del divino. Non si tratta quindi di un passaggio dal preriflessivo al mistero come un salto nel vuoto, ma di esperire il mistero nel raggiungimento della consapevolezza del proprio limite creaturale. Il Brena nel suo studio già citato nell’Introduzione così si esprime: “se vogliamo far posto sia all’esperienza di senso vissuto sia alla sua articolazione e problematizzazione, ci troviamo in una nuova situazione epistemica. (…) Il metodo scolastico dovrebbe quindi oggi essere esercitato a entrambi i livelli, quello della condivisione di esperienze e di una riflessione che mette in parola l’esperienza preriflessiva, e quello della problematizzazione che richiede ricerca e argomentazione e tende a un equilibrio riflessivo con il senso vissuto. E nei due casi l’intento programmatico del metodo scolastico è quello di immettere nel senso vissuto e nel pensiero l’istanza evangelica, secondo il suo spirito che consente di poter ravvivare ogni lettera e secondo un orientamento spirituale che può far lievitare ogni pasta”226 . Il silenzio di san Tommaso appare in questa cornice quanto mai significativo; non nel senso ovviamente del rifiuto del dogma, bensì in direzione di quella “teologia apofatica” che, figlia del pensiero ascetico orientale, addita all’uomo la via dell’esperienza di Dio. L’apofatismo non è una limitazione alla conoscenza umana; essa è un tendere verso la

226

G. L. Brena, Tomismo ieri e oggi, cit., 322 e 324.

157

pienezza che trasforma la conoscenza in ignoranza, la teologia di concetti in contemplazione dei dogmi. “L’apofatismo

non

è

necessariamente

una

teologia

dell’estasi;

è

anzitutto

una

disposizione di spirito che si rifiuta di formulare dei concetti su Dio ed esclude decisamente ogni teologia astratta e puramente intellettuale, che vorrebbe adattare al pensiero umano i misteri della sapienza di Dio. È un atteggiamento esistenziale, che impegna l’uomo tutto intero; non vi è teologia al di fuori dell’esperienza: bisogna cambiare, divenire un uomo nuovo”227 . L’Occidente, abbracciando invece la “teologia catafatica”, ha commesso il grave errore di parlare di Dio senza farne esperienza. Dionigi, tanto spesso citato da san Tommaso, nel primo capitolo del suo La teologia mistica dice:

“O Trinità sopra-essenziale, sopra tutte le cose divine e buone, guida gli uomini nella ricerca della teosofia!”

La ‘teosofia’ è sapienza di Dio, non teologia, è assaporare Dio, non solo riconoscerlo. Nel XII secolo tale armonia tra filosofia e mistica era entrata in crisi a causa dell’idea che le verità di fede non hanno alcun fondamento razionale. Il XIII secolo registra la nascita della maestosa sintesi tomistica di fede e ragione, mistero e rivelazione. Ma come abbiamo visto il tomismo fu tradito dagli stessi suoi successori, e la forza della sua sintesi si affievolì, lasciando il posto al “misticismo speculativo”, che non fu “una semplice descrizione dell’elevazione dell’uomo verso Dio, ma la speculazione sulla possibilità di un’ascesi, basata in ultima istanza sull’unità essenziale di Dio e dell’uomo”228 .

227

V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, il Mulino, Bologna 1967, 34 M. Toscano–G. Ancochea, Mistici neoplatonici neoplatonici mistici, Servitium editr., Bologna 2000, 82 nota 44. 228

158

San Tommaso tenta una sintesi di teologia catafatica e apofatica. Un’operazione che in questo opuscolo egli compie a livello dialettico, costruendo qui il suo originalissimo metodo di conoscenza scientifica di Dio. In san Tommaso la teologia negativa diventa un correttivo di quella affermativa, limite e sprone che rialza continuamente il tono del discorso razionale quando è al cospetto dei misteri divini, primo fra tutti quello trinitario, il più insondabile ed elevato. Ciò che resta ‘negativo’ è il silenzio imposto ai modi significandi usati dall’uomo, mentre la res significata, la perfezione divina, resta intatta nella sua gloria229 . A noi è ultimamente concesso su questa terra di far esperienza del divino non come di un assente, ma come di una presenza misteriosa e ineffabile, cui la nostra mente anela e che intellettualmente già ri-conosce. Il ‘credo ut intelligam’ anselmiano, “nucleo del metodo teologico”230 , si trasfigura in san Tommaso in un ‘intelligo ut videam’ alla luce della fede che la grazia divina dispensa.

229 230

Cf V. Lossky, cit., 21-22. M. Grabmann, Storia del metodo scolastico, cit., 328-330.

159

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Voglio ringraziare tutti coloro che tra Eichstätt, Taranto e Lecce hanno in vario modo reso possibile questo lavoro. La gratitudine verso questi amici mi faccia “gustare attraverso l’affetto quello che sento attraverso l’intelletto”. 168