I Vangeli Esercizi Spirituali Per

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“Martini è stato per molti di noi che hanno ascoltato le sue parole o hanno letto i suoi testi un maestro nel far conoscere e apprezzare la Bibbia […]. Egli ha messo a frutto il contributo specifico che gli Esercizi forniscono alla Lectio divina: discernere il desiderio più autentico […] in modo che l’ascolto non rimanga in sospeso, ma incida sulla pratica e trasformi la vita.” Con queste parole nella prefazione alle Cattedre dei non credenti Papa Francesco ha voluto sottolineare lo strettissimo e originale legame tra Bibbia ed Esercizi ignaziani nell’opera di Carlo Maria Martini. In questo volume vengono raccolti i corsi di esercizi dedicati ai quattro Vangeli – Marco, Luca, Matteo e Giovanni – tenuti dal Cardinale in diverse occasioni e con diversi destinatari, e con una scelta di metodo innovativa: “Per la prima volta mi sono trovato a impostare gli Esercizi non partendo direttamente dal testo di sant’Ignazio – come ho fatto per molti anni, seguendolo in maniera rigorosa e fedele – ma piuttosto prendendo un singolo Vangelo”. I testi qui raccolti sono commenti ai singoli Vangeli nella loro totalità e contemporaneamente veri e propri percorsi “spirituali” nella tradizione gesuitica degli Esercizi di sant’Ignazio, un’esperienza forte di conversione, da vivere con qualcuno che faccia da guida, per ascoltare, discernere e decidere. Poterne disporre in una versione definitiva, completa e debitamente annotata, permette finalmente al grande pubblico che ha ammirato la forza innovativa di Martini di addentrarsi nella complessità e nella ricchezza dell’opera di uno degli autori cristiani più amati di tutti i tempi. Come osservare da lontano un grande mosaico e vederne le linee maestre per poi scoprire con sorpresa i dettagli, a poco a poco. I Vangeli è il secondo volume dell’opera omnia del Cardinale, la cui pubblicazione è stata avviata da Bompiani nel 2015 con Le cattedre dei non credenti.

Carlo Maria Martini, nato a Torino il 15 febbraio 1927, entra nella Compagnia di Gesù il 25 settembre del 1944. Viene ordinato sacerdote il 13 luglio 1952. Si laurea nel 1958 in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e nel 1966 in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, dove insegna Critica testuale e ricopre l’incarico di rettore dal 1969 al 1978, quando passa al rettorato della Pontificia Università Gregoriana. Svolge una intensa attività sia di pubblicazione scientifica, sia di predicazione di Esercizi spirituali. Si impegna nel dialogo ecumenico e in quello interreligioso (in particolare con l’ebraismo). Il 29 dicembre 1979 viene nominato Arcivescovo di Milano da Giovanni Paolo II. Ordinato Vescovo (6 gennaio 1980) e proclamato Cardinale (2 febbraio), entra in Milano il 10 febbraio. Fra le diverse iniziative da lui avviate hanno avuto ampia risonanza la Scuola della Parola, le Scuole di formazione all’impegno sociale e politico e la Cattedra dei non credenti. Per i ventidue anni del suo episcopato, la città trova in lui un solido e chiaroveggente punto di riferimento, anche nei momenti di maggior disorientamento, come gli anni di piombo del terrorismo e i rivolgimenti di Mani pulite. L’azione del cardinale Martini va però anche oltre i confini diocesani e nazionali. Dal 1986 al 1993 è presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee; molte delle sue pubblicazioni sono tradotte in diverse lingue e vengono lette nei cinque continenti, da credenti e non credenti. Lascia la guida della diocesi di Milano nel 2002 e si ritira per lunghi periodi nell’amata Gerusalemme per proseguire gli studi biblici, pur continuando un’opera rilevante di predicazione e testimonianza. Nel 2008, a causa dell’aggravarsi del morbo di Parkinson, rientra definitivamente in Italia, risiedendo nella casa dei Gesuiti a Gallarate, dove muore il 31 agosto 2012.

CARLO MARIA MARTINI Opere Fondazione Carlo Maria Martini

Carlo Maria Martini

I VANGELI Esercizi spirituali per la vita cristiana A cura di Carlo Chiappini Introduzione di Maurizio Teani

© 2016 Bompiani / Rizzoli Libri S.p.A., Milano eISBN 978-88-587-7354-3 Prima edizione Bompiani settembre 2016 www.bompiani.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

SOMMARIO

Opere di Carlo Maria Martini La Fondazione Carlo Maria Martini Piano dell’Opera Introduzione, Maurizio Teani Nota tecnica PRIMA PARTE: VANGELI ED ESERCIZI SPIRITUALI Premessa La Parola di Dio e gli Esercizi Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici

SECONDA PARTE: IL VANGELO DI MARCO Premessa L’itinerario spirituale dei Dodici nel Vangelo di Marco Proponendo l’esperienza degli esercizi; Premessa sul Vangelo di san Marco; I. Il mistero di Dio; II. L’ignoranza dei discepoli; III. La chiamata di Gesù; IV. La crisi del ministero galilaico di Gesù (Le parabole del seme); V. Gesù in azione; VI. Il mistero del figlio dell’uomo; VII. La passione di Gesù; VIII. La risurrezione (e la vita nascosta di Gesù)

TERZA PARTE: IL VANGELO DI MATTEO Premessa Gli Esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Matteo Introduzione; I. Matteo, Vangelo ecclesiale - La finale del Vangelo (Mt 28,16-20); II. Il giudizio finale (Mt 25,31-46); III. I nostri peccati; IV. Che cosa mi manca?; V. Che cosa c’è nel cuore dell’uomo?; VI. Alcune situazioni battesimali; VII. Il dono della preghiera; VIII. La passione di Gesù educa Pietro alla conoscenza di sé e del Signore; IX. La debolezza di Dio; X. La vulnerabilità di Dio; XI. La morte di Dio; XII. Varie esperienze del Risorto; XIII. Vecchio e nuovo modo di vedere le cose; XIV. “Sono con voi…” (Mt 28,20)

Che cosa dobbiamo fare? Introduzione; I. Il fare del cuore (Mt 5-7); II. La santità del discepolo (Mt 5-7); III. Il “fare” della missione in un mondo ostile (Mt 10); IV. Come viviamo il discorso missionario; V. Il “fare” del discernimento (Mt 13); VI. Il discernimento pratico alla luce di Mt 13; VII. Fare la Chiesa (Mt 18); VIII. La comunità che vince il male con il bene; IX. Il giudizio sul “fare” (Mt 24-25)

QUARTA PARTE: IL VANGELO DI LUCA Premessa Gli Esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Luca Introduzione; I. Il kérygma lucano; II. Il kérygma a metà (La ricerca dell’id quod volo); III. Un Dio che ci cerca; IV. La via della penitenza; V. Sulla via penitenziale; VI. Gesù è tentato e vince; VII. La predicazione di Gesù misericordiosa e contraddetta; VIII. Gesù educatore e formatore; IX. Il pianto di Gesù su Gerusalemme; X. La preghiera di Cristo e della Chiesa; XI. La visita di Gesù a Marta e Maria; XII. Gesù tra successo e incomprensione; XIII. Il giusto senso della croce; XIV. La croce di Maria; XV. La resurrezione

L’evangelizzatore in san Luca Introduzione; I. Verso la comprensione del kérygma; II. Difficoltà nella comprensione del kérygma; III. Il kérygma: che cosa opera e cos’è; IV. Il senso del peccato nell’educazione dell’evangelizzatore; V. Gesù educa i suoi discepoli; VI. Il cammino di Pietro, primo evangelizzatore; VII. Gesù, evangelizzatore nella passione; VIII. La salvezza che Gesù propone dalla croce; IX. Le parole del Risorto

QUINTA PARTE: IL VANGELO DI GIOVANNI Premessa Gli Esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Giovanni Introduzione: cosa significano questi esercizi; I. Esercizi per il “presbitero” o per il cristiano maturo; II. Il Principio e Fondamento nel Vangelo di Giovanni; Omelia. Il mistero della preghiera cristiana (Gv 16,23 ss.); III. I nemici di Gesù; IV. Peccati, tenebre, menzogna, schiavitù, morte; V. Gesù toglie il peccato del mondo; VI. L’opera di Gesù, la messe, i discepoli; Omelia. I primi discepoli (Gv 1,35-51); VII. Il mistero di Dio tra noi; Omelia. L’acqua, la sete e lo spirito (Gv 7,33-39); VIII. Tre modi della presenza di Gesù; IX. La fede e le sue implicazioni; Omelia. La vita nascosta secondo san Giovanni (Gv 7,40-53); X. Le “due Bandiere” in san Giovanni; XI. I “tre Binari” in san Giovanni; Omelia. Sulla terza maniera d’umiltà (Gv 8,46-59); XII. La passione di Gesù secondo san Giovanni; XIII. Gesù davanti a Pilato e la trafittura del crocefisso; Omelia. La lavanda dei piedi (Gv 13,1-17); XIV. Alla ricerca dei segni (Gv 20); XV. La Chiesa dei presbiteri (Gv 21)

Il caso serio della fede Introduzione; I. Come contemplare il IV Vangelo; II. Il prologo poetico (Gv 1,1-18); III. Nel seno del Padre; IV. Il prologo narrativo (Gv 1,19-51; 2,1-11); V. Il punto di arrivo del cammino giovanneo; VI. Il disordine nel Tempio (Gv 2,13-25); VII. Le resistenze di un intellettuale (Gv 3,1-21); VIII. Il mistero di Gesù figlio del Padre (Gv 5); IX. I nemici di Gesù; X. Gesù fonda la comunità dei suoi discepoli (Gv 13,1-32); XI. Il compimento dell’opera di Cristo (Gv 19,17-37); XII. Il risorto e il caso serio della fede

PICCOLO LESSICO IGNAZIANO

OPERE DI CARLO MARIA MARTINI Il Progetto Carlo Maria Martini è stato un uomo della parola: servitore della Parola di Dio e frequentatore di molteplici parole umane. La sua profondità interiore e la sua vastità di interessi si sono espressi attraverso innumerevoli testi: articoli, volumi, discorsi, interventi, dialoghi, omelie, esercizi spirituali. L’intenzione della Fondazione è di raccogliere organicamente il vastissimo corpus di scritti e discorsi del cardinale, con una modalità sistematica e con un impianto critico il più possibile rigoroso, quanto agile e scorrevole. Il disegno prevede di realizzare nel tempo una serie di volumi che raccontino la ricerca, le intuizioni e le scelte più importanti del gesuita, del biblista, dell’arcivescovo, dell’uomo del Vangelo, seguendo un criterio contemporaneamente cronologico e tematico. La rievocazione dei contesti storici in cui le diverse opere hanno avuto origine vuole anche consentirne una più accurata e avvertita comprensione. Il lavoro di edizione affiancherà negli anni la ricostruzione biografica e documentaria, già progettata e avviata nella forma di un archivio digitale. L’auspicio è che questi volumi non restino confinati alla consultazione erudita, ma diventino strumenti disponibili per una lettura ampia e capillare, in modo da permettere la conoscenza e la discussione del pensiero e del magistero martiniano nel loro evolversi e nelle loro progressive specificazioni. La consapevolezza di avere a che fare con una delle personalità di maggior rilievo del Novecento per la sua profondità di fede e di umanità rende il progetto non solo una raccolta documentaria, ma soprattutto una provocazione per mantenere viva e pulsante l’eredità di un testimone d’eccezione, capace di parlare a uomini e donne di diverse fedi e culture.

Comitato scientifico Coordinatore: Guido Formigoni Maria Cristina Bartolomei, Pietro Bovati S.J., don Franco Brovelli, Carlo Casalone S.J., Giacomo Costa S.J., Giulia Facchini Martini, don Aristide Fumagalli, mons. Giovanni Giudici, Luigi F. Pizzolato, don Virginio Pontiggia, Brunetto Salvarani, Giorgio Vecchio.

LA FONDAZIONE CARLO MARIA MARTINI La Fondazione Carlo Maria Martini nasce per iniziativa della Provincia d’Italia della Compagnia di Gesù con la partecipazione dell’Arcidiocesi di Milano. Essa si propone di ricordare il cardinale Carlo Maria Martini, promovendo la conoscenza e lo studio della sua vita e delle sue opere, e di tenere vivo lo spirito che ha animato il suo impegno, favorendo l’esperienza e la conoscenza della Parola di Dio nel contesto della cultura contemporanea. In questa prospettiva, l’impegno della Fondazione si articola secondo alcune direttrici specifiche: • Raccogliere in un archivio

le opere, gli scritti e gli interventi del cardinale, promuoverne lo studio, incoraggiarne e autorizzarne la pubblicazione. • Sostenere e alimentare il dialogo ecumenico, interreligioso, con la società civile e con i non credenti, unitamente all’approfondimento del rapporto indissolubile tra fede, giustizia e cultura. • Promuovere lo studio della Sacra Scrittura con un taglio che metta in gioco anche altre discipline, tra cui la spiritualità e le scienze sociali. • Contribuire a progetti formativi e pastorali che valorizzino la pedagogia ignaziana, soprattutto rivolti ai giovani. • Sostenere l’approfondimento del significato e la diffusione della pratica degli Esercizi spirituali. Chi lo desidera può contribuire alla raccolta di materiali (scritti, audio, video) sul cardinale Martini e alla segnalazione di iniziative che lo riguardano scrivendo a [email protected]. Per iscriversi alla newsletter e sostenere le attività della Fondazione: www.fondazionecarlomariamartini.it PIANO DELL’OPERA 1 Le Cattedre dei non credenti 2 I Vangeli Esercizi spirituali per la vita cristiana 3 Giustizia, etica e politica nella città 4 La Scuola della Parola Teoria e pratica della Lectio divina 5 Fratelli: ebrei, cristiani, musulmani Dialoghi ecumenici e interreligiosi 6 Da Gerusalemme Scritti da arcivescovo emerito 7 Farsi prossimo con gli ultimi

8 Il cammino di un popolo Lettere pastorali e programmatiche 9 La Bibbia La ricerca del biblista sul testo sacro 10 I grandi della Bibbia Esercizi spirituali per la vita cristiana 11 Pace, dialogo e violenza In Europa e nel mondo 12 Parole ai giovani 13 Il caso serio della fede Preghiera e messaggi spirituali 14 Ministeri nella Chiesa Lettere e discorsi al clero e ai religiosi 15 La famiglia nella Chiesa Messaggi e lettere 16 La Chiesa universale nella storia 17 Omelie Pellegrinaggi, beatificazioni, commemorazioni 18 Diari e carteggi

INTRODUZIONE Gli Esercizi spirituali, via di accesso alla Parola viva Maurizio Teani

“Lampada ai miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino” (Sal 119,105). Sono le parole che il cardinal Martini ha voluto fossero riportate sulla sua tomba1 e che ha sentito come una sorta di testo-guida, sintesi del suo programma di vita, come egli stesso ricordò in diverse circostanze. Ne menzioniamo una. Intervenendo nel 1993 a Reggio Emilia in occasione degli ottant’anni di Giuseppe Dossetti, egli concluse con l’auspicio seguente: “Ci doni il Signore di tenere davvero la Scrittura come un bambino in braccio, con affetto e riverenza, affinché la sua Parola sia sempre ‘lampada per i nostri passi e luce per il nostro cammino’”2. Il cardinale articolava qui l’affermazione del salmista con un’ulteriore immagine a lui cara, sempre ripresa dal salterio: la Scrittura da portare in braccio come si porta un bimbo. “Dal Salmo 131,2 traggo l’icona ‘Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre’, perché descrive bene, a mio avviso, con quale scioltezza, familiarità, libertà e insieme con quanta delicatezza, riverenza, riguardo e amore, la Chiesa tiene tra le braccia la Scrittura”3. Tale riverenza e familiarità verso la Parola sono state vissute da Martini in ogni circostanza e hanno ispirato la sua azione pastorale, spingendolo a operare instancabilmente per consegnare la Bibbia nelle mani del popolo di Dio4. Questo suo approccio è frutto di una progressiva e laboriosa maturazione che, radicandosi nella riflessione sulla Parola di Dio sviluppata dal Concilio Vaticano II, conduce anche a una profonda revisione del modo di proporre gli Esercizi spirituali, rispetto alla prassi consolidata in quel periodo. Un cambiamento in cui la dinamica interiore indicata dai Vangeli svolge un ruolo determinate. L’apporto della spiritualità di sant’Ignazio (di cui gli Esercizi sono espressione privilegiata) nella lettura dei Vangeli darà i suoi frutti anche nella “Scuola della Parola”, iniziativa in cui il cardinale riprende e rielabora

la lectio divina, la tradizionale maniera con cui il testo biblico veniva letto, interpretato e pregato. In questo itinerario, Martini ci mostra come l’ascolto della Parola culmini nel momento della sua assimilazione e appropriazione, attraverso la pratica del discernimento sul piano non solo personale, ma anche sociale e culturale; in questo modo esso alimenta e fa crescere la capacità del credente e della comunità di leggere i segni dei tempi e di essere presenti in modo responsabile e attivo nella storia. Questo percorso di maturazione scandirà i passi che seguiremo per introdurre alla lettura dei testi raccolti nel presente volume. Nel solco del Concilio Martini era profondamente convinto che “educare all’ascolto della Parola è la priorità delle priorità, perché è la Parola che educa, che giudica e libera”5. Tale convinzione maturò in lui in concomitanza e a stretto contatto con l’evento del Concilio Vaticano II. Egli stesso parlò espressamente di quel periodo in un intervento dedicato alla Costituzione Dei Verbum, a quarant’anni dalla conclusione dell’assise conciliare: “Riflettere sulla Costituzione conciliare Dei Verbum è per me l’occasione di ripensare a eventi che hanno avuto per la mia vita un enorme significato. Ricordo gli anni del Vaticano II (1962-1965) con grande intensità: ero a Roma, giovane professore al Pontificio Istituto Biblico, e si viveva il Concilio con una partecipazione e un’ansietà, una gioia, un entusiasmo, una sorpresa quotidiana veramente grandi. Il Concilio era evento di ogni giorno e di ogni ora: è bello perciò ricordare quello che forse è stato il periodo più mosso, più vivace, più entusiasmante di tutta la mia vita”6. Tra gli eventi di quegli anni cruciali, un impatto del tutto particolare ebbe su di lui la riscoperta della centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa, operata dalla Dei Verbum. È noto che la redazione della Costituzione richiese diversi anni, attraversati da momenti di acuta tensione tra i Padri conciliari7. Ne accenna lo stesso Martini nell’intervento appena richiamato, raccontando della “sorpresa” e della “trepidazione quotidiana” con cui i professori dell’Istituto Biblico vivevano lo svolgimento dei lavori conciliari. E aggiunge: “come Istituto Biblico partecipavamo molto da vicino alla scrittura di questa Costituzione perché, per motivi che sarebbe troppo lungo spiegare, era un po’ per noi questione di vita o di morte il fatto di come essa

veniva redatta”8. L’apprensione e la trepida attesa, a cui accenna il cardinale, si spiegano tenendo presente che una delle questioni fortemente dibattute già prima del Concilio verteva sul metodo storico-critico e sulla sua applicazione allo studio della Scrittura9. Lo sviluppo degli studi storici e letterari imponeva un profondo ripensamento della storicità dei racconti biblici e delle stesse narrazioni evangeliche. “Non era più soltanto una questione di metodo; i cattolici più attenti e preparati non riuscivano più ad accettare una lettura fondamentalista della Scrittura, arroccata su principi ormai palesemente indifendibili. Non va dimenticato che proprio alla fine degli anni cinquanta, il Pontificio Istituto Biblico di Roma fu oggetto di attacchi violenti da parte di alcune autorità vaticane, fino ad arrivare nel 1962 alla sospensione dei padri M. Zerwick e S. Lyonnet, che l’anno dopo furono reintegrati da Paolo VI nel loro incarico”10. Si può supporre con buon fondamento che, nella decisione di papa Montini, abbia esercitato un qualche influsso l’andamento assunto dai lavori conciliari, che sarebbe sfociato nella stesura della Dei Verbum, “un documento che ha costituito il catalizzatore delle istanze di rinnovamento presenti allora nella Chiesa e gradualmente emerse dall’assemblea conciliare”11. Durante il Vaticano II, infatti, la Chiesa andò maturando la convinzione della necessità di accettare il confronto con la Parola di Dio e con la storia. “Mai un’assise conciliare aveva prestato tanta attenzione alle sfide del tempo; mai la storia era entrata con tanta consapevolezza nell’autocoscienza della Chiesa […] La Scrittura ispirata è colta nel Concilio come forza agente nel vivo delle mediazioni della storia, da accostare con tutto il rispetto per la sua sovranità, ma anche con tutta la verità delle nostre domande perché essa sia attualizzata nell’oggi. Al processo di recezione della Parola di Dio nella vita e nella storia, il Concilio ha dato un nuovo, straordinario impulso”12. Si avvertiva l’urgenza di educarsi ad ascoltare la Parola e, insieme, ad ascoltare le aspirazioni, le attese e le sofferenze degli uomini e delle donne del proprio tempo13. Correlativamente, si andava prendendo coscienza della necessità di riconoscere i grandi eventi e mutamenti storici, decifrandone il significato e la portata per una più profonda intelligenza del Vangelo. È in questa linea che la Dei Verbum sancirà il primato della Parola di Dio da leggere dentro la storia14. Martini aveva misurato il ruolo decisivo di questa Costituzione quale chiave per entrare nel cuore dell’insegnamento conciliare; in diverse

occasioni quindi attirò l’attenzione sul suo testo, in particolare sul capitolo conclusivo (nn. 21-26), consacrato a “La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa”. Nell’intervento all’Università cattolica menzionato sopra15, dopo aver richiamato il n. 25 – “Il santo Concilio esorta con forza e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle divine Scritture” –, affermò: “Si tratta di un testo fondamentale, rivoluzionario del Vaticano II, non ancora messo in pratica, ma che costituisce un pilastro di tutta l’azione pastorale e che, se sarà attuato, porterà a una reale conciliazione tra esegesi scientifica e realtà pratica nella vita ecclesiale”16. Gli esercizi spirituali: intenzionalità e itinerario Gli esercizi spirituali sono stati, data la formazione come gesuita ricevuta da Martini, uno “strumento pastorale” privilegiato per promuovere il contatto vitale con la Scrittura e per formare a una fede matura. Vedeva in essi una scuola di meditazione e di discernimento. Ne parlò diffusamente nell’incontro tenuto all’Università cattolica in occasione del quinto centenario della nascita di Ignazio di Loyola. In quella circostanza presentò la figura del fondatore della Compagnia di Gesù attraverso l’angolo di visuale degli Esercizi spirituali. Due sono gli aspetti che indicò come caratteristici dell’itinerario proposto all’esercitante. Il primo aspetto riguarda l’intenzionalità degli esercizi: essi sono tesi a favorire l’incontro personale con il Signore morto e risorto. La lectio proposta da Ignazio “mette il fedele a contatto non con se stesso, con il suo mondo interiore, con le sue fantasie e le sue angosce, quasi si trattasse di una psicoanalisi, ma con l’evento della morte e risurrezione di Gesù, intese come ambito, esempio, motivo e forza per le difficili scelte pratiche della vita”17. Il secondo aspetto degli esercizi spirituali, messo in evidenza dal cardinale, verte sulla metodicità che li contraddistingue. Essi si presentano come “una lectio praticata in maniera metodica e continua, con attenzione ad alcune scansioni e chiavi di lettura atte a promuovere un discernimento secondo il Vangelo”18. Prevedono dei passi da compiere con ordine, riconoscendo i punti in cui occorre sostare e i punti di svolta attraverso cui è necessario passare19. Vediamo meglio come essi traccino “un cammino, un pellegrinaggio da un certo punto di partenza verso un certo punto di arrivo, con determinate tappe”20.

L’itinerario che l’esercitante deve percorrere è introdotto dalla presentazione di quello che Ignazio chiama il “Principio e Fondamento”21. L’intento è di mettere a fuoco da subito “un chiaro senso della signoria di Dio e della creaturalità dell’uomo, del fine trascendente dell’esistenza umana”22. Per il santo di Loyola è decisivo che l’esercitante entri fin dall’inizio in un atteggiamento di profonda riverenza nei confronti del Creatore, desiderando acquisire una sempre maggiore libertà interiore da tutto ciò che fa da impedimento alla conoscenza e alla messa in pratica della volontà di Dio. In tal modo, il Principio e Fondamento risulta essere “l’orizzonte in cui si muove tutto l’itinerario ignaziano”23. Dopo la presentazione del Principio e Fondamento inizia la prima tappa degli esercizi, detta “prima settimana”24. Il frutto da ricercare è duplice. Pervenire, prima di tutto, a una “intima conoscenza” della realtà del peccato. Arrivare, cioè, a misurare, non solo con la ragione ma anche con il cuore, la forza disgregante del peccato, così da aborrirlo con tutto se stessi. È il primo frutto. Il secondo, strettamente collegato al precedente, è ancora più importante: provare interiormente una fiducia colma di stupore per la misericordia di Dio manifestata in Gesù crocifisso e avvertire, contemporaneamente, il desiderio pressante di ricambiare un amore tanto grande e immeritato. L’emergere di tale desiderio “secondo Ignazio è indispensabile per passare alla seconda settimana”25. In essa risulta cruciale sottoporre questo stesso desiderio al vaglio del discernimento, attraverso un confronto prolungato con la figura e l’opera di Gesù. Ignazio mira a introdurre a una familiarità crescente con la persona del Signore, attraverso un contatto vivo e coinvolgente con i racconti evangelici, in modo tale che l’esercitante assimili i suoi atteggiamenti e il suo modo di “sentire”26. Egli “è convinto che un’idea, per quanto bella e bene espressa, non salva l’uomo; lo salva solo la carne crocifissa e glorificata di Cristo […] Perché non dalla figura generica di Cristo possiamo dedurre i comportamenti concreti da scegliere, bensì dalla sua forma storica di vivere”27. Tornare ai Vangeli, esercitarsi nella lettura orante di essi, è l’unico antidoto contro il rischio di forgiare un Cristo a propria immagine e somiglianza28. Ecco allora il frutto da chiedere nella seconda settimana: “intima conoscenza del Signore, che per me si è fatto uomo, affinché lo ami e lo segua di più” [104]. Si tratta di maturare una conoscenza esperienziale del Signore, che coinvolga, insieme all’intelligenza,

l’affettività, così da affezionarsi alla sua persona e seguirlo sempre più da vicino nella strada da lui percorsa. In questo itinerario svolge un ruolo di primo piano “la contemplazione del Regno”29 [91-98]: Cristo viene presentato come il Re eterno, che ha una missione da affidare a coloro che rispondono generosamente alla sua chiamata. “Il merito di Ignazio in questo esercizio è di esplicitare coraggiosamente il significato di una sequela evangelica, fondata sulle beatitudini, e di esplicitarlo facendone una chiave di lettura dell’intera vita di Gesù. Chi è Gesù che voglio seguire? È Gesù… povero e umiliato, che contrasta con tutta la sua vita le ambizioni, le vanità, il desiderio di possesso, propri della mondanità. Ignazio avverte chiaramente l’esercitante: è solo la sequela di questo Gesù che porta alla scioltezza del cuore, che vince i condizionamenti mondani, sempre pronti a insidiare le scelte per il Regno. Senza tale sequela c’è il rischio di illuderci anche nelle scelte per Gesù”30. Nell’itinerario percorso lungo la seconda settimana l’esercitante è stato condotto a una scoperta decisiva: la “conoscenza della persona e del messaggio di Gesù conduce a quella sapienza della croce, che è follia per il mondo (cfr. 1Cor 1,20-31)”31. Desidero davvero fare qualcosa per Cristo? Devo allora accettare cordialmente di seguirlo sulla via che conduce a Gerusalemme. Devo liberamente associarmi alla sua Pasqua, nella quale si riassume e giunge a perfezione tutta la sua esistenza. Il Cristo pasquale è l’unico reale! Per questo la terza e la quarta settimana sono centrate sulla contemplazione della sua morte e della sua risurrezione. Mirano a condurre l’esercitante verso una “comunione affettiva che è com-passione con il Cristo paziente e con-gaudio con Cristo risorto”32. Una comunione affettiva non fondata su un’emozione passeggera, ma sulla adesione di fede al mistero pasquale. Tale fede porta “a identificarsi mente e cuore con il modo di vedere e di sentire di Cristo morto e risorto”33 e permette di guardare l’intera realtà in modo nuovo, in un’ottica propriamente contemplativa. Vangeli ed Esercizi: un nuovo rapporto La profonda conoscenza da parte di Martini della spiritualità ignaziana, da una parte, e del testo biblico, dall’altra, ha fatto sì che egli operasse un’integrazione originale ed efficace tra Parola di Dio ed Esercizi spirituali. Ne sono testimonianza i corsi di esercizi basati sui Vangeli, raccolti in questo

volume, che egli ha proposto a diverse categorie di persone, a partire dagli anni settanta del secolo scorso34. Il fatto che in tempi recenti la Bibbia sia diffusamente presente nella pratica degli esercizi non deve farci dimenticare quale novità costituisse in quel periodo una proposta del genere. Istruttiva è la testimonianza fornita dal cardinale a proposito delle circostanze concrete che lo spinsero a fare dei Vangeli la fonte privilegiata per gli esercizi35. Chiamato a guidare un corso per un gruppo di sacerdoti, si rese conto che la maggior parte di loro si trovava in una situazione di “saturazione”, oltre che di una certa delusione in campo pastorale. Avendo partecipato a diversi corsi condotti in maniera rigida secondo lo schema classico predisposto da sant’Ignazio, erano rassegnati ad ascoltare ancora una volta le solite cose. “Partendo da questa situazione, mi sono domandato come aiutare tali persone a compiere un certo cammino […] Non potevo seguire l’itinerario materiale degli Esercizi perché avrei creato, fin dall’inizio, un senso di rigetto”36. Decise allora di prendere come testo di riferimento il Vangelo di Marco e di seguire l’itinerario lungo il quale viene condotto il lettore. Un itinerario “di cui si può cogliere il punto di partenza, la via da percorrere, le diverse tappe e il punto di arrivo”37. Dietro tale scelta si trova un’intuizione di fondo: la dinamica che attraversa il racconto evangelico è sostanzialmente la stessa che si ritrova nel libretto degli Esercizi. Conseguentemente, è possibile aiutare l’esercitante a entrare nell’itinerario del ritiro ignaziano, seguendo passo dopo passo il cammino illustrato nel secondo Vangelo. I quattro Vangeli non furono utilizzati a caso da Martini, ma sempre scelti di volta in volta in corrispondenza con la situazione delle persone che partecipavano ai corsi. Alla base stava la convinzione che ogni Vangelo occupa un posto specifico nel Nuovo Testamento e costituisce una tappa precisa nella formazione del credente: “Possiamo dire che Marco è il Vangelo del catecumeno, Matteo del catechista, Luca del teologo e Giovanni del presbitero”38. Precisiamo meglio. L’intento degli Esercizi – condurre a seguire sempre più da vicino il Cristo povero e umiliato, a entrare in un contatto sempre più coinvolgente con la sua vita, morte e risurrezione – è in perfetta consonanza con l’orientamento di fondo dei Vangeli. Emblematico è proprio il racconto di Marco, che è stato anche quello scelto da Martini la prima volta in cui ha avviato questa modalità di proporre gli esercizi. Lo prendiamo quindi come esempio illustrativo e ci soffermiamo rapidamente sulla struttura essenziale

della sua narrazione (sostanzialmente ripresa da Matteo e da Luca). Quest’ultima appare formata da due parti ben distinte, ma al tempo stesso intimamente collegate, attraverso le quali si chiarisce progressivamente l’identità nascosta di Gesù. La prima parte mostra come egli sia la risposta alle attese di vita e di senso della gente. Questo primo sviluppo culmina in Mc 8,29 con il riconoscimento da parte di Pietro della sua messianicità. La seconda parte (a partire da Mc 8,31) fa emergere il modo sconcertante con cui Gesù realizza la sua missione. Egli è sì il messia, ma il messia crocifisso. Salva il mondo, ma non a colpi di miracoli, né sbaragliando i suoi avversari. Lo salva “consegnando” se stesso per amore. Come si vede, il racconto di Marco appare caratterizzato da una forte tensione cristologica. Vuole guidare il lettore in un cammino progressivo verso il centro della persona di Gesù. Contemporaneamente, intende condurlo a scoprire la propria ignoranza, le proprie resistenze, le proprie paure. Per far questo non riporta una elaborata dottrina; narra invece la vicenda di colui che, all’inizio e alla fine del racconto (Mc 1,9 e 16,6), presenta come il “Nazareno”, sottolineandone la concretezza storica. L’identità profonda dell’uomo di Nazareth si va delineando in parallelo alla storia narrata. Dentro questo sviluppo narrativo emergono ripetuti interrogativi sulla persona di Gesù (cfr. Mc 1,27; 4,41; 6,2), che rimangono come sospesi, senza una risposta immediata. L’evangelista dà l’impressione di voler tenere il lettore in uno stato di tensione e di ricerca. La risposta si va precisando mano a mano che si snoda il racconto, fino al compimento del dramma a Gerusalemme. Conseguentemente, per scoprire davvero chi sia Gesù, occorre coinvolgersi nella vicenda storica che lo ha visto protagonista. È necessario osservare da vicino il suo stile di vita, conoscere i suoi atteggiamenti verso le persone e le istituzioni, percepire ciò che ama e ciò che lo indigna; in una parola, condividere la sua passione per il Regno di Dio. Martini può ritrovare nel racconto evangelico le tappe essenziali dell’itinerario spirituale tracciato nel libretto degli Esercizi anche perché l’ispirazione che sta alla loro base ha avuto origine proprio dalla frequentazione assidua dei Vangeli, praticata da Ignazio39: “A poco a poco mi accorsi che sant’Ignazio fa fare la lettura della Bibbia, cercando di cogliere qualche chiave fondamentale partendo dalla centralità di Gesù e dalla croce. Così ho messo insieme questa esperienza spirituale degli Esercizi per me con quella della Scrittura”40. Martini matura quindi la convinzione che gli Esercizi costituiscono un cammino organico e sistematico, ma non

aprioristicamente prefissato e sempre aperto alla novità dello Spirito, che consente a chi lo percorre in modo sincero e generoso di meglio accedere alla forza trasformante della Parola. Questa consapevolezza è alla base di uno spostamento di accento: Martini passa più esplicitamente dalla proposta degli Esercizi nella prospettiva di un Vangelo alla lettura della Bibbia secondo la dinamica degli Esercizi41. Come emerge con chiarezza nell’introduzione del corso sulla prima lettera di Pietro che tenne poco dopo la fine del suo ministero episcopale, in cui affermò di non volersi dedicare alla lettura continua del testo, ma di lasciarsi “piuttosto guidare dalla dinamica degli Esercizi spirituali, scegliendo i brani della lettera che corrispondono alla dinamica del cammino di conversione che in essi ci viene proposto. Sono infatti convinto che il percorso degli Esercizi mette in sintesi quello della rivelazione biblica, e quindi il loro dinamismo si può ritrovare nei diversi testi della Scrittura”42. Il lievito degli Esercizi nella lectio divina: la “Scuola della Parola” Tale impostazione che svolge la lettura della Parola secondo una dinamica profondamente ispirata agli Esercizi spirituali, matura ulteriormente in un secondo strumento attraverso cui il cardinale cerca di avvicinare la gente alla Scrittura: la “Scuola della Parola”. Egli ritiene che sia questa la via per formare cristiani capaci di una fede solida e di scelte ponderate e, insieme, innovative43. E in effetti a moltissimi questa esperienza ha dato l’occasione di cogliere in prima persona come la Parola può essere “lampada per i passi, luce per il cammino” nella propria vita. Martini avviò questa iniziativa nell’ottobre 198044. La proposta, rivolta soprattutto ai giovani, era centrata sulla lettura di un testo della Scrittura, a cui faceva seguito un commento essenziale del cardinale per aiutare la preghiera personale sul testo stesso. Agli incontri, che avvenivano nel Duomo di Milano con cadenza mensile, giunsero ben presto a partecipare migliaia di giovani. È stato lo stesso Martini a offrire una spiegazione per una presenza così massiccia: “Il segreto del successo di questa iniziativa sta nel fatto che non offriamo ai giovani una catechesi e neppure un’omelia, ma gli strumenti per collocarsi direttamente di fronte al testo per esercitarsi nella lectio divina”45. La lectio è qui vista come esercizio privilegiato per favorire l’accostamento personale della Parola di Dio. Tale finalità è stata più volte

richiamata dal cardinale. Nella Lettera alla diocesi ambrosiana per l’anno pastorale 1981-82 scrisse: la lectio “consiste nella lettura di una pagina biblica tesa a far sì che diventi preghiera e trasformi la vita”46. Qualche anno dopo la definì nei termini seguenti: “esercizio ordinato dell’ascolto personale della Parola”47. In base a queste due citazioni, particolarmente istruttive, è possibile descrivere la lectio come un itinerario di lettura di un testo biblico, che comporta alcuni passi da fare con ordine per lasciarsi plasmare dalla Parola di Dio. Martini, prima di commentare un passo scritturistico, soleva richiamare i quattro passi classici della tradizione monastica (lectio, meditatio, oratio, contemplatio)48, offrendone una spiegazione essenziale, che qui richiamiamo brevemente. Attraverso la lectio si cerca di stabilire cosa dice il testo preso in esame. Per questo, esso va letto e riletto “mettendone in rilievo gli elementi importanti, il dinamismo, la struttura, i personaggi, le azioni, la qualità delle azioni, il contesto prossimo e remoto, i testi affini […] Perciò raccomando ai giovani di leggere il testo con la penna in mano, cominciando a sottolineare i soggetti, le azioni, i sentimenti, le qualità”49. Il passo successivo (meditatio) è caratterizzato dalla domanda: che cosa dice il testo a me? Consiste nel mettere a fuoco i valori (ad esempio, il coraggio e la fedeltà di Gesù) e i contro-valori (per esempio, la paura e le resistenze dei discepoli) emersi dall’analisi svolta in precedenza e nell’applicarli alla propria situazione concreta. La meditazione tende a far sì che il pane della Parola venga assimilato, così da impregnare la propria mentalità e le proprie valutazioni. I temi e i valori su cui si è riflettuto – siamo al terzo passo (l’oratio) – diventano oggetto di un dialogo fiducioso con il Signore “mediante la lode, il rendimento di grazie, la domanda”50. La preghiera si esprime così in diverse direzioni, a seconda delle risonanze che il testo ha suscitato nella storia personale. L’ultimo passo, strettamente collegato al precedente, è costituito dalla contemplatio. “Quando si prega e si ama molto, le parole vengono quasi a mancare e non si pensa più tanto ai singoli elementi del brano letto e a ciò che abbiamo compreso di noi. Si avverte il bisogno di guardare solo a Gesù, di lasciarsi raggiungere dal suo mistero, di riposare in lui, di amarlo come il più grande amico del mondo, di accogliere il suo amore per noi”51. Con la contemplazione si è ormai oltre l’approccio riflessivo. Si entra in un silenzio adorante, in cui si avverte con grande intensità l’abbraccio della misericordia, che avvolge la nostra persona, la Chiesa, il mondo.

Si deve notare che, nella visione di Martini, preghiera e contemplazione non costituiscono il punto di arrivo della lectio. Ciò verso cui tutto il processo tende, è giungere a sperimentare la forza trasformante della Parola52. L’incontro orante con la Scrittura non può risolversi in una pia pratica fine a se stessa. Piuttosto, deve portare a discernere la volontà di Dio nelle concrete circostanze storiche e a operare scelte evangeliche conseguenti. Per questo il cardinale sottolineava l’importanza di far seguire ai quattro passi classici altri quattro passi (consolatio, discretio, deliberatio, actio)53, da considerare come “il ponte di collegamento tra preghiera e vita”54. È qui che si fa vivo l’influsso degli Esercizi, orientati, come abbiamo visto “verso il discernimento e la deliberazione pratica”. La consolazione, frutto diretto della preghiera contemplativa, consiste in “quella sintonia, che lo Spirito Santo fa nascere, con i valori evangelici della santità, del perdono, dell’umiltà, dell’amore del prossimo”55. Allora si avverte “nel cuore gioia e affinità con gli atteggiamenti evangelici proposti dal messaggio del testo”56. Si sperimenta il tocco di Dio, che “attira a sé”57 e ridà slancio e vitalità al proprio dinamismo interiore. Tale forza di attrazione esercitata da Dio, quale espressione peculiare della consolazione, è chiaramente espressa nel n. [316] degli Esercizi. La consolazione è qui definita “una mozione dell’anima”, un movimento interiore che orienta pienamente verso Dio. La persona avverte una gioia profonda che “attrae alle cose celesti”, producendo intima pace e serenità. La consolazione, contrassegnata dalla gioia (intima e duratura) che l’accompagna, costituisce la bussola che fa da guida nel lavoro di discernimento della volontà di Dio. È “nell’esperienza della gioia ricevuta da un Altro, la gioia che viene da Dio, che provo la giustezza e la verità delle scelte poste in atto”58. Dunque, “è proprio la consolatio che rende possibile quel discernimento spirituale a partire dal quale si attua la deliberazione, la scelta in vista dell’azione”59. Decisione personale e impegno nella storia Abbiamo visto in queste pagine come il cardinale abbia operato instancabilmente per mostrare che la Parola di Dio “deve essere letta sempre dentro il tempo che viviamo e quindi nella prospettiva di un discernimento spirituale. ‘Discernimento’ è infatti l’altra parola chiave, insieme ad ‘ascolto’,

del suo stile pastorale: l’ascolto della parola di Dio tramite le Scritture è orientato alla vita; si tratta di ascoltare quello che ‘oggi’ il Signore dice alla Chiesa e a ogni uomo”60. Proprio a questo scopo ha promosso gli Esercizi e la Scuola della Parola. Lo ha fatto in modo creativo, indicando una rotta possibile da seguire, convinto che “se non alimentiamo la fede attraverso un contatto personale con la Parola, non riusciremo a passare indenni nel deserto spirituale del mondo occidentale europeo”61. Gli Esercizi si collocano in un momento ben preciso del cammino di quella realtà complessa che è la Parola: cioè quando essa “giunge nel cuore dell’uomo per portarvi frutto”62, trasformando la vita e conducendo a deliberazioni concrete. Per giungere alla scelta operativa il percorso non è diverso da quello abituale e universale attraverso cui ogni coscienza onestamente e liberamente si impegna nella comprensione del bene e si decide per realizzarlo. È nella mediazione della coscienza che avviene il processo di discernimento, con tutti i passaggi che ciò richiede. Il primo passo consiste nell’“avvertire e conoscere”63 in che direzione portano i desideri del nostro cuore. Queste “mozioni spirituali” costituiscono per così dire l’alfabeto del linguaggio con cui Dio comunica con ciascuno: sant’Ignazio parla in proposito, come sopra accennato, di “consolazioni” e di “desolazioni”. Le esperienze di gioia e di tristezza che frequentemente sperimentiamo ne sono esempi tipici. Familiarizzandosi con esse e con la loro diversa qualità diventa possibile una diretta comunicazione tra il Creatore e la sua creatura, fino all’instaurarsi di un vero e proprio colloquio, come tra amici (cfr. [54]). Il discernimento quindi chiede di crescere nella consapevolezza delle mozioni interiori, cioè in quell’intreccio di sentimenti ed emozioni, talvolta anche contraddittori, che spingono ad agire. Sicuramente Martini ha saputo accompagnare in modo magistrale le persone nell’individuare i movimenti da cui sono abitate e a divenire consapevoli delle voci molteplici che risuonano nello spazio interiore sia nelle esperienze della vita ordinaria, sia soprattutto quando ci si espone all’ascolto della Parola64. Ma questo non è che un primo passo. Delle reazioni affettive non siamo padroni: non abbiamo presa sul loro nascere o sul loro persistere, né possiamo farle apparire o scomparire. Le possiamo “soltanto governare”65. Ecco allora il secondo momento: assecondare o dissentire dalle voci che interiormente risuonano, “senza lasciarci sedurre da ciò che conduce dove

mai si sarebbe voluti arrivare”66. È proprio questo lo snodo in cui opera la libertà: essa regola quei sentimenti che accadono dentro di noi, anche senza che noi lo vogliamo, per dare spazio ed energia a quelli che conducono verso ciò che è bene e contrastare quelli che urgono in senso opposto. Naturalmente il segnale che quanto si intende deliberare è effettivamente orientato al bene non è una generica sensazione di benessere. Da una parte, infatti, anche momenti di sofferenza e di oscurità possono promuovere un effettivo itinerario di maturazione e di liberazione dal male. Dall’altra è da tenere presente che i singoli passi da porre per camminare oggettivamente in sintonia con il senso complessivo della propria esistenza possono costare fatica. Nel corso di questo itinerario si vede emergere così una percezione sempre meno approssimativa e progressivamente più nitida dell’orientamento della propria vita nel suo insieme, che richiede di essere assunto e perseguito con intenzione sincera. È infatti solo all’interno di questo quadro più ampio che i singoli comportamenti possono trovare un loro calzante significato67. La dinamica del discernimento implica pertanto una stretta connessione tra conoscenza della realtà e comprensione di sé, tra scelta dei mezzi da adottare e decisione sul senso globale della propria vita. Se questo percorso che impegna la coscienza riguarda ogni persona (credente o meno), per il cristiano esso avviene nel contesto esplicito della relazione con il Signore. Ed è proprio su questo punto che gli Esercizi insistono, promuovendo la sequela e la comunione personale con Gesù, nell’umiltà del suo cammino pasquale, in una dinamica di continua conversione. Martini mostra come gli Esercizi non solo chiariscano il fine per cui l’uomo è creato, ma anche nella pratica stessa assumano questo andamento, in quanto “itinerario che, prendendo l’esercitante da un determinato punto di partenza, attraverso una serie di tappe successive, lo conduce a un punto di arrivo che sarà sempre l’elezione o la conformità con il Cristo nella scelta fatta dello stato di vita ecc. E ciò a seconda dei modi con cui si descrive questo itinerario finale, questa conformazione con il mistero”68. Descrivendo questo itinerario del discernimento abbiamo toccato un tratto centrale e qualificante dello stile di Martini, attraverso il quale egli coglie “l’identità tra dinamismo della storia biblica e dinamismo degli Esercizi”69. Il suo ministero episcopale, come del resto la sua intera vita, è caratterizzata da questo sguardo, che ha contrassegnato il suo operare sul piano sia personale,

sia ecclesiale, sia culturale: nell’interpretare gli avvenimenti, ascoltare le domande e individuare le aspirazioni dell’attuale momento storico70. Dalla ricchezza di questo patrimonio, alla confluenza della Parola di Dio e degli Esercizi spirituali, egli ha saputo in modo creativo trarre le risorse per la sua profetica capacità di discernere i segni del nostro tempo. Così egli vi ha instancabilmente individuato le tracce dell’operare dello Spirito e le sollecitazioni rivolte alla responsabilità delle persone. Maurizio Teani, gesuita, è docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, di cui è anche Preside. 1 “‘Lampada per i miei passi è la tua parola – dice il salmo – e luce sul mio cammino’. Sono parole che vorrei fossero scritte sulla mia tomba, alle quali credo profondamente, a cui ho dedicato la mia vita; e sono parole che valgono per tutti” (Carlo Maria MARTINI, “La Parola di Dio nella vita della Chiesa. La Costituzione Dei Verbum”, in Bruno FORTE [a cura di], Fedeltà e rinnovamento. Il Concilio Vaticano II 40 anni dopo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, p. 83). 2 Citato in Piero STEFANI, “Lampada ai miei passi è la tua Parola”, in Studi Ecumenici, 31 (2013), p. 28. 3 Intervento all’Università cattolica in occasione del Convegno per il centenario della Providentissimus Deus e il cinquantenario della Divino afflante Spiritu, ora in Carlo Maria MARTINI, Innamorarsi di Dio e della sua Parola, Bologna, EDB, 2011, p. 76. 4 A suo parere “tutta la storia del cammino pastorale di una comunità è la storia non tanto delle sue realizzazioni esteriori, dei suoi raduni, dei suoi congressi, delle sue processioni o delle sue iniziative; ma quella della semina abbondante e ripetuta della Parola, e della cura perché questa Parola trovi le condizioni per essere accolta” (Carlo Maria MARTINI, Interiorità e futuro, Bologna, EDB, 1988, p. 98). Chiaro è il riferimento alla parabola di Mt 13,3-23. 5 Carlo Maria MARTINI, Ripartire da Emmaus, Casale Monferrato, Piemme, 1991, p. 105. 6 ID., “La Parola di Dio nella vita della Chiesa” cit., p. 69. 7 Cfr. Riccardo BURIGANA, “Alla riscoperta della Parola di Dio. La storia della redazione della Costituzione Dei Verbum”, in Parola Spirito e Vita, 2 (2008), pp. 9-23; ID., La Bibbia nel Concilio, Bologna, Il Mulino, 1998. Cfr. anche John W. O’MALLEY, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e pensiero, 2010. 8 Carlo Maria MARTINI, “La Parola di Dio nella vita della Chiesa” cit., p. 71. 9 Il metodo storico-critico sottopone i testi della Sacra Scrittura allo stesso tipo di studi che valgono per ogni testo (antico), collocandoli nel loro contesto di origine e analizzandone la composizione, ricercandone i diversi strati redazionali e l’evoluzione storica. Ha prodotto importanti, anche se mai esaustive, informazioni per interpretare i significati dei libri biblici. 10 Luca MAZZINGHI, “Percorsi biblici nella Dei Verbum”, in Parola Spirito e Vita, 2 (2008), p. 37. Per una documentata ricostruzione degli attacchi a cui fu sottoposto l’Istituto Biblico negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta del secolo scorso, si veda Maurice GILBERT, Il Pontificio Istituto Biblico. Cento anni di storia (1909-2009), Roma, PIB, 2009, pp. 143-186. 11 Pietro BOVATI, “La Parola tra le parole: la Bibbia come lievito dell’umanizzazione delle culture”, in Rassegna di teologia, 56 (2015), pp. 185-186. 12 Bruno FORTE, “Introduzione” a Elio GUERRIERO (a cura di), Il Concilio Vaticano II, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, p. V.

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“È questo processo di apprendimento e di conversione, nello stesso tempo individuale e collettivo, che ci trasmette il Concilio, prima ancora di lasciarci dei testi” (Christoph THEOBALD, “Le Concile Vatican II face à l’inconnu. L’aventure d’un discernement collégial des ‘signes des temps’”, in Études, 156 (2012), p. 354. 14 “L’aspetto veramente innovativo dell’evento ermeneutico conciliare fu l’attenzione alla storia […] Ritengo che l’espressione più vera di questa ermeneutica storica messa in atto dai padri conciliari sia stata la stessa costituzione Dei Verbum, laddove, soprattutto nel proemio e al n. 2, essa non separa la rivelazione dall’evento del suo ascolto e introduce così la storia stessa come elemento costitutivo dell’autocomunicazione di Dio all’essere umano” (Giuseppe RUGGIERI, “Il Vaticano II come Chiesa in atto”, in Concilium, 48 [2012], p. 58). 15 Cfr. nota 3, p. XIV. 16 Carlo Maria MARTINI, Innamorarsi di Dio e della sua Parola cit., p. 80. 17 ID.,“La figura spirituale di sant’Ignazio”, in Rivista del clero italiano, 73/1 (1992), p. 11. 18 Ibid., p. 10. 19 È quanto notava un profondo conoscitore degli esercizi ignaziani: per raggiungere lo scopo per cui furono ideati, “l’esercitante dovrà percorrere un cammino fatto di preghiera o più esattamente di meditazione: pregherà dunque e, come meglio vedremo, si nutrirà della Parola di Dio. Però non a piacimento e senza ordine, bensì secondo un certo itinerario” (Sergio RENDINA, La pedagogia degli Esercizi spirituali. Aspetti più significativi, Roma, ADP, 2002, p. 29). 20 Carlo Maria MARTINI, Abramo, nostro padre nella fede, Roma, Borla, 1985, p. 22. 21 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano” in questo volume, voce “Principio e Fondamento”, p. 1157. 22 Carlo Maria MARTINI, Mettere ordine nella propria vita. Meditazioni sul testo degli Esercizi di sant’Ignazio, Casale Monferrato - Milano, Piemme - Centro Ambrosiano, 1992, p. 32. 23 Sergio RENDINA, L’itinerario degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Commento introduttivo alle quattro settimane, Roma, ADP, 1999, p. 21. 24 Con il termine “‘settimana’ Ignazio non intende in primo luogo una durata cronologica, ma piuttosto una tappa ben caratterizzata” (Sergio RENDINA, L’itinerario degli Esercizi spirituali cit., p. 43); cfr. anche “Piccolo lessico ignaziano”, pp. 1157-1158. 25 Ibid., p. 89. 26 “‘Sentir’ è uno dei termini più frequenti del vocabolario ignaziano. La sua traduzione con l’equivalente italiano non esprime la forza che gli dà Ignazio. Non si tratta di un pallido sentimento, di un “colpo di cuore” passeggero, ma di una conoscenza che si imprime nell’anima: “perché io senta profonda cognizione” scrive paradossalmente sant’Ignazio (Esercizi, [63]). Una conoscenza che non è dell’ordine di un sapere di Dio che si può acquisire in un libro o durante un’omelia. Essa è un’esperienza di Dio” (Jean-Claude DHÔTEL, La spiritualità ignaziana. Punti di riferimento, Roma, Ed. CVX, 1997, pp. 69-70). 27 Carlo Maria MARTINI, “La figura spirituale di sant’Ignazio” cit., pp. 14-15. 28 Gesù Cristo “non dobbiamo forgiarcelo ‘a nostra immagine e somiglianza’, ma dobbiamo cercare di incontrarlo così com’è in verità, lasciando che la sua persona e il suo appello agiscano sul nostro desiderio e lo modellino” (Sergio RENDINA, L’itinerario degli Esercizi spirituali cit., p. 191). 29 Cfr. ibid., pp. 79-115. 30 Carlo Maria MARTINI, Mettere ordine nella propria vita cit., pp. 91-92. 31 Sergio RENDINA, L’itinerario degli Esercizi spirituali cit., p. 131. 32 Ibid., p. 184. 33 Ibid., p. 191.

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Martini stesso ha dato alcune indicazioni puntuali sulla progressiva maturazione del suo approccio sia nell’articolo “Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici” sia lungo il corso di esercizi spirituali tenuto nel 1974 su “L’itinerario spirituale dei Dodici nel Vangelo di Marco” (ora in questo volume a p. 19 e p. 43). In particolare quest’ultimo ci mostra il modo seguito da Martini per preparare un corso di esercizi, basandosi su una duplice lettura: del Vangelo e della situazione in cui si trovano gli esercitanti. 35 Cfr. “Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici” cit., p. 21. 36 Ibid., p. 22. 37 Ibid., p. 24. L’impostazione data da Martini al corso di esercizi, insegna a chi li guida che “ripetendo in modo totalmente impersonale i contenuti ignaziani già noti o addirittura la lettera stessa del libretto degli Esercizi, non ci si pone in verità al servizio del carisma ignaziano e non gli si permette di far esplodere tutta la sua ricchezza e vitalità a vantaggio della Chiesa. Questo piuttosto si realizza quando il direttore, dopo essersi immerso per primo nella dinamica dell’itinerario pedagogico tracciato da Ignazio e dopo averlo assimilato nel profondo del proprio cuore, presta attenzione al destinatario, alle sue reali e concrete esigenze” (Maurizio COSTA, “Gli ‘Esercizi spirituali’ del Card. Martini”, in La Civiltà Cattolica, 140 [1989], p. 151). 38 Carlo Maria MARTINI, “Gli Esercizi ignaziani alla luce del vangelo di Matteo”, in questo volume, p. 127; cfr. anche ID., “Il caso serio della fede”, in questo volume, pp. 1115-1116. Martini riconobbe espressamente che questa lettura dei Vangeli gli era stata suggerita da Michel Ledrus, gesuita belga, profondo conoscitore della spiritualità ignaziana. 39 Un religioso incaricato nel 1548 da Paolo III di esaminare gli Esercizi, riconosceva che “sono senza alcun dubbio nati dalla conoscenza della Sacra Scrittura e da una lunga esperienza” (citato da Donatien MOLLAT, “Le Christ dans l’expérience spirituelle de Saint Ignace”, in Christus, 1 [1954], p. 46). 40 Carlo Maria MARTINI, “La mia storia con la Scrittura”, in ID., Nel sabato del tempo. Discorsi, interventi, lettere e omelie 2000, Bologna, EDB, 2001, p. 606-607. 41 Cfr. Giuseppe COMO – Enrico PAROLARI, “Una storia, un racconto, una vita. La felice contaminazione tra Scrittura ed Esercizi ignaziani in Carlo Maria Martini”, in Franco MANZI (a cura di), Carlo Maria Martini. Il pastore del post-Concilio, Milano, Ancora, 2014, pp. 35-53. 42 Carlo Maria MARTINI, Il segreto della prima lettera di Pietro, Casale Monferrato, Piemme, 2005, p. 19. 43 “[La lectio] non sostituisce né la catechesi né altre iniziative di insegnamento e di aggiornamento culturale che aiutano un cristiano a divenire adulto nella fede. La lectio fa qualcosa che i discorsi, le prediche, le catechesi non possono sempre fare: pone ciascuno con la sua coscienza e responsabilità di fronte a Dio che parla, invita, chiama, consola o rimprovera, il tutto in un’atmosfera di preghiera e di dialogo, di umile richiesta di perdono, di domanda di luce, con la disposizione a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo per realizzare l’offerta della propria vita” (Carlo Maria MARTINI, Intervento al Convegno di Camaldoli su “Cristianesimo e democrazia nel futuro dell’Europa” [12 luglio 2002], ora in Perché il sale non perda il sapore, Bologna - Milano, EDB - Centro Ambrosiano, 2003, pp. 479-480). 44 Si veda Fausto PERRENCHIO, “La Scuola della Parola del Card. Carlo Maria Martini”, in Carlo BUZZETTI – Mario CIMOSA (a cura di), I giovani e la lettura della Bibbia. Orientamenti e proposte, LAS Roma 1992, pp. 147-180. 45 Intervento all’Università Gregoriana in occasione del venticinquesimo della Dei Verbum, ora in Carlo Maria MARTINI, Innamorarsi di Dio e della sua Parola cit., p. 19. 46 ID., In principio la Parola, Milano, Centro Ambrosiano di Documentazione, 1981, p. 56. 47 ID., Popolo in cammino, Milano, Ancora, 1983, p. 13. 48 Fu il monaco certosino Guigo II, vissuto nel XII secolo, a presentare per la prima volta in modo

organico l’articolazione della lectio in quattro momenti (cfr. GUIGO II, Scala claustralium, sive de modo orandi [PL 184, 475-484]). 49 Carlo Maria MARTINI, La pratica del testo biblico, Casale Monferrato, Piemme, 2000, p. 8-9. 50 Ibid., p. 9; cfr. anche ID., “S. Ignazio e il Vaticano II. La lectio divina nella vita del cristiano”, in Rassegna di teologia, 32 (1991), pp. 547-557. 51 Il brano è citato da Marcello BRUNINI, “Un giardino di delizie. Sulla pratica della lectio divina”, in Rivista del clero italiano, 78 (1997), p. 610, il quale rimanda a un testo ciclostilato del cardinale. 52 La Scrittura è scoperta nella sua identità più propria, quando se ne sperimenta personalmente l’energia liberatrice. “Provare la Bibbia come parola di Dio e provarla come attuale per me, è un’unica e identica cosa” (Paul BEAUCHAMP, “Le message biblique et notre passé”, in Christus, 14 [1967], p. 30). 53 Cfr., ad esempio, Carlo Maria MARTINI, La pratica del testo biblico cit., pp. 8-10. 54 Riflessione per le giornate di studio della Conferenza dei vescovi svizzeri, tenuta a St Niklausen il 25 aprile 2001, ora in Carlo Maria MARTINI, Ricominciare dalla Parola, Bologna - Milano, EDB Centro Ambrosiano, 2002, p. 174. 55 Ibid., p. 174. 56 Ibid., p. 10. 57 Joseph THOMAS, I segreti dei gesuiti: gli Esercizi spirituali, Casale Monferrato, Piemme, 1986 (ed. or. 1984), p. 63. 58 Paul LEGAVRE, “Discerner la joie. La démarche ignatienne”, in Christus, 53 (2006), p. 489. 59 Carlo Maria MARTINI, “La figura spirituale di Sant’Ignazio” cit., p. 9. 60 Antonio TORRESIN, “Un buon pastore”, in Il Regno-Attualità, 16 (2012), p. 512. 61 Carlo Maria MARTINI, Innamorarsi di Dio e della sua Parola cit., p. 80. 62 “La Parola di Dio e gli Esercizi”, in questo volume, p. 9. 63 Esercizi spirituali [313], che è proprio il titolo che introduce le “Regole per il discernimento”. 64 Cfr ad esempio Carlo Maria MARTINI, Notti e giorni del cuore. Ritrovare fiducia nella vita, Milano, In dialogo, 2014. 65 Ibid., p. 21. 66 Silvano FAUSTI, Occasione o tentazione. Arte di discernere e decidere, Milano, Ancora, 20055, p. 29. 67 Cfr. Sergio BASTIANEL, “Discernimento e formazione cristiana”, in Donatella ABIGNENTE – Sergio BASTIANEL, Sulla formazione morale. Soggetti e itinerari, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2013, pp. 23-52. 68 “Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici”, in questo volume, p. 24. 69 Carlo Maria MARTINI, “S. Ignazio e il Vaticano II” cit., p. 552. 70 Cfr. Stefano CUCCHETTI, “‘Discernere i veri segni del disegno di Dio’ (GS 11). Un metodo per discernere i segni dei tempi in Carlo Maria Martini”, in Franco MANZI (a cura di), Carlo Maria Martini cit., pp. 244-263.

NOTA TECNICA

I testi raccolti in questo volume riportano i corsi di esercizi spirituali sui Vangeli dati da Carlo Maria Martini in un arco di tempo molto ampio, dal 1972 al 2002. Abbiamo scelto di concentrarci sui corsi che offrono letture complessive dei Vangeli, rinviando a una successiva pubblicazione quelli che ne considerano invece solo una parte o una tematica, e di partire dal Vangelo di Marco, perché è il primo che padre Martini ha preso in considerazione. Sono preceduti da due brevi conferenze tenute alla metà degli anni settanta nelle quali, da prospettive diverse, quello che allora era ancora il rettore del Pontificio Istituto Biblico spiega perché cominciò a proporre gli esercizi spirituali a partire dalla Bibbia. Gli esercizi spirituali consistono in un insieme di meditazioni, esposte oralmente a un gruppo più o meno numeroso, che intende vivere alcuni giorni di silenzio e di preghiera personale; per non perdere il senso unitario del percorso pedagogico, riportiamo quasi sempre integralmente tutti i contenuti, benché alcune indicazioni metodologiche inevitabilmente si ripetano in forme simili. Invece normalmente tralasciamo le omelie, pronunciate dal cardinale nelle celebrazioni eucaristiche che ogni sera concludevano le giornate di preghiera. Infatti, ispirandosi alle letture della Scrittura della liturgia del giorno, si allontanano dal tema principale del Vangelo preso in considerazione nel ritiro. Nelle poche volte in cui altri testi vengono omessi, se ne dà indicazione e se ne spiega il motivo da parte del curatore1. Tutti i testi sono già stati pubblicati, alcuni in più edizioni. Nell’organizzazione del volume abbiamo scelto di incrociare il criterio tematico – ossia, raccogliere i corsi che riguardano uno stesso Vangelo – e il criterio cronologico, partendo dal corso più antico; e ci siamo basati sulle edizioni più recenti, facendo riferimento dove necessario alle precedenti. La trascrizione delle registrazioni mantiene lo stile parlato e diretto. Si sono corretti solo gli evidenti refusi. Abbiamo cercato di evidenziare le fonti delle citazioni martiniane, anche se non sempre è stato possibile. All’inizio di

ogni parte, che comprende i corsi su uno stesso Vangelo, una premessa scritta dal curatore ricostruisce il contesto concreto in cui i corsi sono stati proposti. Nei testi sono riportate in corsivo le preghiere che il cardinale ogni tanto inseriva nella sua esposizione. In ogni parte, le citazioni con i soli capitoli e versetti si intendono riferite al Vangelo in oggetto, se non diversamente indicato. Nelle ultime pagine del libro abbiamo aggiunto un breve lessico dei termini ignaziani. È tratto, come anche le citazioni degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, dall’edizione curata dal Centro Ignaziano di Spiritualità, pubblicata per la prima volta a Napoli nel 2001 e poi riedita più volte dall’Editrice San Paolo. Secondo l’impostazione classica del libretto degli Esercizi spirituali, la numerazione dei paragrafi è situata tra parentesi quadre, senza ulteriori specificazioni. Per tutte le altre numerazioni si premette l’abbreviazione della fonte. Si contraddistinguono le note già presenti nelle prime edizioni, che si sono riportate fedelmente, con il contrassegno [*]: tutte le altre sono quindi del curatore. 1

Carlo Chiappini, gesuita, maestro dei novizi dal 1998 al 2013, ora è impegnato nel ministero degli Esercizi spirituali e nell’insegnamento a Napoli presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale - Sezione S. Luigi.

PRIMA PARTE VANGELI ED ESERCIZI SPIRITUALI

PREMESSA

Per introdurre e inquadrare il rapporto tra la Bibbia e gli Esercizi spirituali, che attraversa tutti i testi raccolti in questo volume, premettiamo due articoli: “La Parola di Dio e gli Esercizi” e “Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici”. Si tratta di conferenze tenute da Martini – allora rettore del Pontificio Istituto Biblico – attorno alla metà degli anni settanta del secolo scorso, e rivolte in luoghi e occasioni diverse a confratelli gesuiti. Sono state scelte perché, pur non essendo direttamente collegate tra loro, hanno una certa complementarità: la prima legge l’esperienza degli esercizi spirituali all’interno della dinamica della rivelazione di Dio, ossia della sua Parola che interpella l’uomo; nella seconda invece Martini racconta come iniziò a dare gli esercizi a partire dal testo biblico piuttosto che dal libretto degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio. “La Parola di Dio e gli Esercizi” disegna perciò lo sfondo teologico, nel quale “Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici” inserisce il ricordo autobiografico. “La Parola di Dio e gli Esercizi” è stato pubblicato una prima volta in L’ascolto della Parola di Dio negli Esercizi, Torino, Editrice LDC, 1973, pp. 25-38. Noi seguiamo invece l’edizione successiva, in Carlo Maria MARTINI, Parola di Dio vita dell’uomo, Roma, Edizioni CVX, 1976, pp. 113-123. “Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici” è contenuto in Gli Esercizi ignaziani e la Bibbia, Roma, Centrum Ignatianum Spiritualitatis, 1977, pp. 17-34.

LA PAROLA DI DIO E GLI ESERCIZI

La Parola di Dio è una realtà immensa: vediamo come in essa si situano gli esercizi. Anzitutto esaminiamo i termini: che cosa intendiamo per esercizi e per Parola di Dio. Poi passeremo in rassegna tre aspetti tipici degli esercizi: cioè gli esercizi come ambiente, come attività dello spirito, come serie di meditazioni e contemplazioni. Metteremo infine ciascuno di questi tre aspetti a confronto con la Parola di Dio. La terminologia Anzitutto gli esercizi sono un ambiente: ritiro, cessazione di altre attività, per mettersi a disposizione di Dio durante un certo tempo (tre, cinque, otto o più giorni). Quest’ambiente di segregazione o di ritiro dalle altre occupazioni è espresso molto bene nell’annotazione ventesima degli Esercizi1. Oltre che un ambiente, gli esercizi sono considerati attività: attività dello spirito, ben descritta nell’annotazione prima2. Infine il terzo aspetto, che è quello vero e proprio, riguarda il contenuto: la serie cioè delle meditazioni e contemplazioni che compongono la materia degli esercizi. Col termine Parola di Dio, che la Scrittura stessa usa molte volte ed è estremamente difficile definire, si intendono alcuni aspetti che cercheremo di sintetizzare. Anzitutto si intende il Verbo: Dio “dice” e “si dice”, cioè la Parola di DioVerità. Questo è l’aspetto rivelato, quindi fondamentale, in quanto fonda la comunicabilità di Dio. Tutto ciò che si può dire di Dio, o Dio dice di sé, o che noi conosciamo di lui, o che noi conosciamo di noi stessi attraverso di lui, tutto è fondato sul Verbo, cioè su questa Parola, sul fatto che Dio è comunicazione di se stesso. Secondo significato: la Parola di Dio è per eccellenza Gesù Cristo, il Verbo in mezzo a noi, Dio detto e manifestato a noi. È Gesù in tutto l’arco

della sua vita, che ci manifesta il Padre, e adempie anche la sua funzione di Logos ed esprime Dio-Parola. Quindi, ogni Parola di Dio va riferita a Gesù Cristo ed ha la sua efficacia creativa e normativa dal fatto che Gesù si è fatto uomo e ci ha detto Dio, ci ha manifestato il Padre. Terzo significato: sono le parole dette nella storia della salvezza dai profeti e dagli apostoli per manifestare il piano divino presente in Gesù. Queste parole della predicazione profetica e apostolica, nel 95 per cento dei casi, sono nella Scrittura la “Parola di Dio”. Infatti, nella Bibbia, quasi sempre – quando si parla di Parola di Dio – ci si riferisce alla parola che un profeta ha detto in nome di Dio per manifestarne il disegno di salvezza tra gli uomini: una parola umana, che si ascolta con le orecchie, che si può ripetere e analizzare, ma sempre in riferimento diretto al Cristo e al piano di Dio Padre. Quarto significato: sono le parole di tutti coloro che sono connessi con l’attività profetica e apostolica ed hanno scritto per ispirazione divina la Parola di Dio: saggi, cronisti, legislatori, sacerdoti ecc. Ed ecco la Bibbia. Infatti, solo a questo punto passiamo alla Parola scritta cioè alla Bibbia, vale a dire le parole degli apostoli e dei profeti messe in scritto per ispirazione di Dio, per manifestare il suo piano presente in Cristo che ci rivela la volontà del Padre. Possiamo notare qui che la Bibbia, pur essendo ciò che abbiamo detto, ha relazione immediata da una parte con la parola viva d’Israele e della Chiesa primitiva, e dall’altra con Cristo e con il Padre mediante lo Spirito che la ispira. È un momento privilegiato in quanto se fosse solo una messa per iscritto delle parole profetiche e apostoliche, potrebbe essere solo un documento storico: invece è in relazione da una parte con Israele e con la Chiesa viva e dall’altra con il Verbo per mezzo dello Spirito che la ispira. La Bibbia continua a vivere nella Chiesa, nella quale è nata, specialmente nella liturgia, come ci dice chiaramente il Concilio Vaticano II. Tuttavia non soltanto nella liturgia – specie se considerata in senso astratto, cioè solo come tempi specifici dedicati al culto divino –, ma in relazione con tutta l’attività della Chiesa. Da quale tipo di attività della Chiesa è nata la Bibbia? In particolare da quella del Nuovo Testamento: dalla predicazione, dalla catechesi, dalla riflessione, dalla esortazione (pensiamo alle lettere apostoliche), dall’educazione spirituale e sapienziale. La Bibbia rivive in tutte queste forme della vita ecclesiale. Il significato del termine “Parola di Dio” non è ancora esaurito, in quanto nel Nuovo Testamento è anche “Parola di Dio” la parola della predicazione cristiana: e questo è il quinto significato. Perché Parola di Dio? Perché riferita

immediatamente a tutti i termini precedenti (vale a dire Bibbia, predicazione apostolico-profetica, Gesù Cristo, disegno di Dio) e resa presente. Utile ricordare il capitolo 19 degli Atti, in cui vediamo la Parola essere in concreto la predicazione cristiana: “Paolo rimase per due anni a insegnare nella sinagoga cosicché tutti gli abitanti dell’Asia poterono ascoltare la Parola del Signore” (At 19,10). Questa Parola del Signore è la quotidiana parola di Paolo. Che cosa contiene questa Parola del Signore? Lo vediamo nello stesso capitolo al v. 8: “Paolo parlò con molta franchezza, discutendo e persuadendo su quanto riguarda il Regno di Dio”. Quanto riguarda il Regno di Dio può essere Parola del Signore. Oppure al v. 20: “La Parola di Dio cresceva e si consolidava”. Qui si vede quanti significati ha questa Parola. Praticamente è la Parola predicata da Paolo, ma che si identifica poi nella comunità stessa che cresce. La Parola di Dio a un certo momento è quindi identificata con la stessa Chiesa che la pronuncia e vive di essa. Al capitolo seguente, v. 20, abbiamo altri aspetti della Parola di Dio. Nel discorso di Paolo agli anziani di Efeso è detto: “Ho predicato e istruito in pubblico e nelle case, annunziando a giudei e greci la conversione e la fede in Cristo Gesù” (At 20,31). Questa è dunque la predicazione cristiana che annuncia la fede, la conversione e tutto questo rientra nella Parola di Dio. E ancora: “Vi ho annunciato tutto il disegno di Dio” (At 20,27), “annunciare Gesù” (At 9, 20). Tutta questa multiforme predicazione è Parola di Dio. E qui già siamo nel clima degli esercizi, dove si annuncia la fede, la conversione, Gesù Cristo attraverso la testimonianza degli stessi cristiani, non soltanto sulla base della Scrittura ma anche con la parola viva. Anche negli esercizi giunge qualcosa che si può veramente chiamare ed è, nel senso più vero, Parola di Dio, perché collegata a tutte le realtà precedenti e attualizzata dalla testimonianza di chi vive la Parola. Quest’ultimo punto merita una particolare attenzione, in quanto ci pone più a contatto con la parola viva della predicazione cristiana ed è quello che si esplica direttamente negli esercizi, nei quali la Parola influisce come libro e come testimonianza di predicazione. Dalle poche citazioni degli Atti, è agevole vedere che si tratta di un’attività multiforme comprendente i diversi livelli, nei quali risuona la Parola di Dio. Ne distingueremo alcuni. Livello liturgico-sacramentale: la Parola di Dio viene proclamata nella liturgia e nei sacramenti con valore di presenza efficace del Cristo che parla. Livello magisteriale: la Parola viene proclamata dai papi, dai concili e dai

vescovi. Livello omiletico-catechetico: la Parola di Dio viene proclamata a un livello più generale e più vasto, nella predicazione e nella catechesi. L’ultimo livello è quello dell’assimilazione personale: è per così dire il termine dell’iter della Parola, quando il Verbo di Dio, il Cristo, la parola profetico-apostolica, la Bibbia, la Chiesa, la liturgia, il magistero, la catechesi giungono al termine, al cuore, e portano frutti. Così ci dice il Vangelo nella parabola del seminatore, specialmente il v. 12: “La Parola è il seme nel cuore dell’uomo” (Mt 13,10 ss.). Questo è l’ultimo momento, quello decisivo della Parola di Dio. La Parola negli Esercizi Tenendo presente questo quadro, cerchiamo ora di dare una prima risposta alla domanda iniziale: in questa grande realtà della Parola di Dio, a quale dei quattro livelli si situano gli esercizi? Si situano all’ultimo: sono cioè quell’attività che si svolge principalmente nel momento delicatissimo in cui la Parola di Dio giunge nel cuore dell’uomo per portarvi frutto. Questo ci fa vedere l’umiltà, la modestia del lavoro degli esercizi: non sono né l’attività liturgico-sacramentale della Chiesa, né l’attività magisteriale, né la predicazione ordinaria catechetica e omiletica, anche se evidentemente tutte entrano negli esercizi, che non si confondono e neppure si distinguono nettamente dalle altre attività che la Chiesa compie. Non sono neppure da identificare con la Parola scritta: la Bibbia ha infatti una funzione molto più vasta e più ricca. Sono un aiuto cristiano specifico che si inserisce nel momento più delicato, cioè quando tutto questo cammino della Parola che parte dal Verbo arriva al cuore dell’uomo. In questo momento deve situarsi l’attenzione di chi dirige gli esercizi. Momento, ripetiamo, delicato: il seme giunto nel terreno trova i sassi, le spine, gli uccelli, la terra buona. Qui è tutto il lavoro degli esercizi. Ancora un altro rilievo. La storia della salvezza, e quindi il piano salvifico di Dio per l’umanità, percorre l’itinerario che abbiamo esposto e che abbiamo unificato nel termine “Parola di Dio”. La storia della salvezza è quel piano salvifico per il mondo che è nel cuore di Dio, che è il Verbo, ed è posto nel mondo attraverso l’opera del Verbo stesso che si manifesta in Gesù Cristo e viene diffuso e proclamato nel tempo privilegiato ed esemplare della salvezza

dai profeti e dagli apostoli; che è registrato efficacemente e autenticamente nelle Scritture e attualizzato nella Chiesa (sacramenti, liturgia, magistero, catechesi ecc.) e raggiunge ciascun cristiano nel momento dell’assimilazione personale. Noi percorriamo in senso inverso questo cammino e ci poniamo a disposizione di quel piano di Dio che il Cristo ci ha rivelato e che è nel cuore del Padre. In questo senso la storia della salvezza segue la stessa linea discendente della Parola di Dio e raggiunge in un momento specifico ciascuno di noi. Perciò da questo punto di vista si potrebbe dire che gli esercizi sono l’incontro mio con quella Parola di Dio per me che è parte integrante della storia della salvezza. Per storia di salvezza si intende tutta la storia della Chiesa, dell’umanità in quanto salvata; negli esercizi io applico questa storia a me per trovare il mio posto nella Chiesa e nell’umanità e quindi rendermi disponibile, nella Chiesa e nell’umanità, al grande piano di Dio. Gli altri aspetti Anzitutto, in che modo la Parola di Dio così intesa è in rapporto con gli esercizi come ambiente? Tale relazione sta principalmente in questo, che gli esercizi, così intesi, devono fornire una cornice o un clima in cui la Parola si manifesta. È chiaro che così intesi non sono “Parola di Dio” ma solamente il clima in cui la Parola può manifestarsi. Il padre Nadal3, grande conoscitore degli Esercizi, diceva qualcosa di simile quando, domandandosi come mai negli esercizi tutto l’uomo viene cambiato, rispondeva: “[…] hanno questa efficacia perché insegnano il modo di prepararsi a ricevere la Parola di Dio e il Vangelo”. Non sono dunque, gli esercizi, Parola di Dio, ma un modo di prepararsi ad accoglierla; ed essendo la Parola di Dio la realtà essenziale della vita, gli esercizi dispongono ad accogliere tale realtà essenziale. In che modo concretamente sono cornice o clima della Parola di Dio? Evidentemente potremmo qui citare tante annotazioni che specificano il clima che si vuol creare. Ne accenniamo soltanto due. Anzitutto la povertà dello spirito, condizione fondamentale posta dalla Bibbia per l’ascolto della Parola. Gli esercizi creano un clima in particolare attraverso il distacco dalla vita ordinaria, quanto più tanto meglio. In questo distacco, l’uomo si sente senza appoggi, senza tutti quei sostegni ordinari di persone, di conoscenze, di relazioni che lo tengono su. Allora può avvertire la sua povertà.

Si trova anche senza i tanti aiuti culturali e intellettuali che di solito gli riempiono la mente facendolo credere ricco e quindi si pone nella situazione di riconoscersi anche povero di idee vere, profonde, assimilate, e in questa povertà chiede che la Parola di Dio si manifesti in lui. Credo che anche per questo sant’Ignazio4 non arricchisce molto le cose che ci dice nel suo libretto. Con la sua esperienza o facendo lavorare altri teologi avrebbe potuto metterci dentro ricchissime elucubrazioni bibliche e teologiche, ma non l’ha fatto proprio per non ingannare chi, in questa esperienza, deve trovarsi a contatto con la parola essenziale e non essere fuorviato da una cornice di cultura, di letteratura teologica e sapienziale, credendo di avere ciò che non ha5. Qui sta il rischio di dare o fare gli esercizi con una eccessiva ricchezza di materiale, di libri, di idee, che distraggono dall’immediato senso del nostro bisogno delle cose essenziali di fronte a Dio. Questo è un punto importante per creare il clima degli esercizi come clima ideale di ascolto della Parola. L’altro elemento richiesto per creare il clima è la testimonianza della vita cristiana vissuta: quella testimonianza comunitaria, silenziosa, che parla col proprio silenzio, nella quale si è manifestata per la prima volta la Scrittura ed è stata vissuta nella Chiesa la Parola di Dio. Questa testimonianza comunitaria, silenziosa, di un ambiente di fede, di un ambiente che paga di persona, è efficacissima per mettere subito nel clima giusto di ascolto. In che modo la Parola di Dio ha a che fare con gli esercizi intesi come attività dello spirito? La principale attività dello spirito è l’ascolto della Parola, prender coscienza della Parola diversa da noi, e quindi praticamente prender coscienza di quello che è l’aspetto creativo della Parola, lasciarsi penetrare da essa. Se esaminiamo il modo con cui nella Bibbia vengono presentate le parole di Dio, vediamo che a esse viene data una grande varietà di nomi: parole di Dio sono i suoi giudizi, i suoi precetti, le sue invettive di minaccia o di castigo, le parole di perdono, la sua legge, cioè il suo piano per una vita ordinata e giusta dell’uomo. È la sua sapienza, cioè la comunicazione che Dio ci fa del piano totale di salvezza. Tutte queste parole, perché tali, hanno una forza creativa nei nostri confronti e noi dobbiamo accoglierle. Questo è l’atteggiamento fondamentale degli esercizi come attività: presa di coscienza della Parola di Dio come forza attiva nelle sue mille modalità espressive, che non sono solo illuminazioni – che cosa Dio mi vuol dire? Che cosa Dio pensa? – ma che cosa Dio vuole, giudica, minaccia, promette, stimola, e tutto questo come esperienza per me. Dio mi chiama, Cristo mi cerca con un appello personale. Solo in questa disposizione la Parola è

veramente Parola di Dio efficace per me. Quindi la principale attività, o meglio tutte le attività sono ordinate a mettermi in ascolto della Parola di Dio percepita in questo modo, come un messaggio giudicante, trasformante, che tocca in questo momento la mia vita: è Cristo che mi cerca in questo momento. Ascoltando così la Parola di Dio – come giudizio, precetto, condanna, promessa, per me, ora – io mi metto nella disposizione di scegliere ciò che Dio vuole da me, di raggiungere il suo piano di salvezza, di accettarlo, di conformarmi a esso. Ripercorro quindi il cammino della Parola assimilata fino al Verbo di Dio. In questo senso gli esercizi come attività corrispondono alla funzione creativa della Parola e sono ascolto e presa di coscienza della Parola di Dio come forza attiva, operante per me, e risposta e scelta di ciò a cui Dio mi chiama per attuare il suo piano di salvezza. In che modo la Parola di Dio così intesa ha a che fare con gli esercizi come serie di meditazioni e contemplazioni? Che cosa bisogna dire di questo tipo di messaggio speciale che noi ritroviamo nel libro degli Esercizi? La Scrittura, come tale, è un mare di cose, quindi partendo da essa si possono fare moltissime considerazioni e la Chiesa le fa nella liturgia, nella catechesi e nel magistero mettendoci a contatto, in un modo o nell’altro, con la Parola di Dio come forza attiva. L’intuizione di sant’Ignazio nel porre l’esercitante di fronte a una scelta di elementi della Parola di Dio è un po’ parallela a quella di Lutero6 al tempo di sant’Ignazio. Anche Lutero si era trovato di fronte a questa ricchezza della Parola di Dio da lui riscoperta e diceva che aveva cavato la Bibbia da sotto il banco e l’aveva messa in luce nella Chiesa. Anch’egli sentiva che la Bibbia è immensa, può dire tutto e quindi, per essere accostata dal cristiano in modo intelligente e penetrante, ha bisogno di una chiave di lettura e di interpretazione. Tale chiave non dev’essere estranea alla Scrittura, ma presa da essa, quindi essa stessa parola di Dio. Però la chiave dev’essere distinta dalla porta, quindi un qualcosa che, pur facendo parte della Scrittura, ci permetta di leggerla e di fare come del materiale grezzo una spada a due tagli… Lutero ha proposto la sua chiave di lettura nella fede che salva gratuitamente. Sant’Ignazio trova invece la sua chiave interpretativa (non è l’unica, ma ve ne sono molte altre possibili) nel Cristo: la vita, la passione, la morte e risurrezione di Gesù sono al centro degli Esercizi. È una scelta che si concentra nel Cristo dei Vangeli e indica dove sta per lui il centro della Scrittura. Non è un mero insegnamento sulla carità, la pazienza, la fede, ma è

il Cristo. Questa è un’importantissima scelta di lettura biblica che corrisponde alla Scrittura, alla Parola di Dio che è Cristo; ed è geniale, perché a volte si può dimenticare, cioè si può leggere la Scrittura o dare gli esercizi senza riferimenti profondi e specifici al Cristo come al centro della realtà cristiana. Cristo: Gesù nato, morto e risorto. Al centro di questa intuizione è il mistero pasquale. Tuttavia questo non specifica ancora del tutto; anche se da questo evidentemente deriva una risposta, che è valida e quindi essenziale, della fede da darsi a Gesù Cristo, e ciò ci porta, al di là di tutte le ricerche ascetiche, al centro della conversione. Ma c’è ancora un aspetto intuito da sant’Ignazio come valida chiave di lettura: il Cristo nato, morto e risorto, ma soprattutto umile e umiliato. Questo, a nostro avviso, ci sembra il punteruolo con cui sant’Ignazio incide nella sua lettura della Bibbia, in particolare del Nuovo Testamento. Il Cristo umiliato porta alla scelta dell’umiltà con Cristo. Questo mi pare sia l’aspetto che, fin dall’inizio, comanda sottilmente la meditazione del Regno7: l’insistenza nella scelta delle meditazioni di certi aspetti della vita nascosta di Gesù e della sua vita pubblica, l’orientamento nelle meditazioni della passione, oltre alla percezione che questo tipo di lettura è tale da farci penetrare facilmente ed efficacemente nella ricchezza della parola biblica, evangelica e apostolica; è tale da scuotere, da non lasciare indifferente l’uomo che si avvicina a questo tipo di lettura. È quindi una chiave interpretativa ricchissima, che permette di organizzare una lettura sia della Bibbia intera che delle sue singole parti, che colpisce l’uomo alla radice delle sue decisioni e non consente facilmente divagazioni o illusioni, forse possibili con altri tipi di lettura. È possibile, a esempio, un tipo di lettura che avesse come chiave la libertà, o l’amore, o la fede. È possibile e tutte queste chiavi in qualche modo si equivalgono. Ma c’è qui un aspetto specifico che non può lasciare indifferente la persona che vi si avvicina, perché è invitata a scavare nell’intimo di se stessa, a chiedersi se è veramente disposta fino in fondo a dire di sì alla Parola di Dio. Concretamente nella lettura biblica potremmo dire che sant’Ignazio prende come chiave la vita di Cristo, ma come svuotamento dei suoi privilegi, delle sue prerogative divine, per venirci incontro nell’umiltà (per esempio il passo di Fil 2,5-11). Una chiave di lettura biblica, paolina, specifica e non generica, ma insieme aperta a tutte le possibili correlazioni che si trovano nel mondo della Bibbia. Tradizionale e originale insieme, perché non è il tutto, ma un modo di raggiungere e di toccare il tutto; riconducibile ad altre chiavi e traducibile in

altri termini, purché rimanga così penetrante e tagliente com’è stata voluta in questa intuizione. Sant’Ignazio vuol portare l’esercitante a questo punto per disporlo alla scelta, dato che una volta scelta l’umiltà con Cristo umile, il resto diventa facile… Qual è l’uso concreto da farsi della Scrittura negli esercizi, secondo quanto abbiamo detto fin qui? Mi limito a qualche consiglio pratico, non assoluto, ma orientativo. Anzitutto non troppa Scrittura. È un errore pensare che più si butta Scrittura addosso all’esercitante, più gli si dà materiale, più egli acquista. È importante solo avere una chiave originale e ricca di lettura. Non si può dar tutto subito e insieme, ma occorre dare delle indicazioni pregnanti, che aiutano a capire il resto. Null’altro. Accostare al testo in sé. È quanto dice sant’Ignazio nella seconda annotazione8: portare a contatto col testo in sé senza digressioni ed eccessive spiegazioni, commentandolo brevemente, ma con indicazioni precise che lo valorizzano e lo fanno leggere subito come un testo parlante, come Parola di Dio per me. È ascesi rinunciare a dire troppo, a commentare troppo, anche se a volte il pubblico, non essendo disposto, non sapendo meditare e usare il testo, ha bisogno di più. L’ideale rimane quello di sentire la forza del testo in sé. Il terzo consiglio può sembrare strano: più memoria che lettura. Vale a dire, nel meditare e contemplare la Scrittura, dovremmo fare come gli antichi, che non avevano la Bibbia a loro disposizione così facilmente come noi, ma dovevano assimilarne il testo e riflettere. È sempre una tentazione avere un libro e scorrerlo: ciò che è utilissimo per una catechesi, un’istruzione biblica generale, non lo è nel momento degli esercizi. L’esercitante deve assimilare il testo e poi riflettervi con la propria memoria in modo da giungere a quella povertà ed essenzialità che è importante per incontrarsi con le cose inesorabili che il testo dice a me, adesso, non con tutti i pensieri che possono essere fatti a proposito del testo. Spiegando i vari testi biblici, occorre però che si faccia vedere (e questa è già un’esegesi esistenziale, oltre che scientifica), di ogni testo, quale è il suo messaggio per noi, nella linea interpretativa ignaziana, cioè ignaziana e paolina (Fil 2), il messaggio cioè di distacco e di umiltà a cui questo testo invita. Questo è il punto a cui bisogna a un certo momento giungere, anche se non sarà in ogni meditazione, ma scaturirà dal complesso delle meditazioni. Bisogna far capire che i testi scelti, che sono poi testi fondamentalmente

evangelici, hanno a un certo momento la forza di dirci: che cosa sei disposto a fare, a lasciare e in che modo vuoi seguire il Cristo umile? Questo è l’aspetto a cui si deve giungere per non offuscare con molte idee quello che è il vero messaggio di rinnovamento contenuto negli Esercizi. 1

Le “annotazioni” sono venti note introduttive che aprono il libretto degli Esercizi spirituali (cfr. “Piccolo lessico ignaziano” in questo volume, voce “Annotazione”, p. 1155). L’ultima considera l’ambiente di solitudine nel quale il ritiro si svolge: “[…] in esso, ordinariamente, tanto maggiore frutto trarrà quanto più si separerà da tutti gli amici e i conoscenti e da ogni preoccupazione terrena” [20]. 2 “[…] come infatti il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, così tutti i modi di preparare e disporre l’anima a liberarsi da tutti gli affetti disordinati e, una volta che se ne è liberata, a cercare e trovare la volontà divina nell’organizzare la propria vita per la salvezza dell’anima, si chiamano esercizi spirituali” [1]. 3 Gerolamo (Jerónimo) NADAL (1507-1580), entrò nella Compagnia di Gesù nel 1545 e fu uno dei principali collaboratori di sant’Ignazio. 4 IGNAZIO di Loyola (1491-1556), autore del libretto degli Esercizi spirituali e fondatore della Compagnia di Gesù. 5 “[…] chi dà a un altro modo e ordine per meditare o contemplare, deve narrare fedelmente la storia della contemplazione o meditazione, scorrendone soltanto i punti con breve e sommaria spiegazione […]” [2]. 6 Martin LUTERO (1483-1546), teologo tedesco, monaco agostiniano e poi iniziatore della riforma protestante. 7 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Regno”, p. 1157. 8 Cfr. nota 1, p. 5.

GLI ESERCIZI IGNAZIANI E I VANGELI SINOTTICI

La mia non sarà una esposizione di tipo sistematico; il mio modo di presentare si avvicinerà piuttosto a una serie di riflessioni di tipo personale sul modo di dare gli esercizi, alla luce – partendo o tenendo conto – della Scrittura. Si tratta quindi di partecipare un’esperienza. Ora, una esperienza, di natura sua, dovrebbe essere vissuta insieme, per poi essere partecipata insieme, partecipata in maniera reale; quindi dovremmo qui incominciare insieme un corso di esercizi. Solo allora l’esperienza si farebbe; la si farebbe momento per momento. L’esperienza può essere anche comunicata, presentandone il risultato finale, e in quel caso, allora, potrei anche leggere il titolo di qualcuno degli opuscoli che sono stati pubblicati dal CIS1. In essi sono raccolti alcuni dei corsi dati da me in varie occasioni; e sempre partendo dalla Scrittura. Per esempio, il corso dato, partendo da san Marco, a un gruppo di vescovi; il corso dato partendo da san Giovanni; e infine, un altro partendo da san Luca, pubblicato altrove2. Viene presentato in questi libri il risultato di una esperienza e quindi si potrebbe esporre compiutamente come un corso di esercizi è stato, nell’una o nell’altra occasione, strutturato partendo dalla Scrittura. Non ho pensato che fosse utile seguire questo metodo, perché in questi libri può essere ritrovato. Inoltre l’esperienza ha valore quando è fatta. Certamente io non ripeterei mai un corso nel modo in cui è stato riprodotto in uno di questi libri. Ognuno di questi corsi, per esempio, aveva significato in quanto era un tentativo di entrare nell’itinerario delle persone che allora lo stavano facendo e quindi rispondeva a una certa dinamica di domanda e risposta. Perciò non si tratta per nulla di un risultato acquisito, ma semplicemente di un processo di “esperienza”. Quindi, non volendo, questa sera, seguire un metodo sistematico, cioè presentare una maniera concreta di strutturare le meditazioni partendo dalla Scrittura, ho scelto piuttosto di raccontare – diciamo quasi

autobiograficamente – come questa esperienza, in una volta o nell’altra, si è fatta in me; non perché questo abbia un valore esemplare, particolare, o paradigmatico, ma unicamente per catalizzare, con la mia, l’esperienza di ciascuno, il quale potrà – riflettendo sul proprio modo di dare esercizi o di riceverli – vedere che cosa suscita in lui il rapporto con questa mia esperienza. Questo sarà il metodo che seguirò. Incomincerò a raccontare come per la prima volta mi sia trovato a impostare gli esercizi non partendo direttamente dal testo di sant’Ignazio – come ho fatto per molti anni, seguendolo in maniera rigorosa e fedele – ma piuttosto prendendo un singolo Vangelo. Da ciò cercherò di trarre qualche indicazione sul come questa esperienza, o sul perché essa si è svolta, e quindi quali possano essere i suggerimenti che se ne possono trarre. Occorre tener presente, dunque, che non voglio proporre nulla di sistematico, di conclusivo, perché la prossima volta che mi troverò a dare o dirigere un corso di esercizi, dovrò di nuovo rivedere come questa esperienza si potrà compiere nelle situazioni specifiche. Un gruppo speciale di esercitanti Alcuni anni fa, mi è stato proposto di sostituire il direttore di un corso di esercizi da dare a un gruppo di sacerdoti3. Questo mi ha imposto un qualche carattere di improvvisazione che rende talvolta anche più facile una certa creatività. Mi sono trovato di fronte a un gruppo della cui situazione mi era noto soltanto più o meno la condizione: di una certa saturazione; di delusione e di estraneità. Spiego queste due cose. Una situazione di saturazione, per i molti corsi di esercizi avuti in precedenza, sempre secondo un metodo molto rigido, con il conseguente disagio di rimettersi di nuovo ad ascoltare “le solite cose” sapendo già come sarebbero state presentate. Una situazione di delusione generata dalla distanza tra ciò che si è sognato di fare e la realtà quotidiana. Un senso di disagio, di sofferenza e insieme anche di estraneità, cioè difficoltà di riconoscersi in quel modo di vita cristiana, quasi imposto dal ministero, in quel tran-tran, in quelle cose fatte ordinariamente nelle parrocchie tradizionali, rispetto a ciò che uno aveva desiderato, al modo cioè con cui aveva sognato una vita evangelica da

mettere in pratica. Una situazione quindi di crisi e di difficoltà. Partendo da questa situazione, mi sono domandato come aiutare tali persone a compiere un certo cammino. Negativamente, una prima indicazione era data dal loro senso di saturazione. Non potevo seguire l’itinerario materiale degli Esercizi perché avrei creato, fin dall’inizio, un senso di rigetto. D’altra parte non ho voluto neanche affrontare quella che si può chiamare una “trasposizione tematica” degli Esercizi di sant’Ignazio con temi biblici. Questo è sempre possibile farlo. È sempre possibile cioè prendere una per una le grandi meditazioni ignaziane e dare per ciascuna una serie di testi biblici con cui possono essere riformulate. Non ho voluto seguire questo metodo, perché non vi vedevo abbastanza utilizzata quella dinamica che è propria di parecchi libri della Scrittura. Non so il perché, ma mi sono sentito portato a proporre un altro tipo di esperienza. Siccome era ovvio che a questo gruppo avrei proposto qualcosa della Scrittura – sono le realtà che ho più facilmente in mano, e in particolare i Vangeli – mi sono deciso per una loro lettura continua. Avrei potuto seguire, per esempio, il metodo seguente: commentare un Vangelo facendone una lettura integrale e indicando via via, capitolo per capitolo, quei particolari momenti del testo che richiamano un itinerario di esercizi. Questo è anche possibile e lo si può realizzare senz’altro in determinate situazioni. Io mi sono trovato in una situazione diversa. Avevo di fronte a me un problema di crisi. Riflettendo sul significato di questa situazione, a un certo momento ho potuto vederla concretizzata in quel versetto del Vangelo di Marco, dove è detto: “A voi è stato dato il mistero del Regno di Dio, ma a quelli che sono fuori tutto è proposto in parabole” (Mc 4,11). Esso mi è sembrato – leggendolo in quella concreta situazione – uno dei versetti chiave per intendere la dinamica del Vangelo di Marco. Esiste la condizione di chi è al di fuori – anche se crede di essere al di dentro – del mistero del Regno. E allora “tutto gli appare in parabole”; cioè tutto è colto attraverso figure, segni, riti, sacramenti, processioni, situazioni esteriori che egli riproduce nella sua vita, perché gli sono state proposte dalla tradizione, ma con un senso di estraneità, con un senso di non autenticità. Esiste al contrario una situazione nella quale il Regno viene dato, cioè si entra a contatto diretto, autentico con il mistero del Signore. Il passaggio dall’essere al di fuori – e quindi dal guardare il Regno con quella estraneità diffidente da cui, poi, nasceva in questo gruppo una forte critica alla Chiesa

istituzionale, un forte disagio verso tutto ciò che era struttura diocesana, parrocchiale ecc. – il passaggio, dico, dal di fuori al di dentro, dalla parabola alla realtà dell’incontro con il Signore: ecco una dinamica che mi veniva offerta dal Vangelo di Marco, che mi pareva corrispondere alla situazione concreta del gruppo. E allora mi sono detto: leggo e rileggo attentamente il Vangelo di Marco, cercando di vedere come in esso un uomo che si trova al di fuori – anche se è a contatto con la situazione ecclesiale, cioè ancora nel momento della prima indagine – viene portato al di dentro, cioè nell’immediata presenzialità del mistero del Signore. Mi sono detto: una tale situazione mi sembra tipica di quella per cui il Vangelo di Marco è stato scritto. E questo ho proposto a me stesso come ipotesi di lavoro da verificare nella esposizione delle singole meditazioni: Marco come Vangelo del catecumeno. Cioè, Vangelo che prende l’uomo ai limiti, alla soglia del mistero cristiano, ancora preso da tutta la sua mondanità, ma desideroso di entrare; incapace di conoscere il significato delle parabole, cioè delle figure, delle forme esteriori religiose che gli vengono proposte, ma desideroso di fare il salto, di entrare dentro al mistero cristiano. Il Vangelo di Marco si può presentare così come un itinerario, non più come una serie di temi, ma, ripeto, come un itinerario, un processo dinamico di cui si può cogliere il punto di partenza, la via da percorrere, le diverse tappe e il punto di arrivo. Ed ecco che quando uno si prospetta, in questa maniera, la lettura del Vangelo, allora ritorna molto facile il paragone con il libro degli Esercizi che sono, appunto, un itinerario che, prendendo l’esercitante da un determinato punto di partenza, attraverso una serie di tappe successive, lo conduce a un punto di arrivo che sarà sempre l’elezione o la conformità con il Cristo nella scelta fatta dello stato di vita ecc. E ciò a seconda dei modi con cui si descrive questo itinerario finale, questa conformazione con il mistero. La lettura di Marco mi mostrava la strada da percorrere insieme con questo gruppo. Scoprire l’itinerario del catecumeno nel Vangelo di Marco, i punti di partenza, le tappe successive, il punto di arrivo, per paragonarli con la propria esperienza. Leggere, quindi, la propria esperienza e ripeterla seguendo le tappe, le piste che il Vangelo di Marco propone. Naturalmente in questa lettura dovevo tenere conto continuamente della corrispondenza tra il punto di partenza, le diverse tappe e il punto di arrivo degli Esercizi. Ed è così che, senza cercarlo astrattamente o artificialmente, mi accorgevo che nel determinare i punti di partenza, le tappe successive e il punto di arrivo, mi

riportavo molto facilmente ai momenti dell’itinerario degli Esercizi. Essi, infatti, rappresentano un fondamentale itinerario cristiano che quindi, in maniera analoga, con diversa proporzionalità, riproduce l’insieme delle situazioni nelle quali un uomo cerca di avvicinarsi da una condizione periferica al centro del mistero del Signore. Ecco dunque qui tracciato il programma per un tentativo di dirigere l’esercitante a compiere il suo cammino, dandogli come manuale il manuale del catecumeno. Occorreva determinare, quindi, prima di tutto, il punto di partenza. A chi parla san Marco? Qual è il punto di partenza del gruppo di catecumeni a cui veniva proposto il Vangelo di Marco come itinerario battesimale? Come fare per determinare questo punto di partenza? È chiaro che non lo si trova espresso direttamente nel Vangelo, perché esso non è, appunto, un manuale astratto, ma piuttosto un vademecum che guida, che accompagna per mano; che non presenta cioè un itinerario già teoreticamente costruito secondo criteri, appunto, di tipo astratto. Allora, il primo compito era quello di leggere dentro alle pagine del Vangelo di Marco la situazione del punto di partenza dei catecumeni per il loro itinerario e confrontarla con quella del nostro gruppo. Tra i modi possibili, ho scelto quello di cercare nel Vangelo di Marco i rimproveri di Gesù; cioè, ciò che Gesù afferma che “non bisogna essere”. Attraverso questi rimproveri, io colgo di rimbalzo quello che coloro i quali incominciano il proprio itinerario catecumenale, in realtà sono; la situazione che questa gente è invitata a lasciare. E allora, ecco che propongo una lettura di tutti i numerosi rimproveri che Gesù fa nei riguardi dell’ignoranza dei discepoli: “non comprendete”, “state attenti a questo, udite”, “come mai non avete ancora fede”, “non avete compreso niente riguardo ai pani”, “il loro cuore restava indurito, non capirono quel parlare”; tutte citazioni che prendo da Marco a partire da 4,40; 6,6; 6,52; 9,32 ecc. In questa lettura confrontata con la situazione dell’esercitante, egli deve giungere a dire “dunque, anche io incomincio questo itinerario lasciandomi redarguire, ammonire dalla Parola di Gesù e riconoscendo che sono molto ignorante rispetto al mistero del Regno di Dio”. Cioè che “questo mio

atteggiamento di delusione, di disfattismo, di critica amara è probabilmente il risultato di una incomprensione del mistero del Regno. Sono anche io col cuore indurito”. Ecco, quindi il primo atteggiamento da suscitare nell’esercitante. Vi accorgerete che qui siamo nel clima della prima settimana4. Se ora vogliamo specificare il significato di questo atteggiamento, leggiamo altri rimproveri fatti da Gesù nel Vangelo di Marco, per esempio, nelle controversie del cap. 2. Mc 2,25: “non avete letto quello che faceva Davide, quando si trovò nella necessità ed ebbe fame lui e i suoi compagni?” Oppure Mc 3,5: “volgendo lo sguardo con sdegno sopra di loro, rattristato per la durezza del loro cuore, Gesù disse a quell’uomo: ‘stendi la mano’”. Cioè dalla raccolta dei passi in cui Gesù redarguisce l’ignoranza del discepolo – e quindi fa capire all’esercitante: “se accetti la Parola di Dio incomincia questo itinerario col riconoscere di saperne ben poco e di dover incominciare ad imparare” –, si giunge a specificazioni tematiche più particolari, rimproveri concreti che Gesù fa; rimproveri concreti, quindi, fatti alla comunità di Marco, rimproveri concreti fatti al catecumeno che inizia il cammino e perciò da tradursi in rimproveri concreti fatti alla persona la quale presume di conoscere molto del mistero del Regno di Dio, ma che in realtà si trova non autentico e carente sotto molti punti di vista. Ne nasce una meditazione su quella che è la propria situazione di inautenticità rispetto al mistero del Regno di Dio; l’ignoranza della vera libertà dei figli di Dio – redarguita in Mc 2,25 –; la paura di esporsi veramente per il Regno, e quindi un senso continuo di doversi guardare, di cautelarsi, mai compromettersi veramente – Mc 3,5, poi Mc 3,21; 8,35 –, e soprattutto, andando più all’interno di sé, “il cuore malato”, “la situazione del cuore dal quale può uscire qualunque miseria e qualunque degradazione”: Mc 7,21-23. Attraverso questi vari episodi proposti all’esercitante mi sembrava che fosse possibile portarlo a una riflessione del tipo di prima settimana, cioè: chi sono io, qual è la mia situazione, in che maniera io mi sento come il catecumeno che inizia il suo lavoro: confuso, bisognoso di autenticità, incapace a vivere rettamente la mia vita nella Chiesa, inesperto e goffo di fronte al mistero del Regno e quindi incapace di accoglierlo. Ecco quindi determinato in qualche modo il punto di partenza. Ma in quel momento cosa mi è avvenuto? Mi sono accorto che gli esercitanti coglievano bene il punto di partenza e la loro situazione di inautenticità; mancavano tuttavia – mi sembrava – di quel senso della

riverenza del mistero di Dio e della dedizione alla preghiera che è supposto nell’annotazione quinta5 e nel Principio e Fondamento6. Ecco come, nel condurre l’esperienza, non solo mi paragonavo continuamente con la condizione delle persone che erano davanti, ma anche confrontavo l’esperienza di queste persone con il libro degli Esercizi. Come Marco parla di Dio Allora mi è sembrato che, in quella situazione, dovesse intervenire a quel punto una riflessione che senza ripetere la linea del Principio e Fondamento – che già conoscevano a memoria e dal quale non avrebbero tratto molto – e senza ripetere l’esortazione a mettere in pratica l’annotazione quinta cioè “la liberalità verso il Signore e Creatore” e l’annotazione terza sulla “maggiore riverenza negli atti di volontà rispetto a quelli dell’intelletto”, presentasse loro il senso di Dio tipico di sant’Ignazio. Senza proporre queste cose in maniera tematica ci si poteva chiedere: qual era il senso della riverenza del mistero divino, quel senso iniziale del rapporto con Dio che si supponeva nel catecumeno che iniziava l’itinerario del Vangelo di Marco? Ecco una domanda successiva alla quale si può rispondere a partire dal Vangelo di Marco stesso. Vedere cioè come Marco parla di Dio al catecumeno. E da qui, ecco una serie di indicazioni. Intanto Marco ne parla poco. Il senso di Dio è un mistero proposto non solo attraverso parole, ma anche attraverso il silenzio, attraverso la riverenza, l’adorazione. Quando ne parla, ne parla con alcune indicazioni che ci fanno percepire da una parte il Dio creatore, l’essere dal quale dipendiamo completamente, dall’altra la sua presenza tra noi: “viene il Regno di Dio”; e in terzo luogo il suo mistero inafferrabile. Quel Dio che dopo esserci venuto incontro, al momento buono sembra abbandonarci. Dalla semplice rassegna dei passi di Marco in cui si parla di Dio – sono una quindicina – si possono trarre gli elementi fondamentali da cogliere, per aiutare gli esercitanti a mettersi di fronte a questo mistero con riverenza e con attesa. Siamo di fronte a quel Dio il quale non solo ci possiede, ma ci può sorprendere. Ci si può quindi esercitare nella preghiera per raggiungere quella condizione che si chiede al catecumeno per iniziare questo cammino. E in questo momento, può iniziare l’itinerario positivo. Qual è, ancora una volta, il riferimento di partenza? È quello che viene descritto, mi sembra,

soprattutto nei capp. 1 e 2 attraverso la “chiamata dei discepoli”, “le prime guarigioni”, “i primi miracoli di Gesù”. Attraverso la lettura di questi passi, la Chiesa primitiva faceva prendere coscienza al catecumeno che c’è una chiamata di Gesù per lui, che si attua concretamente in un rapporto diretto con il Signore il quale lo chiama a una conversione. Si esplicita dunque maggiormente il primo passo che l’esercitante deve compiere. Qui, se è necessario – e mi pareva necessario in quella situazione – sulla base del Vangelo di Marco stesso può essere interessante analizzare quali sono gli aspetti di questa conversione. Prima di tutto una conversione morale, cioè un cambiamento di atteggiamento etico. Così abbiamo in Mc 7,21-22 la conversione morale; in Mc 7,23 la conversione del cuore dal di dentro, capace quindi di cambiare l’uomo in quella che è la radice delle sue azioni; in Mc 1,15 la conversione che non si attua attraverso lo sforzo proprio, ma abbandonandosi all’azione di Dio in Gesù: “Credete al Vangelo!”; e quindi, avendo accettato di abbandonarsi all’azione di Dio, accogliere, almeno in maniera indistinta e generica, la sequela di colui che può compiere grandi opere di potenza. Tutto questo viene presentato nei capitoli 1 e 2 di Marco. In sintesi: abbandonarsi a Gesù con fiducia perché egli può compiere grandi cose e vuole il bene dell’uomo e ci porterà avanti verso qualcosa di bene per noi. È questo, diciamo, ciò che viene esigito, a questo punto, dal cammino catecumenale, non già una serie di comprensioni precise del Regno. Quando l’esercitante percepisce questo e ha, sotto l’influsso della grazia, sentito in sé l’emergere di questa fiducia nel Signore, buono, capace di aiutare, di venire in soccorso alla propria povertà di vita, al modo inautentico con cui la qualità di vita è stata vissuta, allora si può compiere il passo ulteriore che è rappresentato nel capitolo 4 del Vangelo di Marco, il “mistero del Regno proposto in parabole”. Il mistero del regno di Gesù Anche qui, come ordinariamente, occorre partire dalla considerazione di ciò che questo mistero del Regno proposto in parabole ha significato per il ministero storico di Gesù. Ha significato un primo scacco, un primo insuccesso; quindi, una prima situazione di crisi; il declino del suo prestigio personale – che interviene a un certo momento della sua vita – e quindi il

momento per cogliere più profondamente il senso della sua azione. Questa situazione storica del ministero di Gesù come si riproponeva al piccolo gruppo di catecumeni che si avvicinava al battesimo? Si riproponeva attraverso tutti gli interrogativi che essi potevano porsi sul loro essere un piccolo numero, schiacciati da una moltitudine pagana; pochi infatti ascoltavano la Parola di Dio, pochi si convertivano; quella di Gesù sembrava una Parola di poco successo. Perché mettersi su questa via così insicura? Dopo i primi entusiasmi appariva facilmente che l’entrare nella primitiva comunità non voleva dire maggiore prestigio, né forza particolare di persuasione propagandistica sulle masse, ma una via molto oscura e – vista dall’esterno – deludente. Ora, paragonando questa situazione con quella dell’esercitante, quali affinità egli poteva ritrovare in sé? Egli trovava che in una situazione di inizio di ministero ciò che aveva sperato, in chiave di grande successo apostolico, interesse della gente, entusiasmo, si riduceva invece a ben poca cosa, a rispondenze molto meschine e quindi a una serie di delusioni, frustrazioni, accuse di incapacità rivolte al ministero – quale veniva esercitato – di servire in realtà alla Chiesa ecc. In questa situazione personale si impone la seguente riflessione: di che tipo è questo Regno? E qui intervengono le parabole. Gesù attraverso le parabole spiega il perché del suo apparente insuccesso: “La Parola di Dio è buona, è come un seme buono; ma la terra dà risposte diverse”. La Parola di Dio è un seme che sembra non crescere, ma in realtà si sviluppa. Da un piccolo germe quasi invisibile, se lasciamo che esso proceda secondo le leggi di Dio, se ci adattiamo ai tempi di Dio, esso diventa una realtà che cresce infallibilmente. Certamente bisogna ridimensionare l’apparente inefficienza della Parola e abbandonarsi all’azione del Signore così com’è, non volere il successo o il trionfo secondo le nostre misure, ma accettare la misura di Dio. Siamo, come vedete, in una riflessione molto simile a quella dei Vessilli7. Si tratta, cioè, di riconoscere la vera via del Signore, la quale non è quella di attirare in maniera sconvolgente – com’è presentata nell’immagine di Satana, seduto su cattedra di fumo e di fuoco che costringe con reti e catene –, ma di persuadere attraverso mezzi apparentemente e paradossalmente miseri e controproducenti, che sono, però, la via di persuasione paziente e tranquilla del Signore. L’esercitante, dunque, è chiamato a confrontarsi con questo programma e a dire: sono disposto ad accettarmi così, diverso da quello che mi aspettavo?

Sono, quindi, disposto a vivere questa realtà di Chiesa con le sue apparenti oscurità, cercando in esse, evidentemente, non una mia comodità o una qualunque forma di pigrizia rassegnata, ma l’accettazione della morte del seme nella terra, con la certezza che la Parola di Dio, vissuta in autenticità, non può non produrre frutto? E qui, già, l’esercitante è chiamato a un passo in avanti, a dare piena fiducia alla Parola di Dio, a non pretendere che la propria vita abbia lo svolgimento che si era sognato, ma quello che il Signore, padrone della sua vita, sta gradualmente mostrando. Il rapporto personale con la persona di Gesù Dopo il “mistero del Regno” proposto nel cap. 4, un altro punto culminante mi sembra sia il mistero della moltiplicazione dei pani, proposto soprattutto nei capp. 6-8. In esso Gesù non si rivela soltanto come un certo modo di vita, una certa via evangelii, da accettare, ma come un nutrimento personale da ricevere e come un invito a farci noi stessi pane per gli altri e quindi lasciarci coinvolgere personalmente dall’azione evangelica. E quindi, siamo qui a quel livello nel quale sant’Ignazio fa giungere l’esercitante verso la fine della seconda settimana e già all’inizio della terza, con una incorporazione al mistero del Regno che è rapporto personale con la persona di Gesù, desiderio di seguire la sua via e di mettersi a completa disposizione del Regno con una scelta che rappresenti non ciò che noi vogliamo fare, ma ciò che Dio vuol fare di noi per gli altri. Altro momento successivo e culminante è il mistero del Figlio dell’Uomo, che comincia a presentarsi nel cap. 8 con la confessione di Pietro a Cesarea e la prima predizione della passione, e che procede fino al cap. 10. Qui, il Vangelo di Marco ci mostra come quella persona di Gesù, che appariva modo di azione e misterioso nutrimento dell’uomo diventa, ora impegno totale di dedizione: fino ad accettare le conseguenze ultime di questa dedizione, cioè fino alla passione e morte. E allora l’esercitante viene confrontato con la totalità delle richieste che il Cristo per primo prende sulle sue spalle e che, a partire da sé, propone ai suoi in quelle esortazioni alla rinuncia per lasciare tutto, a perdere per acquistare, che sono appunto presenti in Marco nei capp. 8, 9 e 10. L’esercitante viene posto così di fronte alle esigenze che il Signore via via gli va scoprendo e che concretano – rendono specifici e attuali per la propria

esistenza – i primi entusiasmi di una sequela generica di Gesù, che si va sempre più delineando fino a diventare per ciascuno scelta concreta di vita e che è insieme conformità al modo di essere con Cristo nella vita, passione, morte e risurrezione. Come sapete, il Vangelo di Marco dà pochissimo spazio alla risurrezione, e quindi in uno svolgimento di questo genere, il Signore ci appare fin dall’inizio come il Signore potente e quindi risorto. Una riflessione sulla comunione contemplativa col risorto è riservata piuttosto ad altri Vangeli. Il catecumeno può non essere chiamato a percorrere un itinerario completo, e spesso – quando uno si trova nella situazione che ho descritto – può arrivare a compiere bene quella che sant’Ignazio chiamerebbe “prima settimana”, con parte della seconda. Il resto può rimanere come prospettiva per l’avvenire. Marco può infatti essere letto nella prospettiva di primo avvicinamento al mistero del Regno. Il Vangelo di Giovanni, invece, porterebbe a tutt’altro discorso e a tutt’altra ricerca di adesione contemplativa al mistero del Signore, nella quale si può insistere maggiormente su ciò che è proprio alle altre settimane degli Esercizi. Dico questo, però, con una certa esitazione e solo come probabile, perché ho poca esperienza nel dirigere esercizi. Ma da quella poca esperienza che ho, ho sempre visto che in realtà il tempo approfondito per una esperienza reale di ciò che sant’Ignazio chiama “terza e quarta settimana” per lo più non c’è. Forse c’è da tener conto di questo limite, senza voler fare tutto o raggiungere tutto. L’essenziale è scoprire qual è il punto di partenza dell’esercitante e fino a dove lo si può condurre seguendo un certo tipo di itinerario. Ho dato così qualche indicazione su come ho proceduto – almeno quella volta – a partire dal Vangelo di Marco. Evidentemente questa non è se non la situazione creatasi a contatto con certe circostanze, riflettendo su certi elementi. Un’altra volta invece mi sono trovato a dare esercizi a un gruppo di vescovi e allora mi sono piuttosto messo nei loro panni – per così dire – cercando di ripetere l’itinerario dei Dodici. Il Vangelo di Marco dà uno speciale rilievo ai Dodici che vengono presi da Gesù, per essere con lui e per condurre un certo cammino, dal primo entusiasmo della sequela alla Croce. E quindi esaminando tutti i passi concernenti i Dodici, in Marco, si può cogliere un analogo itinerario, che sarà da adattare, evidentemente, al gruppo che ascolta. Si tratta di ripercorrere una via analoga mettendo in opera elementi

tematici diversi. San Luca presenta Gesù nel quadro della storia Come mi è successo di procedere, invece, partendo dal Vangelo di Luca? Il Vangelo di Luca va considerato prima di tutto nella sua natura specifica. Non è pensato, mi sembra, per un’esperienza catecumenale, anche se non sappiamo bene chi fosse Teofilo: se fosse, cioè, pagano o cristiano; comunque, l’esperienza che viene tematizzata per Teofilo non è la semplice esperienza catecumenale, ma è l’esperienza del cristiano colto, o almeno di chi vuole esserlo, di chi si pone nei panni del cristiano colto, cioè della persona che desidera rendersi conto del significato del Vangelo nel quadro della storia, della storia del mondo. Quindi si tratta già di un problema ulteriore. Non del primo avvicinamento dal paganesimo e dall’esterno al mistero di Cristo, ma è il tentativo di rispondere alla domanda: che cosa significa la via di Gesù, la via della Chiesa, nel grande tumulto, nel grande concerto della storia. È una delle tante note o un elemento centrale? Come si situa rispetto alle altre realtà storiche ecc.? E quindi si tratta di un itinerario che va proposto, per esempio, a un cristiano che, come tale, giunto a una certa maturità, voglia rendersi conto delle proprie responsabilità storiche e sociali nel quadro del Regno di Dio. E quindi a un uomo che si trovi di fronte a una scelta importante che riguardi queste sue responsabilità, oppure voglia rendersi conto in maniera non astratta, ma sperimentale del rapporto Vangelo-mondo, del suo rapporto con la storia di salvezza del mondo e voglia viverla in sé. Posta questa visuale generale, nella quale si potrebbe situare il Vangelo di Luca, ci si domanda anche qui qual è il punto di partenza, qual è il punto di arrivo e quali sono le tappe; e come può un esercitante riconoscersi in esso. Per esprimere concretamente la cosa, direi che l’episodio tipico, in cui vedo espresso il punto di partenza e di arrivo della narrazione lucana, è l’episodio dei discepoli di Emmaus, i quali partono da un contatto esteriore con il mistero di Cristo che avevano già vissuto – erano discepoli – nella tristezza a una ritrovata presenza del Signore nella loro vita, così com’è, nella gioia. In questo episodio, il punto di partenza è l’essere “tristi” e il punto di arrivo è “l’ardore del cuore”, la pienezza di entusiasmo che li fa ritornare correndo a Gerusalemme a dare l’annuncio (cfr. Lc 24,13-35).

Tra questi due punti si situa il cammino dell’esercitante. Quindi si tratta anche qui di stabilire, di determinare che cos’è questa tristezza di partenza; a che cosa è dovuta. È dovuta, nei discepoli di Emmaus, non a una errata conoscenza del mistero, perché in realtà i discepoli di Emmaus espongono il kérygma8, raccontano che Gesù ha fatto opere di bene, che poi è morto e dicono che è risorto. Quindi posseggono il kérygma, ma di esso non hanno se non una conoscenza astratta, non sperimentale. È soltanto quando il Signore si rivela – in amicizia – in mezzo a loro come presente, che tutto allora si fa chiaro. Ecco dunque enunciati i due momenti, che sono distinti. C’è un abisso che li separa, anche se si tratta di pochi istanti o di poche ore. Siamo in presenza di due atteggiamenti. Si tratta allora – leggendo il Vangelo di Luca – di determinare qual è il primo di questi atteggiamenti, che cosa vuol dire “erano tristi”. Come si configura questa situazione? È possibile coglierla in tutti quegli episodi di Luca – Vangelo ed Atti – nei quali emergono circostanze di preconversione. Per esempio, in Paolo “persecutore”; o nel “carceriere di Filippi” che mette in prigione Paolo e Barnaba senza sapere cosa compie, vivendo in una situazione nella quale è a contatto con il mistero di salvezza senza riconoscerlo (cfr. At 16,25-34); o nell’“eunuco”, ministro della regina di Etiopia, che torna dall’adorazione al Tempio di Gerusalemme e che legge un testo di cui non capisce il significato (At 8,26-40). E così in altre situazioni che Luca ci propone, per esempio nel “fariseo che prega nel tempio”, preghiera vera, ma non autentica: vera, perché proporzionata a ciò che lui pensa di essere in quel momento, ma non proporzionata a ciò che è presente nel mistero del Regno; mentre il pubblicano prega veramente e proporzionatamente (Lc 18,9-14). Attraverso tutte queste situazioni è possibile definire il punto di partenza in chiave, diciamo, di prima settimana. Vedere come questo si sviluppa nella sequela di Gesù, che gradualmente si mostra – nella prima parte di Luca – maestro di bontà, di pazienza, di benevolenza, quindi di virtù, direi, umane. Di virtù che rientrano nel campo dell’esercizio di quella che è la benevolenza e l’amicizia. È quel medesimo Gesù che, nella seconda parte del Vangelo, si mostra come l’esigentissimo Signore che richiede assoluta fiducia nella Provvidenza, distacco totale, un salto definitivo dalle proprie abitudini verso l’accettazione piena della Parola. Quindi anche qui, c’è un certo itinerario che può essere proposto all’esercitante a seconda di quello che è il suo stato presente, attraverso l’assimilazione di ciò che è esposto nelle tappe precedenti e la proposizione

di quelle contemplazioni che possono servire a fargli percorrere questo cammino. Come vedete, occorre lasciarsi guidare, volta per volta, dall’esperienza concreta. Il Vangelo è a nostra disposizione per darci tutta quella dinamica, secondo la quale esso è stato composto, e tutta quella presenza del Signore nella sua Parola, che è come la molla che fa scattare nell’esercitante le sue energie, mettendolo di fronte alla potenza stessa della Parola di Dio. Mi pare adesso di potere concludere, perché appunto credo di avere esposto semplicemente quelle che sono state alcune mie esperienze in questa maniera di dare gli esercizi. Alcune conclusioni generali Concretamente, concludendo, potrei dire le cose seguenti. Sia il fare gli esercizi che darli è un dono dello Spirito; quindi non è un qualcosa che si possa prevedere o programmare. Chi fa gli esercizi entra in un certo rischio, perché non sa dove andrà a finire. Ciò vale anche per chi li dirige. Chi li dirige, in qualche maniera, non sa dove sarà condotto e quindi si deve trovare in una situazione di disponibilità e anche, forse, di un certo timore, perché non può prevedere esattamente quale cammino egli sarà costretto a seguire per accompagnare l’esercitante nella sua via. Perciò, la preparazione di questo tipo di ritiri non può essere mai una preparazione che già disponga di schemi già fatti. Mi sembra che la migliore preparazione sia quella di leggersi e rileggersi il Vangelo finché non si è trovato qualcosa che ce lo faccia cogliere come esperienza dinamica che ci parla. E allora è possibile – a partire da qui – farne varie trasposizioni, sperando che in qualche maniera l’esercitante possa cogliere ciò che noi abbiamo sperimentato e quindi possa riviverlo. Se la risposta non è positiva, bisognerà cambiare atteggiamento e trovare un’altra chiave di lettura, un’altra maniera di entrare in ciò che è il cammino proprio dell’esercitante. Quindi è sempre indispensabile una risposta dell’esercitante. Non basta che egli riceva le contemplazioni, ma bisogna che esprima chiaramente, almeno ogni giorno, che cosa esse hanno suscitato in lui, quali sentimenti, quali emozioni sorgono nel suo animo. Perciò, la preparazione migliore che possiamo fare, dal punto di vista umano, è semplicemente una lettura attentissima del Vangelo o un’attuazione di come cogliamo il movimento di

questo, in un maggior rapporto con la nostra vita, e a partire da tale punto, una lettura della situazione di chi ci sta davanti, per vedere come situarlo e, dal suo punto di partenza, come portarlo avanti. E da qui nasceranno tanti modi di dare gli esercizi partendo dalla Scrittura quante sono le diverse situazioni con le quali ci troveremo a contatto. Debbo inoltre dire che, per quel poco di esperienza che ho, trovo una corrispondenza – come già dicevo – non preordinata, non matematica, ma tanto più sorprendente, tra le indicazioni che sant’Ignazio dà negli Esercizi e quello che uno può ricavare da tale metodo. In qualche maniera si potrebbe dire che gli esercizi determinano il cammino, i procedimenti più direttamente sentiti a livello psicologico-personale, di quelle realtà di cui il Vangelo ci dà il contenuto, ci dà la realtà. Del resto i contenuti degli Esercizi non sono altro che quelli evangelici con alcune indicazioni di metodo. Si tratta quindi di prendere il contenuto del Vangelo, riportarlo più direttamente a un Vangelo unitario operando, però, con l’apporto dell’una e dell’altra esperienza. Senza, quindi, sottovalutare l’esperienza di sant’Ignazio, ma sottomettendola a quella che è l’esperienza fondamentale e cioè la forza della Parola di Dio che opera nel credente e che è l’unica forza di salvezza di cui noi dobbiamo semplicemente seguire l’itinerario e renderlo cosciente all’esercitante perché egli possa rendersi maggiormente disponibile allo Spirito. Eccovi del materiale per la vostra riflessione personale, perché poi possa anch’io partecipare delle esperienze vostre e quindi correggere e semmai cambiare o riformare queste mie indicazioni personali. 1

Il CIS indica il “Centro Ignaziano di Spiritualità”; per un lungo periodo, a partire dal rinnovamento ecclesiale promosso dal Concilio Vaticano II, è stato un ufficio della Curia Generalizia della Compagnia di Gesù a Roma ed ha curato convegni e pubblicazioni per approfondire la spiritualità ignaziana. 2 Tutti questi corsi sono contenuti nel presente volume. 3 Si tratta di un episodio avvenuto nel 1972. Padre Stanislas Lyonnet aveva preso l’impegno di tenere un corso di esercizi a un gruppo di giovani preti milanesi all’Eremo di San Salvatore. Non sentendosi bene, chiese all’ultimo momento a Martini di sostituirlo. “Ovviamente non avevo il tempo necessario per preparare le meditazioni e pensai allora di cambiare metodo rispetto ai corsi di esercizi che avevo dato negli anni precedenti. Decisi cioè di prendere il vangelo di Marco per presentarlo e viverlo in una forte esperienza spirituale con quei giovani preti; mi accorsi così che la Scrittura è fonte straordinaria di vita spirituale e ci parla” (Martini lo riferisce nel 2000 ai preti milanesi a Seveso, in un intervento riportato in Nel sabato del tempo. Discorsi, interventi, lettere e omelie 2000, Bologna, EDB, 2001, p. 604). 4 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Settimana”, pp. 1158.

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Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Annotazione”, p. 1155. L’annotazione quinta [5] sottolinea che “giova molto a chi riceve gli esercizi entrare in essi con magnanimità e liberalità verso il suo Creatore e Signore”. 6 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Principio e Fondamento, p. 1157. Il Principio e Fondamento [23] afferma che “l’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore”. 7 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Vessilli”, p. 1158. 8 Il termine Kérygma viene dal greco e signfica annuncio. Normalmente indica la prima predicazione apostolica del Vangelo.

SECONDA PARTE IL VANGELO DI MARCO

PREMESSA

Carlo Maria Martini, allora gesuita e rettore del Pontificio Istituto Biblico, diede per la prima volta gli esercizi spirituali a partire da un testo della Scrittura invece che dal libretto di sant’Ignazio di Loyola nel 1972. Come poi raccontò in un incontro di confratelli, gli era capitato quasi all’ultimo momento di dover sostituire un altro predicatore; e pensando ai destinatari, un numeroso gruppo di preti della diocesi di Milano già abituati a vivere l’esperienza degli esercizi spirituali e probabilmente affaticati dal ministero, organizzò l’itinerario di preghiera basandosi sul Vangelo di Marco (cfr. “Gli Esercizi ignaziani e i Vangeli sinottici”, alle pp. 19-38). In quegli anni, Martini ripeté alcune volte la medesima proposta, ma poi negli esercizi spirituali che diede da arcivescovo di Milano non trattò più il Vangelo di Marco. Il corso che qui presentiamo, intitolato “L’itinerario spirituale dei Dodici nel Vangelo di Marco”, è quello che Martini diede ai vescovi della regione Emilia-Flaminia nel 1974. Pubblicato per la prima volta dal Centrum Ignatianum Spiritualitatis della Compagnia di Gesù nel 1976, vide poi varie riedizioni, sia dallo stesso Centrum Ignatianum che dalla Editrice Borla. Riportiamo il testo curato dal padre Giovanni Arledler e pubblicato dalle Edizioni ADP nel 2012. Tralasciamo l’appendice finale, dal titolo “Il combattimento spirituale”, perché – pur essendo compresa nell’itinerario proposto da Martini – contiene una considerazione che non riguarda direttamente il Vangelo di Marco.

L’ITINERARIO SPIRITUALE DEI DODICI NEL VANGELO DI MARCO

PROPONENDO L’ESPERIENZA DEGLI ESERCIZI Vorrei soltanto dare due indicazioni che possono servire per entrare nel lavoro degli esercizi che gradualmente e soavemente inizieremo domani. La prima indicazione riguarda il tema e la seconda gli attori degli esercizi. Ho scelto come tema il Vangelo di san Marco e ci intratterremo quindi sulla lettura di questo Vangelo. Non ne faremo una lettura continuata (cioè non prenderemo il Vangelo capitolo per capitolo) e nemmeno una lettura direttamente tematica (cioè non ci fermeremo su alcuni temi del Vangelo di Marco, per esempio sul Regno di Dio, le parabole, i miracoli ecc.). Ne faremo piuttosto una lettura catechistica perché essa ci aiuterà a percorrere una via, un cammino spirituale più consono a un corso di esercizi spirituali. Cosa intendiamo per lettura catechistica? Dobbiamo partire dal fatto probabile che san Marco presenta una catechesi, un manuale per il catecumeno. Il Vangelo di Marco è, cioè, un Vangelo fatto per quei membri delle primitive comunità che cominciavano l’itinerario catecumenale. Per Marco si può senz’altro parlare di Vangelo del catecumeno. Matteo è, invece, il Vangelo del catechista; cioè, il Vangelo che dà al catechista un insieme di prescrizioni, dottrine, esortazioni. Luca è il Vangelo del dottore, cioè il Vangelo dato a colui che vuole un approfondimento storico-salvifico del mistero, in una visuale più ampia. Giovanni, infine, è il Vangelo del presbitero, e dà al cristiano maturo e contemplativo una visione unitaria dei vari misteri della salvezza1. Marco è il primo di questi quattro manuali, il manuale del catecumeno, e naturalmente propone un itinerario catecumenale. Esso si può ben condensare intorno alla parola di Gesù ai suoi: “A voi è stato dato il mistero del Regno, per quelli che

sono fuori, invece, tutto avviene in parabole” (4,11). Il Vangelo di Marco, infatti, ci mostra come dalle parabole, in altre parole, dalla visuale esteriore del mistero del Regno, possiamo entrare al di dentro e ricevere questo mistero. C’è dunque in Marco un cammino catecumenale che, però, non è ancora l’oggetto specifico di queste nostre considerazioni. C’è un’altra considerazione da fare: in questo itinerario catecumenale, che si sviluppa lungo tutto il Vangelo di Marco, hanno gran parte i dodici apostoli. Propongo quindi, come oggetto specifico del corso, secondo il quale considereremo il Vangelo di Marco, l’itinerario spirituale dei Dodici. Su questo itinerario ciascuno di noi potrà rivedere, riflettere, ripensare il proprio cammino interiore. Gli attori negli esercizi La seconda indicazione riguarda gli attori di questo ritiro: chi è che agisce in questi giorni. Gli attori sono tre. Lo Spirito Santo è colui che conduce il ritiro. Nei suoi confronti, la domanda da porsi sarà: Quid vult? Che cosa vuole lo Spirito da me in questo ritiro? Dove mi vuole condurre? Il secondo attore, guidato dallo Spirito, è ciascuno di voi. La domanda da porvi è questa: Quid volo? Che cosa desidero, che cosa mi aspetto, che cosa mi propongo? Lasciamo affiorare gradualmente, nella solitudine, i nostri bisogni, i nostri desideri interiori, le nostre necessità, spesso soffocate, per l’urgenza degli altri, dal clima di ogni giorno, ostico al silenzio e alla preghiera. La terza persona agente sono io stesso. Sarò soltanto un suggeritore: e il suggeritore ha il compito di facilitare il lavoro dando qua e là qualche indicazione tematica che aiuti ciascuno a riflettere sull’“itinerario dei Dodici” nel Vangelo di Marco. Essendo io un sacerdote gesuita, faccio infine notare che l’itinerario ascetico (asketikós, da askéin cioè esercitare), quale è proposto nel Vangelo di Marco, è lo stesso che, con altre parole, è riflesso nel libro degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Termino questa introduzione aggiungendo un pensiero che prendo dall’ultimo e interessante libro di Hans Urs von Balthasar2, Il complesso antiromano. L’autore esamina ampiamente come mai esista oggi nella Chiesa un fenomeno di opposizione a Roma, tipico del nostro tempo. Una delle cose

che mi hanno colpito, scorrendo il libro, è l’importanza che egli dà al principio mariano della Chiesa. Le parole che voglio citare e sulle quali forse potremo ritornare, riguardano questo fatto: la Chiesa – egli dice – è petrina (cioè apostolica), ma nello stesso tempo è anche mariana. Balthasar fa notare diffusamente come i due aspetti, compenetrati insieme, danno il volto completo della Chiesa. In qualche modo, l’uno integra l’altro e, dal punto di vista dell’aspetto anche esteriore, umano e affettivo della vita quotidiana, lo completa. Dovendo, quindi, meditare sull’itinerario dei Dodici in Marco, dobbiamo tenere presente nella nostra preghiera la Madonna perché ci aiuti a entrare veramente sempre più nel cuore della Chiesa, come il Vangelo ce la presenta, cioè in tutta la sua totalità, in maniera da poterci confrontare quotidianamente con questa Chiesa apostolica e mariana.

PREMESSA SUL VANGELO DI SAN MARCO Ci chiediamo: esiste un “itinerario dei Dodici” nel Vangelo di Marco? Hanno, i Dodici, nel Vangelo di Marco, un’importanza sufficiente da permetterci di seguire con un certo rigore esegetico il loro cammino? Iniziamo con una constatazione a partire da una lettura generale: nel Vangelo di Marco ricorre abbastanza sovente la parola “i Dodici” (hoi dódeka). Vi sono sette brani che possiamo chiamare i brani dei Dodici. La prima menzione è al cap. 3: “ne fece Dodici” (3,14); ripetuto in 3,16: “fece dunque i Dodici”. La seconda la troviamo nel capitolo seguente: “Quando poi furono da soli, quelli che erano intorno a lui, insieme ai Dodici, lo interrogavano sulle parabole” (4,10). Il terzo passo si trova al cap. 6: “chiamò a sé i Dodici” (6,7). Qui è interessante notare che il greco ripete lo stesso verbo (pros-kaléitai) di 3,13: “Chiamò a sé quelli che voleva”. Strettamente connessi con questo brano, alla fine del medesimo capitolo, abbiamo gli apostoli che si radunano presso Gesù: i Dodici sono invitati da lui ad andare in un luogo deserto e solitario (6,30). La quarta occorrenza si trova al cap. 9, in alcune istruzioni di Gesù ai discepoli. Egli “chiamò i Dodici e disse loro: ‘Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti…’” (cfr. 9,35-40). La quinta menzione dei Dodici è nel capitolo seguente, cioè la terza predizione della morte e risurrezione: 10,32-35. Il sesto brano è contenuto nel cap. 11: Gesù, dopo essere entrato in Gerusalemme, nel tempio,

e dopo aver osservato ogni cosa, “essendo ormai l’ora tarda, uscì con i Dodici alla volta di Betania” (11,11). Quindi, la presenza dei Dodici nell’apostolato gerosolimitano di Gesù è ricordata espressamente. Infine, la settima occorrenza si ha nel cap. 14, quando inizia la passione. Qui la menzione dei Dodici ritorna più volte perché tutto il capitolo è presentato in stretta connessione con i Dodici. “Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici…” (14,10); “Venuta sera, egli arrivò con i Dodici…” (14,17); “E disse loro: uno dei Dodici, che intinge con me nel piatto” (14,20); e infine: “arrivò Giuda, uno dei Dodici…” (14,43). La parola “i Dodici” appare, dunque, sovente in Marco e appare a intervalli regolari, in sette contesti diversi, quasi ogni due capitoli. Dal cap. 3 fino al 14, la via del discepolo, che gradualmente giunge alla conoscenza di Dio, è descritta dall’evangelista come segnata dalla presenza dei Dodici. Dal momento della loro costituzione (cap. 3) fino al disperdersi nell’ora della prova con il tradimento di Giuda (cap. 14) questa presenza è sottolineata in ogni sezione principale del Vangelo. Possiamo affermare: i Dodici accompagnano il cammino di Gesù dalla sua prima affermazione fino alla prova finale. Notiamo che a questi testi, dove appare la parola “i Dodici” e che possiamo prendere rigorosamente come punto di partenza per la nostra riflessione, andrebbero aggiunti altri tre testi che senza una loro diretta menzione trattano tuttavia episodi che li riguardano. Soprattutto noterei 1,1620, le prime chiamate, cioè i primi quattro chiamati presso il lago, i primi quattro dei Dodici; 8,27-30, Pietro, il quale, a nome dei Dodici, confessa che Gesù è il Cristo; 16,7, la nuova chiamata dei Dodici, perché si radunino presso Gesù nella Galilea, dopo la risurrezione. Se teniamo presenti tutti gli episodi nominati, abbiamo una specie di struttura apostolica della versione marciana. È confermata quindi la possibilità di meditare l’itinerario dei Dodici nel Vangelo di Marco. Perché stessero con lui Possediamo dieci pericopi3 apostoliche (sette più tre), in luoghi chiave del Vangelo. Esse traggono origine da un’affermazione iniziale: “Perché stessero con lui” (3,14). Tutta la carriera dei Dodici ha inizio da questo momento fondante la loro esistenza che è “l’essere con Gesù”. E tutto ciò che segue è

l’approfondimento di ciò che “l’essere con Gesù” significa concretamente per la vita di un uomo chiamato all’intimità personale con il Signore. Ecco perché quella frase così dura, così inaspettata: “E ne fece Dodici perché stessero con lui” (3,14), pur nella sua rudezza, è piena di un immenso significato e contiene in germe tutta la vocazione degli apostoli. Le dieci pericopi mostrano il cammino secondo il quale gli apostoli sono giunti veramente a essere con Gesù e a possedere il mistero del Regno: “A voi è dato il mistero del Regno di Dio” (4,11). Essere con Gesù, ricevere da lui il mistero del Regno, sono due espressioni che descrivono l’identità degli apostoli e il loro cammino. Possiamo fare un’ultima osservazione su questo itinerario. In esso il momento della penitenza non è posto all’inizio, ma lo troviamo soprattutto verso la fine, con la prova della passione, nel cap. 14. All’inizio c’è soltanto un accenno a essa perché, in Marco, non ci viene presentato un itinerario di conversione che comincia con la penitenza e prosegue con la scoperta dell’essere col Cristo, ma ci viene posta innanzi una chiamata a essere con Cristo. Essa deve gradualmente affinarsi e approfondirsi, fino a riconoscere, in una riflessione penitenziale, quanto ancora ci manca per essere fedeli a una vocazione già esistente. Noi dunque seguiremo il cammino di Marco senza fare un’analisi rigorosa delle singole pericopi. Le terremo tuttavia presenti come sfondo, in maniera da potere intendere come la rivelazione progressiva del mistero del Regno si attui in coloro che sono chiamati a “essere con lui”. Mediteremo il cammino che queste pericopi suppongono o indicano: ci metteremo, cioè, nei panni dei Dodici, al loro posto e ci chiederemo: che atteggiamento suppone nei Dodici questo porsi in ascolto rispetto a Gesù? quale mentalità trova in essi? quali presupposti di fede vengono richiesti; quale via si vuole far percorrere; quali prove presenta questa via? come avviene la graduale rivelazione del Regno di Dio affinché si capisca, non soltanto a parole, ma a fatti, cosa vuol dire “essere con lui”? Ecco, dunque, il cammino che ci accingiamo a compiere.

I. IL MISTERO DI DIO

Questa meditazione ci aiuta a metterci nelle disposizioni del Principio e Fondamento4. Essa vuole creare in noi la condizione di totale disponibilità al mistero di Dio, alla sua attività, alla sua iniziativa. Per creare questa disponibilità noi ricorriamo al Vangelo di Marco. Vogliamo riflettere insieme sul mistero di Dio in Marco; meglio ancora, vedere che parte ha il senso di Dio nel cammino catecumenale che Marco propone; quale parte ha, in esso, l’educazione al senso di Dio. Notiamo subito quanto poco si parli di Dio in Marco, quanto sembri scarsa l’istruzione su Dio. Mancano per esempio istruzioni fondamentali come quella di Mt 6 sulla provvidenza o sul Padre Nostro, che è l’occasione di una semplicissima ma ampia catechesi su Dio. Se consideriamo anche le statistiche, pur nel valore limitato che dobbiamo attribuire a dati di questo genere, vediamo che in Marco il nome di Dio occorre 37 volte, contro 46 in Matteo e 108 in Luca. Nel Vangelo del catecumeno, a differenza del Vangelo del dottore, vi è dunque una menzione molto discreta della persona di Dio. Lo stesso si otterrebbe per la menzione di Padre: la parola ricorre 13 volte in Marco, ma appena cinque volte è riferita a Dio, mentre Giovanni ha centinaia di occorrenze del nome di Padre riferite a Dio perché, evidentemente, una catechesi su Dio Padre fa parte dell’istruzione del cristiano illuminato, mentre all’inizio viene menzionato appena. Come mai questo silenzio su Dio? Perché se ne parla poco? Dobbiamo, credo, riportarci alla situazione concreta del catecumeno nella Chiesa primitiva. I catecumeni della Chiesa primitiva, soprattutto quelli a cui si rivolge il Vangelo di Marco – cioè, probabilmente catecumeni provenienti in gran parte dal paganesimo – avevano già di per sé un grande senso religioso. Non era per nulla estraneo a essi il pensiero, la parola, il vocabolo, la menzione continua di Dio; come dice bene san Paolo parlando appunto dei pagani: “Ce ne sono molti che sono detti Dio, sia nel cielo che sulla terra, e ve ne sono molti tenuti per dei, e molti Signori (kýrioi)…” (1Cor 8,5). Tant’è vero che Paolo, entrando in Atene, si irrita per la presenza continua di simulacri di divinità e chiama gli ateniesi estremamente superstiziosi. Che fossero gente superstiziosa appare anche dal fatto avvenuto ad Efeso e raccontato in At 19,18-19. Vi si dice che molti dei convertiti portarono i loro libri magici per bruciarli e se ne fece un falò che valeva milioni (cinquantamila denari d’argento). Ciò vuol dire che la superstizione era estremamente diffusa, e il catecumenato veniva impartito a gente che, in fondo, Dio l’aveva in bocca anche troppo. Il problema non era tanto di porre

in essi il senso della divinità, che per loro era dappertutto e appariva in ogni fenomeno, ma di lottare contro una religiosità erronea. Tra parentesi, potremmo chiederci: è davvero peggiore la nostra situazione odierna di ateismo diffuso? Forse è più facile parlare del Dio vero in una situazione di ateismo che non in una situazione di superstizione dove il parlare di Dio può essere capito male, travisato, stravolto. Il Vangelo di Marco è nato in una situazione in cui, all’inizio, non era opportuno parlare troppo di Dio, perché questo poteva venire frainteso. Ecco un motivo probabile perché al catecumeno non si parlava tanto di Dio. Vedremo poi che, in realtà, di Dio se ne parlava, ma non in modo diretto. L’istruzione su Dio Come, dunque, veniva fatta al catecumeno, l’istruzione su Dio? Era compiuta, probabilmente, basandosi in gran parte sul Vecchio Testamento, soprattutto sui salmi. Il libro dei Salmi educava il catecumeno al vero senso di Dio e quindi la comunità primitiva – anche di cristiani provenienti dal paganesimo – lo leggeva molto sovente e conosceva benissimo i singoli salmi. Ciò appare dalle citazioni frequentissime che ne fa il Nuovo Testamento e che non sarebbero spiegabili se la comunità – a cui le lettere apostoliche sono rivolte – non li avesse conosciuti perfettamente. Il catecumeno veniva, dunque, educato al senso di Dio attraverso i salmi. Anche noi, in fondo, negli esercizi, facciamo lo stesso. Attraverso la recita dei salmi ci rieduchiamo a questo senso profondo di Dio che viene assorbito più con la preghiera che non con la comunicazione verbale di ciò che si può dire su Dio. Nei pochi accenni che vengono fatti nel Vangelo di Marco al mistero di Dio, noi cogliamo quel senso specifico di Dio che egli si attende dal catecumeno e anche quel senso specifico di Dio nel quale si attua la rivelazione che Gesù fa di sé ai Dodici. La meditazione che propongo è dunque una breve scorsa ai testi principali di Marco – una quindicina circa – in cui si possono trovare accenni diretti o indiretti a Dio, per vedere quale figura, quali aspetti di Dio vengono sottolineati e, quindi, quali vengono ritenuti più importanti in un cammino catecumenale verso Dio e verso l’intimità col Signore Gesù, che scandisce l’itinerario dei Dodici.

Questi testi si possono dividere in quattro serie: ci sono alcuni testi preliminari che pongono in luce gli aspetti fondamentali, poi vengono date alcune indicazioni successive, quindi una serie di temi biblici particolari e da ultimo le indicazioni finali sul mistero. Quattro tipi di testi, perciò, e ciascuna di queste serie comprende, a sua volta, tre o quattro testi su quello specifico argomento. Testi preliminari (1,2; 1,3; 1,10-11) Come tradurre questi testi nella nostra esperienza? Chi è Dio? È colui che prende un’iniziativa misteriosa: “Ecco, io mando il mio angelo davanti a te” (1,2). Tralascio il v. 1 perché è molto discusso: probabilmente è autentico ma preferisco non tenerne conto. Dio al v. 2 non è nominato, ma è colui che prende un’iniziativa misteriosa, non ben definita; qualcosa sta per accadere, Dio in qualche maniera ci viene incontro. Dio è il Dio che viene. “Preparate la via del Signore” (1,3): Dio sta venendo. Questa indicazione, insieme chiara e misteriosa, su Dio come qualcuno che sta venendo verso di noi, che si muove di sua iniziativa verso di noi, riappare più avanti: “vide i cieli aperti…” (1,10); cioè, Dio “Il Padre vostro che è nei cieli” (11,25), si fa presente alla nostra realtà, alla nostra esperienza, si mette in comunicazione con noi dal cielo. E come comunica con noi? La risposta è: “Attraverso il suo Figlio diletto” (1,11) o, potremmo dire, il Figlio modello, quel Figlio nel quale capiremo qualcosa dell’inconoscibile mistero di Dio. Dunque, Dio appare come mistero inconoscibile che, a un certo punto, prende un’iniziativa misteriosa nei nostri confronti e ci viene vicino per scuoterci. Non è molto, ma è detto tutto ciò che può suscitare un senso d’attesa, di preparazione. Il catecumeno, quindi, non è invitato a dire subito: “Dio è qui, Dio è questo o quello”, a esprimere cioè qualcosa di ciò che è Dio. È invitato, invece, a comprendere che Dio è colui che sta per prendere possesso della sua vita, e gli va incontro con una misteriosa iniziativa che egli è chiamato ad accettare, senza conoscerla nei dettagli. Testi chiarificatori (1,14; 1,15; 1,35; 2,7)

“Gesù viene in Galilea predicando il Vangelo di Dio” (1,14), quindi indirettamente sappiamo che Dio è il Dio del Vangelo. “Si è avvicinato il Regno di Dio” (1,15), quindi Dio è il Dio del Regno. Come tradurre queste due indicazioni? Il Dio del Vangelo, cioè, il Dio che ti porta una buona notizia, che sta per cambiare la tua situazione. Il Dio del Regno o il Dio che sta per mettere le cose a posto, misteriosamente. Dio è colui che entra nella tua vita con un messaggio sconvolgente, pieno di letizia, e che viene a riordinare le cose della tua vita. Quindi, di nuovo: l’atteggiamento di chi non sa ancora ciò che Dio vuole, ma si prepara in piena disponibilità nell’accettazione di una novità misteriosa che deve entrare nel suo intimo. Un altro accenno misterioso, del tutto indiretto, l’abbiamo più avanti: “Gesù al mattino presto va in un luogo deserto e prega” (1,35). Qui Dio appare come colui che il Cristo prega. Cristo presentato, in primo luogo, come Figlio modello e suo rivelatore, è in misteriosa unione con Dio; e noi, pur senza sapere molto di più su Dio, ci troviamo immersi in un’atmosfera di attesa, rispetto, riverenza, tensione per il mistero di Dio che, in Cristo, ci si sta rivelando. E ancora, nel capitolo seguente: “Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?” (2,7). La frase è proferita dagli avversari, ma serve per dirci che solo Dio è colui che può perdonare. Essa reca il senso del perdono. Dio entra con un’iniziativa – che è buona novella – di perdono e l’uomo deve restare in attesa e in ascolto, disposto e pronto a riceverlo. Da questi pochi accenni vediamo che viene operato tutto un rovesciamento della mentalità pagana, per la quale Dio era l’essere a disposizione dell’uomo, sul quale l’uomo poteva mettere le mani, farselo propizio, chiedendo e ottenendo da lui ciò che voleva; un Dio di fronte al quale l’uomo era in stato di attività manipolatrice. Ora, invece, l’uomo è posto in stato di totale passività, di attesa, ascolto, riverenza, rispetto. È Dio che sta per fare, sta per mettere in opera il suo Regno. Noi dobbiamo umilmente ascoltare senza capire, essere pronti ad andare là dove egli ci vuole portare. Questi sono alcuni tra gli aspetti fondamentali dell’attesa del mistero di Dio raccolti nella prima parte di Marco. Dal cap. 2 in avanti sono pochissime le altre menzioni su Dio perché, come vedremo, è in opera Gesù. Egli si accinge a rivelarne il mistero nella sua persona; di conseguenza la catechesi su Dio non appare in primo piano. Una volta che l’uomo si è reso disponibile, viene indicato il Figlio, incomincia allora la via della sequela del Figlio, che ci permette di purificarci

da tutto un falso modo di comprendere Dio, per arrivare a conoscerlo nella verità. Temi biblici Ci sono, tuttavia, nei capp. 11, 12 e 13, ancora quattro menzioni di Dio che ricalcano temi biblico-veterotestamentari. Esse ci fanno constatare che nel Vangelo marciano non si perdevano di vista alcuni temi fondamentali, che si supponevano quali punti di partenza per una catechesi del “Dio di nostro Signore Gesù Cristo”. Quali sono questi quattro punti fondamentali che si riferiscono sempre alla catechesi veterotestamentaria su Dio? Nel cap. 10, la risposta di Gesù: “Nessuno è buono se non Dio” (10,18). Essa rivela al catecumeno la bontà di Dio, l’unico buono da amare “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze” come è detto in 12,30. Altro passo di catechesi veterotestamentaria lo ritroviamo nel capitolo seguente; l’esortazione o indicazione (dipende dalle traduzioni) “Abbiate fede in Dio!” (11,22), è quella della versione CEI. Notiamo che il testo greco è molto più misterioso perché dice “échete pístin theoû”, cioè capovolge la questione: “Chi è Dio?” È colui che merita fede e fiducia, colui che merita totale abbandono. E quanto di più si insisterà nell’itinerario catecumenale: abbandonatevi al mistero di Dio che vuole agire in voi non a modo vostro, ma così come lui vuole. E quindi siate totalmente disponibili. Un altro accenno veterotestamentario si trova nel capitolo tredicesimo, il Dio della creazione ricordato in maniera molto indiretta: “Dall’inizio della creazione fino al giorno d’oggi” (13,19). Quelli del Dio unico, buono, fedele, creatore, realtà suprema da amare, erano temi veterotestamentari allora molto presenti. Marco ci dà, infatti, un modello di catechesi per gente che credeva in questi valori. In una catechesi odierna, evidentemente, essi potrebbero darsi per scontati. Su questi temi è costruita l’idea evangelica del Dio che viene, che prende un’iniziativa piena di mistero, del Dio al quale bisogna abbandonarsi e che ci guida misteriosamente per mezzo del Cristo. Questa è la disposizione fondamentale con cui il catecumeno inizia la sua catechesi e che l’annuncio evangelico suppone in lui.

Temi rivelatori Finalmente, gli ultimi due testi che sono basilari e rivelatori dell’identità di Dio in Marco. Nel capitolo quattordicesimo, la preghiera, “Abba, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (14,36). Chi è il Dio che sta dietro a questa rappresentazione dataci dalle parole di Gesù? È il Dio a cui tutto è possibile (idea veterotestamentaria), il Dio che può allontanare il calice ma che, in realtà, non lo fa. È, cioè, il Dio al quale bisogna rimettersi totalmente perché ha su di noi disposizione completa e ci guida per vie misteriose, così come ha guidato il Cristo. Il catecumeno è quindi invitato a passare da un’idea umanamente prefabbricata di Dio, in cui tutto è predisposto, in cui egli può appoggiarsi e ottenere ciò che vuole, facendo questo o quell’altro atto di culto, a un Dio che misteriosamente interviene e lo conduce con bontà, ma che lo porta là dove lui vuole attraverso l’iniziativa evangelica di salvezza che per l’uomo è sempre imprevedibile e sconcertante. In Marco, difatti, l’ultimo testo in cui Gesù ci parla di Dio è il testo più drammatico del Vangelo. Sulla croce Gesù grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (15,34). Come mai si chiude con questo brano la serie dei pochi accenni al mistero di Dio in Marco? Proprio perché in esso abbiamo il culmine di questa rivelazione: il Dio che viene presentato nel Vangelo, il Dio a cui tutto è possibile, il Dio che ha in mano ogni cosa e al quale noi ci abbandoniamo totalmente, non è obbligato a fare ciò che noi da lui attendiamo e può anche esteriormente abbandonarci come ha abbandonato suo Figlio. È chiaro che nelle parole di Gesù c’è anche il senso di speranza, ma non bisogna dimenticare che sono parole di abbandono. Dio ha lasciato il Cristo in una situazione di amarezza, di desolazione esteriore, di derelizione umana come se l’avesse effettivamente abbandonato. Il catecumeno è quindi invitato a riflettere attentamente: guarda che la via per cui ti metti non è una via facile, una via in cui Dio ti assicurerà, di successo in successo, una riuscita già da te programmata, ma ti metti nelle mani di un Dio misterioso che è buono, che vuol fare di te il meglio, ma non a modo tuo. È in gioco quella disponibilità totale che sant’Ignazio pone come condizione fondamentale degli Esercizi: accettare il mistero del Dio diverso

da noi che ci porta spesso, e impensatamente, là dove non vorremmo andare5. Lo disse Gesù a Pietro: “ti porteranno dove non vuoi andare” (Gv 21,18). È l’abbandonarsi totalmente al mistero di Dio per tutte le sorprese che a ogni momento, a ogni età dell’esistenza, egli può manifestare.

II. L’IGNORANZA DEI DISCEPOLI La meditazione che intendo proporre vuole aiutarci nell’approfondimento del senso della penitenza. Chiediamo, quindi, al Signore la grazia di purificarci interiormente. Come appare nel Vangelo di Marco, questa esperienza di purificazione? Utilizziamo uno dei passi fondamentali in cui Marco, al capitolo quarto, vuol fare comprendere il mistero del Regno: “A voi è dato il mistero del Regno; a quelli di fuori tutto avviene in parabole” (4,11-12). Lo scopo di tutta la catechesi marciana è di far passare da una situazione al di fuori, in cui il mistero del Regno appare da angolature sociologiche o fenomenologiche, ma non è colto nella sua sostanza, alla situazione al di dentro. Entrare nel mistero del Regno Nel Nuovo Testamento ricorre spesso l’espressione al di fuori per indicare chi non partecipa alla conoscenza interiore del mistero del Regno, cioè della fede, come per esempio i pagani. Nella prima lettera ai Corinti, parlando dei giudizi che devono aversi all’interno della comunità, Paolo dice: “Tocca forse a me giudicare quelli di fuori?” (1Cor 5,12-13); e ancora, nella lettera ai Colossesi: “Camminate nella sapienza per riguardo a quelli di fuori” (Col 4,5), cioè, a quelli che non partecipano al dono del Vangelo e stanno a vedere, e vi guardano giudicandovi da un punto di vista esteriore. Nella prima lettera ai Tessalonicesi, poi, troviamo: “affinché camminiate in maniera degna, per riguardo a quelli di fuori” (1Ts 4,12). L’espressione è, quindi, abbastanza nota nel Nuovo Testamento e designa la categoria di coloro che non hanno ancora capito il mistero del Regno. Oggi essa comprende non solo i non battezzati ma, di fatto, tutti coloro per i quali i misteri del Regno di Dio e della Chiesa sono ancora qualcosa di esteriore a cui non si partecipa dall’interno, con cui non ci si identifica, al punto che

tutto appare enigmatico. Si vede la Chiesa fare certe cose, compiere certe azioni sacre o agire in determinati modi, ma tutto sembra come una grande parata di cui non si capisce il significato. Bisogna allora entrare con coraggio all’interno di questo mistero per identificarci con esso. Ecco la via catecumenale: da un di fuori in cui i segni appaiono enigmatici, verso un interno in cui essi si identificano con la realtà. Questa via è appunto descritta al capitolo quarto in cui si cita un passo dell’Antico Testamento: “Affinché, vedendo, non vedano, ascoltando non odano, per paura che si convertano e venga loro perdonato” (4,12: cfr. Is. 6,910). Si è discusso a lungo su questo versetto per indicare se è mai possibile che ci sia, da parte di Dio, una volontà di non farsi capire. In realtà si tratta di un modo espressivo per dire cosa succede a chi chiude gli occhi, ed è un versetto molto istruttivo se lo rovesciamo cogliendone l’aspetto positivo. Cioè se ci chiediamo: qual è la via del catecumeno? È la via di colui che vuole aprire gli occhi così da vedere. Molti guardano le cose della Chiesa, ma non le vedono, non ne capiscono il senso. Molti, oggi in posizione di critica verso la Chiesa, sono spesso nell’atteggiamento del guardare e non vedere, dell’ascoltare e non intendere. Bisogna, invece, passare dal guardare al capire, dall’ascoltare al comprendere, in modo da convertirsi e avere il perdono. Ecco la via positiva che le parole del v. 12 esprimono. E si comprende meglio questo, quando si medita il ripetuto invito, nel Vangelo di Marco, ad aprire gli occhi, ad ascoltare e a comprendere. Possiamo, così, dedicare questa meditazione all’ignoranza del discepolo. San Marco suppone che il punto di partenza della via catecumenale – e per gli stessi Dodici della loro intimità con Gesù – sia una riconosciuta situazione di ignoranza: di un non sapere e non capire, di un non vederci chiaro. Questa attitudine di ignoranza viene più volte ricordata da Gesù ai suoi discepoli, perché si convincano che non hanno ancora veramente visto né capito. Egli ribadisce che è necessario uscire da una tale situazione di sufficienza e mettersi invece in un atteggiamento di riconosciuta e umile ignoranza, disposta e attenta all’ascolto. Ci sono dunque nella prima parte di Marco diversi accenni all’ignoranza del discepolo. Essa è supposta come il normale punto di partenza della catechesi; per i Dodici, poi, sarà il punto al quale si salderà, a un certo momento, la chiamata di Gesù. Nel cap. 4, oltre al già citato v. 12, abbiamo il v. 23 con l’invito: “Se qualcuno ha orecchi per intendere ascolti”. Al v. 24, “Guardate bene ciò che udite”, e al v. 40: “Perché tanta paura? non avete

ancora fede?”, cioè, non intuite ancora? Vedremo, poi, quanto il cap. 4 sia fondamentale, perché segna un passo avanti nella conoscenza di Gesù. Nel cap. 6 ritorna lo stesso rimprovero: “Non avevano capito riguardo ai pani, essendo il loro cuore indurito” (6,52). Altro brano di insistenza sull’ignoranza del discepolo è al cap. 8: “Perché state discutendo che non avete pane? Ancora non capite, non intendete (in greco letteralmente: non avete mente)? Avete il cuore indurito? Avendo occhi non vedete, avendo orecchi non udite? E non vi ricordate…” (8,17 ss.). Ci sono presentati cinque rimproveri successivi che passano in rassegna tutti i sensi dell’uomo per fare intendere agli interlocutori che non hanno capito assolutamente niente. E finalmente al cap. 9 troviamo l’ultimo brano riguardante l’incomprensione: “Ma questi non capivano la parola e avevano paura di interrogarlo” (9,32). Ecco dunque il punto di partenza per il cammino catecumenale. Tale stadio, anzi, accompagna per qualche tempo questo itinerario ed è caratterizzato dalla situazione di essere in qualche modo con l’animo ancora al di fuori dal centro del messaggio; di intuire confusamente qualcosa, ma di non avere ancora capito il mistero. “A voi è dato il mistero …” (4,11 s.), ma questo mistero non viene inteso, non viene capito fino in fondo finché non si è percorso tutto il cammino che è segnato dal Vangelo di Marco. Dal cap. 4 al cap. 9 si sottolinea che si è ancora molto indietro in questa strada. È un atteggiamento che dovremmo suscitare in noi ogni volta che ci mettiamo di fronte al mistero di Dio. Dovremmo poter dire: “quanto poco conosciamo del mistero di Dio”. Perché è soltanto con questo atteggiamento che possiamo metterci in attentissimo e umile ascolto, pronti a percepire ciò che Dio vuole comunicarci. Accettiamo la nostra ignoranza Il primo punto allora è il seguente: il Vangelo di Marco suppone, per un serio cammino catecumenale e per una vera sequela dei Dodici nei riguardi di Gesù, che si parta dalla constatazione dello stato di una certa ignoranza e incomprensione teorica e pratica del mistero di Dio. Il secondo punto di questa meditazione vuole rispondere alla domanda: in che cosa consiste concretamente questa ignoranza? Dove si esplica negli apostoli, nei discepoli? Occorre leggere tutto il Vangelo di Marco e vedere dove e come tale ignoranza affiora. Tra i vari passi che si potrebbero proporre

ne ho scelti alcuni, tenendo presente che il Vangelo di Marco viene letto in una situazione di istruzione catecumenale. Ogni episodio di Marco, in fondo, ha lo scopo, soprattutto nella prima parte, di stigmatizzare l’ignoranza del discepolo e fargli capire cosa non va in lui affinché se ne avveda e cerchi di correggersi. Tutta la prima parte, quindi, ha uno scopo penitenziale. I passi che ora leggiamo contengono tutti un rimprovero di Gesù, rimprovero diretto o indiretto. Da essi si vede che viene sempre rimproverata al discepolo una situazione di nescienza e di incomprensione. Nel cap. 2 ci imbattiamo nell’episodio degli apostoli che stanno cogliendo le spighe di grano nel sabato. Che cosa viene stigmatizzato in esso? Ciò che si potrebbe chiamare l’ignoranza della vera libertà dei figli di Dio. “Non avete letto ciò che fece Davide quando era in necessità, come entrò nella casa di Dio e mangiò i pani della proposizione?” (2,25). Si tratta chiaramente di un rimprovero di Gesù: non avete letto le Scritture? Non le capite? È condannato l’atteggiamento tipico di chi sta facendo faticosamente il passo dal di fuori verso il centro del mistero, ma continua ad attaccarsi alle leggi, alle norme, alle convenzioni, alle consuetudini come se fossero qualcosa di estremamente importante. Il catecumeno pagano era molto tentato di fare questo: di legarsi, cioè, a norme e leggi, quasi che in esse soltanto potesse salvarsi. Gesù fa intendere che chi possiede questo atteggiamento di rigidità non ha ancora capito il mistero del Regno. Perché il mistero del Regno non si rivela davanti a un tale attaccamento alle esteriorità legali, Gesù le giudica come un difetto e un errore, facendo notare che Davide era diverso e sapeva rendersi conto di ciò che era importante e di ciò che era accessorio, avendo egli superato lo stadio di un’esteriore legalità. Si attua in questo passo una profonda educazione degli apostoli esortati ad andare al di là di quella che è l’esteriorità del fenomeno, al di là di una pura legalità. Un secondo rimprovero di Gesù lo troviamo, subito dopo, nel cap. 3. È un forte rimprovero: Gesù guarda intorno a sé con ira, profondamente rattristato per l’accecamento del loro cuore (cfr. 3,5). Cosa suscita qui l’ira di Gesù? È la situazione dei farisei che gli stanno intorno nella sinagoga, mentre egli si appresta a guarire di sabato un uomo. Essi non osano rispondere al quesito: “È lecito nel sabato fare del bene o del male?” (3,4). Si tratta di gente colta, venuta a spiarlo, e che sta lì a guardare, in posizione di critica; gente che non osa buttarsi; gente che non osa dire una parola per paura di compromettersi. E il Signore rigetta la paura dell’impegno. Questo è un atteggiamento comune a parecchi cristiani di oggi:

lo stare a guardare la Chiesa, il Cristo, le cose della Chiesa, dal di fuori, pronti a giudicare, a programmare, forse, ma senza tuttavia buttarsi dentro e impegnarsi. È l’atteggiamento di comoda sufficienza critica di chi non vuole pagare di persona; di chi, anche battezzato, sta col cuore al di fuori; di chi giudica dall’alto la Chiesa, le persone di Chiesa e il loro modo di agire, dicendo che non fanno come dovrebbero, ma che non vuole buttarsi dentro con il rischio di sbagliare. Un tale atteggiamento suscita l’ira di Gesù e il suo profondo dolore, perché esprime il fatto che si discute, si disserta sul Regno di Dio in maniera anche dotta, in maniera apparentemente prudente, ma si ha paura a sporcarsi le mani, a buttarsi nella mischia. Un atteggiamento successivo stigmatizzato da Marco lo troviamo nel medesimo cap. 3. Qui la situazione è capovolta, perché sono gli altri che rimproverano Gesù. È una situazione paradossale, ironica, nella quale Marco vuol fare vedere a che punto si arriva quando si critica lo stesso Gesù. Perché? Vengono i suoi e vogliono prenderlo dicendo: “È fuori di sé” (3,21) Altro atteggiamento tipico di chi crede di essere dentro al mistero, ma ne è ancora fuori. È la paura di fare la fine di Gesù, cioè, di essere chiamati fanatici. Molti vorrebbero avvicinarsi al mistero cristiano, parteciparvi in parte, ma non troppo, per paura che la gente dica: “è matto”. In realtà non si vuole partecipare fino in fondo al mistero di Gesù, e questa paura non è rara anche all’interno della Chiesa stessa. Molti di noi vorremmo vivere il cristianesimo in un modo tale che la gente non pensi che siamo diversi, un po’ strani, che ci siamo esposti troppo, che in qualche ambiente non si dica che siamo dei fanatici. Certamente non dobbiamo essere dei fanatici, ma tuttavia non dobbiamo aver paura che altri lo pensino; dobbiamo essere prudenti, equilibrati, discreti, ma non dobbiamo preoccuparci troppo che gli altri ci ritengano tali. Perché sarà difficile, se prendiamo il Vangelo alla lettera, che a un certo punto qualcuno non dica di noi: “è fuori di sé, fa troppo, se la prende troppo”; dal momento che questa è stata la sorte di Gesù. Un altro atteggiamento presentato come un errato punto di partenza per un itinerario catecumenale, lo troviamo descritto ampiamente nel cap. 4. In forma parabolica ed enigmatica nei vv. 4-7, dove si parla del seme mangiato dagli uccelli, calpestato sulla strada, soffocato dalle spine; spiegato poi nei vv. 14-20 attraverso le diverse applicazioni: il diavolo, le persecuzioni, i troppi affanni e impegni. Vorrei qui insistere soprattutto su quanto ha origine nel cuore dell’uomo; cioè, i troppi affannosi impegni e le molteplici

preoccupazioni. Tutto ciò è indicato come una delle cause dell’impossibilità di comprendere la Parola, e dell’incapacità di penetrare il mistero. Lo sappiamo per esperienza: questa è una delle cause più frequenti per cui gli uomini – anche i cristiani di una certa bontà d’animo – non arrivano a superare l’esteriorità. Presi da molte cose, invischiati in un continuo succedersi di eventi esteriori, sono incapaci di arrivare al cuore stesso della realtà. Questi sono gli atteggiamenti che colui il quale inizia la via della conoscenza di Gesù è chiamato a superare. E non dimentichiamo che le spine delle continue preoccupazioni – mérimnai, come dice il testo greco – cioè delle angustie del momento presente, possono operare in qualunque situazione, in qualunque momento, anche quando si è molto avanzati nella vita dello spirito e della conoscenza di Cristo. L’accumularsi di preoccupazioni esteriori è il più grave pericolo nel quale possiamo incorrere, perché può veramente, a ogni momento, soffocare e ottundere lo spirito. Un altro atteggiamento riprovato dal Signore lo trovo nel medesimo cap. 4: “Guardate ciò che ascoltate. Con quella misura con cui misurate sarà misurato a voi e vi sarà dato” (4,24). È l’atteggiamento del cuore angusto, del cuore che non si apre; dà poco e allora poco riceve; del cuore che chiede al Vangelo quel tanto che basta e quindi riceve molto poco. Un chiudersi nel proprio limite, che qualche volta può diventare regola di vita: fare il meno possibile, accontentarsi di tutto ciò che ci mette al riparo dal troppo impegno, dalle esigenze di Dio; scegliere la mediocrità che conduce a un vicolo cieco. Un’ultima serie di rimproveri, di atteggiamenti da evitare, perché rendono incapaci di conoscere il mistero, la troviamo, infine, nel cap. 7, che è una piccola summa della catechesi morale della Chiesa primitiva: “È dall’interno, cioè dal cuore degli uomini, che escono i pensieri cattivi, fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frodi, lascivie, occhio cattivo, maldicenza, credere di essere qualcosa, stoltezza. Tutte queste cose cattive escono dall’interno e contaminano l’uomo” (7,21-23). Questi versetti enumerano molti vizi e peccati. Innanzitutto c’è l’affermazione evangelica fondamentale: è dall’uomo, dal suo interno che queste cose nascono e, di conseguenza, è soprattutto l’interno che occorre rinnovare; il problema non è solo della società, della struttura, del sistema, ma del cuore dell’uomo da cui tutto procede. In secondo luogo va notato che oltre i peccati grossolani che parrebbero riguardare un peccatore che vuole convertirsi e non noi, ci sono degli

atteggiamenti raffinati che vale la pena di considerare. C’è, per esempio, quello che viene chiamato l’occhio cattivo (ophthalmòs ponerós). Non è facile, a prima lettura, dire cosa si intenda con occhio cattivo. Ma anche Matteo nella parabola dei lavoratori della vigna parla di occhio cattivo: “Non mi è permesso di fare ciò che voglio del mio? Ovvero l’occhio tuo è cattivo perché io sono buono?” (Mt 20,15). Possiamo forse concludere che venga stigmatizzato un atteggiamento di invidia e quasi di critica dei disegni di Dio. Noi ci affatichiamo tanto e poi Dio, al di fuori di ciò che noi abbiamo fatto, opera cose migliori e più belle, per esempio nei protestanti e nei pagani. Questo talora ci sconcerta, e suscita in noi un senso di smarrimento davanti al mistero di Dio: “Ma come, noi abbiamo tanto lavorato, operato e forse le persone migliori ci sono sfuggite!” Un ulteriore atteggiamento da respingere è indicato nella stoltezza (aphrosýne): è l’ultimo della serie precedente che, come abbiamo detto, costituisce una sorta di summula del catecumeno. Ci sono tanti modi di stoltezza, ma ci sembra di coglierne due che sono specificamente enunciati in due passi del Vangelo di Luca. Al cap. 11, sono chiamati “stolti” i farisei che purificano l’esterno del bicchiere e non si curano dell’interno che è pieno di furto e di cattiveria: “Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha fatto anche l’interno?” (Lc 11,40). Stoltezza, in questo caso, è ogni incoerenza che si preoccupa degli atteggiamenti esteriori, che potendo essere visti, mettono in cattiva luce, mentre non ci si preoccupa degli atteggiamenti interiori. Essa è una situazione nella quale è possibile essere coinvolti, perché è facile ritenere importanti quelle cose di cui tutti si preoccupano, e invece trascurare quelle cose che sono poco pubblicizzate o reclamizzate, ma che davanti a Dio sono più serie e gravi. Un’altra stoltezza (aphrosýne) la troviamo rimproverata al cap. 12 di Luca, al termine della parabola del ricco stolto, il quale, avendo un grande raccolto, pensa di organizzarsi costruendo un granaio. Il Signore gli dice: “Stolto (áphron) questa stessa notte chiedono da te la tua anima!” (Lc 12,20). Viene qui stigmatizzato l’atteggiamento del dare troppa importanza alle cose esteriori. Ognuno di noi deve, nella vita, realizzare delle cose esteriori: fare, costruire, amministrare… Bisognerebbe – ci dice il Vangelo – compiere tutte queste cose con l’indice o col dito mignolo della mano sinistra; perché anche se esse coinvolgono responsabilità, impegni, persone, il Regno di Dio è la cosa più importante. Tutto il resto vale e aiuta, ma può esserci o non esserci; oggi c’è e domani viene distrutto. Basta un niente per dissolvere un’opera esteriore; invece ciò che conta è l’interiore adesione al Regno.

Ancora un’indicazione, nella medesima serie, è la huperephanía: cioè quell’atteggiamento che – ci dice la Madonna nel Magnificat (Lc 1,51) – Dio ha respinto: il credere di essere qualcuno. L’atteggiamento di superbia, che impedisce la conoscenza del Regno e rende ottusi all’intuizione della verità profonda del Vangelo. Il lieto annunzio Abbiamo delineato, attraverso sei testi di Marco, un quadro del come il catecumeno – nella Chiesa primitiva – veniva esortato a esaminarsi, a confrontarsi con la sua realtà di peccato, per comprendere le radici della sua ignoranza del Regno. A questa ignoranza, riconosciuta e umilmente accettata e confessata, Gesù porta una notizia buona e strabiliante. Tale lieto annunzio – ci dice Marco, nei primi due capitoli – è soprattutto rivolto ai malati, cioè a quelli che si riconoscono affetti, in un modo o nell’altro, da qualcuna di queste debolezze. Condizione essenziale, quindi, per riceverlo, è riconoscersi coinvolti in qualcuna di queste difficoltà. Altrimenti non si può essere in grado di ascoltare il Vangelo. Gesù dice: “Non hanno bisogno del medico i sani, ma quelli che stanno male; non vengo a chiamare i giusti, ma i peccatori” (2,17). Mentre da una parte questa situazione di ignoranza, di incompiutezza e di inadeguatezza del discepolo gli impedisce di capire il mistero del Regno, dall’altra parte il riconoscerla umilmente gli permette di ascoltare la parola del medico Gesù. Il male ha dunque il rimedio: il riconoscersi bisognosi è già un passo necessario verso la Parola. Nella prospettiva dell’educazione del catecumeno si comprendono, quindi, i primi due capitoli di Marco, che mostrano Gesù abbondantemente occupato con i malati. Gesù il grande medico, Gesù che non trascura nessuna malattia, che non rifugge di fronte ad alcun limite dell’uomo. Questi versetti dovevano riempire di consolazione il catecumeno incerto e titubante dal momento che rivelavano la figura di Gesù-medicouniversale, pronto a venire incontro a qualunque genere di malattia, di oppressione, di difficoltà. Marco dice: è venuto proprio per questo. Si attua già qui il primo incontro tra il catecumeno, che si riconosce ignorante e distante dal Regno, e la figura di Gesù medico, il quale non gli dice ancora cosa dovrà fare, ma gli annunzia che è venuto proprio per guarirlo. Il confronto fra il catecumeno e il suo Signore prelude all’intimità della

chiamata di Gesù.

III. LA CHIAMATA DI GESÙ Nella precedente meditazione abbiamo detto che il confronto tra il catecumeno, che si riconosce ignorante e bisognoso, col suo Signore, prelude all’intimità della chiamata di Gesù. Considereremo, in questa meditazione, le chiamate che Marco pone ai versetti 1,16-20; 2,13-14 e 3,13-19. Presentiamo questi passi nella prospettiva teologica del Vangelo marciano. Marco ha infatti voluto non soltanto tramandare i fatti di Gesù, ma presentarli in una cornice accurata e teologicamente elaborata, in maniera da dare un senso profondo a ogni parola e a ogni inserto redazionale. Vi sono studi molto recenti sulla struttura del Vangelo di Marco e sul posto che in esso hanno le chiamate, e in particolare quelle dei Dodici. Considereremo i testi dividendoli in due parti, chiaramente distinte dallo stesso Marco. La prima parte, che comprende i primi due testi, la chiameremo: le vocazioni presso il lago. La seconda parte, con il testo del capitolo terzo, sarà intitolata: la vocazione sul monte. Le vocazioni presso il lago Esse ci pongono i seguenti interrogativi: dove avvengono queste chiamate? In quale situazione Gesù chiama? Come chiama Gesù? A cosa chiama? Con quale risultato chiama? Dove avvengono queste chiamate? Presso il lago. Marco insiste chiaramente su questo particolare che ripete ben tre volte. “Passando presso il mare di Galilea, vide Simone ed Andrea” (1,16); la stessa connotazione di luogo è ripetuta per la chiamata di Giacomo e Giovanni: “andando un poco oltre” (1,18). La medesima situazione locale la troviamo nel cap. 2: “Gesù uscì di nuovo presso il lago” (2,13); “Passando (in greco il verbo è parágon, come in 1,16) vide Levi di Alfeo seduto al banco delle imposte” (2,14). Cosa vuol dire il “lago” nella presentazione di Marco? Il lago è il luogo nel quale vive la gente di Galilea e vi lavora: Gesù cerca e trova la gente nella propria situazione. Marco ci presenta Gesù che va per le strade del mondo a

cercare la gente là dov’è. In quale situazione Gesù chiama? L’evangelista precisa con insistenza: al proprio posto di lavoro. Per ciascuno, la medesima circostanza: “Li vide mentre gettavano le reti in mare: infatti erano pescatori” (1,16). Sono dunque presso il lago, al loro mestiere. Lo stesso per Giacomo e Giovanni: “sulla barca li vide mentre riassettavano le reti” (1,9). Quindi non soltanto sono pescatori, ma stanno pescando oppure si accingono a farlo, preparandosi alla pesca. È interessante quell’insistere che sono lì e stanno facendo il loro lavoro di ogni giorno. La stessa precisazione la troviamo al cap. 2: “Passando vide Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte” (2,14); quindi non soltanto si parla del suo mestiere, è gabelliere, ma è seduto lì al banco delle imposte, al suo lavoro di ogni giorno. Che cosa vuol dire Marco? Che Gesù chiama la gente a seguirlo là dove si trova, nella propria situazione concreta. Va a porgere a ciascuno il suo invito là dove egli è, in una situazione comune, onesta e onorata come quella dei pescatori, oppure in una situazione disonorata e moralmente difficile come quella del gabelliere. Gesù va dall’uno e dall’altro e li chiama. In questa situazione il catecumeno riconosce la sua chiamata che a lui, come a ciascuno di noi, è stata rivolta là dove egli era: in una situazione geografica, ambientale, familiare, sociale, caratteriale, diversa. Dio ci ha incontrati e chiamati là dove eravamo, invitandoci alla fede e alla sequela del Cristo. La chiamata, quindi, viene offerta a ciascun uomo là dove egli si trova, nella propria situazione. Come chiama Gesù? Viene sottolineato l’aspetto personale: attraverso un colloquio familiare. Vede Simone e Andrea, si avvicina loro, parla e li chiama. Vede Giacomo e Giovanni, si avvicina loro familiarmente, parla e li chiama. Vede Levi di Alfeo e anche a lui, singolarmente, si presenta, parla e lo chiama. Gesù si avvicina a ogni uomo e, là dove egli è, gli fa ascoltare quella parola di speranza e di fiducia che è la chiamata a seguirlo. A che cosa chiama? Questo non viene specificato se non in maniera generica, ma al tempo stesso globale: a seguirlo. “Venite dietro a me (déute opíso mou)” (1,17); oppure: “Seguimi (akoloúthei moi)” (2,14). Cioè chiama ad andare dietro a lui, a percorrere la sua via, e quindi chiede soprattutto un’immensa fiducia in lui. C’è, in verità, una frase misteriosa: “Vi farò

pescatori di uomini” (1,17), ma rimane avvolta nel mistero del futuro. Ora bisogna fidarsi totalmente di lui. Così l’istruzione catecumenale della Chiesa primitiva leggeva l’abbandono fiducioso a Gesù, necessario per percorrere la via verso la conoscenza del mistero. Il catecumeno ha visto qualcosa di Gesù, della sua Chiesa, ha sentito un’attrazione e deve decidersi a impegnarsi, altrimenti non potrà arrivare a percorrere il cammino. Fiducia totale, donazione completa alla persona di Gesù e non a una causa. Perché Gesù non dice “vieni a fare una cosa o un’altra”, ma “abbi fiducia nella mia persona”. Con quale risultato Gesù chiama? Marco sottolinea la subitaneità, l’urgenza della risposta; tutti acconsentono subito: in 1,18; in 1,20; in 2,14. Questa prima serie di chiamate invita ognuno di noi a prendere coscienza di quanto la nostra vita sia stata trasformata dalla chiamata di Gesù. Essa è, per il catecumeno e per noi, la vocazione battesimale: chiamata fondamentale nella quale si radica ogni altra, e che ci ha messo in una via che è la via cristiana; itinerario globale, abbracciante tutta quanta la nostra esistenza e sempre legato alla persona di Gesù che seguiamo. Invita ognuno di noi a prendere coscienza, con riconoscenza, di quanto la nostra vita dipenda dal nome personale che Gesù, nella sua infinita bontà, recando verso di noi la misericordia di Dio e facendola divenire Corpo e Parola, ha voluto pronunciare su ciascuno di noi. La chiamata sul monte Vediamo ora, invece, il secondo tipo di chiamata, quello che abbiamo definito chiamata sul monte. In 3,13-19, il testo si fa estremamente più denso e più ricco. Vedremo, prima di tutto, il testo stesso (3,13-15) che Marco stacca da ciò che precede e da ciò che segue, perché sia maggiormente evidenziato; vedremo poi lo sfondo su cui avviene la chiamata, il luogo dove avviene, cioè il monte, e infine le varie parole, prese una per una, cioè: [Gesù] chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui ne fece [costituì] Dodici… perché stessero con lui e per mandarli a predicare

con il potere di scacciare i demoni. Ogni parola ha un significato molto ricco in tutta la struttura di Marco. Prima di tutto, il testo è chiaramente distinto, almeno scenograficamente, da ciò che precede e da ciò che segue. Esiste, infatti, al v. 13 e al v. 20 un cambio di topografia. Nel v. 13 Gesù sale sul monte; nel v. 20 va verso una casa. Il soggetto è sempre Gesù, il quale è al centro di tutto questo quadro. Viene enucleato, quindi, un luogo distinto da tutto il resto, in cui Gesù sta per compiere qualcosa di speciale. Qual è lo sfondo ambientale nel quale avviene l’azione descritta nei vv. 13-19? Esso è descritto nei versetti precedenti, soprattutto in 3,7-12. Non è più – come nelle chiamate presso il lago – la vita quotidiana con la gente al proprio posto di lavoro, ma l’immensa moltitudine dei bisognosi; potremmo dire, il dolorante spettacolo ecclesiale del popolo che accorre a Gesù. Tutt’altra situazione rispetto alla precedente. Prima un incontro in un ambiente limitato; adesso è ormai tutta una moltitudine che ha sete e fame della Parola di Gesù, della sua persona, ed è piena di ansia, brucia dal desiderio di essere salvata da lui. Marco, di solito così conciso, sa descrivere tutto questo in maniera mirabile: “Molta gente dalla Galilea lo seguì. Dalla Giudea e da Gerusalemme e dall’Idumea, dall’oltre Giordano, dai dintorni di Tiro e Sidone, una moltitudine grande, udito quanto egli faceva, venne a lui. Per ciò egli disse ai suoi discepoli di tenergli sempre vicina una barca, a causa della folla, per non restarne schiacciato. Poiché, avendone guariti molti, tutti quelli che avevano malanni, gli si gettavano addosso per toccarlo. E gli spiriti immondi, quando lo vedevano, gli si prostravano innanzi e gli gridavano: Tu sei il Figlio di Dio! Ma egli severamente imponeva loro di non manifestare chi egli fosse” (3,7-12). È messo in rilievo il premere dell’umanità dolorante, in tutte le sue miserie, da ogni parte e non soltanto dalla Galilea e dalla Giudea, verso Gesù. È un grandioso scenario di convergenza dell’uomo verso la persona di Gesù che parla. In questo sfondo ecclesiale e che potremmo definire redentivo, Gesù sale sul monte. Che cosa significa salire su questo monte, con cui comincia l’azione che ci accingiamo a contemplare? Non è facile determinarlo. I lavori

recenti di cui ho parlato cercano di studiare il significato che può avere questo accenno. Sappiamo che nell’Antico Testamento salire significa solitudine, separarsi dal resto, speciale momento di preghiera. In questo senso Luca parla di Gesù che si separa e sale sul monte a pregare. Con Marco siamo però davanti a un quadro diverso. A leggerlo bene vediamo che non c’è, nella sua mente, un Gesù che lascia tutta questa gente con le loro miserie e se ne va in solitudine. Gesù è, invece, presso il lago, e vicino al lago ci sono – lo si vede anche oggi – delle piccole alture o colline. Egli, lentamente, va verso una di esse mentre la gente lo segue, poi, da quella posizione elevata, comincia a gridare, a chiamare per nome. Quindi, la sua è una vera scelta ecclesiale, in un certo senso. Dalla massa di persone che lo seguono, Gesù, sovrastandola, chiama misteriosamente e solennemente alcuni. Certamente questo salire sul monte dà un rilievo al gesto di Gesù, che forse può avere anche altri significati teologici; ma il più evidente è quello che abbiamo descritto. Marco ci presenta chiaramente una scena solenne in cui Gesù, senza separarsi dalla folla, e tuttavia distanziandosene in qualche maniera, quasi per provvedere meglio a essa, abbracciandola, con uno sguardo, chiama i Dodici. Egli non sceglie i suoi nella solitudine; li sceglie nel pieno della sua attività, tra la folla che cerca aiuto presso di lui. Il senso apostolico ed ecclesiale di tale scelta è quindi evidenziato dal modo stesso della descrizione. Gesù sale sul monte e “chiama (proskaléitai) quelli che voleva (éthelen) e andarono (apélthon) da lui”. Tre tempi diversi: presente, imperfetto e aoristo. Il presente: Gesù chiama. È un verbo tipico di Marco, il quale lo usa nove volte (in Giovanni non appare mai). Marco, tuttavia, lo usa generalmente come participio, mentre qui e in 6,7 è usato nella forma finita, ossia come verbo che descrive un’azione. È riservato, cioè, a descrivere l’azione di Gesù nei riguardi dei Dodici. Dal punto di vista esteriore, qual è il contenuto di tale verbo? L’azione è descritta nel modo seguente: nella folla immensa, nella quale ci sono malati, storpi, gente che urla, Gesù grida ad alta voce i dodici nomi, fa segno e questi si staccano dagli altri, venendo verso di lui. Esteriormente è uno scandire con solennità alcuni nomi. Ma dal punto di vista degli atteggiamenti, questo verbo contiene chiaramente l’idea di subordinazione. Chiama in questo modo chi ha potere su di un altro. Un caso tipico in cui il verbo è presente in Marco con questa sfumatura, lo troviamo in 15,44, dove Pilato “si meravigliò […] e chiamato il centurione…” ecc.; cioè il superiore che chiama a rapporto presso

di sé un inferiore. Probabilmente, oltre all’idea di subordinazione c’è anche l’idea di preferenza: uno speciale rapporto con Gesù, insito in questo chiamare che sceglie. La preferenza è comunque chiarissima nel versetto seguente: “Quelli che voleva lui” e qui si esprime la sovranità della chiamata. Anzi, a questo “voleva” non deve forse attribuirsi tanto l’idea di “quelli che a lui piaceva”, di “quelli che gli erano venuti in mente”, ma piuttosto l’idea del verbo ebraico “quelli che lui aveva in cuore”. Il paragone migliore lo trovo in Mt 27,43, che cita un passo dell’Antico Testamento, il Salmo 22(21),8. Lanciando delle invettive contro Gesù in croce, la folla grida: “Ha avuto fiducia in Dio! Lo salvi ora, se lo ha in cuore” (ei thélei: lo stesso verbo di 3,13, éthelen). Gesù quindi chiama quelli che vuole, che ha in cuore, che ha prediletto. L’insistenza è poi espressa di nuovo nell’autós: quelli che voleva lui. L’autós non era necessario dal punto di vista grammaticale perché la frase è ugualmente chiara, ma insistendo con il “che voleva lui” si sottolinea che non c’è nessuna qualità, nessuna bellezza o attrattiva da parte di chi è chiamato, ma è lui che li ha in cuore e li sceglie. È questo suo amore il movente delle sue azioni. Forse si può leggere un’altra sfumatura nell’imperfetto “che voleva”, “che portava in cuore” ed è l’intensità dell’affetto. La medesima sfumatura dell’imperfetto l’abbiamo in un caso del tutto opposto, al cap. 6,9: “Erodiade ce l’aveva contro Giovanni e voleva ucciderlo (éthelen)”; cioè, covava nel cuore questo desiderio da tempo, con intensità di passione. Qui, all’opposto, Gesù ha nel cuore i suoi, con amore appassionato. lui stesso quindi li chiama. Ed ecco la risposta: “Andarono presso (prós) di lui”. Marco, qui, non usa il frasario delle prime chiamate: “lo seguirono”, cioè il maestro va avanti e il discepolo, il cristiano lo segue. Non dice “andarono dietro a lui”, o “lo seguirono”, ma andarono “presso di lui”, intorno a lui. È raro questo uso di prós con il verbo di moto. Di solito si usa eis per descrivere l’andare a un luogo. Si usa prós soltanto per le persone, a indicare un’intimità che si viene a creare. Pròs autón vuol dire, di fatto, mettersi dalla parte di uno, non soltanto andare fisicamente verso, ma stare con qualcuno. Per questo Marco dice: “vennero” (apélthon). Il verbo greco venire, preceduto da apó, indica il lasciare una certa posizione per andare a un’altra. Gli apostoli lasciano la loro posizione comune, in mezzo alla gente, per mettersi strettamente dalla parte

di Gesù, insieme con lui. È interessante notare che qui Marco non ha usato un verbo indicante un atteggiamento interiore, per esempio “gli obbedirono”, ma invece usa “si mossero”, lasciarono il loro posto e vennero là dove era lui. In tutta la descrizione noteremo questo aspetto di concretezza: non si parla soltanto di un’adesione interna, ma proprio del mettersi nella situazione dove Gesù si trova. Il v. 14 comprende la frase “E fece [ne costituì] Dodici”; frase molto strana anche in greco, con l’inciso “che chiamò apostoli”, inciso non riportato da tutti i codici. Segue poi: “affinché siano con lui per mandarli a predicare e avere potere di cacciare i demoni”. Già dalla traduzione è evidente la durezza del susseguirsi e accumularsi di queste frasi, ciascuna delle quali ha un senso pregnante. “Fece Dodici”. Il significato è certamente forte perché può voler dire: “ne stabilì Dodici”. Alcuni esegeti addirittura intendono: “ne creò Dodici”; quasi che, con questi dodici, si ricreasse un popolo. Certamente non è bene premere troppo il testo, ma il verbo si presta a un significato densissimo. Qual è, infatti, la finalità del “fare Dodici”? Esso contiene due verbi in due frasi. “Affinché siano con lui”: e questo è al centro della scelta, dell’affermazione, della volontà di Gesù. Cosa vuol significare questo stare con lui? Intanto è sorprendente che lo scopo di tutta questa grande scena sia che i Dodici stiano con lui, ma proprio lì è posto l’accento di tutto il brano. Stiano con lui, prima di tutto con una presenza fisica, e quindi lo accompagnino. Notiamo che, quando durante la passione la portinaia di Caifa si rivolge a Pietro per accusarlo, non dice: “Tu eri un discepolo”, ma “Anche tu eri con Gesù” (14,67). Si vede quindi che la caratteristica di questi uomini non era tanto quella di essere della gente che aderiva intellettualmente, ma che stava fisicamente sempre con lui. Questo stare è la prima cosa alla quale Gesù chiama, e in questo essere con lui possiamo leggere forse anche di più se ricordiamo che questa è la formula tipica dell’alleanza: “Dio con noi e noi con lui”. Si realizza in questa semplice convivenza il popolo della nuova alleanza, espressa da “Dio con noi e noi con lui”. Notiamo infine che il verbo al congiuntivo (hína ósin) indica proprio la stabilità: affinché stessero stabilmente con lui. E quindi: non perché fossero suoi discepoli, perché lo accogliessero, lo accettassero, gli ubbidissero. Prima di tutto, invece, è sottolineato lo stare fisico che è esso stesso oggetto di chiamata, di scelta, di elezione.

Dall’esser con lui deriva poi l’altra frase con l’altro verbo per il quale “fece Dodici”: “per mandarli a predicare”. Notiamo che anche qui non si dice: stiano con lui e predichino, ma viene affermato che è lui che li manda a predicare. In altri termini è sempre presente, nel rapporto tra Cristo e i suoi, l’iniziativa di Gesù. San Paolo in Rm 10,15 mette quasi in rapporto tecnico, nei riguardi della predicazione, il “mandare a predicare”. È dunque Gesù che li manda a predicare, a proclamare, a gridare. Predicare che cosa? È ciò che verrà spiegato in tutto il Vangelo di Marco. Possiamo anticiparlo dicendo: predicare lui, il mistero del Regno, il Cristo. Allora si comprende perché sono con lui: stanno con lui perché devono testimoniare lui. Non sono con lui perché debbono essere istruiti e poi mandati a ripetere, ma perché lo conoscano intimamente in una comunione di vita e poi lo testimonino. Vediamo quanto il senso dell’apostolato come testimonianza personale sia fortemente sottolineato. L’altra realtà che scaturisce da questo essere con lui è l’avere potere di cacciare i demoni. Non si dice di cacciarli, ma avere il potere di farlo. Anche qui le parole sono pregnanti. Per esempio, il termine exousían, in Marco, è usato solo per Gesù e per i Dodici. Soltanto Gesù e i Dodici hanno il potere per eccellenza. In 1,22 si dice che quello del Cristo è un insegnamento nuovo con potenza. La frase “cacciare i demoni” ha per Marco una grande importanza perché indica, attraverso gli esorcismi e ciò che essi significano, la lotta che Gesù conduce contro il male; quindi, la sintesi dell’opera di Gesù, alla quale egli associa i suoi. La medesima parola ritorna in 6,7 quando Gesù manda i suoi in missione. Essa è perciò strettamente legata alla predicazione. Ciò vuol dire che, secondo tale concezione, predicazione e lotta contro il male sono strettamente unite. Non si tratta di una predicazione astratta e poi di un’azione benefica, ma di una predicazione che si attua con potenza (cfr. 1,22). Desidero concludere questa meditazione con un’ultima osservazione: cosa devono fare i Dodici in 3,14-15? Devono predicare e cacciare i demoni. Come sarà descritta la loro azione in 6,12-13? Che hanno predicato e cacciato i demoni. In sostanza: che cosa sono i discepoli? Sono Gesù stesso che prolunga la sua azione. Non sono soltanto i ripetitori di ciò che hanno udito, ma sono l’azione di Gesù che si allarga e si prolunga. Ancora una volta comprendiamo

l’importanza dell’essere con Gesù, non tanto per imitare qualche parola o coglierne qualche frase, ma per identificarsi con il suo modo di vivere, di agire, per testimoniarlo e ripeterlo alla stessa maniera. Ecco come Gesù ha preparato i suoi e come prepara tutti coloro che nella Chiesa sono chiamati a essere in permanenza con il Signore.

IV. LA CRISI DEL MINISTERO GALILAICO DI GESÙ (LE PARABOLE DEL SEME) In questa meditazione vogliamo riflettere sul cap. 4 di Marco, detto il “capitolo delle parabole”. Esso ne comprende principalmente tre: la parabola del seminatore, con la spiegazione che segue; la parabola del seme che cresce da solo; la parabola del grano di senape. Questi sembrano essere i tre elementi costituenti la più antica unità letteraria da cui si è sviluppato il cap. 4. In seguito sono state aggiunte altre due brevi parabole – quella della lucerna sotto il moggio e quella della misura – evidentemente per raggrupparle tutte insieme. Ci chiediamo: lungo l’itinerario dei Dodici con Gesù, a quale momento corrisponde l’insegnamento delle parabole? A quale problema intende venire incontro? Quale momento del cammino degli apostoli con il Signore viene a segnare? Sembra molto probabile che gli insegnamenti delle parabole del cap. 4 corrispondano a un momento di crisi del ministero di Gesù. Occorre quindi: prima di tutto, e brevemente, analizzare la crisi del ministero di Gesù; vedere poi come essa si rifletta, e continui a operare, nella crisi del catecumeno che, nella Chiesa primitiva, legge questo Vangelo; considerare come questa crisi può rispecchiarsi in noi; infine, vedere in qual modo le parabole intendono dare un insegnamento e venire incontro a tale momento di crisi, momento necessario per la formazione dei Dodici nella sequela di Gesù. Crisi del ministero galilaico di Gesù Gli esegeti sono d’accordo nel ritenere che, dopo i primi momenti di successo, c’è stato nel ministero di Gesù un momento di crescente difficoltà. Questa difficoltà è accennata in varie parti di Marco. Dapprima si tratta di una difficoltà di rapporti con i suoi compaesani, annunciata in 6,3 ss., dove

Gesù è respinto dai nazaretani che si scandalizzano di lui. Poi la cosa si allarga; non vale soltanto per Nazareth. A un certo momento Gesù è indotto a reazioni come questa: “gemendo nel suo spirito, disse: ‘Perché questa generazione chiede un segno? In verità vi dico che non le sarà dato alcun segno’. Li lasciò, salì sulla barca e partì per l’altra riva” (8,12-13). È chiaramente un momento di urto, quasi di ira del Cristo, che non viene capito. Il suo messaggio non viene accolto e Gesù addirittura se ne va, si allontana. Del resto neppure gli stessi apostoli lo capiscono a fondo e pochi versetti dopo, in un brano che abbiamo già letto, Gesù può ripetere amaramente: ma non capite, non intendete, avete il cuore indurito? Non vi ricordate quando spezzai i cinque pani per i cinquemila uomini, quante ceste piene di pezzi avete portato via? Non intendete ancora? (cfr. 8,17-21). Ciò vuol dire che Gesù non passa di trionfo in trionfo, ma piuttosto, dopo la prima grande ondata di entusiasmo – che è notata espressamente in 3,7 dove si parla di “molta folla”, di una grande massa di gente – gradualmente questo entusiasmo va calando per vari motivi. Intanto è chiaro, da diverse espressioni di Gesù, che parecchia gente che lo segue non è della qualità che Gesù vuole; è gente che va dietro per motivi esteriori e non sa vedere in fondo alle cose. Questo spiega l’insistenza di Gesù: “Chi ha orecchi per intendere ascolti” (4,9); perché è gente che non sa capire bene, è gente che vede e non intende, ascolta e non comprende e quindi non si converte e non viene perdonata. Gesù fatica a far capire il suo messaggio; la gente viene attirata all’inizio dai segni strepitosi, ma poi, quando si tratta di venire al dunque, parecchi si tirano indietro. Abbiamo così altre affermazioni, in capitoli seguenti, abbastanza negative e pessimistiche: “questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (7,6). Affermazioni più ampie, che si riferiscono a molti altri uditori, le abbiamo in 9,19: “O generazione incredula! Fino a quando sarò presso di voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?” Esse indicano che Gesù, nel suo ministero, non aveva sempre consolazioni. Oppure la dura rampogna di 8,38: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui…” Assistiamo, dunque, a partire dalla fine del cap. 3 di Marco, a un declino del prestigio personale di Gesù. Egli viene gradualmente contestato e respinto, e già anzi in 3,6 si comincia a volerlo togliere di mezzo.

L’opposizione parte dai farisei, ma poi si allarga alla gente semplice sino a diventare opposizione completa. Nella parabola dei vignaioli, 12,10, Gesù parla ormai di sé come della pietra che è respinta dai costruttori. Egli sente che la sua vita si avvia a terminare in un insuccesso, che essa viene rifiutata e respinta. Il rifiuto sarà gridato in 15,14-15, quando Pilato chiederà cosa ha fatto di male, e la gente urlerà sempre più forte: crocifiggilo! Il Vangelo di Marco, quindi, non tace per nulla che la via di Gesù, dopo un primo momento di entusiasmo e di successo, ha dovuto scontrarsi con una diffidenza crescente, con il distacco e l’allontanamento di parecchi, sempre più numerosi, sino a essere completamente respinto dalla maggioranza della sua gente. Tale esperienza i Dodici la condividono a partire dal giorno in cui, con entusiasmo, solennemente, sono stati chiamati dalla folla per seguire Gesù. Essa si ripercuote nel Vangelo: anch’essi partecipano in maniera dolorosa alla crisi del ministero di Gesù. Quando Pietro, per esempio, in 8,32 incomincia a rimproverare il Signore, mostra di soffrire veramente perché non può, non riesce a capire il senso delle cose che accadono, e lo fa presentando lui e tutti gli altri apostoli quasi dicessero: ma così non va, non ti abbiamo seguito per questo, era altra la realtà che ci promettevi o almeno che sembravi promettere. Lo stesso sgomento si ritrova in 9,32, quando Gesù parla della sua prossima passione ed essi non capiscono nulla di quel discorso e hanno paura di interrogarlo. Analogamente in 10,32, quando Gesù, precedendoli va verso Gerusalemme. Essi, “di ciò si meravigliavano e avevano paura”. Appare quindi chiaro che anche gli apostoli sono presi da un senso di sgomento e di disagio: stanno ancora con lui, ma si domandano perché le cose vanno così, cosa sta succedendo; non si aspettavano questo. La crisi del catecumeno nella Chiesa primitiva Il catecumeno che legge questo Vangelo e trova in esso descritta la via che lo attende nella sequela del Signore, come sente in sé ripercossa la crisi che si è verificata nel ministero galilaico di Gesù? Diciamo subito che anche il catecumeno, nella Chiesa primitiva, dopo aver risposto generosamente alla prima chiamata, analoga alla chiamata presso il lago, attraversa la sua crisi, crisi necessaria.

Quali sono le cause che creano la crisi del catecumeno, dopo il primo momento di entusiasmo? Possiamo immaginarlo facilmente pensando alla situazione del catecumeno che dal mondo pagano, ricco di tutta una sua tradizione, di una sua cultura, di una struttura sociale ben compaginata, entra nel piccolo gregge dei credenti in Cristo e si domanda: perché così pochi credono e si convertono? Perché questa parola di Dio – se è veramente parola di Dio – non travolge il mondo, non lo cambia in un baleno? C’è poi la domanda che si ponevano con più dolore, amarezza e sgomento gli ebrei convertiti: perché il popolo non ha accettato la Parola? Perché non c’è una conversione in massa come ci aspettavamo dalle promesse? È il problema che angosciava anche san Paolo, il quale era continuamente tentato e agitato da questo pensiero: ma perché la parola di Dio – se è parola di Dio – non cambia, non converte il cuore di tutto il popolo? E per i giudei e per i pagani insieme, altri problemi che affiorano nelle lettere di Paolo: perché un Messia crocifisso? Perché un messaggio così oscuro, così dolorante, così diverso da quello offerto dal nostro ambiente? Vediamo quindi come, nella Chiesa primitiva, il catecumeno – dopo aver acconsentito alla sequela di Gesù – passa anch’egli attraverso una prova di fede, analoga a quella per la quale è passato Gesù stesso e sono passati gli apostoli. Essa consiste fondamentalmente nel domandarsi: ma perché la parola di Dio non sconvolge immediatamente il mondo, non lo trasforma subito? La nostra crisi Ecco, allora, che in questa luce possiamo riflettere sulle prove della nostra fede, quelle per le quali devono necessariamente passare tutti coloro che presso il lago o sul monte hanno sentito la chiamata e l’hanno ascoltata. Credo che le prove attraversate dalla nostra fede siano analoghe a quelle di Gesù, dei suoi, di coloro che erano con Gesù, dei cristiani primitivi e di tutti coloro che lo seguono. Le domande che possiamo farci dal punto di vista personale sono: perché Dio non mi fa migliore? Perché dopo tanti anni di vita ascetica, di impegno, di preghiera, di meditazione, siamo sempre gli stessi, con gli stessi piccoli difetti, con le stesse piccole difficoltà, quasi fossimo agli inizi della vita spirituale? Perché la parola di Dio non ci ha trasformato?

E poi, guardandoci attorno, ci possiamo chiedere: perché il Vangelo non cambia il mondo? Perché così poco frutto dal mio apostolato? Perché il nostro messaggio non è attraente, non ha un’immediata rispondenza nella gente, in modo da essere subito capito, assimilato e messo in pratica? Perché non c’è corrispondenza immediata tra la parola pastoralmente bene annunciata e la rispondenza della gente? Perché pastoralmente non è possibile programmare in modo da vedere presto una risposta che ci permetta di fare, in crescendo, un ulteriore programma con nuove risposte sempre migliori? Altre domande ci vengono poi, in momenti particolari della vita, nei momenti drammatici: perché la sofferenza? Perché questa morte, lo stroncamento di un apostolato che produceva tanto frutto? Perché Dio sembra non aver bisogno di persone all’acme dell’attività e del rendimento? Tutte situazioni nelle quali possiamo ripetere: perché il Regno di Dio va così, perché non c’è un’immediata rispondenza tra potenza della Parola e sua attuazione? Ecco alcune ripercussioni di questa perenne purificazione della fede che si attua nei Dodici, nella Chiesa primitiva e in ciascuno di noi. La risposta in parabole Vediamo ora, come quarto punto della nostra riflessione, in che modo il capitolo delle parabole risponde a questa situazione di crisi. Le tre parabole, che hanno come protagonista comune il seme, ci danno, ciascuna con un messaggio diverso, la risposta alla domanda fondamentale: perché la parola di Dio non fa frutto subito e non trasforma il mondo, non trasforma gli altri, me stesso ecc. La prima parabola, quella del seminatore, è portatrice, in sostanza, di questo insegnamento: la parola di Dio non fa frutto automaticamente. La parola di Dio di per sé è buona e, se presentata bene, farebbe frutto, ma esso non dipende solo dalla parola, dipende anche dalle diverse situazioni del terreno, dalle diverse risposte. Questo è un punto essenziale del mistero del Regno di Dio, il quale non è un mistero da interpretare secondo categorie di efficienza. Si pongono cioè in opera un certo numero di mezzi e si ottengono adeguati risultati. Esso è un mistero di dialogo in cui viene fatta una proposta che può essere accettata o trascurata e appena considerata o respinta. È un mistero che gli apostoli sono chiamati a vivere stando con il Signore. Verificare, giorno per giorno, che il Regno di Dio va avanti attraverso questa

umile proposta, la quale, proprio perché è proposta, ha in sé insito tutto il rischio della negligenza, trascuranza, non accettazione, opposizione. E gli apostoli devono vivere con Gesù questo mistero dell’umiltà del seme del Regno, il quale, pur essendo parola di Dio – e quindi la cosa più perfetta, più santa e più strapotente che esista –, si adatta a essere accolta dalle pietre, dalle spine, dal terreno sbagliato e accetta tali situazioni nelle quali non può fare frutto. Potremmo forse domandarci, con la Chiesa primitiva, nella spiegazione più ampia della parabola del seminatore, quali sono le situazioni che impediscono di fare frutto. La parabola ne elenca tre: il seme che viene mangiato dagli uccelli, quello che cade tra le pietre e non ha radici, quello che cade tra le spine e che viene soffocato. Vengono notate le tre grandi difficoltà nelle quali incorre continuamente la predicazione evangelica che, pur essendo santa, buona e presentata pastoralmente bene, spesso non fa frutto. La prima difficoltà – il seme divorato dagli uccelli – viene spiegata con la menzione di Satana: “Subito Satana viene e toglie la parola seminata in loro”. Cosa significa questa venuta di Satana? Se noi ci riferiamo alla figura di Satana, in altri passi di Marco, per esempio quando Pietro in 8,33 viene rimproverato da Gesù, vediamo che Satana porta nel cuore l’incomprensione delle vie di Dio. L’incapacità a comprendere la via della croce e, quindi, il desiderio del crescente successo. Il catecumeno, che accetta il cristianesimo come un modo di essere di più, di valere di più, di avere più prestigio, più autorità è come il seme mangiato dagli uccelli. Dovrà accorgersi che la via non è quella, che ha sbagliato strada, e tornare indietro. La seconda difficoltà – il seme senza radici – descrive la situazione nella quale la parola è stata accettata solo esteriormente. È stata accolta per un certo gusto estetico della parola stessa, per una certa forma di snobismo, forse: la parola piace, ha il suo momento di moda! Ma in realtà, non è stata accolta con quella profondità di adesione a Cristo, con quell’amore personale per lui che soltanto permette di conservarla, senza scandalizzarsi di lui. Questo radicarsi in Cristo (di cui parla san Paolo in Col 2,7) potrebbe essere il modo con cui la Chiesa primitiva spiegava le sue radici: bisogna essere profondamente radicati in lui e nell’amore di lui per poter fare della ricerca di lui non la moda del momento, ma un qualcosa di permanente e di profondo, che non tema lo scandalo. La terza difficoltà – il seme soffocato – è di moltissimi. Le preoccupazioni della vita presente, l’attrazione esercitata dall’avere, dal

potere, dal possedere. Per moltissimi la preoccupazione del guadagnare è ostacolo alla parola stessa. Tali preoccupazioni della vita presente hanno, d’altronde, un’applicazione molto vasta, se pensiamo che nel rimprovero fatto a Marta, che pure si stava occupando del pasto di Gesù, ritorna la stessa parola: “Marta, ti preoccupi di troppe cose” (Lc 10,41). Il giudizio, quindi, sull’influsso negativo delle preoccupazioni eccessive – se vogliamo dare veramente senso e valore alle parole usate da Gesù – è molto severo. In conclusione, la parola non fa frutto automaticamente ma umilmente e, pur essendo divina, si adatta alle condizioni del terreno, o meglio, accetta le risposte che il terreno dà e che spesso sono negative. Così Gesù spiega agli apostoli perché lui predica e la sua parola non è efficace. Non è, in realtà, inefficace la sua parola, ma è l’accoglienza che manca. Questa parabola vuole essere la giustificazione di Gesù di fronte ai suoi, che vorrebbero un suo maggiore, quasi automatico, successo. La seconda parabola, il seme che cresce da solo, è, come spesso avviene nel Vangelo, in certo modo il rovescio della precedente. La prima ci ha detto che la parola non fa frutto da sola; qui, al contrario, si afferma: “spontaneamente” da sola (4,28). Vuole dire agli apostoli, che temono perché la parola è respinta, che la parola fa frutto a suo tempo. Bisogna avere fiducia, perché la parola seminata va avanti da sola. Buttatela quindi con coraggio, non tenetevi indietro dicendo che il terreno non va e bisogna aspettare condizioni migliori, non crediate di essere voi i padroni della parola. Voi spargetela e poi andate pure a dormire; non pensateci più, ed essa da sola porterà frutto. Mentre la prima parola esprime un insegnamento di realismo, questa ci presenta un insegnamento di fiducia assoluta che la parola, da sola, fruttificherà. Basta seminarla con coraggio, con pazienza e con perseveranza. La terza parabola, quella del granello di senapa, è anch’essa adattata a questa situazione. Gli apostoli che sono attorno a Gesù vedono, a un certo punto, che il loro gruppo rimane un piccolo gruppo, non si sviluppa, molta gente non prende seriamente il maestro. Ed egli risponde ai loro muti interrogativi con la parola del grano di senapa, del piccolo seme. Non abbiate paura – dice – il Regno di Dio comincia con poco. Non vogliate pretendere chissà quali risultati, lasciate che le cose si sviluppino gradualmente: da piccoli semi, da invisibili inizi,

nascerà il grande successo del Regno di Dio. Gesù chiede, in sostanza, agli apostoli una cambiale in bianco; chiede fiducia assoluta in lui: venitemi dietro! Voi vedete che le cose non vanno bene, vi immaginavate di avere un maestro trascinatore di folle, vedete invece che non lo sono. Questo non dipende da me, dipende dal fatto che il Regno ha la struttura di proposta di una persona a un’altra persona; però il Regno di Dio è potenza di Dio e quindi si sviluppa certamente. Dal poco, Dio produrrà il molto; dal pochissimo, si svilupperanno cose immense. Gesù educa i suoi – e la Chiesa primitiva ripete questo insegnamento ai catecumeni – a chiudere gli occhi su ciò che sembra realtà perché si vede; e ad aprirli su ciò che è: cioè, sulla realtà misteriosa del Regno di Dio che sta fruttificando silenziosamente, mentre noi non ce ne accorgiamo, e darà frutto a suo tempo.

V. GESÙ IN AZIONE Vogliamo portare la nostra riflessione su un episodio della vita di Gesù raccontato al cap. 9,14-29. Esso ci mostra un suo tipico modo di agire, in un momento difficile. Vogliamo cioè vedere in questa meditazione come Gesù parla, come agisce, come si muove, come si comporta, in una parola Gesù in azione. È un episodio lungo, circostanziato, che si riferisce a un momento storico della vita del Signore. Perché veniva tramandato nelle comunità primitive con tanta dovizia di particolari? Possiamo azzardare un’ipotesi: perché nella comunità primitiva si praticavano molti esorcismi, alcuni dei quali fallivano. L’episodio del fanciullo indemoniato vuole, allora, venire incontro all’insuccesso, in modo da poter superare lo scandalo degli esorcismi mancati. Esso si propone di far vedere che l’esorcista non deve essere troppo sicuro di sé, perché anche gli apostoli non sono riusciti; l’esorcista non deve gloriarsi del suo potere perché anche lui è soggetto a mancare, se non possiede le condizioni qui segnalate. Probabilmente, però, è presente anche qualche elemento che fa pensare a un riflesso di catechesi battesimale; pare, cioè, che Marco aiuti il catechista a indicare alcuni aspetti del battesimo. Possiamo dividere l’episodio in sei parti. La scena (9,14-16) è costruita accuratamente. Attraverso una serie di

immagini visive si suscita l’interesse del lettore. Gesù, dopo la Trasfigurazione, scende dal monte con i tre apostoli, raggiunge gli altri, vede una gran folla, gli scribi che discutono, la gente che alterca e che, al vederlo, corre a salutarlo. Questa confusione indica l’esistenza di un grave problema che interessa tutti. E Gesù interroga gli apostoli: “Di che cosa discutete con loro?” Il caso (9,17-18) viene presentato attraverso la parola del padre del ragazzo: “Maestro, ti ho condotto il mio figliolo che ha uno spirito muto e, dove l’afferra, lo abbatte; egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho domandato ai tuoi discepoli di cacciarlo, ma non ci sono riusciti”. La scena si concretizza, così, in un caso difficile. Difficile per la tragicità, per il ribrezzo, per il disagio che desta, e ancor più difficile perché gli apostoli non sono riusciti a cacciare il demonio. Comincia, in tal modo, tutta una discussione sull’inanità della predicazione apostolica. Il caso è molto serio se si pensa, inoltre, che Gesù ha scelto i Dodici per essere con lui, mandarli a predicare e avere potere di cacciare i demoni. Essi falliscono quindi nella loro missione essenziale. La loro situazione è drammatica. La reazione di Gesù (9,19-20) presenta due aspetti. Il primo (v. 19) si configura come uno scatto di ira violenta. Essa è veramente grave, perché sembra dire: “non ne posso più di stare con voi”. Sembra quasi messo in questione il permanere di Gesù fra gli uomini, nel mondo. Se non di tutti, si può dire che Gesù si lamenta almeno del pubblico che lo circonda: “Non siete degni della mia opera”. Qual è la causa di questo grido di sdegno, così offensivo per le persone alle quali è diretto? È l’incredulità, la mancanza di fede. La stessa constatazione di ira, stupore e rimprovero l’abbiamo in 6,6 e in 6,14. Gesù, per tutta la vita, deve affrontare una simile situazione di incredulità. L’uomo che non ha fiducia in lui, che non si abbandona a lui e non crede al suo amore. La colpa fondamentale – e la ritroviamo anche negli altri rimproveri di Gesù in Marco – è sempre l’incapacità ad abbandonarsi al suo mistero, quella rigidità che non permette di varcare il confine della fede, della fiducia nel Signore. Il secondo aspetto della reazione (v. 20) sembra diametralmente opposto: la calma, il sangue freddo di Gesù. Dalle parole: “Conducetelo a me. E glielo condussero e veduto che ebbe Gesù, lo spirito subito lo fece dare in convulsioni, ed egli cadde a terra, rotolandosi e spumando”, possiamo intuire

che Gesù non si scompone, ma domina con distacco la situazione. È importante questo prendere le distanze compiuto dal Cristo! Per lui non è un atteggiamento passeggero, ma descrive un abituale stato d’animo. Di fronte alla crisi degli apostoli e del malato, innanzitutto Gesù osserva con tranquillità la situazione. Viene in mente quello che Paolo dice in 1Cor 7, quando descrive gli atteggiamenti del distacco cristiano, nelle situazioni difficili. Alla lista di Paolo potremmo aggiungere: “Chi governa, come se non governasse; chi opera pastoralmente, come se non lo facesse”, cioè non dobbiamo essere travolti dalla situazione. Dobbiamo imparare a guardarla, a osservarla con distacco. Come la osserva Gesù? La osserva con Gestalt. Questa parola tedesca, intraducibile, significa: tenere conto di tutto il complesso di una situazione, inserendo ogni elemento – col suo giusto rilievo – nell’insieme. Di qui nasce la constatazione che, di solito, le forme di degradazione psicologica non nascono dal fatto che non si veda bene l’oggetto, ma dal non saperlo inquadrare nella situazione con il dovuto distacco. Vediamo Gesù che, appunto, applica uno sguardo di Gestalt, di rapporto immagine-sfondo, a tutto ciò che avviene. Egli vede il malato, ma vede anche il padre, vede gli apostoli, vede la folla e colloca tutto nel quadro della sua missione. Così lo sguardo di Gesù domina ciò che accade. Non è travolto dal fatto particolare del ragazzo che gli si rotola innanzi, ma tiene conto di tutta la situazione. Come avviene, concretamente, nella psicologia umana di Gesù, questo distaccarsi dal particolare e la sua capacità di considerarlo nel quadro di insieme? Facciamo attenzione a una nota finemente psicologica riportata da Marco. Gesù non si occupa del ragazzo, ma del padre; egli passa mentalmente a un altro aspetto della situazione. Cosa succede quando noi ci fermiamo a considerare soltanto un aspetto delle cose? Che questo aspetto ingigantisce e ci ipnotizza. La situazione di distacco si ha quando da un particolare si passa a un suo contrario, o presente o possibile, e quindi si comincia ad allargare il quadro della realtà considerata. In realtà cosa fa Gesù? Vede il ragazzo che grida, schiuma, si divincola, ma riflette che il vero malato è il padre. Capisce quindi che la via da prendere è un’altra. Attraverso una riflessione attenta e distaccata trova il vero punto d’appoggio che è nuovo, diverso, e a cui nessuno aveva pensato. Gli apostoli si erano messi a gridare, a fare preghiere sul ragazzo, ma avevano cominciato dalla parte sbagliata; erano stati incapaci di vedere una nuova apertura nella

situazione. Gesù incomincia, quindi, il colloquio con il padre (9, 21-24), un esempio di pastorale dialogica. “Da quanto tempo ciò accade?” La domanda è molto semplice, quasi banale, ma è fatta con un tono cordiale che manifesta la partecipazione e che quindi scioglie il cuore del padre. Egli è appunto il grande protagonista della situazione, da tutti ignorato. E vediamo come il cuore del padre si scioglie. Da una risposta quasi monosillabica: “Dall’infanzia”, passa, sentendosi capito, a dire altre cose. Incomincia a descrivere i sintomi del male del figlio, e poi dal suo cuore viene finalmente fuori ciò che è il nocciolo del problema: “Ma se tu puoi aiutaci, mosso a pietà di noi!” Siamo così giunti al momento in cui dal semplice rapporto con un ragazzo da guarire si è giunti a un cuore che chiede, che si volge con umiltà al Signore per invocare aiuto. Gesù continua il colloquio e corregge, amabilmente, le parole troppo timide del padre, rimandando il gioco a lui: “Hai detto, se posso; ma tutto è possibile a chi crede!” In altri termini: stai chiedendo qualcosa che devi cominciare a fare tu stesso. Allora il padre comprende e grida: “Credo, aiuta la mia fede!” Siamo arrivati al centro, al nodo, al punto veramente difficile della situazione. Gesù, trascurando i dati esteriori della realtà, con gradualità e dolcezza, ha trovato il bandolo della matassa; comincia, cioè, a guarire l’incredulità di quest’uomo. Il grido del padre è molto bello nella sua semplicità. Dice: “Credo, aiuta la mia poca fede”. Mostra l’apertura, il desiderio di essere aiutato, è un umile atto di fede, e insieme un riconoscimento di essere ancora molto indietro, di avere bisogno di qualcosa d’altro. Esso è il monito che nella comunità viene ripetuto agli esorcisti imprudenti e spavaldi: “Attenzione! Ci vuole molta fede per operare tali grandi cose; non crediate di essere onnipotenti, ma riconoscete a fondo la vostra debolezza e chiedete aiuto”. Se l’episodio – nella catechesi della Chiesa primitiva – ha un riflesso primario verso gli esorcisti, ne ha anche uno nei riguardi della catechesi catecumenale. Il catecumeno, infatti, di fronte alle esigenze troppo grandi di Gesù, al mistero del Regno che comincia a vedere in tutta la sua povertà, la sua durezza, la sua arida quotidianità, è tentato di non farcela più, di bloccarsi. Con questo episodio è invitato, invece, a non spaventarsi della sua

paura, ma a manifestarla umilmente al Signore; è invitato a trarre vantaggio anche da questa sua sofferta povertà e debolezza, per farne oggetto di umile preghiera. L’esorcismo (9,25-27) è un esempio tipico nel suo genere. C’è la menzione dello spirito, la menzione di chi fa l’esorcismo, la menzione del suo potere di comando e la menzione di ciò che si chiede con autorità. Segue il parossismo delle manifestazioni del male nel ragazzo stesso, poi il suo cadere come morto e, infine, la scena di Gesù che lo rialza guarito. In tutto l’episodio, oltre al tema dell’esorcismo propriamente detto, ci sono, forse, anche elementi che davano appigli a una primitiva catechesi battesimale. Non soltanto nel senso che il battesimo libera l’uomo dal potere di un male che lo rende chiuso agli altri, ma in un senso ancora più specifico. Al v. 26, infatti, si insiste due volte sul tema della morte: “E il fanciullo diventò come morto, sicché molti dicevano che era morto”; e subito dopo, al v. 27, vengono usati due classici verbi della risurrezione: “Gesù lo prende con la sua mano, lo rialza e lo fa risorgere”. È certo che, con l’impiego di questi quattro verbi, due di morte e due di risurrezione (il Cristo morto per i nostri peccati, il Cristo risorto per la nostra giustificazione), la catechesi primitiva spiegava il battesimo come un morire con Cristo, e un risorgere con lui e per virtù di lui. La conclusione (9,28-29): “Entrato poi in casa, i discepoli gli chiedono: perché noi non siamo riusciti a cacciarlo? Risponde Gesù: questa specie di demoni in nessun modo si può cacciare se non con la preghiera”. Questo insegnamento di Gesù aveva un riflesso molteplice nella catechesi primitiva. A livello dell’esorcista era, appunto, l’invito a non presumere di sé, ma a pregare, a riconoscere che il potere è di Dio e non proprio. A livello del catecumeno, il quale si trovava di fronte a difficoltà apparentemente insopportabili nella sua sequela del Signore, è la via della croce, era l’invito a pensare che solo attraverso la preghiera, l’affidarsi totalmente a lui, il chiedere umilmente a lui, avrebbe potuto superare le proprie difficoltà. L’episodio del ragazzo indemoniato, quindi, da una parte è qualcosa che riguarda Gesù stesso, presentato in un momento forte della sua vita, mentre agisce con distacco, con semplicità e profondità nello scoprire le cause del male; dall’altra parte è un insegnamento per la Chiesa primitiva e per il catecumeno che si è dato alla sequela di Gesù e che viene così a comprendere

come è possibile seguirlo con fiducia. Gesù stesso ci invita a pregarlo per ottenere la forza di fare tutte le cose difficili, per vincere tutte le difficoltà apparentemente insormontabili che ci sono richieste, e ci dice che egli è venuto proprio per aiutarci a superarle.

VI. IL MISTERO DEL FIGLIO DELL’UOMO Questa meditazione, alla quale diamo come titolo “Il mistero del Figlio dell’Uomo”, comprende i brani che Marco ci presenta tra il cap. 8 e il cap. 10. Entriamo nel più profondo del mistero del Regno di Dio. Di conseguenza, ancora di più, la comprensione di quanto ora andiamo leggendo deve avvenire più nella preghiera che non nella considerazione teorica di quello che si ascolta. In qualche maniera, ciò che ora dobbiamo capire più profondamente è quello che san Paolo desidera comprendere quando, nella lettera ai Filippesi, dice: “Conoscere lui e la potenza della sua risurrezione, ed essere messo a parte dei suoi patimenti” (Fil 3,10). Il seme, la Parola è Gesù Già nella meditazione delle parti precedenti il cap. 8 si può comprendere come la sorte del seme calpestato e soffocato che, in ultima analisi, riguarda una persona, è Gesù stesso. Il seme è la parola di cui si diceva al cap. 4, la parola evangelica, e la parola evangelica è lo stesso Gesù. Il mistero del Regno presentato oscuramente nelle parabole come mistero di nascondimento, mistero di crescita nell’oscurità, di crescita faticosa e contrastata, si rivela più chiaramente, nella seconda parte di Marco, come il mistero del Figlio dell’Uomo. Il catecumeno che ha detto di sì a Gesù Figlio di Dio, quando si è sentito chiamare presso il lago esperimenta, nella prova di fede alla quale viene condotto attraverso la sequela di Cristo, che egli è introdotto in una situazione inattesa e nuova; situazione nella quale valgono le leggi dell’incontro personale, dell’umiltà, dell’attesa, della pazienza. Questa è la scuola che Gesù fa nei primi otto capitoli di Marco. Lo stare con lui porta i discepoli a comprendere gradualmente che la vita che hanno abbracciato non è un’esistenza in cui valgono le leggi dell’efficienza, del successo, del potere, ma piuttosto le leggi del nascondimento, dell’incontro

personale, della piccolezza. Dopo il cap. 8, questa velata conoscenza del mistero, che avviene soltanto attraverso accenni, si chiarifica. Incomincia così la seconda parte del Vangelo di Marco. Per comprendere bene ciò, occorre premettere che Marco si divide chiaramente in due parti quasi uguali, che si differenziano tra loro per molti aspetti. Per esempio, ci sono vocaboli che ricorrono di frequente nella prima parte, e non ricorrono più nella seconda e viceversa. Vocaboli caratteristici della prima parte sono verbi come: comprendere, incapacità a comprendere, capire, vedere, avere il cuore accecato, indurito; ascoltare, conoscere, nascondere, rivelare; verbi che indicano come Gesù chiede la comprensione del Regno attraverso la fiducia nella sua parola. Si lamenta che gli uomini hanno il cuore chiuso, che i discepoli non comprendono. Gesù vuole suscitare l’attenzione, in maniera che la mente sia tesa verso ciò che egli sta per manifestare. Impegnarsi per il Regno A un certo punto, però, la richiesta di Gesù cambia: l’insistenza non è più tanto sul comprendere, sull’aprire gli occhi, sul capire, ma sul fare qualcosa per il Regno, sul dare se stessi, dare la propria vita, pagare di persona. Ecco allora le tipiche frasi della seconda parte, come: solo chi perde la propria vita la salverà; occorre lasciare casa, fratelli, parenti, figli per il Vangelo; anche la mano, il piede, l’occhio vanno sacrificati per il Regno. Nella prima parte si tratta di comprendere il Regno, nella seconda parte si tratta di entrare nel Regno. Qual è l’evento che segna il passaggio dall’attenzione al Regno all’entrare nel Regno? L’evento che conduce dalla prima alla seconda fase della predicazione di Gesù? È l’episodio della confessione messianica di Pietro a Cesarea. Esso è il punto centrale a partire dal quale troviamo un mutamento nei temi della predicazione di Gesù. Ed è nella seconda parte che egli si dà, in particolare, a una formazione più accurata del gruppo dei Dodici. Nella prima parte essi lo seguono, vedono ciò che fa; nella seconda parte egli si rivolge a loro con maggior frequenza e intimità. Perché la confessione di Pietro ha una parte centrale? Perché da questo momento comincia il Regno sulla terra. Il fatto che Gesù da questo piccolissimo gruppo, piccolo come un granello di senapa rispetto al mondo di

allora – da Pietro, cioè, e dai Dodici insieme con lui – venga riconosciuto nella sua vera identità, segna l’inizio del Regno, di quel Regno che Gesù viene a portare sulla terra. Questo fatto cambia tutto il contenuto della predicazione di Gesù. Egli comincia a parlare non più per enigmi, ma chiaramente. Predizioni della passione Vediamo allora alcuni elementi della seconda parte del Vangelo di Marco; in particolare, le predizioni della passione. La prima predizione segue immediatamente la confessione di Pietro e le altre due si succedono a intervalli di un capitolo ciascuna; cioè, a intervalli regolari. Questa successione ritmica, in Marco, è evidentemente intenzionale. Perché, innanzitutto, tre predizioni? Perché ciò che è essenziale occorre sia ripetuto: tre volte. Si tratta allora di un insegnamento estremamente importante. Proprio per questo appare collocato subito, all’inizio della seconda parte. Prima predizione della passione: 8, 31-37. “Gesù cominciò ad insegnare…”: evidentemente è un nuovo inizio, un suo nuovo modo di parlare, un nuovo momento della formazione dei Dodici. Cosa insegna Gesù? “Che il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere respinto dagli anziani, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente.” Gesù insegna, dunque, una cosa che non era mai stata menzionata prima e che penetra veramente, fino in fondo, il suo mistero. Insegna che “deve” [soffrire], che tutto ciò appartiene al piano di salvezza, che si tratta, appunto, del disegno di Dio per la redenzione dell’umanità. Vediamo questa affermazione nel dettaglio. “Il Figlio dell’Uomo”: è designazione misteriosa che, nella tradizione apocalittica, esprime una connotazione gloriosa del Messia, ma che qui viene, invece, utilizzata in un contesto di estrema umiltà e di totale umiliazione. “Soffrire molto ed essere respinto”: essere respinto dai presbiteri, dai sommi sacerdoti, dagli scribi; cioè, dalla gente di cultura, dalle categorie sociali che allora contavano. “Essere ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. E lo diceva apertamente”: questo ci fa capire, appunto, che finora Gesù non ha parlato apertamente. Egli

ha attratto i suoi – in particolare i Dodici – con il fascino proveniente dalla sua persona, dal suo potere miracoloso, dalla sua bontà, li ha riempiti di fiducia verso di lui. Adesso che sono un piccolo gruppo, ormai ben compatto, può parlare loro con chiarezza. E le parole chiare sono estremamente dure, perché si parla di morire: essere respinto e ucciso. Appare, è vero, in prospettiva anche la risurrezione, ma in una forma tanto misteriosa che i discepoli non capiscono ancora. Il mistero perciò è presente nella sua interezza e crea immediatamente nei Dodici un senso di sgomento e di smarrimento che si esprime, subito dopo, nell’intervento di Pietro (vv. 32b-33). Esso manifesta la reazione dell’uomo comune, di ciascuno di noi: questo non deve essere, questo non va, non ha senso. Esprime la nostra incapacità a capire il mistero di Dio così come ci si manifesta nella sua realtà e verità, in Gesù Cristo. Quando – da una conoscenza esteriore del mistero di Dio in Cristo – passiamo alla sua vera comprensione, cioè al mistero del Cristo respinto e morto per noi, la nostra prima reazione potrebbe essere bene espressa dalle parole di Pietro: “Ma come mai, perché? Questo non va assolutamente…” Probabilmente i Dodici capiscono bene che, se questo succede al maestro, a loro è destinato qualcosa di analogo e la loro sorte, per l’avvenire, non sarà certamente rosea. Tutto il loro orizzonte si annebbia e si oscura. E Gesù allora dice a Pietro che egli non capisce niente del piano di Dio. In Pietro, i Dodici vengono messi a confronto col piano di Dio così com’è, e sono messi di fronte alla dura realtà del progetto del Signore, realtà misteriosissima, inaccettabile dal punto di vista della comune logica umana. Ma essi, ormai, per l’affetto che hanno verso Gesù, per il fatto che stanno con lui, non la possono più respingere. Hanno reazioni interiori contrastanti, è vero, ma sono totalmente presi dalla persona del Signore ed egli sa bene di poter parlare loro apertamente. Tuttavia la parola stessa rimane durissima. Nei vv. 34-37 c’è, poi, ciò che riguarda i discepoli. Gesù ha parlato di sé, ha parlato del proprio destino in maniera chiara, suscita la meraviglia, lo sgomento e lo smarrimento degli apostoli. Ora, gradualmente, incomincia a tradurre la propria via, il proprio mistero di Figlio dell’uomo, in relazione alla vita di quelli che lo seguono. Avviene proprio ciò che gli apostoli, forse inconsciamente, temevano: la via di Gesù è la via di coloro che sono i suoi. Abbiamo così la sua parola: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso” (v. 34). Se ricordiamo l’errore di Pietro che, invece,

rinnega Gesù dicendo di non conoscerlo, possiamo affermare che la parola “rinneghi se stesso” vuole appunto dire: non mi conosco, non tengo più conto della mia vita, non mi prendo in considerazione. Così dirà Paolo, riassumendo la sua vita nel discorso agli anziani di Efeso, riportato in At 20,18-24. E Gesù continua: “prenda la sua croce”, cioè tutti i disagi che comporta la sequela del Cristo, e: “mi segua”. Tutta la forza della frase è riposta nel verbo “mi segua”: tutte le altre cose dette prima e dopo, sono i preliminari necessari per poter essere con Gesù, per poter continuare a essere con lui. Potremmo allargare la nostra considerazione a tutto ciò che nei capitoli seguenti, specialmente al cap. 10, viene specificato intorno a questa sequela di Gesù. Qui abbiamo soltanto la prima delle indicazioni di quello che comporta il mistero del Regno. Nei capitoli successivi viene specificata la stessa esigenza in vari modi. Ho raccolto alcuni brani sotto il titolo “Gesù e i suoi” per mostrare che praticamente il suo insegnamento al piccolo gruppo dei Dodici si può riassumere nel modo seguente: chi ha accettato la chiamata personale a seguirmi, a essere con me, deve accettarmi così come sono. E come viene descritta l’identità e l’agire di Gesù? Egli spiega che, come e dove lui è, anche gli altri devono essere. Afferma, per esempio: io non sono venuto per essere servito, ma per servire; così chi di voi vuole essere come me, sia servo di tutti (cfr. 10,43-45). Io ho lasciato ogni cosa: il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo, così posso chiedere a voi di lasciare padre, madre, campi, figli… (cfr. 10,29). Io sono venuto a voi come uno che non possiede nulla, così posso chiedere a voi che si lascino le ricchezze con le quali il Regno dei cieli non va d’accordo (cfr. 10,21). Io bevo per primo il calice della passione, così posso chiedere che voi beviate il mio calice (cfr. 10,38). Io accetto la contraddizione, l’essere respinto dalla maggioranza del mio popolo e così posso chiedere che anche voi accettiate la contraddizione, la contestazione, da qualunque parte venga, perché il Figlio dell’Uomo è stato respinto per primo (cfr. 13,13). In altre parole Gesù, nei testi citati, chiede di scegliere coraggiosamente una vita simile alla sua. Di sceglierlo nel cuore, perché l’avere questa o quella situazione esterna non dipende da noi. Dipende da noi, invece, scegliere nel profondo del cuore una vita quanto più possibile vicina al suo modo di vivere fra gli uomini. Non dipenderà da noi scegliere sempre il servizio più umile, la posizione

meno appariscente, la condizione esteriore più modesta, ma dipenderà da noi l’avere, nel cuore, questo desiderio di essere, in quanto è possibile, dove lui è. E quindi, tra posizioni di maggiore o minore prestigio e potenza, preferire le seconde; tra condizioni di maggiore o minore ricchezza, preferire queste ultime; tra posizioni di servizio comode o disagiate, preferire quelle disagiate. Ecco come avviene, in questa seconda parte di Marco, l’avviamento alle scelte evangeliche. Gesù si mette davanti, presenta se stesso e invita ciascuno a essere là dove lui si trova, almeno col cuore, almeno con il desiderio, perché questa è la maniera di capire profondamente il senso del Vangelo. Questa è una scelta estremamente importante perché, al di là di tutte le teologie, di tutte le teorie, investe la capacità di capire il Vangelo dall’interno [98, 146, 167]6. Quando non si è fatta la scelta fondamentale dell’essere là dove Gesù è, non soltanto nella sua attività esteriore descritta nella prima parte di Marco, ma lungo l’itinerario che porta alla croce, descritto nella seconda, non sarà possibile inquadrare le altre verità evangeliche, dare loro il posto giusto, avere la Gestalt di cui abbiamo parlato; cioè, quel rapporto tra le singole cose e il loro sfondo, che mette ogni cosa al suo posto. Ogni vera ripresa, ogni vero approfondimento dello spirito, ogni capacità di comprendere le situazioni nelle quali ci troviamo – la nostra situazione nel mondo, la situazione presente della Chiesa – parte da questa rinnovata adesione alla via di Gesù, così come ci è presentata nella seconda parte di Marco. È il segreto evangelico che ci dà il modo di capire il nostro posto, il posto della Chiesa nel mondo; e il cuore delle richieste di Gesù. Seconda predizione della passione: 9,31-32. Essa è molto breve: “Ammaestrava i suoi discepoli e diceva loro: ‘Il Figlio dell’Uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma […] dopo tre giorni risorgerà’. Essi però non comprendevano tali parole e avevano paura di interrogarlo”. Abbiamo Gesù che, sempre più vicino al gruppo dei suoi, li forma all’unico punto essenziale e presenta il mistero centrale del Vangelo, cioè lui, la sua morte e risurrezione. Marco, tuttavia, ci fa notare come questo mistero sia difficile e vada ripensato continuamente nelle nuove situazioni, nelle nuove esigenze della nostra vita spirituale, e col crescere di questa. Quella di Gesù è una proposta che è assolutamente incomprensibile, che non ha paragone con nessun’altra

proposta umana. Nessuna proposta umana oserebbe parlare di morte e risurrezione: siamo qui nel cuore della piena e pura fede richiesta al discepolo, la qual fede è l’unica via per arrivare a una vera conoscenza di ciò che significa la vita evangelica. Terza predizione della passione: 10,32-34. Essa è più ampia delle precedenti: “Mentre erano in strada verso Gerusalemme, egli li precedeva e di ciò si meravigliavano, mentre quelli che venivano dietro erano presi da timore”. Marco sembra voglia farci coraggio dicendo che gli apostoli ce ne hanno messo di tempo a capire. Gesù era amato da loro, stava in mezzo a loro, anzi andava avanti a loro, e essi non potevano non seguirlo; sentivano un’attrazione intensa per lui, però quanto a capire veramente il cuore del mistero c’era ancora una lunga strada da fare. E il cammino era estremamente faticoso. “E tratti a sé i Dodici prese a dire loro: noi andiamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà dato in mano dei grandi sacerdoti e degli scribi e lo condanneranno a morte, lo daranno in mano ai gentili, lo scherniranno e gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo faranno morire, ma dopo tre giorni risorgerà”. È di nuovo presente il mistero, con una notevole insistenza sui momenti in cui Gesù viene respinto e disprezzato. La predizione diventa quindi una nuova richiesta agli apostoli di affidarsi a lui e di accettare tutto il mistero nella sua globalità, perché non c’è risurrezione senza il passaggio attraverso la sofferenza. Che cosa poteva concludere il catecumeno che veniva educato gradualmente, attraverso questa lettura, a capire il mistero centrale del Regno di Dio? Credo che il catecumeno viene implicitamente invitato – e ciò vale anche per noi – a adorare, prima di tutto, nella preghiera, il mistero del disegno divino, riconoscendo che esso è estremamente difficile da comprendere. Che tutte le volte che ci imbattiamo in esso, non soltanto nella fantasia, ma nella realtà, proviamo un’istintiva incapacità a adattarci, ma è appunto nella preghiera che dobbiamo insistere, chiedendo di accettare il Cristo così come egli è. In secondo luogo, il catecumeno viene stimolato, insieme con noi, a ringraziare il Signore, perché si è manifestato con tanta chiarezza, e senza alcun desiderio di illuderci. In prospettiva, quindi, chiedergli di poter rendere

grazie quando egli si manifesta in noi con la stessa realtà di morte e di risurrezione, perché allora siamo al centro del Vangelo. Perché tutte le situazioni, che a prima vista ci appaiono incomprensibili e inaccettabili – nelle quali sale in noi il grido: qualunque altra cosa, ma non questa – sono in realtà situazioni che ci pongono al centro della manifestazione del mistero di Dio. Viene infine chiesto al catecumeno – e a noi – di insistere nella preghiera per chiedere che Gesù ci tenga con sé e ci porti con sé fino in fondo, convinti che questa accettazione è la chiave per la comprensione di tutti gli spiriti; in Gesù, cioè, è possibile fare la discrezione, l’analisi delle diverse mentalità che operano in noi e nella Chiesa, perché a questo punto tutte le mentalità e i comportamenti non evangelici si disperdono, dissolvendosi. Tutti i sogni, tutti i castelli in aria, tutti i progetti puramente umani vengono meno, e rimane viva soltanto la verità del Vangelo. Il catecumeno viene, così, educato gradualmente e con insistenza a prendere coscienza che questa è la rivelazione fondamentale del Figlio dell’Uomo e il mistero nel quale entrare se vuole superare una pura programmazione umana e collocarsi veramente nel cuore del Regno di Dio.

VII. LA PASSIONE DI GESÙ Nelle tre predizioni Gesù annunzia la via della passione che poi percorre con coraggio fino in fondo. Noi siamo chiamati a seguirlo, almeno con l’affetto, nella contemplazione che ci avvicina a lui con il cuore, per realizzare in qualche modo ciò che Pietro non ha potuto, pur avendolo desiderato; cioè, il “dovessi morire con Te!” (14,31). Capiamo come Pietro avrebbe voluto essere col maestro, fino in fondo, ma che lo sarebbe stato in seguito, dopo essere passato attraverso la dura lezione che Gesù si appresta a dargli, subendo la passione. La meditazione della passione, così come è costruita nel racconto, è sempre, per vari motivi, molto difficile, e lo era già per la Chiesa primitiva. Prima di tutto, era difficile rispondere alla domanda del come storicamente era potuto accadere un fatto simile. Esso comporta, infatti, un’inspiegabile serie di errori, di decisioni affrettate e maldestre, di reazioni a catena, di palleggiamenti di responsabilità dall’uno all’altro dei protagonisti.

Perché non c’era nessun motivo di far morire Gesù! Come, poi, si sia giunti a questo così velocemente, in una confusione di passioni, di sbagli, di tergiversazioni, di paure, certamente mette in imbarazzo chi tenta di raccontarlo. L’evangelista si dilunga nel racconto della passione, appunto per far comprendere gradualmente questa serie di fatti tragici e drammatici e, di per sé, non adeguatamente motivati. Un’altra domanda difficile si presentava alla Chiesa primitiva e al catecumeno che meditava la passione: che cosa può avere di grande una morte? Tutti coloro che, per vari motivi, hanno qualche familiarità col mistero della morte, sanno come immediatamente, di fronte a tale fatto, tutta la retorica cessi. Non c’è niente di meno umano che la morte. L’uomo che muore assume, di solito, un’espressione banale e goffa; oppure, forse, tormentata e incredula. Non c’è situazione nella quale l’uomo è meno se stesso del momento della morte. Appunto perché realtà alla quale è difficile dare un senso, la morte è un non-senso per l’uomo che vive. L’uomo morto rappresenta qualcosa di incomprensibile, qualcosa che non deve essere. Ora, pensare che questa realtà, cioè il non-senso per la vita, è stata affrontata da nostro Signore Gesù Cristo, costituisce appunto il mistero dei misteri. Come Gesù, cioè la vita stessa, abbia voluto ridursi a tutte le espressioni di degradazione umana insite nella morte, è inspiegabile. La Chiesa primitiva sentiva profondamente questo mistero perché aveva davanti agli occhi la reale figura del Crocifisso. Per essa il grande problema era: come leggere questa realtà di per sé illeggibile, come darle un senso? E ciò da un duplice punto di vista. Dal punto di vista dell’uomo: come leggere tutte le altre realtà della vita che sembrano mancare di senso, che sembrano pura perdita, pura carenza; ciò che non può essere, e quindi che non si vuole? Dal punto di vista di Dio: come Dio poteva essere con lui anche nella passione e nella morte? Non l’ha, forse, abbandonato? Il mistero della passione Questi i problemi che agitavano il cuore dei primi cristiani nel meditare la passione. Il lungo racconto, presente in ciascuno dei Vangeli, è la risposta a tale interrogativo. Abbiamo detto che esso è lungo. In Marco comprende, infatti, due

capitoli; gli è dedicato uno spazio estremamente sproporzionato rispetto al resto. Per il catecumeno e per ciascuno di noi, questo vuol dire che la passione richiede una lunga considerazione, che bisogna contemplarla molto, la passione del Signore, che essa deve avere grande parte nella nostra conoscenza di lui. La passione è un lungo racconto che introduce un mistero difficile, ed è a sua volta presentato da alcuni fatti che ne danno il senso. Il senso fondamentale da essi espresso è mutuato dal profeta Isaia: “Quia ipse voluit” (Is 53,7: volgata latina; cfr. testo ebraico: Is 53,10b.12c). La passione non è accidentale, ma è Gesù stesso che ha accettato fino in fondo questa estrema umiliazione; allora essa comincia ad acquistare un senso, perché diventa un atto umano di Gesù. Quali sono gli episodi che sottolineano il “Quia ipse voluit”? L’unzione di Betania, dove Gesù dice: “Ciò che essa ha fatto, l’ha fatto per ungere in anticipo il mio corpo per la sepoltura” (14,8); cioè, Gesù va verso il mistero di degradazione umana che coscientemente accetta. Durante la Cena: “Il Figlio dell’Uomo va, come è scritto di lui” (14,21); quindi, Gesù entra in un disegno che è il disegno del Padre. Sempre durante la Cena, ancora più chiaramente: “Questo è il sangue versato per molti” (14,24). L’Eucaristia è il mistero che mostra come Gesù accetta di cuore e anticipa in sé la passione. E finalmente, nel Getsemani, l’ultima parola che riprende questo tema: “Non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu” (14,36). Tutta la passione va quindi meditata riportandola, per così dire, nell’intimo del cuore del Signore che è andato incontro a questo tragico fatto volontariamente. Voglio sottolineare, a questo proposito, un aspetto che è conseguente al modo con cui la passione ci è presentata da Marco: Gesù è andato incontro alla morte, perché ha voluto venirci incontro fino in fondo; cioè, non ha voluto tirarsi indietro di fronte a nessuna conseguenza del suo essere con noi, affidandosi a noi completamente. Ha compiuto la missione di essere con i suoi, fino ad accettare le ultime conseguenze drammatiche di questo affidarsi agli uomini con fiducia, con buona volontà, col desiderio di aiutarli. Da queste riflessioni sul “Quia ipse voluit”, possiamo concludere che l’unica cosa che può dare senso alle nostre sofferenze è che anche noi giungiamo ad accettarle con lui. E questo è facile, certe volte, per le sofferenze che riusciamo a percepire come tali (per esempio malattie non troppo gravi), e che possiamo prendere dalle mani di Dio con pazienza, offrendole per gli altri. Ma quando le sofferenze diventano parte di noi stessi, quando diventano difficoltà che si

identificano con il nostro essere, quando finiamo per trovarci in certe situazioni a cui è estremamente difficile dare un senso, allora l’accettazione diventa sempre più problematica, perché non ci si sente liberi e distaccati di fronte a essa. Possiamo quindi dibatterci per anni, in uno stato di disagio, di insofferenza magari inconscia, di rivolta interiore verso situazioni che non siamo capaci di accettare. Certe volte, anzi, la cosa più pesante a cui acconsentire è costituita proprio da noi stessi. Gesù ci insegna che finché non giungiamo a questa accettazione cosciente e libera, le nostre sofferenze non hanno veramente senso. Esse cominciano ad averlo quando le abbiamo in qualche maniera guardate in faccia, come lui ha fatto, e le abbiamo accettate con lui. Questa credo sia una delle chiavi di comprensione del perché della passione di Gesù: “Quia ipse voluit”. Contemplare la passione Venendo alla passione in se stessa, propongo un modo di contemplarla che, penso, sia consono alla struttura di Marco. Nel suo Vangelo la passione è tutta un susseguirsi di piccoli quadri che descrivono situazioni umane, cioè confronti di persone. Non è tanto un resoconto concatenato di eventi, e neanche uno studio sulla concatenazione delle cause, anche se questo è presente. Il modo di raccontare di Marco è piuttosto quello di una serie di quadri in cui i diversi personaggi di questo mondo entrano in confronto diretto con Gesù, vivendo ciascuno il mistero della propria chiamata e della propria presa di posizione verso il Regno. Gesù continua, nella sua passione, la sua missione di presentare il mistero del Regno alle persone più diverse e più lontane, a quelle che più sembrano respingerlo, per compiere sino in fondo la sua missione di essere con noi. In qualche modo si verifica ancora la parabola del seminatore: Gesù si presenta – come seme – in diversi terreni e in ciascuno va incontro a una sorte diversa. È possibile allora meditare la passione come una serie di episodi, di situazioni, in cui Gesù continua eroicamente a essere il maestro buono, che insegna come perdere la vita per acquistarla, come rinnegare se stessi, come prendere la croce, come farsi servo e schiavo di tutti; realizzazione, cioè, del programma che egli ha enunciato nei capp. 9 e 10 di Marco. Possiamo contemplare questi quadri, uno per uno, considerando in

ciascuno il mistero del Regno come seme evangelico che riceve risposte diverse. Ne indico 14 in maniera da potere eventualmente servire per una Via Crucis. Gesù e Giuda Gesù e le guardie Gesù e il sinedrio Gesù e Pietro Gesù e Pilato Gesù e Barabba con la folla Gesù e i soldati Gesù e Simone di Cirene Gesù e i crocifissori Gesù e i derisori Gesù e il Padre Gesù e il centurione Gesù e le donne presso la croce Gesù e gli amici Si tratta di una galleria di persone che si confrontano con il seme del Regno. Ciascuno con una diversa risposta, davanti a un Gesù sempre uguale nel suo atteggiamento di disponibilità e di offerta di salvezza. Basta prendere una dopo l’altra queste scene e contemplarle. C’è in esse una certa progressione, un crescendo continuo di umiliazioni sino alla scena decima, quella dei derisori. Un altro particolare importante, in queste scene, è il silenzio di Gesù. Parla brevemente all’inizio, parla a Giuda, parla alle guardie, al sommo sacerdote, parla ancora nella quarta scena, a Pilato. E poi tace. Tutti girano attorno a Gesù come in una drammatica giostra ed egli, col suo silenzio, domina tutto. Contempliamo il contrasto tra le persone che si agitano, che fanno e dicono una cosa o l’altra e Gesù che, con la sua silenziosa presenza, è al centro, dominatore di tutta una situazione caotica e convulsa. Col suo solo esistere, col suo solo essere là, Gesù parla, Gesù giudica. E infine l’ultima parola di Gesù, il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (15,34), che esprime, al tempo stesso, l’apice e il fondo del cammino della croce, percorso sino all’estremo della desolazione ma che, insieme, manifesta un’immensa fiducia: cfr Sal 22 (21), 20-32.

Al centro di tutto, nella scena undecima, sta questa parola di Gesù, la sua invocazione al Padre. Da questo punto comincia un fluire graduale di consolazione e di pace. Già nella passione, così come è raccontata, nasce dunque il senso della consolazione e della pace che durerà fino al sepolcro, preparando la scena della risurrezione. Possiamo senz’altro tener conto di questa progressione e poi del graduale subentrare di una nuova atmosfera, quando Gesù è sulla croce. Assaporiamo il mutamento che misteriosamente il Crocifisso arreca a coloro che gli sono vicini: le donne, gli amici. Ecco alcune indicazioni per una riflessione su queste scene della passione. Esse devono costituire un frequente argomento della nostra contemplazione, perché sono il contravveleno quotidiano a quella atmosfera del mondo in cui viviamo e di cui parla Paolo scrivendo agli Efesini, al cap. 6. È nell’attenta contemplazione della passione che si sciolgono i nodi di situazioni difficili a comprendersi e si chiariscono i giudizi su situazioni ambigue. Confrontato con questo paradigma, ciò che è scoria viene a cadere e rimane, invece, ciò che evangelicamente vale. È forse per mancanza di riflessione, di meditazione, di contemplazione sulla passione di Gesù, che oggi assistiamo a molte confusioni. La passione ha una parte così preponderante nei Vangeli, proprio per offrirci un elemento sicuro di discernimento.

VIII. LA RISURREZIONE (E LA VITA NASCOSTA DI GESÙ) In questa ultima contemplazione vogliamo rispondere a due domande: come mai Marco, nel cammino che propone al catecumeno, non fa alcun accenno all’infanzia di Gesù e quindi alla presenza di Maria nella vita del Signore? Perché al catecumeno viene data una brevissima istruzione sulla risurrezione? Soltanto otto versetti, alla fine di Marco? Il catecumeno è chiamato a convertirsi a Gesù Cristo Figlio di Dio, a seguirlo rispondendo alla sua chiamata, ad andare con lui fino alla passione, cioè a partecipare al destino del Regno che si sviluppa – come ci mostra Marco stesso – nell’umiltà, semplicità, nascondimento, come un seme che aspetta di essere ricevuto. Troverebbe quindi un grande vantaggio a meditare l’infanzia di Gesù. Infatti, le considerazioni sull’infanzia ci presentano due tipi di

caratteristiche importanti dell’opera di Gesù: una serie di segni distintivi esteriori, propri della sua opera, e un’altra serie di note e qualità che si potrebbero chiamare interiori. Quali le caratteristiche esteriori? Innanzitutto Gesù, tra i tanti modi possibili di manifestarsi al mondo (per esempio nello splendore di un evento cosmico quale gli viene chiesto in 8,11-12: “Dacci un segno dal cielo”), sceglie il mezzo meno appariscente. Sceglie di nascere in povertà, in un angolo remoto del mondo, fuori della propria stessa casa; sceglie di essere presentato al tempio nel nascondimento, come uno qualunque; sceglie di mangiare il pane amaro dell’emigrazione; sceglie di vivere per decenni nella più assoluta insignificanza anche di fronte ai suoi, i quali, poi, come ci dice Marco, non riescono neppure a capirlo quando si ripresenta a Nazareth e dicono: ma costui non l’abbiamo già conosciuto? La sua vita tra noi non aveva alcuna importanza (6,2 ss.)! Quindi caratteristiche esteriori di insignificanza. Tuttavia, in questo quadro esterno di azione senza sfarzo, di una vita in massima parte senza risonanza mondana, senza rilevanza sociale o religiosa o politica, come il seme che sembra dormire nella terra, Gesù non rinuncia a una delle coordinate essenziali del suo Regno. Ed ecco le caratteristiche interiori del Vangelo dell’infanzia, cioè, la presenza di alcuni cuori che gli sappiano dare il cento per uno. Questo contrasto costituisce uno dei misteri fondamentali della sua infanzia: in un’estrema povertà e semplicità esteriore, abbiamo la presenza di persone a lui totalmente dedicate, come la terra buona che dà il centuplo. Vediamo allora come, per decenni, il seme evangelico fruttifica silenziosamente nel cuore di Maria, colei che dà, fin dall’inizio, il cento per uno; fruttifica nel cuore umile di Giuseppe; viene deposto nell’animo semplice dei pastori; di Simone e di Anna; di alcuni altri poveri di Jahweh, che aspettavano la consolazione di Israele; trova – sempre questo seme – anche le spine di Erode che tendono a soffocarlo; si rifugia nel terreno ben disposto di alcuni uomini fuori di Israele, come i Magi, animati da volontà buona e da rettitudine sincera. I Vangeli dell’infanzia presentano la vicenda personale del seme che viene accolto in diversi terreni e che fa diverso frutto, ma senza alcuna pompa, senza nessuna risonanza esteriore di tipo mondano quale ci si aspettava da una manifestazione del Messia. In questo senso i Vangeli dell’infanzia hanno un’importanza grande, perché programmatica, per la vita

cristiana. Essi ci riportano a una delle leggi fondamentali del Regno: poco sfarzo esteriore e molta interiorità. Marco non ha racconti dell’infanzia. Non li ha perché questi racconti suppongono, per essere accolti, uno spirito di fede maturo, suppongono un animo che ha accettato in pieno il mistero cristiano, capace di esercitarsi anche nelle cose più piccole e più semplici del Vangelo, di cogliere il significato salvifico delle realtà che sono apparentemente più insignificanti. Questo viene fatto nella seconda formazione cristiana, in un momento più interiore. Ed ecco perché la predicazione primitiva non ha mai proposto i Vangeli dell’infanzia. Nella seconda formazione, invece, essi venivano proposti perché il catecumeno aveva già accettato il paradosso dell’umiltà del mistero di Cristo ed era pronto ad accoglierla anche in quei segni semplicissimi della vita a Nazareth, della nascita a Betlemme, del nascondimento di trent’anni. Marco, sull’esempio della Chiesa primitiva, non ha presentato subito al catecumeno queste cose che richiedono una capacità di assimilazione più approfondita. Se però riflettiamo all’itinerario dei Dodici con Gesù, così come Marco ce lo presenta, ci accorgiamo che, in fondo, la via per la quale essi sono guidati è la stessa. Con altre parole, in maniera più evidente e più palese, viene esposto un identico cammino e si tratta di scoprire le leggi della salvezza del Regno, le quali si possono ridurre a tre fondamentali. La modestia degli inizi, il piccolo seme, esperimentato dagli apostoli nella semplicità della predicazione di Gesù, riconosciuta da alcuni, respinta, o poco capita, o non subito accolta da altri. L’insignificanza agli occhi di chi bada soltanto agli eventi che fanno notizia. Gesù non ha mai fatto notizia nel suo tempo, forse l’ha fatta la sua morte per qualche giorno, ma l’insieme della sua opera è stato pochissimo conosciuto nel mondo d’allora, nel mondo religioso, politico e militare che badava soltanto ai grandi avvenimenti. La contraddizione, lo scandalo e le difficoltà alle quali abbiamo già accennato. Sono queste le tre leggi che regolano il corso del ministero di Gesù e che gli apostoli imparano a conoscere stando con lui, rendendosi sensibili a quelle che sono le realtà del Regno. Chiamati a imitare Gesù

A che cosa sono dunque chiamati gli apostoli attraverso questa educazione? Sono chiamati a ciò cui è anche chiamato ogni cristiano che medita il Vangelo dell’infanzia: cioè ad amare Gesù così com’è, a convertirsi alle leggi e al modo di agire del Signore. Il catecumeno della Chiesa primitiva è chiamato ad accettare un Gesù diverso da come l’avrebbe voluto, un Gesù che opera tra noi in maniera diversa da tutti i moduli religiosi o profani, politici e civili, che ci si può aspettare, e quindi a riconoscere che il mistero del Regno è, in definitiva, Gesù stesso, il suo modo di vivere e di morire. E qui vediamo anche come il mistero di Maria, che non viene accennato quasi per nulla da Marco, il quale non ricorda neppure la presenza di Maria presso la croce, è tuttavia un mistero posto al centro del Regno di Dio e delle sue leggi fondamentali, perché è un mistero di umiltà, di nascondimento e di fedeltà interiore ricchissima, ma non appariscente. Per questo, nell’introduzione agli esercizi parlavo – citando un libro di Hans Urs von Balthasar – della coesistenza nella Chiesa, insieme con un principio gerarchico (cioè della presenza visibile e fisica attorno a Gesù di coloro dai quali discende l’azione della Chiesa) di un principio mariano, che possiamo anche definire il valore, nella Chiesa, di una fedeltà fatta di interiore nascondimento. Marco, pur non presentandoci il mistero di Maria – perché anche esso è un mistero che viene quando si è già accettato il battesimo, quando si è entrati nella comprensione della vita cristiana – ci fa vedere l’uno e l’altro principio in opera: la visibile presenza e la nascosta fedeltà che formano insieme il mistero della Chiesa. Queste riflessioni vogliono rispondere agli interrogativi riguardanti la prima parte della vita di Gesù, cioè la sua vita nascosta in quanto considerata da Marco. Istruzione sulla risurrezione Ora dobbiamo rispondere alla seconda domanda che ci fa riflettere sull’ultima parte della vita di Gesù, cioè sulla vita del Signore risorto. Perché al catecumeno viene data, al capitolo sedicesimo, una così breve istruzione sulla risurrezione? È vero che la narrazione continua con i versetti che vanno dal 9 al 20, ma sappiamo che con tutta probabilità non sono un finale letterario, ma un finale

canonico del Vangelo di Marco. Gli esegeti discutono molto, senza giungere a una conclusione, se il Vangelo sia da considerarsi terminato con 16,8 o se ci fosse un altro finale, perduto, nel quale Marco parlasse di più della risurrezione oppure se la finale canonica, pur non essendo di Marco, sia stata aggiunta in maniera che debba essere considerata parte integrante anche della struttura evangelica e non soltanto del messaggio evangelico. La maggior parte degli esegeti ritiene, comunque, che Marco abbia finito il suo Vangelo al v. 8; cioè, abbia dato una brevissima istruzione sulla risurrezione. Un’istruzione poi, incompleta, perché in essa non appare Gesù risorto: vi si dice soltanto che è risorto e che lo vedranno. Come mai questa carenza di Marco riguardo alla risurrezione? Cerchiamo di dare alcune risposte. Prima di tutto bisogna dire, per spiegare Marco così com’è, che al tempo del primitivo kérygma nell’iniziazione catecumenale era già stata data una parte notevole all’istruzione sulla risurrezione. Possiamo infatti distinguere con molta probabilità un primo kérygma, cioè un primo breve annuncio del Cristo, poi una catechesi più ampia che potrebbe essere appunto Marco, e infine una seconda catechesi per i battezzati. Ora, nel primissimo kérygma c’era già un’istruzione centrale sulla risurrezione e la troviamo, per esempio, nei discorsi di Pietro in At 2,24-36. È un’istruzione più che sufficiente e duplice: – apologetica, cioè la risurrezione è la giustificazione del Cristo, condannato e morto, ma risuscitato da Dio, e – storico-salvifica, cioè, la risurrezione è il centro del piano divino di salvezza predetto dalle profezie. Quindi una duplice istruzione – apologetica e storico-salvifica – si supponeva già come data al catecumeno. Essa sarà poi ampliata nella catechesi successiva, come possiamo rilevare nel magistrale cap. 24 di Luca, che è una catechesi amplissima sul significato storico-salvifico della risurrezione. Un’istruzione, invece, morale e ascetica sulla risurrezione è affidata soprattutto – sembra – alla catechesi post-battesimale, ed è quella che ritroviamo specialmente in certe lettere di san Paolo; la supponiamo, per esempio, in Col 3,1 ss. che sviluppa la morale pasquale, insegnata ordinariamente dopo il battesimo. C’è, infine, sulla risurrezione un quarto tipo di istruzione mistica o

gnostica: quella in cui la risurrezione e la gloria del Risorto sono presentate come attuate nella vita stessa di Gesù e del credente. Un’istruzione amplissima di questo tipo, che gli antichi chiamano gnostica, è data da Giovanni, il quale ci presenta Gesù come ancora vivente nella carne, e che addirittura nella sua stessa morte manifesta la gloria del Padre. Istruzione necessaria e importante, ma per uno stadio di maturità spirituale. Che cosa viene dato, invece, al catecumeno nell’istruzione di Marco? Pur nella brevità del testo, vengono già offerti al catecumeno parecchi elementi importanti. Un primo annuncio, nelle parole stesse dell’angelo: “Non abbiate paura” (16,6). Tale annuncio riassume a questo punto tutti i rimproveri di Gesù e li porta al punto conclusivo. Ormai bisogna veramente abbandonare ogni timore! Un secondo annuncio “Voi cercate Gesù il crocifisso: è risorto, non è qui”, cioè, lo stato di Gesù crocifisso non è lo stato nel quale dovete pensarlo sempre, quello definitivo. Esso è stato un passaggio; la sua nuova situazione è vita ed egli vive ora presso di voi con un nuovo tipo di presenza. Il terzo annuncio “Vi precede in Galilea” (16,7). Anche questo annuncio è pregnante di significato. Gli esegeti discutono: che cosa significa la Galilea? Significa varie cose. Nel Vangelo di Marco, che si svolge in massima parte in Galilea, è appunto il luogo in cui Gesù si è già mostrato la prima volta ai discepoli, nel quale si ripresenterà a loro nelle apparizioni che verranno poi narrate nella catechesi. È quindi il luogo dove con gli stessi gesti, con la sua stessa bontà e disponibilità, essi ritroveranno la presenza viva di quel Signore che hanno conosciuto. È il luogo in cui il Signore si manifesterà a essi visibilmente e dove Gesù comincerà la ricostruzione della comunità, quella ricostruzione che veniva annunciata nella passione, in 14,27: Gesù come pastore che precede il gregge, che presiede al gregge e lo ricostituisce gradualmente. La Galilea è dunque il luogo dove la comunità dei Dodici sarà ricostruita. Nelle parole dell’angelo vi è, probabilmente, anche un richiamo al cap. 13 che è il capitolo della speranza definitiva, dell’apparizione definitiva del Signore. Esso mostra come lo sviluppo evangelico della speranza non è lungo la linea di un’utopia mondana di progresso, ma secondo una linea evangelica di tribolazione, che è stata la linea del Figlio dell’Uomo. L’attenzione del catecumeno, quindi, viene portata verso questa speranza del ritorno di Gesù,

che tuttavia dovrà essere preceduta da tribolazioni e prove. Abbiamo tutta una serie di accenni che dovevano essere, poi, svolti nella catechesi, per insegnare a guardare al futuro e a considerare quale doveva essere l’attesa del catecumeno. Ecco dunque alcune brevissime riflessioni sulla realtà del Risorto, sulla sua presenza viva tra i suoi, nel gruppo ricostituito della Chiesa, e sulla sua apparizione finale. Tuttavia è chiaro che Marco non ci parla della risurrezione soltanto negli otto versetti citati. Se notiamo bene egli va letto e deve essere letto sin dall’inizio alla luce della presenza di Gesù vivente. Inizia, infatti, con le parole – che non si trovano in tutti i codici, ma che con ogni probabilità sono originali – “Inizio del Vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio” (1,1). Tutta l’attività di Gesù è proiettata come la presenza tra noi del Figlio di Dio, che la morte non può inghiottire, quel Figlio in cui Dio si compiace; e quindi, Colui che vive. Di conseguenza, tutta l’iniziazione catecumenale è fatta non su un Gesù passato e finito, ma su Gesù che è il Vivente. Intanto ha valore considerare le chiamate di Gesù, i Dodici con lui, la vicendevole comunanza di vita, in quanto il catecumeno sa che questa esperienza è permanente, perché Gesù è il Figlio di Dio che non è rimasto nella morte, ma vive. Le parole che legge hanno un senso, oggi, e sono rivolte a lui. Tutto il Vangelo di Marco è meditato nell’ipotesi, nella presupposizione, meglio, nell’accettazione che Gesù vive e parla oggi ai suoi e li chiama, così come ha chiamato presso il lago o presso il monte, e continua a spiegare la sua vera identità nella Chiesa. Si potrebbe, forse, valorizzare anche in questa maniera l’uso del presente storico in Marco. Sappiamo che egli usa volentieri il presente: Gesù va, passa, Gesù chiama, Gesù dice. Questo modo potrebbe – non dal punto di vista di rigida prova esegetica, ma nella fede – essere stato scelto per presentare Gesù come Colui che oggi vive, chiama, annuncia, esige, invita, rimprovera. Gesù viene presentato come Colui che vive nella Chiesa, e può quindi essere fonte di chiamata, persona che può venire concretamente seguita, accettata, riconosciuta e amata. Tutta la catechesi di Marco non è una catechesi del passato, ma una presentazione delle esigenze di Gesù vivente, ora nella Chiesa. Come le realtà della risurrezione, espresse in Marco, possono essere vissute a livello della nostra attuale esperienza ecclesiale? Sottolineerei

soprattutto due conseguenze. La prima potrebbe essere ritrovata nelle parole, ripetute così spesso da Gesù: “Aprite gli occhi”. Cioè il Signore è risorto, il Signore vive, ma dove? Vive presso Dio e vive in mezzo a voi, quindi l’invito a riconoscere la presenza viva di Gesù nella nostra esperienza. Dov’è presente Gesù nella nostra esperienza? Tutte le volte che essa è in consonanza con l’esperienza descritta dal Vangelo. Gesù vive nei Dodici e in coloro che continuano a predicare dopo di loro; vive in tutti quelli che sono uniti con i Dodici per fare corpo con Gesù; vive, quindi, in tutta la vita della Chiesa e in tutta la sua santità, e in tutti i suoi sacramenti. Vive anche nella nostra stessa vocazione che è risposta alla chiamata di Gesù, e che è un miracolo agli occhi del mondo, un qualcosa di inspiegabile dal punto di vista umano. Perché ogni volta che una persona accetta di vivere una vita di fede, avviene qualcosa di incomprensibile e di misterioso. Ogni cristiano vivente è una manifestazione straordinaria, umanamente inspiegabile della risurrezione del Signore. Questo Vangelo allora è un invito ad aprire gli occhi per vedere il Signore nella nostra esperienza. La seconda conseguenza è non solo di vedere Gesù che vive, ma Gesù che viene. Viene tutte le volte che ripetiamo i suoi gesti, le sue parole, tutte le volte che spezziamo il pane, tutte le volte che rifacciamo le azioni che egli ci ha comandato di fare e che viviamo la vita che egli ci ha insegnato. È un invito, quindi, a riconoscere Gesù vivo nella Chiesa, in quanto è espressione di umiltà, di oscurità, di cose che esteriormente non appaiono, forse, molto visibili e comprensibili, ma che viste con simpatia, dall’interno, ci manifestano la presenza viva della risurrezione del Signore. Manifestarsi nell’umiltà In questo momento degli esercizi, la scelta fondamentale che possiamo compiere è quella di vivere con riconoscenza la nostra vita così com’è, nella Chiesa. Scoprire, cioè, il tesoro che abbiamo nel nostro campo e ringraziare immensamente Dio perché ci permette di vivere con lui una vita nascosta e non esente da contraddizioni, difficoltà e oscurità, ma che proprio in esse manifesta la presenza viva del seme evangelico. In fondo, la scelta fondamentale che spesso bisogna fare è quella di glorificare l’opera di Dio nella nostra vita concreta, con tutte le sue

ambiguità, incertezze e debolezze, perché in queste debolezze, incertezze e ambiguità si manifesta la potenza del Risorto. La nostra vita quotidiana, infatti, nella sua apparente insignificanza – perché ogni vita quando è vista da vicino e analizzata nelle sue componenti quotidiane appare estremamente semplice, povera, inadeguata a quello che è il mistero di Dio – porta già, proprio in questa inadeguatezza, i segni della risurrezione del Signore. Essa può diventare una gloriosa manifestazione della potenza del Figlio di Dio nell’umiltà, come il seme messo nella terra e nascosto che nasce per la potenza di Dio e per la fiducia che si ha nella sua parola. In questo modo, mi sembra, il Vangelo di Marco ci riporta, dalla vita nella carne di Gesù, ad accettare e valorizzare, nella fede, tutta la ricchezza della nostra situazione presente. 1

Più volte, proponendo gli esercizi spirituali sui Vangeli, Martini suggerisce questa suddivisione, che qui appare per la prima volta. Per una spiegazione breve e documentata, si può leggere quanto scrive in Chiamò quelli che egli volle - Bibbia e vocazione, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2015, pp. 115-121. Il cardinale considera i Vangeli come “manuali dell’iniziazione cristiana”, tappe di un unico percorso; ha sempre affermato di essere debitore di questa riflessione al padre Michel LEDRUS (18991984), gesuita belga, professore di Teologia spirituale all’Università Gregoriana, che per alcuni anni è stato suo padre spirituale. 2 Hans Urs VON BALTHASAR (1905-1988), presbitero e teologo svizzero. ID., Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella Chiesa universale, Brescia, Queriniana, 1974. 3 La “pericope” (traslitterazione dal termine greco, che significa “ritaglio”) indica un gruppo di versi, estratti da un testo, che formano un’unità. 4 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Principio e Fondamento”, p. 1157. 5 [5]: “Giova molto a chi riceve gli esercizi entrare in essi con magnanimità e liberalità verso il suo Creatore e Signore, offrendogli tutto il proprio volere e libertà, perché sua divina maestà si serva, tanto di lui quanto di tutto quello che possiede, secondo la sua santissima volontà”. 6 Questi numeri del libretto degli Esercizi mostrano quella che per sant’Ignazio è l’essenza del Vangelo: la chiamata di Cristo a collaborare alla sua missione di salvezza dell’universo, in uno stile di povertà e di umiltà.

TERZA PARTE IL VANGELO DI MATTEO

PREMESSA

Tra i quattro Vangeli, quello di Matteo fu l’ultimo al quale Martini dedicò un corso di esercizi spirituali: proposto in Sardegna nel settembre 1977 a un gruppo di rappresentanti della FIES (Federazione italiana esercizi spirituali) dell’isola, venne poi trascritto e pubblicato nello stesso anno dalla Società poligrafica sarda, con il titolo Gli Esercizi ignaziani alla luce di san Matteo. Riportiamo qui la nuova edizione del gennaio del 2006, curata dalle Edizioni ADP di Roma. Al Vangelo di Matteo il cardinale ritornò nel novembre 1994, quando diede un corso di esercizi spirituali ai preti della Chiesa ambrosiana in occasione del 47° Sinodo Diocesano, che si svolse dal 4 novembre 1993 al 1º febbraio 1995. Il testo, trascritto e quindi pubblicato dalle Edizioni Piemme nel 1995, ebbe come titolo Che cosa dobbiamo fare? In esso, Martini intreccia la meditazione sui cinque grandi discorsi di Gesù che attraversano il Vangelo di Matteo con la lettura di una serie di brani del cardinal Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), suo predecessore sulla Cattedra di san Carlo dal 1894 al 1921, ricordato nel centenario del suo ingresso nella Diocesi milanese. Come spiegato nella nota tecnica introduttiva, omettiamo le cinque omelie tenute da Martini durante quel corso, che nel libro sono inserite accanto alle meditazioni di ogni giornata.

GLI ESERCIZI IGNAZIANI ALLA LUCE DEL VANGELO DI MATTEO

INTRODUZIONE Mi sono state proposte due tematiche da tener particolarmente presenti in questi esercizi: il mistero pasquale e il carattere ecclesiale degli esercizi. Per quanto riguarda il mistero pasquale, vi sarebbero almeno tre modi possibili di affrontarlo. Si potrebbe meditare il triduo sacro, secondo quanto viene proposto, per esempio, da Urs von Balthasar, nel Mysterium Salutis1. Si potrebbero anche riprendere semplicemente le meditazioni che sant’Ignazio propone nella terza e nella quarta settimana del mese di Esercizi2. La considerazione secondo il triduo sacro ci porterebbe ad approfondimenti teologici. Mi sembra adatta piuttosto per un corso di studio che per una settimana di esercizi. Per meditare a fondo la terza e la quarta settimana degli Esercizi occorrerebbe un tempo lungo, come prevede sant’Ignazio. Ho scelto quindi un terzo modo per proporre questi esercizi: presentare la prospettiva del mistero pasquale in un Vangelo. Qui si aggiunge la preoccupazione ecclesiale. Dovendo scegliere un Vangelo che faccia emergere questa caratteristica, pensiamo naturalmente al Vangelo secondo san Matteo. Questo Vangelo può ricevere varie qualifiche: per esempio “Vangelo del catechista” e “Vangelo ecclesiale”. La denominazione di “Vangelo del catechista” mi pare appropriata perché, paragonando Matteo con gli altri Vangeli, si vede come esso si situa bene al secondo gradino dell’iniziazione cristiana. Prima viene Marco, come Vangelo del catecumeno. Dopo il battesimo, il Vangelo secondo Matteo serve per insegnare come si vive nella Chiesa. Abbiamo in esso un ampio materiale da cui il catechista può trarre ogni genere di istruzione, cose vecchie e nuove, per formare il neobattezzato a tutti gli aspetti della vita ecclesiale. Segue poi Luca, come Vangelo della riflessione teologica sul rapporto Chiesa-mondo e storia della salvezza-storia profana. Infine il Vangelo di Giovanni ci presenta la semplificazione contemplativa propria del “presbitero” o del cristiano illuminato, ormai giunto al termine

dell’iniziazione ed entrato nella “gnosi”. Il Vangelo di Matteo può anche essere giustamente chiamato Vangelo ecclesiale. In esso Gesù, nuovo Mosè, dà le norme per la vita interna del Regno. Pensando a Matteo come a Vangelo ecclesiale ci si riferisce in particolare a discorsi come quello del capitolo 18, o agli altri episodi petrini (cfr. 14,28; 16,18). In senso ancora più vasto bisogna pensare all’aspetto ecclesiale di Matteo come Vangelo del “Dio con noi” che, come vedremo, diventa, nella finale del Vangelo, il “Gesù con noi” sino alla fine dei tempi. Il Vangelo di Matteo mostra il passaggio dalla exousía3 di Cristo a quella ecclesiale. Esso ci fa comprendere come dal potere universale di Cristo derivi la missione della Chiesa verso il mondo. Se esso è un Vangelo ecclesiale, che parla della Chiesa e parla alla Chiesa, dobbiamo riflettere fin dall’inizio sul genere di pubblico che esso presuppone, e sul tipo di attenzione che esso richiede. Vorrei qui molto semplicemente invitarvi ad approfondire, nella riflessione personale, che genere di pubblico siamo noi oggi, che ci disponiamo ad ascoltare questo Vangelo. Chi sono io adesso, che inizio ora questi esercizi ecclesiali, per meditare alla luce di Matteo sul mistero pasquale? Per quale intenzione mi trovo qui? Qual è la mia disponibilità di ascolto, la mia apertura a lasciarmi inserire nel mistero della Chiesa? Quale la mia disponibilità ad ascoltare la parola della Croce, della risurrezione?

I. MATTEO, VANGELO ECCLESIALE - LA FINALE DEL VANGELO (MT 28,16-20) Vi propongo di meditare su alcuni brani di Matteo: Subito dopo ordinò ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull’altra sponda, mentre egli avrebbe congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù (14,22-23). Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte (17,1). “In verità vi dico ancora: se due di voi, sopra la terra, si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (18,19-20).

La lettura di questi testi ci suggerisce una breve preghiera:

Signore Gesù, tu che hai condotto gli apostoli sulla montagna con te, tu che ti sei ritirato sul monte per pregare, tu che hai promesso di essere presente a due o tre che pregano nel tuo nome, noi ti ringraziamo, Signore, per averci condotto qui; ti ringraziamo, perché sei in mezzo a noi, che stiamo insieme nel tuo nome. Ti chiediamo, Signore, di manifestare a noi te stesso. Apri i nostri occhi, le nostre orecchie, Signore, perché possiamo vederti nella nostra vita, nella nostra esperienza di Chiesa, nella nostra esperienza di preghiera, nel nostro peccato, nella nostra povertà e nella risurrezione che tu ci doni. Tu che vivi e regni, o Signore Gesù, con il Padre e lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen. Vorrei prima dare una breve indicazione per la preghiera e poi, come tema della meditazione, rispondere alla domanda che ci siamo già posti: perché quello di Matteo è chiamato il Vangelo ecclesiale. Quindi prenderlo un po’ in mano e cominciare a esaminarlo in questa luce. Poi, come meditazione propriamente detta, vorrei proporvi di contemplare la pagina finale, al cap. 28,16-20. Un suggerimento per la preghiera: la posizione del corpo Come suggerimento per la preghiera, mi sembra opportuno ricordare quello di sant’Ignazio alla fine della prima settimana, nella quarta addizione4, al n. [76] degli Esercizi spirituali, dove dice: Entrare nella contemplazione o in ginocchio, o prostrato a terra, o steso col volto in alto, o seduto, o in piedi, sempre intento a cercare quello che voglio. Noteremo due cose: se trovo quello che voglio in ginocchio, non passerò oltre (a provare un’altra posizione); e, se prostrato, farò lo stesso e così via; nel punto in cui troverò quello che voglio, lì mi riposerò, senza ansia di passare oltre, finché mi soddisfi.

Vorrei ricordare l’importanza del corpo nella preghiera. Preghiamo con il nostro corpo, nel corpo della Chiesa; dobbiamo trovare, soprattutto all’inizio degli esercizi, queste posizioni e per trovarle dobbiamo provarle. Quindi sant’Ignazio, dicendo di non cambiare posizione quando si è trovata quella giusta, dice, implicitamente, che fino a quando non la si è trovata bisogna cambiare, bisogna provare. Quindi forse anche un primo esercizio di questo ritiro potrebbe consistere nel trovare la propria posizione di preghiera, corrispondente alla propria situazione presente.

Matteo: Vangelo del catechista e Vangelo ecclesiale Entriamo in questi esercizi cominciando semplicemente a prendere in mano il Vangelo di Matteo e a contemplarlo. Lo definisco Vangelo del catechista come ipotesi di lavoro, per metterlo, nella sua specificità, in relazione agli altri Vangeli. In questo senso, dando a ciascuno una specificità ecclesiale, cioè domandandoci qual è il posto di ogni Vangelo nella formazione del cristiano, possiamo dire che Marco è il Vangelo del catecumeno, Matteo del catechista, Luca del teologo e Giovanni del presbitero, del cristiano illuminato. Cioè ogni Vangelo corrisponde a diverse tappe della vita cristiana. In questa classificazione Matteo ci appare il Vangelo del catechista, perché fornisce il materiale ampio e ordinato per la istruzione regolare di colui che ha già percorso la tappa catecumenale e ormai vuole vivere il battesimo nella Chiesa. Per questo cristiano Matteo dà una serie ordinata di parole e di fatti di Gesù, che illuminano concretamente il cammino del cristiano nella comunità. Per questo Matteo è il Vangelo più ricco, quello cioè che contiene più materiale di tutti e che è stato più utilizzato dalla Chiesa antica, proprio perché ordinariamente serve per l’istruzione del cristiano; quindi è una specie di catechismo del Regno e soprattutto lo è nella sua struttura dei cinque grandi discorsi, cioè il discorso della montagna (capp. 5-7), il discorso della missione (cap. 10), il discorso in parabole (cap. 13), il discorso ecclesiale propriamente detto (cap. 18), e il discorso escatologico (capp. 24-25). Su questi cinque grandi discorsi è costruito il Vangelo e quindi ci dà le istruzioni per entrare nel Regno, per andare in missione, per comportarci nella Chiesa e per situarci bene di fronte alla fine dei tempi. In questo senso è un Vangelo sistematico, ordinato, che serve per una istruzione catechetica. Non solo i discorsi, ma anche i fatti sono raggruppati: per esempio dal cap. 8 al 10 sono concentrati dieci miracoli di Gesù, a loro volta divisi in tre gruppi interni, come i miracoli di misericordia, i miracoli di potenza. Il Vangelo di Matteo è anche chiamato il Vangelo ecclesiale perché descrivendo attraverso i cinque grandi discorsi i cinque grandi momenti della formazione del Regno, ha il suo interesse soprattutto nella vita interna ecclesiale. Mentre Luca è preoccupato di collegare la esperienza evangelica con la storia del mondo, a Matteo interessa soprattutto formare il cristiano all’interno della comunità; quindi, in questo senso, ha una preoccupazione fondamentalmente ecclesiale, che si specifica poi in alcuni episodi che

soltanto Matteo riporta, soprattutto dal cap. 14 in avanti. Abbiamo, per esempio, Pietro che cammina sulle acque, riportato solo da Matteo, così come la promessa del primato a Pietro (cfr. 16,18). È l’unico Vangelo che parla di “edificare la Chiesa” ed è il Vangelo che riporta la promessa di sciogliere e legare per gli apostoli (cfr. 18,18). Quindi Matteo è interessato a questo tema: ciò che la Chiesa fa e ciò che avverrà nella comunità. In questo senso e per la presenza di questi elementi, che gli altri Vangeli non contengono, è chiamato Vangelo ecclesiale. Vorrei, in questi giorni, penetrare ancora più all’interno, nella mentalità dell’autore di questo Vangelo. Per questo vi propongo la contemplazione di una pagina particolare; ho scelto l’ultima, perché è propria solo di Matteo ed è chiave di tutto il Vangelo; ci presenta il mistero pasquale, la potenza del Cristo morto e risorto nella sua Chiesa. Leggiamola semplicemente, sentendo ciò che ci dice, lasciandoci prendere da questa contemplazione delle parole, guardando le persone, il tipo di rapporto che si instaura tra loro, le parole che Gesù dice e lo sfondo delle azioni della vita di Gesù morto e risorto, e della vita della Chiesa predicante, che si intravede a partire da questa scena. È veramente un momento culminante della vita di Gesù che sta tra la storia da lui vissuta fino ad allora (predicazione, morte e risurrezione) e la vita della Chiesa che predicherà fino alla fine dei tempi. La promessa di Gesù: “Sarò con voi sino alla fine del mondo” Per aiutare questa contemplazione rifletterò su qualche parola del testo, cominciando dal fondo per ascendere verso le parole centrali. L’ultima parola di questo Vangelo è: “Fino alla consumazione dell’evo”, fino a che si consumi questa esperienza nella quale siamo immersi, fino a che giunga al suo compimento. Questa espressione di Matteo si ritrova anche in 24,3, quando gli apostoli domandano a Gesù, di fronte al tempio: “Quale sarà il segno della tua parusia5 e della consumazione di questo evo?” Cioè, qui viene messa in rapporto la fine della esperienza temporale, storica, presente e la parusia del Signore. Queste parole si ritrovano anche in due parabole. In Mt 13,39 abbiamo la parabola della zizzania e del buon grano, della messe e della fine del tempo. Il nostro è un tempo in cui ancora si semina e si deve crescere, viene la fine del tempo in cui questa esperienza confusa e contraddittoria cesserà. Noi

siamo in questa esperienza di confusione e di crescita insieme. Queste parole si trovano anche al termine della parabola della rete che raccoglie pesci di ogni tipo (13,49); alla fine del tempo gli angeli raccoglieranno ogni cosa. Noi siamo ancora in cammino verso questa fine, cioè nel momento in cui la rete è ancora una gran confusione di pesci, buoni e cattivi, fuori di noi e dentro di noi. In questa esperienza temporale, storica, confusa, ambigua, nella quale noi ci troviamo, in cui è così difficile distinguere il bene dal male, il meglio dal peggio, in questa esperienza il Signore è con noi. Queste parole di Gesù ci garantiscono la sua presenza, non per un mondo già fatto, ma per il momento in cui l’esperienza è in corso; l’esperienza cresce e passa attraverso tutte le fasi di crescita, tutte le confusioni e ambiguità di crescita che sperimentiamo ogni giorno nella nostra stessa esperienza religiosa, cristiana, sacerdotale, laicale ed ecclesiale e, in genere, nella storia del mondo. Detto ciò Gesù insiste: “Tutti quanti i giorni”, cioè non c’è nessun giorno di questa esperienza in cui il Signore non sia con noi, quindi la certezza con cui noi viviamo anche questo momento è la certezza che il Signore in ciascun giorno è con noi. Gesù insiste su questa sua esperienza alla quale non ci sottrae in nessun momento. Queste parole dunque ci riferiscono il “tempo” di questa promessa; andando indietro troviamo “la promessa” stessa: “Ecco io sono con voi”. Qui ci sarebbe da meditare senza fine, basta richiamare brevemente gli altri contesti biblici dove ricorre questa promessa: Es 3,12-14. È Jahweh che si presenta: “Ecco io sarò con te”. Matteo riassume qui, nel Cristo morto e risorto, tutta l’esperienza di salvezza di Israele. La prima impressione che ne ricava l’israelita è che Dio è colui di cui dobbiamo fidarci, è con noi. Matteo ci presenta Gesù risorto e glorioso come colui che è la definitiva promessa di questa presenza. Potremo seguire queste parole ancora nel corso della storia biblica; probabilmente possiamo riferire a esse la stessa formula dell’Alleanza: “Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo”. Questa comunione di Dio col popolo costituisce l’Alleanza. Questa formula la troviamo per esempio in Es 19,5-6: “Voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa”. È questa “con-presenza” di Dio col popolo che costituisce l’Alleanza; qui Gesù è la presenza definitiva per i suoi. Questa presenza continua, per esempio, in Gs 1,5-9: “Come sono stato con Mosè, Io sarò con te”. Queste parole sono riassuntive di tutta l’esperienza di Israele e

anche di tutto il Vangelo di Matteo, perché certamente, non senza motivo, Matteo richiama qui le parole che ha già posto nella prima delle sue profezie: “Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (1,22-23). Quindi il Vangelo di Matteo si apre con questa profezia e termina con la parola di avveramento: “Ecco io sono con voi”. Rileggendola, mi sembra che Matteo voglia insistere su di essa, perché, a prima vista, sembrerebbe strana, qui, la seconda parte di questa profezia: “Chiameranno il nome di lui Emmanuele”, perché in realtà, si è detto: “Lo chiamerai con il suo nome: Gesù” (1,21). Matteo avrebbe potuto benissimo ovviare a questa difficoltà sopprimendo questo secondo versetto, ma se lo aggiunge spiegando “Dio con voi”, ritengo sia proprio perché vuole orientare la nostra attenzione non tanto sul nome, che è Gesù, interpretato da Matteo stesso come “il Salvatore”, ma su ciò che Gesù rappresenterà: egli sarà l’avveramento definitivo della continua promessa e presenza di Dio a Israele, egli sarà il Dio con noi. Tutto il Vangelo di Matteo racconta come Gesù è stato il Dio con noi, attraverso quale manifestazione di sé, attraverso quale progressione di cammino, morte e resurrezione Gesù è giunto a essere il Dio con noi. Quindi Matteo ci insegna a cogliere anche attraverso quale via noi sentiamo Dio con noi, perché non è un regalo gratuito, ma un’esperienza che anche noi siamo chiamati a fare, ripetendo l’esperienza di Gesù, aprendo gli occhi e cogliendo il Dio con noi nella nostra esperienza di Chiesa. Volevo sottolineare l’importanza di queste parole per capire tutta la tensione che corre lungo il Vangelo di Matteo, dalla prima profezia misteriosa – “Sarà chiamato Emmanuele” – fino alla parola rivelatrice di Gesù. Ora questa promessa di Gesù di “essere con noi” viene spiegata nelle parole che seguono nelle sue due componenti: Io e voi. I destinatari della “promessa” Questo voi non si rivolge all’umanità in genere, è un voi molto specifico, espresso al v. 19: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Gesù è con la Chiesa missionaria, con la Chiesa confessante, con la Chiesa evangelizzante, non è semplicemente con l’uomo qualunque. Gesù è con la

Chiesa che continua la sua opera, che si muove, che cammina, che comunica la sua esperienza di discepolato. Gesù è con noi ogni volta che ci lasciamo muovere dal Vangelo, ogni volta che la nostra vita è Vangelo irradiato; Gesù è con noi, la sua Chiesa, quando ci immergiamo nella potenza del Padre, del Figlio e dello Spirito. Quindi Gesù è con la Chiesa che sottopone l’uomo alla potenza di Dio, immergendolo nello scatenamento di questa potenza che è del Padre, che ci dona la sua paternità, del Figlio, che ci dà la sua vita e ci indica come seguirlo, e dello Spirito, che fa di noi veri discepoli. Gesù è con noi, con la Chiesa, quando lo continuiamo nella nostra vita e, come sale della terra, rendiamo possibile intorno a noi l’esperienza di discepolato. Gesù è con noi quando viviamo la nostra vita evangelica, è con noi nel nostro sforzo di viverla, quindi è una presenza attiva, stimolante. Notate come sono attente queste parole: “Insegnando ad osservare”, cioè essendo maestri di vita pratica. Ciò che importa è che noi osserviamo e che col nostro modo di vivere insegniamo che cosa vuol dire osservare. Qui non si mette l’accento su una retta dottrina in se stessa, ma sulla capacità di far vivere evangelicamente la gente; quindi, prima di tutto, di impegnarci noi a vivere una vita evangelica. Quando contemplo questo, dico: Signore, non ce la faccio. Adoriamo il Signore che si presenta con esigenze così grandi, tali da farci veramente sentire che non è da noi tutto questo, ma che il Signore è con noi, proprio quando cominciamo a riconoscere che queste esigenze sono troppo grandi. Già qui cominciamo a percepire il senso della potenza di Dio, come si rivela secondo Matteo: un Dio che ci trae fuori da tutto ciò che è il nostro programma, così a misura nostra e non a misura di Dio, di fronte al quale ci sentiamo sconvolti, carenti, debitori, poveri. Qui è già il Vangelo che comincia a entrare in noi. Il “potere” di Gesù Dal contesto è chiaro che questo “Io” è colui che è morto e risorto, è il Cristo del mistero pasquale, il Cristo glorioso, che più ancora viene specificato dalle parole: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. È cioè quel Gesù che ha in mano tutta la storia. Pensiamo quale atto di fede viene richiesto qui ai discepoli, i quali, meno ancora di noi, vedono il potere di Gesù nella storia; avevano sperimentato semplicemente la debolezza del Crocifisso e ora Gesù li invita ad accettarlo come colui che ha il potere reale

per la salvezza di tutta l’umanità e, quindi, li può inviare. Gesù dice: “Io ho il potere… dunque andate…”, cioè sono con voi in questa missione che è stata la mia. Per capire meglio queste parole, per contemplarle meglio, suggerirei di vederle nel contesto delle altre volte in cui appare la parola “potere”. Due casi specifici, in cui appare in Matteo e non negli altri Sinottici, sono: – in 9,8, dopo che Gesù ha guarito il paralitico e gli ha perdonato i peccati: “La gente glorifica Dio che ha dato un tale potere agli uomini”. Qui già si intravede, dietro il potere di Gesù, il potere della Chiesa di perdonare; quindi Gesù che è con noi nella missione riconciliativa e purificatrice; – in 10,1, in cui Gesù comunica agli apostoli il potere di cacciare gli spiriti immondi, guarire ogni malattia e ogni sofferenza. Quindi questo potere di Gesù di perdonare, di guarire, è tutto il suo potere salvifico. Per contemplarlo meglio si può vedere anche 11,25-27: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. In questa luce dobbiamo vedere la frase “mi è stato dato ogni potere”; ciò significa che Gesù è nel Padre, conosce perfettamente il Padre, da lui riceve ogni cosa, a partire dal Padre comunica a noi la nostra storia di adesso. Quindi, rovesciando questa catena discendente, deduciamo che noi siamo in Gesù e nel Padre, che noi siamo in Dio, cioè che Colui che ha in sé la chiave della storia, Colui che ha in pugno l’umanità e l’universo è con noi, è in noi e noi siamo in lui. Ecco la promessa finale di Gesù, promessa che è fatta nella fede, perché sembra contrastare con l’esperienza di questi discepoli perseguitati, pochi, poveri, non troppo amalgamati tra di loro. La manifestazione di Gesù avviene in una cornice estremamente semplice, modesta, sconosciuta al mondo, in una assoluta riservatezza e modestia, che corrisponde a tutto il modo di rivelarsi di Dio in Gesù, al modo di rivelarsi di Dio nel Vangelo, a Dio che si rivela ai piccoli e si nasconde ai sapienti. La reazione dell’uomo di fronte alla manifestazione di Dio Come ultimo momento di questa contemplazione, proprio per sottolineare

questo contrasto tra immensità di promesse e modestia di cornice esteriore, ecco la parola introduttiva di Matteo: “Vedendolo lo adoravano, alcuni però dubitavano” (28,17). Matteo ha voluto farci vedere che, anche nella manifestazione più solenne di Gesù, c’è chi lo adora e c’è chi non sa decidersi. Cioè la manifestazione della potenza di Dio è fino alla fine dei secoli umile, nascosta, fatta ai piccoli, ai poveri, davanti a essa bisogna saper aprire gli occhi; continuamente suscita quindi adorazione e sottomissione incondizionata alla potenza del Padre, del Figlio e dello Spirito o, invece, paura, ritegno ecc. Anche qui l’umiltà della manifestazione di Gesù, che ha preso su di sé le nostre malattie, che si è presentato come uno che si occupa di persone poco interessanti, che non sa sconfiggere l’avversario, ci viene presentata con il duplice effetto: di aprire gli occhi a riconoscere la potenza di Dio che si rivela nel povero, oppure di non riuscire a capire perché Dio si rivela così. Questa divisione è quella che sentiamo anche in noi stessi; anche in noi c’è una parte che dice: qui c’è il Signore, devo adorarlo; e una parte che dice: ma perché? In fondo ci sono mille cose che lasciano perplessi. Vedete, quindi, con quanta sapienza pastorale Matteo, anche nella scena gloriosa conclusiva, mette questo contrappunto che è in noi stessi. Anche di fronte alla manifestazione di Dio sentiamo affiorare il nostro peso, il nostro dubbio, le nostre perplessità, dai quali non possiamo uscire da soli, con un puro ragionamento, ma solo risottomettendoci a questa potenza. Anche qui la nostra stessa impotenza viene a galla: Signore, non possiamo adorarti se tu stesso non prendi possesso di noi, se tu stesso non ci spogli, non ci fai piccoli, non ci apri gli occhi. Di qui può partire anche la nostra preghiera perché il Signore metta in luce ciò che in noi è diffidenza, paura, ritegno, perplessità; lo metta in luce perché possiamo, nella fede, portarlo davanti a lui e chiedere che lo sommerga nella sua potenza, che diventiamo apostoli, adoratori di lui. Così possiamo riflettere su questa scena conclusiva, in cui Gesù ci appare come colui che è adesso presente, in questa nostra disponibilità a riceverlo, ma anche in tutte le nostre indisponibilità, che sono ugualmente parte della nostra esperienza ambigua e confusa di Chiesa e che ancora stiamo vivendo. Signore Gesù, noi ti ringraziamo perché sei presente in mezzo a noi. Noi ti adoriamo, Signore, con gli apostoli. Ti adoriamo misterioso, povero, semplice, presente in noi senza sfarzo, ma nella povertà della nostra vita di Chiesa. Ti ringraziamo perché tu, Dio potente, ti manifesti così. Apri i nostri

occhi, Signore, perché possiamo riconoscerti. Fai che riconosciamo volentieri, o Signore, ciò che siamo, tutto ciò che in noi di perplessità, di dubbio, di stanchezza, di ragionamento, affiora in questo momento. Lo presentiamo, Signore, alla tua potenza. Desideriamo immergerlo nella forza del tuo nome, Padre, Figlio e Spirito Santo. Desideriamo immergerlo nella forza del battesimo con la quale siamo stati avvinti, siamo stati chiamati da te, sommersi nella tua grazia. È soltanto in forza di questo battesimo che possiamo pregarti come Padre, Figlio e Spirito Santo. Rinnova in noi, o Signore, con il dono del tuo Spirito, la forza di questo battesimo. Dona a noi lo spirito della cresima, lo spirito della consacrazione sacerdotale, della consacrazione religiosa, del nostro impegno di vita cristiana dedicata a te. Rinnova in noi, o Signore, con la forza del tuo Spirito, la realtà della nostra presenza a te e la capacità di viverla, e della tua presenza a noi. Donaci, o Padre, di sentire, ora e in questi giorni, attraverso tutte le banalità e meschinità dell’esistenza quotidiana, la forza della presenza del tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, che vive e regna con te, nello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.

II. IL GIUDIZIO FINALE (MT 25,31-46) Propongo oggi, alla vostra meditazione, il brano di Matteo sul giudizio finale (25,31-46), rivolgendo prima una preghiera al Signore. Ti preghiamo, Signore, di comprendere queste parole, di non difenderci da esse, di aprirci a tutto il cambiamento che richiedono nella nostra vita. Ti chiediamo di conoscerle per esperienza; di non meditare soltanto su di esse, ma di vivere di queste tue parole. Tu Signore, che mandi lo Spirito e vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. Analogia tra il giudizio finale e il “Principio e Fondamento” La seconda meditazione, nella struttura di questi esercizi, corrisponde, insieme alla precedente, al Principio e Fondamento6 degli Esercizi di sant’Ignazio. Soffermandomi un po’ su questo Vangelo e cercando quali

siano i pilastri del messaggio dell’evangelista per la sua Chiesa, mi sembra questo brano ne sia come il fondamento. Negli esercizi abbiamo un fatto fondamentale, primordiale: siamo creati per Dio, tutto è per lui; noi siamo per lui e dobbiamo raggiungerlo. Segue una proposta di vita, una scelta: dobbiamo renderci indifferenti, così da desiderare e cercare soltanto ciò che ci porta a questo fine. Analogamente, anche in queste due meditazioni, abbiamo una visione globale: il Cristo, al quale è dato ogni potere, che invia sulla terra la sua Chiesa predicante per tutti gli uomini. Segue un principio di scelta quotidiana, nella quale si riconosce la signoria di Cristo. Questo principio lo esemplifico con la parabola o descrizione-quadro del giudizio universale. Mentre la meditazione precedente si riferiva ai principi del Regno di Dio, questa si riferisce all’attività, al da farsi. Sono due meditazioni comunque (anche se il paragone è solo analogico col Principio e Fondamento) che mi sembrano fondamentali per capire il Vangelo di Matteo e il suo messaggio, perciò ne parlo all’inizio di questi esercizi. La pagina di Matteo, che abbiamo letto e che vi invito a meditare, si trova solo nel suo Vangelo, non ha paragoni con gli altri Sinottici e quindi, anche per questo motivo, ritengo appartenga alla visione specifica, teologica del Vangelo ecclesiale. È una pagina in cui Matteo accumula i titoli cristologici: si parla qui del Figlio dell’uomo, del Re, del Pastore, del Signore, del Giudice. Perciò questa pagina si può meditare come il prolungamento di quella grande visione finale che abbiamo già meditato: Gesù che ha ogni potere, Figlio dell’uomo, Figlio del Padre, Re, Pastore, Signore, Giudice. Non appare qui esplicitamente il titolo di Messia e di Cristo, però appare in maniera tanto più vigorosa in quanto questo misterioso Re, Pastore ecc. è il perno della storia. Attorno a lui maturano tutte le decisioni umane e tutto ciò che avviene succede in riferimento a lui. Problemi interpretativi È certamente un passo importante di Matteo, ma anche molto difficile e molto discusso. Un lavoro pubblicato nel 1975 in tedesco, intitolato Gesù e i suoi minimi fratelli7, è, per esempio, uno studio che tenta di definire solo alcuni dei problemi principali di questo brano. Un altro libro su questo tema, edito nel 1977 e molto più ampio del precedente, ha come titolo Dio nel

fratello8. È interessante perché in una tavola riporta, in prospettiva, tutte le opinioni degli esegeti nel corso dei secoli in ordine ad alcuni aspetti di questa scena, soprattutto riguardo a chi siano questi “minimi fratelli” che cambiano col tempo: un po’ sono i poveri, un po’ i superiori delle comunità, un po’ i poveri in spirito; ciò muta il senso delle parole-chiave di questo brano. È anche abbastanza difficile determinare bene chi sono “tutte le genti”: sono i pagani, coloro che non hanno mai conosciuto Cristo? Allora da questa parabola si sviluppa una teologia del cristianesimo anonimo, oppure sono tutti gli uomini cui Cristo deve essere predicato? Quindi il tema non è il riconoscere o non riconoscere, ma il fare o il non fare, allora la sorpresa sarebbe solo un momento retorico, per sottolineare l’insegnamento finale? Questi esempi li ho fatti per dimostrare la complessità della parabola: si tratta di un giudizio su tutti gli uomini, sui soli pagani, oppure sulla sola comunità cristiana al suo interno? Perciò, ripeto, questo è un brano molto difficile, tuttavia molto attuale nella Chiesa di oggi. Ad esempio, Madre Teresa di Calcutta9, con le sue Missionarie della carità, basa tutta la sua spiritualità su questo brano; anche quando parla, sempre ripete questa teologia e vi si richiama. Questo è l’unico luogo dei Vangeli in cui c’è una chiara “identificazione” tra Gesù e il povero: quindi è una pagina importante per il cristianesimo di oggi, ma anche, vorrei dire, irritante, perché è una pagina di cui in qualche modo si abusa, assolutizzandola. Uno degli abusi tipici, per esempio, è quello di derivare da questa pagina una specie di teologia dell’ateismo. Si dice: questi non hanno conosciuto Dio, ma hanno fatto del bene; quindi non è necessario conoscere Dio, sono sufficienti le opere. Così si ricava una teologia dell’ateismo che, mi pare, è totalmente contraria al senso di tutto il Vangelo di Matteo. È una pagina difficile e qui accumulo altre difficoltà. Ad esempio, è una pagina di cui si potrebbe abusare nel senso di un totale disprezzo per l’uomo, perché sembrerebbe dire: l’importante è fare qualcosa per Cristo, l’uomo è solo un mezzo per fare qualcosa per Cristo; quindi si potrebbe trarre, da questa pagina, quasi un docetismo10 a rovescio, cioè quello che importa è il rapporto con Cristo, il prossimo è solo un mezzo, una trasparenza. Ragionando così, cadrebbe il valore irriducibile della persona umana, che non può mai diventare mezzo. Così anche qui andremmo totalmente fuori strada, perché il Vangelo ha un rispetto fondamentale per la persona umana, che non è soltanto una “piattaforma” per andare a Dio, ma è in se stessa un

essere degno di essere servito e amato. Perciò si possono ricavare da questo brano delle conseguenze assolutamente aberranti, nel senso di un disprezzo per l’uomo, cioè si fa del bene solo per metterci in contatto con la persona di Dio. Se prendessimo con un criterio di interpretazione analitica moderna questa pagina, si creerebbero molte altre difficoltà. Ad esempio una difficoltà che sconcerta, soprattutto per una mentalità abituata al pensiero paolino, è che qui si parla solo di opere. Sembra che basti solo fare delle opere, mentre Paolo ci dice che è la fede che conta; le opere non valgono niente, perché l’uomo non è capace di fare opere buone. Anzi qualche commento insiste, in modo a mio avviso poco felice, sul fatto che qui non è richiesto alcun atteggiamento spirituale da parte di chi presta aiuto al bisognoso; nel giudizio non ha peso sapere o non sapere che Gesù è presente nei poveri soccorsi o trascurati e che quindi il compimento o l’omissione di un gesto di amore riguarda lui; non entra l’intenzione o la coscienza soggettiva: vale solo l’aver fatto o non aver fatto. Come vedete, siamo agli antipodi di Paolo che diceva: vale la fede, non valgono le opere in se stesse; ma siamo anche agli antipodi di altre pagine dello stesso Matteo che dice: “Quando avete fatto queste cose per essere visti dagli uomini, avete già avuto la vostra ricompensa” (cfr. 6,1-18). Abbiamo quindi l’esempio di un’interpretazione forzata nella quale, partendo dalla considerazione che, dal punto di vista scenico, qui non si mette in considerazione la coscienza, si deduce che la coscienza non ha nulla a che fare qui; sarebbe la concreta e semplice prassi di amore per il prossimo che dimostrerebbe amore a Gesù, cioè: la scelta per i poveri sarebbe, per identità, scelta cristiana, adesione di vita vissuta a Gesù. In questa interpretazione abbiamo delle verità fondamentali mescolate, mi pare, con un tono che misconosce la profondità del brano stesso. Devo riconoscere che questo brano mi perseguita da tempo. Cerco sempre di difendermene, perché vedo che richiede delle scelte che, forse, non sono capace di fare. Sono però messo in questione e in crisi dalla sua lettura: forse per questo, finora, non avevo mai tentato di proporlo come materia di meditazione. Cerchiamo di vedere insieme che cosa significa questo brano, pensando che non si può troppo facilmente fermarsi solo su un aspetto o sull’altro. Dobbiamo cercare di vedere, ponendoci davanti a Dio, onestamente, verso cosa ci orienta, cosa non ci dice, come ci aiuta nella comprensione del Vangelo intero.

Abbiamo già detto alcune cose che non ci dice: dal brano non si può ricavare direttamente niente sul valore o meno della conoscenza di Dio. Non risponde al problema se ci si possa salvare o no senza conoscere Dio: il problema è al di fuori dell’insegnamento diretto che qui si vuol dare. Neppure il brano vuol essere un catalogo completo di tutte le opere sottoposte a giudizio, quasi che queste fossero soltanto le opere di misericordia corporale, derogando a tutte le altre pagine di Matteo che raccomandano la misericordia, il perdono, la preghiera nel silenzio e nel nascondimento. Sarebbe errato trarre da questo brano una specie di catalogo esclusivo delle cose da fare per salvarsi, che sarebbero poi solo gli atti di misericordia corporale. Il passo è molto ardito, ma, come succede per molti brani biblici, va ricevuto nel suo senso simbolico, guardando alla profondità del messaggio e non esagerando l’uno o l’altro aspetto. Mi propongo dunque di darvelo da meditare senza spiegarvelo troppo; proprio perché è difficile, dovremo cercare di capirlo gradualmente, facendo un po’ come per il Principio e Fondamento di sant’Ignazio: ci si mette davanti a esso e poi si riflette. Così noi lo terremo presente come sfondo della nostra riflessione. Vi propongo solamente: – una breve struttura letteraria del brano tanto per intenderne meglio il senso; – alcuni insegnamenti globali che il brano ci dà, non soggetti a opinioni esegetiche; dunque, insegnamenti fondamentali; – infine vi suggerirò un punto di vista per la preghiera, un “luogo” a partire dal quale pregare. Voglio avviare, perciò, solo la vostra riflessione; non darne una spiegazione, né trarne immediatamente delle conseguenze, ma lasciare che sia lo Spirito ad agire in noi. Prima di iniziare questa breve esposizione del brano, vorrei richiamare una delle regole degli Esercizi spirituali, molto importante, la seconda annotazione11, che dice: La persona che propone ad un’altra il modo e l’ordine per meditare o contemplare, deve esporre fedelmente la storia di quella meditazione, toccandone solo i punti con una breve spiegazione. Infatti la persona che contempla […] riflettendo e pensando da sola e trovando qualcosa che gliela faccia più capire e sentire […] ricaverà più soddisfazione e frutto spirituale […], perché non è il molto sapere che soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente [2].

Forse avete sentito leggere già molte volte questa annotazione degli Esercizi di sant’Ignazio. Io prima mi fermavo sempre sulla finale, quel “sentire e gustare le cose internamente”; ora invece mi colpisce quella

frasetta, al centro, che qui non è ben resa come nell’originale “sentire un po’ di più”. Mi sembra che, con questa frasetta, sant’Ignazio ci dica molto. Di fronte a una pagina evangelica come questa, per esempio, non dobbiamo cercare la grande intuizione globale che rivoluzionerà il mondo o noi stessi, ma solo il “sentire un po’ di più”. Quel pochino di più è immenso se noi riusciamo, dinnanzi a un brano come questo, a sentire, anche solo per un poco, che esso in fondo ci tocca “un po’ di più” di quanto avevamo pensato. È già un progresso immenso, molto più che se l’avessimo analizzato, spiegato, esplicitato in tutte le singole parti. Ciò che importa è che, nell’esperienza di preghiera, il Signore si comunichi a noi “un po’ di più” su questo punto dicendo: guarda che questo ti riguarda, ti tocca “un po’ di più” di quanto tu non avessi pensato prima. È questo modestissimo “un po’ di più” che dobbiamo ricevere con riconoscenza, perché è l’origine di tutto il resto. Non dobbiamo metterci con atteggiamento analitico o meccanico di fronte a questi brani, quasi volessimo risolvere ciò che queste monografie scientifiche e specialistiche non hanno ancora saputo chiarire, ma diciamo: Signore, fammi capire “un po’ di più” come questa pagina può cambiare la mia vita, e la cambia; fammi sentire come può cambiare qualche piccolo aspetto della mia vita, che però, se è vero, se è autentico, è come una macchia d’olio. Se introduciamo un briciolo di più di autenticità nella nostra meditazione, nella nostra preghiera, siamo già in alto mare, siamo già al largo. Chiediamo questo nella preghiera al Signore. La struttura del brano Vi propongo la struttura del brano che mi pare abbastanza chiara. C’è, all’inizio, un’azione introduttiva, silenziosa: viene il Figlio dell’uomo, si siede sul trono della gloria, tutte le genti si radunano davanti a lui. Qui mi pare molto probabile l’interpretazione che si riferisca a tutti gli uomini, non ai pagani o ai cristiani solamente, ma a tutta l’umanità, dopo che il Vangelo è stato predicato a tutti: è un giudizio sull’uomo. Tutti gli uomini sono radunati davanti a lui e qui c’è una azione enigmatica, silenziosa: il Figlio dell’uomo prende e separa, come il pastore, i

capri alla sinistra e le pecore alla destra. Quindi c’è quest’azione silenziosa di divisione dell’umanità che è un enigma. Perché il Re agisce da pastore, perché divide gli uomini, in due schiere? Siamo stati abituati da sempre a considerare l’umanità come una totalità, adesso perché si divide davanti a Dio? L’umanità sono poi i singoli uomini, le singole persone, non sono le razze e i popoli. Gli esegeti ricordano che quest’azione enigmatica iniziale ha la sua rispondenza anche nella vita pratica dei pastori, come si può vedere dai commenti; sembra che il pastore divida proprio, alla sera, le pecore dalle capre, poiché le capre soffrono il freddo e devono essere ricoverate al riparo, mentre le pecore amano l’aria aperta. Ecco un fatto usuale della vita, che poi diventa simbolico. La seconda parte della scena è dialogica e simmetrica: prima, alla destra, c’è un imperativo: “Venite”; poi c’è la spiegazione del perché dovete venire: “Ho avuto fame, mi avete dato da mangiare…” e infine segue la domanda: “Ma quando abbiamo fatto questo a te?”, cui segue la risposta: “Ogni volta che l’avete fatto ad uno dei miei più piccoli”. La scena è perfettamente simmetrica alla sinistra: l’imperativo, la spiegazione, la domanda, la risposta. Essa, come vedete, è costruita con grande simmetria e il peso cade sulle due finali: “Ogni volta che l’avete fatto, l’avete fatto a me” e “ogni volta che non l’avete fatto, non l’avete fatto a me”. Analisi del messaggio centrale Anche l’insegnamento è contenuto, qui, nelle finali, non nelle domande precedenti, che servono a creare la tensione e quindi l’interesse a far sì che l’enigma vada verso lo scioglimento. Quindi l’importante, per la parabola, non è tanto l’ignoranza, ma la ragione finale; tutta la scena è un modo di far capire la verità fondamentale: il rapporto dell’uomo col Figlio dell’uomo si gioca nel rapporto tra l’uomo e l’uomo. Questo mi sembra l’elemento decisivo della scena, il giudizio finale sulla storia, anche se è creato con elementi visivi di tipo scenografico e metafisico. Dunque l’insegnamento fondamentale, di fronte al quale dobbiamo metterci nella preghiera, mi pare sia questo: il rapporto tra l’uomo e il Figlio dell’uomo, che è il rapporto cruciale del Vangelo, si gioca nella storia dei rapporti tra gli uomini.

Esiste infatti tra gli uomini, e in particolare tra alcuni di questi, un rapporto speciale con il Figlio dell’uomo. C’è quindi un rapporto speciale tra il Figlio dell’uomo e i piccoli. Comunque vogliamo considerarli nella parabola, c’è un rapporto speciale tra il riconoscimento del Figlio dell’uomo e il riconoscimento pratico, la promozione dei piccoli, degli ultimi; più globalmente, c’è un rapporto speciale tra la relazione con Dio e la relazione col prossimo: le due cose si giocano insieme. Evidentemente qui potrebbero sorgere tante domande, e gli esegeti infatti se le pongono: perché questo rapporto speciale tra il Figlio dell’uomo e i piccoli? Chi sono questi? I deboli, i poveri in generale, i piccoli della comunità cristiana, oppure i cristiani in genere, che nel mondo appaiono come piccoli, come poveri e come perseguitati rispetto all’opulenza del mondo? Oppure i servitori della comunità, quindi i più piccoli che, se riconosciuti come tali, rendono buono il rapporto con Dio? Quest’ultima interpretazione si fonda sul fatto che Gesù altrove ha detto: “Chi vuole essere il più grande sia come il più piccolo, chi comanda sia come chi serve”. Dunque, chi mi riconosce nella figura di colui che serve, chi onora i superiori della comunità, onora Cristo. Ecco una possibilità che viene così proposta. Non credo che dobbiamo risolverci per nessuna di queste ipotesi, anche se oggi sembra più evidente l’interpretazione più generale: i piccoli sono i poveri in ogni senso. In fondo, però, allargando il concetto, sono tutti, perché Gesù dice: “Quando l’avete fatto anche soltanto ad uno di questi”. Qui sembra voglia parlare di un caso specifico, cioè non siete mai sfuggiti a questo rapporto, anche là dove vi sembrava che la situazione fosse irrisoria, precaria, trascurabile, anche là eravate di fronte a me. Quindi c’è, mi pare, dietro questa esplicitazione, una particolare relazione del piccolo e del povero con Dio. Queste due cose rimangono strettamente legate e inscindibili; Gesù qui non vuol dire: non importa il rapporto con Dio, interessa solo il rapporto tra gli uomini; ma: questi due aspetti si giocano insieme. Non si tratta quindi per nulla di un insegnamento di orizzontalismo, ma ci si dice che il fondamentale dell’uomo è il Regno di Dio, il rapporto con Dio, che si gioca in questa riconosciuta relazione col prossimo. Gli esegeti si chiedono (supposto che i piccoli siano i poveri e i disprezzati dal mondo) perché Gesù si identifica con loro. Forse perché lui stesso è stato povero e disprezzato, e allora c’è un’identificazione di tipo storico. Oppure perché Dio, nella sua grandiosità, sceglie il povero, proprio

perché lui è grande. Sono, come vedete, motivazioni diverse, ma in fondo l’importante è sottolineare che qui è la volontà di Dio che ci si manifesta, è un’apertura di rivelazione che dobbiamo ricevere e accogliere, più che motivare. Dio si svela a noi così, e noi chiediamo nella preghiera e nella fede che il Signore ce lo faccia comprendere e accettare. Dunque, nella vostra meditazione vi suggerisco di mettervi di fronte a questa realtà, di non volerla sviscerare in tutte le sue conseguenze, ma di dire: “Signore, fammi capire come questa realtà può cambiare anche un poco soltanto la mia vita”. Il nostro posto in questa scena Interroghiamoci e chiediamo al Signore qual è il nostro posto in questa scena. Facciamo alcune ipotesi: io potrei collocarmi al di fuori; la scena è qui e noi dall’esterno la stiamo considerando. Diciamo: chi sono i poveri, chi sono le genti, cosa ci vuol dire Gesù, cosa vuol dire quell’interrogazione: “Non ti abbiamo conosciuto?” Suppone ignoranza vera, oppure è soltanto un effetto di sorpresa? Potremmo restare qui all’infinito, a discutere sulla parabola in se stessa. Oppure possiamo metterci dentro; è già una prima scelta da fare: stare fuori o mettersi all’interno. Se il Signore ci ispira a metterci dentro diremo: Signore dove devo stare? Mi metto tra i poveri, che aspettano che qualcuno faccia qualcosa per loro? Potrei dire: sono come uno di questi poveri e aspetto; ti ringrazio, Signore, perché mi hai posto in questa situazione di povero, cosicché il fratello amandomi, accettandomi, accetta Te. Sarebbe meraviglioso: potremmo lodare il Signore che ha fatto di ciascuno di noi un suo povero, per cui siamo veramente abbandonati ai fratelli, alla Chiesa. Siamo sicuri perché il Signore, anche se apparentemente ci abbandona, ci affida alle mani degli altri e si fa nostro garante. Mi metto dunque nella posizione del povero e lo ringrazio: Signore, ti ringrazio perché non ho bisogno di farmi accettare dagli altri, di impormi; sei tu stesso che difendi la causa, sei tu stesso che mi sostieni. Io posso vantarmi della mia povertà, come fa san Paolo, vantarmi della mia situazione di persona né troppo influente, né troppo capace, spesso indietro rispetto agli altri, perché tu sei con me, tu hai fatto tua la mia causa. Oppure posso mettermi fra i giusti e dire: Signore, ti ringrazio, perché tu

mi concedi di vivere la mia vita al servizio dei fratelli, in un rapporto reale con te. Ti ringrazio per tutto ciò che la mia vita comporta di faticoso, paziente, apparentemente inutile, questo è un dialogo continuo con te. Tu mi riveli questa dimensione di libertà della mia vita; niente è inutile, perché tutto è un dialogare con te. Oppure potrei mettermi (ed è la posizione che lo Spirito mi spinge a scegliere per il momento) tra quelli che non capiscono: Signore spiegami tu, quando non ti ho visto? Tutte le volte che medito su questa parabola dico: va bene, adesso ho capito. Ma poi, quando ritorno nella vita quotidiana, non vedo, non sento, non capisco; le mie reazioni spontanee non sono queste. Lo sono agli esercizi, ma appena ne sono fuori, tutte le mie relazioni col prossimo sono conflittuali, di difesa, tese a stabilire le distanze, i miei privilegi. Qui, mi pare, ci siamo tutti dentro, tutte le volte che ci chiudiamo stranamente, follemente, alle necessità concrete reali della situazione in cui viviamo. Purtroppo viviamo in questa cecità; spesso la cecità è tale anche rispetto a persone che ci stanno più vicine: siamo come il sacerdote della parabola, che passa accanto al ferito, ma l’abitudine è tale che non lo vede (cfr. Lc 10,31). Allora ci lasciamo cogliere in questa cecità anche un po’ volentieri, cioè autenticamente: Signore, quando mai ti ho sentito veramente vicino a me, povero, stanco, malato, carcerato e mi sono sentito mosso? Quanto più spesso invece ho sentito la situazione nella quale mi trovavo come assopimento, o come rischio eccessivo, come bisogno di difesa, di stabilire distanze chiare, di far valere i miei diritti? Qui, vedete, è presente tutta la nostra vita, perché tutta la vita si gioca qui, nel giusto rapporto verso gli altri. O è un rapporto di riconoscimento del Signore, o è un rapporto di dare e ricevere, più o meno apparentemente conflittuale, per fare la mia strada; magari sì, senza schiacciare gli altri, ma intanto ponendo avanti me stesso. Tutta la nostra esistenza affiora qui, se siamo sinceri e andiamo a fondo di fronte a Dio. Anche la nostra incapacità a cambiarci: Signore, non sarà certo per una meditazione in più che io ora faccio su questo punto che aprirò gli occhi. Istintivamente, nella situazione di aggressione, io ancora mi ritirerò. Tutta la vita è fatta di piccole aggressioni di fronte alle quali prendiamo posizione, ci distanziamo, ci armiamo sapientemente. Da questo punto di vista possiamo dire onestamente: Signore, è vero, non sono capace di riconoscerti. Tu mi dai la grazia, qui o lì, di compiere un atto di carità, di

generosità, ma la mia esistenza, come tale, è ancora lontana dall’essere libera, gioiosa, aperta, fedele a te in tutte le richieste, anche esorbitanti, che mi sono fatte. Il Signore ci ispirerà a metterci in questa condizione di umiltà, se noi analizziamo autenticamente la nostra esistenza quotidiana, ed essa affiora per ciò che realmente è. Allora la domanda può farsi anche ulteriore, per dire: Signore, mi dispiace proprio, ma non ti ho visto, non ti ho sentito. Perché non ti ho sentito? Era solo un momento particolare, un piccolo malinteso, per cui basta dire: adesso ci sono, grazie, ho capito? Oppure è il nostro cuore, è qualcosa in noi che ci rende opachi, pesanti, incapaci di riconoscerti? È perché non ci siamo ancora convertiti di cuore al Vangelo, perché cerchiamo continuamente la nostra giustizia e il prossimo è solo un pretesto per le nostre opere buone, per riconoscerci onesti; è un modo di farci avanti, con rapporti eleganti, equilibrati? Qui è tutto il mondo interiore della nostra cecità che affiora; Signore, ho occhi e non vedo, ho orecchie e non sento e passo in mezzo al mondo come se tu non ci fossi. Oppure dico: ecco, tu sei qui, qui e qui e questo mi basta, ho già fatto troppo. Non ti vedo veramente dove sei, ma dove mi è comodo vederti, dove l’abitudine, la tradizione, l’uso m’insegnano a vederti, e basta; invece per il resto non ho sensibilità, e non posso averla. Siamo, infatti, e ci sentiamo, in questa situazione di cecità e di oscurità, dalla quale soltanto il Signore ci libera. Questa domanda può prolungarsi nella preghiera personale: Signore, insegnami a capire, perché non ho questa sensibilità, perché non ti riconosco? Oppure perché ti riconosco, magari volentieri, in alcune circostanze, ma ce ne sono molte altre, che spesso io non so, ma i miei vicini e amici conoscono molto bene, nelle quali io non ti riconosco? Quanto spesso capita: ciascuno di noi si fa la propria sfera di onestà e giustizia, ma gli altri dicono: sì, ma non vede questo, non vede quello, non capisce questa situazione, non è attento agli altri; e noi neppure ce ne accorgiamo. Per questo chiediamo: Signore, vorrei vederti non solo dove ho già deciso di vederti, ma là dove gli altri gridano: perché non vede questo, perché non capisce, perché non apre gli occhi? Quante volte questo capita anche alle persone sante! Molta gente non capisce cose essenziali; ci sono delle insensibilità assurde che convivono per decenni, o per tutta la vita, in situazioni mistiche, di fervore elevatissimo, con opacità, durezza assoluta,

incapacità a capirsi. Su certi punti non si può dialogare: è tutto un non riconoscere il Signore. Mettendoci dentro la parabola e situandoci proprio in questo posto, non può non affiorare appunto questa domanda: Signore, che cosa devo fare? È qualche sforzo in più che vuoi da me? Oppure è un ascolto più attento della tua Parola? Continuiamo in questa preghiera, che io appunto vorrei fosse il tema dominante di questi giorni: prendendo in mano il Vangelo di Matteo, chiediamo al Vangelo stesso la risposta. Signore, che cosa c’è in noi? Quali sono le pesantezze, le chiusure, le opacità, i silenzi, quali sono i compartimenti stagni che mi impediscono di riconoscerti? Quindi chiediamo al Signore questa conoscenza di noi a partire da questa parabola fondamentale. Perché, vedete, si tratta del significato di tutta la nostra vita, del significato del mondo: non si tratta di aggiungere solo un poco più di profumo nel nostro vecchio vino, ma veramente di vedere se l’otre va bene, se ce ne vuole uno nuovo, o se ci vuole anche del vino completamente nuovo. Signore, fa’ che sappiamo vivere la nostra verità di fronte a noi stessi, di fronte alla Chiesa, di fronte al mondo. Fa’ che sappiamo accettare, in questa verità di noi stessi, tutto ciò che è chiusura, durezza, cecità, o opacità interiore, tutto ciò che è incapacità a riconoscerti in noi, intorno a noi, nel mondo, nelle vere esigenze degli altri. Signore, fa’ che affiorino in noi tutti i dialoghi rifiutati, tutte le situazioni chiuse, tutte le prospettive che abbiamo emarginato. Signore, fa’ che ti riconosciamo con le tue esigenze di Re, di pastore, di Figlio dell’uomo, di chiave della nostra vita. Fa’ che ti riconosciamo con la tua presenza nella vita di relazione, nella storia concreta, nel mondo, nella Chiesa. Signore, ti chiediamo soltanto, per noi, verità e autenticità. Ti chiediamo di sconfiggere in noi i nemici prepotenti e risorgenti di questa verità e autenticità. Fa’ che non abbiamo paura delle decisioni che dovrebbero affiorare da questa autenticità, che senza preoccuparci di esse, ci interessiamo, per ora, di vivere semplicemente nella pace questa verità, di fronte a te. Il tuo Spirito, Signore, è Spirito di pace: fa’ che nella pace riconosciamo ciò che siamo e ciò che non siamo, ciò che nel tuo amore ci chiami a essere, perché possiamo avere la gioia di diventare ciò che tu vuoi che noi diventiamo.

Ti ringraziamo, Signore, perché non ci lasci nei luoghi comuni, nella stagnazione banale della nostra mediocrità, ma ci inviti a gustare la gioia di quel “poco di più” che ci apre un orizzonte nuovo. Ti ringraziamo, Signore, che ci doni il tuo Spirito Santo, e che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.

III. I NOSTRI PECCATI Facciamo insieme un momento di preghiera. Ti ringraziamo, Signore, per averci chiamato qui, in questo giorno di domenica, dedicato alla tua risurrezione. Signore, fa’ che sentiamo la tua potenza di Risorto in mezzo a noi, tu che sei potente non solo nelle parole, ma anche nelle opere. Cambia il nostro cuore, fa’ che esso non soltanto comprenda, ma soprattutto ami. Donaci, Signore, “un po’ più” di amore, ancora più che intelligenza della tua parola. Guidaci in questo ascolto, fa’ che non siamo impazienti, che non pretendiamo di capire tutto e subito, ma ci accontentiamo di amare subito ciò che tu ci presenti. Tu, Signore, Figlio del Padre, Dio da Dio, luce da luce, che ci doni lo Spirito e vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. Conoscenza del “disordine” e del “mondo” Le meditazioni che vi proporrò, questa e la successiva, si ispirano ai colloqui che sant’Ignazio fa fare nella prima settimana degli Esercizi, dopo le meditazioni sui peccati. Dopo la seconda meditazione sui peccati fa fare una ripetizione12 e poi, alla fine, tre colloqui, cui egli dà molta importanza, perché esige che si ripetano un’altra volta, come quarto esercizio di questa settimana penitenziale. Dice sant’Ignazio: Il primo colloquio è con la Madonna, perché mi ottenga grazia dal suo Figlio per tre cose: la prima, perché io senta profonda conoscenza dei miei peccati e disgusto […], la seconda […] il disordine delle mie attività […], la terza […] la conoscenza del mondo […]. Il secondo colloquio con il Figlio e il terzo con il Padre, perché mi ottengano le stesse grazie [63].

Qui interviene quindi la richiesta insistente, attraverso i mediatori, di una grazia che si stima molto importante, ed è, come nota bene il padre De Gennaro nel suo commento13, “non la grazia di conoscere, ma di sentire

conoscenza”, cioè di percepirla come un’esperienza immediata, quasi diretta. Sant’Ignazio non dice “perché conosca il disordine”; in tal caso uno potrebbe anche fare un bilancio a tavolino, vedendo così astrattamente che ci sono in noi delle cose ordinate, altre meno. Si tratta invece di chiedere il dono di sentirne il disagio, come pure di sentire la conoscenza del mondo, cioè di tutte quelle verità e banalità che pesano, offuscano e isteriliscono buona parte della nostra vita. Queste cose mi sembrano importanti, soprattutto le ultime due. Certo è importante la conoscenza del peccato in genere, ma, a questo punto degli Esercizi, lo è ancora di più la conoscenza del “disordine”, cioè di quelle situazioni che non permettono di mettere al giusto posto la relazione col fratello, di vedere prontamente l’affamato, l’ignudo, il carcerato, il malato, perché siamo disordinati nel nostro modo di vedere e di agire. Mettiamo prima ciò che è più urgente, poi ciò che è più importante, che però non viene fatto mai. Ciò vale anche per la conoscenza del “mondo”, cioè tutti quei nostri legami con la routine, con le abitudini, con l’ambiente, che ci chiudono gli occhi per ciò che è urgente, per ciò che grida. Questa è la grazia da chiedere e le meditazioni che suggerirò sono in questa linea. Percorriamo, dunque, la via penitenziale che sant’Ignazio propone all’inizio degli Esercizi, con l’aiuto del Vangelo di Matteo e tenendo presente che tutto questo ci riguarda non solo come singoli, ma come responsabili nella Chiesa, cioè come persone che hanno responsabilità per ciascuno dei fratelli, o anche per un gruppo, per una comunità, per la situazione nella quale viviamo, e ancora sempre tenendo fisso l’occhio verso il mistero pasquale: solo il Cristo morto e risorto ci darà una luce definitiva su ciò che stiamo meditando. Perciò vi proporrò in seguito di entrare direttamente nelle meditazioni sulla passione e la risurrezione. Queste meditazioni saranno come una premessa, un punto di partenza per ciò che mediteremo sul Crocifisso e sul Risorto. Non si tratta quindi di prendere delle decisioni sulla nostra vita, di migliorarci in questa o in quell’altra cosa, ma di vedere ciò che è disordine, chiedere al Signore che ci faccia comprendere l’ambiguità delle situazioni ecclesiali, storiche, personali e ciò che di queste ambiguità è dovuto a noi, perché ne siamo in qualche maniera corresponsabili. In fondo vogliamo in queste meditazioni approfondire la domanda che ci siamo già posti, mettendoci nella situazione di chi non ha riconosciuto Gesù. Immaginando un po’ che benevolmente il Signore anticipi il giudizio su di

noi, chiediamo: perché non mi sono mosso, perché non sono riuscito a vedere il fratello in difficoltà? Partiamo da questa domanda e vediamo un po’ di approfondirla con l’aiuto del Vangelo di Matteo. Vi propongo come aiuto per la meditazione di questa mattina prima di tutto tre parole di Gesù che hanno un significato introduttivo: la parola sul fico sterile (21,18-19); la parola della casa sulla sabbia (7,24-27); la parola su “Non chi dice: Signore, Signore” (7,21-23). Pongo queste tre situazioni perché ciascuno veda, nella preghiera, come entra in ciascuna di esse, come vi si riconosce. Non si tratta qui di sovrapporre atteggiamenti che non sono nostri, artificialmente, ma di chiedere al Signore in che maniera posso sentire questa parola come mia, in modo che mi invada. Ciascuno è invitato a vedere, con molta semplicità, come questa parola evangelica è per lui. Fatte queste tre brevi considerazioni, presenterò tre parabole di Matteo, che vogliono essere un primo tentativo di risposta alla domanda. Sono prese dai capitoli 25, 20, 13: sono quelle degli invitati alle nozze del re, dei talenti e del seminatore. Usiamo il materiale catechetico di Matteo per fare con esso un esame della nostra vita. Tre parole dure Prima di tutto, brevemente, queste tre parole durissime che ci servono da preludio per metterci in atteggiamento di preghiera e di ascolto. La prima riflessione è in 21,18-19: “La mattina dopo Gesù, mentre rientrava in città, ebbe fame; vedendo un fico sulla strada vi si avvicinò, ma non vi trovò che foglie e disse: non nasca mai più fico da te. E subito quel fico si seccò”. Cosa rappresenta nella visuale ecclesiale di Matteo questo fico sterile che ha grandi foglie, grande apparenza e si presenta bene? Riflettiamoci. E credo che nessuno può sottrarsi alla impressione dolorosa che noi, come Chiesa, stiamo vivendo oggi un certo momento di sterilità: grandi foglie, cioè parole, raduni, congressi, risoluzioni, incontri, sedute lunghissime, programmi… e i frutti? Seminari vuoti, noviziati vuoti, chiese vuote. Quando si paragonano le foglie con i frutti, siamo tentati di pensare che forse era meglio quando c’erano meno foglie e più frutti. Quest’impressione di sterilità, guardandosi intorno, non si può non averla, anche se ci sono molti segni di risveglio e non vogliamo dare un giudizio globale. Però c’è una verità in questa parola: molta apparenza, molte belle

parole, molte coperture auree hanno dietro poco; molti programmi di rinnovamento si basano su quei pochi che sono rimasti a far girare la ruota. Questa situazione certamente ci colpisce, se guardiamo attorno. Ma se poi l’applichiamo a noi, certo ciascuno deve chiedersi quanto il Signore vede in noi foglie, cioè parole, propositi, impegni, programmi, e quanto poco frutto, cioè capacità di generare altri alla fede, che in fondo è il frutto, capacità di convertire altri, di comunicare l’amore di Dio, di farli vivere. Donare se stessi a Dio si manifesta nella capacità di donare anche ad altri quella scintilla di amore per il Signore che egli ha messo in noi. Qui certo dobbiamo interrogarci, non soltanto sui frutti che il Signore nella sua bontà ci permette di raccogliere, ma sul rapporto tra foglie e frutti, tra ciò che potremmo fare e ciò che in realtà siamo in tutta la vita. La seconda riflessione è su 7,24-27: “Chiunque ascolta le mie parole e le mette in pratica, sarà paragonato ad un uomo saggio, che ha fondato la sua casa sulla roccia […] ma chi ascolta queste parole e non le mette in pratica, sarà simile ad un uomo stolto, che edificò la sua casa sulla sabbia”. Come vedete, Gesù non distingue tra uno che costruisce la casa e un altro che per sventataggine, per negligenza, non la costruisce. Non è la parabola della cicala e della formica: una lavora, l’altra non lavora. Tutt’e due costruiscono: chi la fonda sulla roccia, chi sulla sabbia. Come si fa a sapere qual è ben fondata? La tempesta lo insegna e questo ci lascia in una salutare incertezza. Mi ha colpito molto una parola del padre Ledrus14, il quale diceva che solo la persecuzione proverà veramente chi ama il Signore e chi non lo ama, non le grandi parole che diremo o le grandi cose che faremo. Si vedrà di fronte al giudizio totale: forse delle persone che giudicavamo superficiali, svagate, si butteranno; altri, che invece sembravano far fuoco e fiamme, si nasconderanno, si metteranno negli angoli e non si faranno vedere in giro. Perciò diciamo: Signore, tu solo sai come è fondata la mia casa. Io devo continuamente costruire nel profondo, non solo alla superficie. Mi ha molto colpito una scena, anni fa: ci fu una tromba d’aria nei Colli romani che colpì Villa Cavalletti e sradicò una dozzina di grandi magnifici alberi. In pochi minuti alberi di dodici metri furono rovesciati con le radici al sole. Io mi domandavo perché solo alcuni erano caduti, mentre altri, vicini, erano ancora in piedi. Probabilmente perché avevano radici minime, ma nessuno lo sapeva e quando la gente guardava quegli alberi magnifici,

sembravano tutti uguali, robusti, meravigliosi: la tempesta ha mostrato che alcuni hanno resistito, altri no. Ecco il significato di queste parole di Gesù per noi. Preghiamo quindi: Signore, insegnami a non guardare l’apparenza, ma a mettermi di fronte a te nella nuda verità, nell’autenticità; a riconoscere volentieri che non ho radici, se non ne ho; a non credere di averle e a continuare a guardare solo l’apparenza; ad accettare l’umiliazione, o i tempi della prova o della sconfitta. La terza parola di Gesù è in 7,21-23: “Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome, cacciato i demoni, compiuto molti miracoli? Io però dirò loro: non vi ho mai conosciuto. Allontanatevi da me, voi, operatori di iniquità”. Questa frase è molto misteriosa, forse ha una spiegazione storica in una polemica, nella comunità di Matteo, con falsi profeti. Ma ora noi la leggiamo in una prospettiva ecclesiale più ampia e ci stupisce, certo, il rimprovero di Gesù che non dice solo “operai sterili”, ma addirittura “operatori di iniquità”, a gente che in fondo dobbiamo pensare sia onesta: hanno profetato, hanno compiuto miracoli, cioè hanno fatto opere di misericordia. In 10,1, già ricordato come testo fondamentale sulla ecclesia, Gesù dà agli apostoli un potere: “Chiamati a sé i dodici discepoli, Gesù diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e guarire ogni malattia e ogni infermità”. Queste sono opere di carità, quindi questa parola tagliente di Gesù ci dice che in fondo non è sufficiente, non basta dire: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi entrerà nel Regno dei cieli”. Applicando materialmente la scena del giudizio, diciamo: noi diamo da mangiare agli affamati, vestiamo gli ignudi, visitiamo i malati, quindi siamo salvi. Perché Gesù qui rimprovera questa gente, che ha fatto opere di carità, di essere operatori di iniquità? Questo ci serve anche per non prendere in maniera troppo materiale le opere di misericordia, quasi che fossero un automatico modo di salvezza: chi serve i malati è salvo, chi non li serve è dannato, quasi che avessimo il criterio ultimo e definitivo. Certo questo criterio ha una sua verità, perché è chiaro che chi ama il Signore non può non servire il fratello, ma non vale ugualmente il contrario. Questo è anche evidente se, per esempio, pensate alla vostra esperienza negli ospedali. A me è capitato, nel contatto con certe religiose, che hanno

passato tutta la vita accanto ai malati, di notare che, se si guarda la qualità dell’anima, non è cresciuta molto: si può passare tutta la vita accanto ai malati ed essere pieni di astio, di amarezza, di pretese, di desiderio di dominare il reparto, di avere l’amicizia con i dottori, di decidere tutte le cose. Sì, si servono i malati, ma certo non ci si santifica. Una volta, parlando con una religiosa molto attenta, le ho chiesto: come mai? Mi scandalizza un po’ che il servizio dei malati, che secondo il Vangelo dovrebbe essere un’opera così santificante, invece tante volte non santifica, di natura sua. Mi ha risposto che era vero, ma non sapeva dare neppure lei una spiegazione esauriente. Perciò vediamo che si può fare un’opera di carità tutta la vita e non essere trasformati. Qui si inserisce la parola di Gesù: non basta, la volontà di Dio è qualcosa di più. Passa attraverso tutto questo, certamente, perché chi si rifiuta di servire il fratello non serve certamente il Signore, ma non basta il servizio materiale. Ed ecco allora la domanda che ritorna: Signore, come ci vuoi salvare? Che cosa ci impedisce di fare la verità? Cosa ci impedisce di vederti nel fratello in maniera da amarlo veramente, non soltanto di farne un oggetto della nostra prestazione ben fatta, un oggetto del nostro vanto? La mia corsia è la più bella di tutto l’ospedale, la più perfetta, la più ordinata… E tutto finisce lì, non importano più ormai le persone, ma il successo personale. Cosa, Signore, mi chiude continuamente gli occhi, così da non vedere la realtà della relazione vera con il fratello e mi porta invece, anche nelle opere di carità, di servizio apostolico, nella predicazione, nell’amministrare i sacramenti, nel dirigere la Chiesa, continuamente, a vivere le relazioni come relazioni di potere, di prestigio, di successo personale? La domanda si viene affinando in noi, leggendo queste pagine evangeliche. Cominciamo a cercare qualche risposta. La risposta la troviamo in tre parabole che, evidentemente, io interpreto secondo alcuni aspetti, perché sono ricchissime, in quanto hanno un significato metaforico che, se si applica alla vita cristiana, è molto ampio. Ma io mi fermo su tre aspetti. Alla domanda: perché non ho saputo vederti nei fratelli, Gesù mi risponde: c’è in te il peso dell’ambiente, la routine delle buone abitudini, c’è in te la paura di rischiare, c’è in te la fretta, l’ansietà. Gli invitati alle nozze del re: il peso delle abitudini

La prima parabola è in Mt 22,1-14. Qui abbiamo una situazione paradossale: c’è un re che dà un banchetto di nozze; il banchetto è buono, i buoi e gli animali ingrassati sono stati macellati. Non è una cosa che capita tutti i giorni in Oriente. Allora, inoltre, non c’erano i frigoriferi e quando si ammazzavano gli animali bisognava mangiarli tutti, presto; poi, per mesi, si stava senza. L’occasione dovrebbe essere molto attraente per uomini abituati a mangiare scarsamente durante la settimana; è un’occasione anche per la dignità molto grande dell’invitante: non si sposa tutti i giorni un figlio del re. La chiamata, dunque, è molto grande; perciò risalta ancora di più la stranezza: “Costoro non vollero venire”. Più avanti dice: “Non se ne curarono”. È una cosa veramente paradossale, non capita mai che a un invito simile la gente dica: no, non mi interessa. Almeno cercherà delle scuse: non ci sono, ho motivi gravi. Ma dire: non mi interessa, è assurdo. Gesù insiste nel paradosso: “Andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari”. È un comportamento inconcepibile; perché Gesù racconta una parabola così strana? È un comportamento che in realtà non avviene! Eppure in noi succede questo fatto strano e inconcepibile, che amiamo di più le nostre abitudini. In fondo come ragiona questa gente? Mettiamoci nei loro panni: ma per andare alla festa bisogna cambiarsi d’abito, incontrare gente nuova! Non ne ho voglia, adesso rimango così, col vestito vecchio e vado al lavoro; sono abituato ad andarci, la mia giornata è così… Quindi è la forza di una routine: perché cambiare, fare qualcosa di diverso, avere dei grattacapi? Poi, io non sono capace di stare in società, con questi grandi signori, principi, mi sento a disagio… Non si vuole cambiare abitudini, cambiare ambiente. È un po’ quello che si diceva nella parabola del vino: il vecchio è migliore, perché cambiare, perché fare l’esperimento? Magari poi non ci piace, ci lascia la bocca amara. Non si dice che gli invitati facciano cose cattive: vanno al proprio lavoro, in campagna, certo l’impegno è molto più gravoso che non andare al banchetto. Però la giornata si è svolta sempre così e non si affaccia neppure il pensiero che si possa fare qualcosa di diverso, che si possa stare allegri in compagnia, per esempio. Con questo procedimento paradossale Gesù ci fa capire quanto ci può essere in noi di questa routine che ci chiude gli occhi: crediamo che niente di diverso sia possibile. Perché cambiare? Va bene così! Perciò Gesù mette questa spada nel nostro cuore dicendoci: non capita anche a te di non voler

provare qualcosa di diverso? Questo si può applicare a diverse situazioni nostre. Vi faccio solo un esempio che può essere significativo. Quanti di noi, che abitiamo a Roma, avevamo notato, scendendo dal treno, alla Stazione Termini, che c’erano dei vagabondi, gente che dormiva sulle panchine, sotto i portici! Ci eravamo detti tutti quanti: mah, cosa si può fare? È gente che vive così, non c’è nulla da fare. Ciascuno andava a casa, pensando magari che sarebbe stato bello far qualcosa, ma… Nessuno dei milioni di romani scesi a Termini di notte, negli anni passati, aveva tentato di fare alcunché. Ciò che più colpisce è che ci sono a Roma numerosi istituti di carità, specificamente dedicati al servizio dei poveri, ma nessuno di questi si era posto il problema: si è sempre fatto così! Continuiamo a fare le stesse cose, le stesse opere. Ci voleva Madre Teresa di Calcutta, che veniva da molto lontano, per rendersi conto che bisognava fare qualcosa. Adesso molta gente si muove, si presta, porta materiale, cibo, prepara e offre alloggi. Ma prima nessuno aveva capito che qualcosa invece si poteva fare; sembrava inutile, un problema troppo grosso, irrisolvibile. Ecco un esempio di quella che io chiamo la forza delle abitudini, della routine, anche in persone consacrate, che hanno come scopo la carità, il servizio dei poveri, ma alle quali, ormai, avendo già delle opere fatte, cristallizzate, non viene in mente che si possa e si debba fare qualcosa di diverso per costoro. Quando poi viene l’idea a uno, molti si muovono, se ne parla alla radio, alla televisione, come se fosse una grande scoperta. Ecco la tipica situazione di colui che nella scena del giudizio dice: ma come, Signore, non ho visto, non mi sono accorto, non ho pensato che si potesse fare qualcosa. Questa mi pare una prima risposta che Gesù ci dà: attenzione che l’abitudine alle cose che fai, il solco carrabile nel quale giri, non ti impedisca di capire se c’è qualcosa di più o di diverso che si deve fare. La parabola dei talenti: la paura di rischiare Una seconda cosa Gesù ci dice: forse, se non ti sei mosso, se non hai saputo vedere situazioni così evidenti attorno a te, è perché in fondo hai un po’ paura di rischiare. Questo già era un poco apparso nella parabola degli invitati: in fondo, il contadino che andasse alle nozze del re rischierebbe di farsi vedere goffo e zotico, di non saper parlare; quindi non gli va di rischiare

un nuovo contatto umano, un nuovo ambiente, perché ormai, nel suo ambiente è come un piccolo re, comanda in famiglia, a qualche servo, mentre fuori si vedrebbe che altro non è se non una persona di scarso talento. Nessuno vuol farsi vedere per come realmente è, perciò nessuno vuole cambiare abitudini e ambiente, tentare cose nuove, soprattutto quando ha già alcune cose ben assicurate, un certo gruppo in cui si sente a suo agio. Gesù flagella questa nostra paura nella parabola che ho già citato, in Mt 25,14-30. Anche qui mi limito a sottolineare il significato del terzo servo (che è poi il centro della parabola) che ha ricevuto un solo talento, e va a fare una buca nel terreno per nascondervi il denaro del suo padrone. Questo servo è, in fondo, un uomo onesto, che non vuole approfittare neppure di un centesimo per sé; anzi, per non essere messo in tentazione, va e lo nasconde, senza giocarlo o trafficarlo. Però il Signore lo chiama “malvagio e infingardo”: questo ci ricorda quell’altra parola “operatori di iniquità” detta a gente che, insomma, ha guarito persone nel nome di Gesù! Poi lo chiama ancora, al v. 30, “fannullone”. In fondo questo servo aveva anche servito, durante l’assenza del padrone avrà fatto i suoi lavori, quelli che doveva, al campo o con il bestiame. Quindi cosa si rimprovera qui, anche se siamo in un tipo di rimprovero un po’ paradossale? Che, proprio in quel punto in cui il Signore aveva avuto fiducia in lui, non abbia ricambiato la fiducia, non si sia buttato. Quindi non dobbiamo interpretare dal punto di vista moralistico la parabola, come sempre siamo tentati: in fondo non ha fatto niente di male! Non è colpevole dal punto di vista morale, perché rende ciò che gli è stato dato; ma dal punto di vista del Regno dei cieli, Gesù stigmatizza un nostro atteggiamento interiore, che è la paura di rischiare. Questa ha moltissime facce e ciascuno deve chiedere al Signore che gli faccia vedere la sua. Cos’è la paura di rischiare? È, per esempio, la paura di prendere una nuova strada perché non si sa dove si andrà a finire; se si comincia, dove ci si fermerà? Quindi, la paura delle conseguenze ultime di un tipo di impegno evangelico. Certe volte la paura assume un senso escatologico: cioè io vedo che se mi pongo in un certo atteggiamento, altri ne seguiranno; allora non oso fare questo primo passo. Spesso è anche la paura di fare il primo passo nelle relazioni umane, perché si può rischiare un rifiuto ad affrontare una situazione, un ambiente, una persona; sento che potrei fare qualcosa, ma… e se poi non va, se non mi accettano, se vengo rifiutato? Perciò non colgo

l’occasione. Questa paura di rischiare è spesso la paura di porre quell’atto nuovo, paradossale, che più volte è il solo a rompere delle situazioni stagnanti. Molto spesso noi viviamo in situazioni stagnanti: nelle relazioni familiari, comunitarie, dove, più o meno, la stessa routine di incomprensione o di comprensione solo fino a un certo punto si ripete. Se esaminiamo veramente il mondo della nostra comunicazione interpersonale, scopriremo tante di queste relazioni che lo psicologo americano Watzlawick15 (che ha scritto sul tema delle comunicazioni umane) chiama di omeostasi, in cui per esempio si possono trovare marito e moglie: cioè un tipo di relazione conflittuale ormai stabilizzata, in cui la moglie rimprovera il marito di non fare una determinata cosa, il marito rimprovera la moglie perché non lo capisce e si continua all’infinito. Ogni giorno si ripete, come se fosse nuova, questa situazione statica e stagnante. Qui occorre rischiare il fatto nuovo, che spesso può essere anche semplicissimo, però è necessario il rischio perché, finché uno sta nella stessa situazione, è difeso. Forse il Signore ci chiama a uscire allo scoperto, a esporci, e questo è difficile, perciò si ha paura e si preferisce non mettere a repentaglio quel piccolo talento che è la mia sicurezza, la mia pace. Perché c’è anche una relativa tranquillità nelle situazioni conflittuali stabilizzate, c’è la guerra fredda nella quale esiste il vantaggio che si sa che nessuno tenterà un atto al di fuori di quelle relazioni previste. Chiediamo al Signore che ci illumini su questo punto perché pochi di noi, credo, sfuggono alla morsa di queste relazioni statiche. Io mi vedo spesso senza il coraggio e senza l’inventiva di porre un atto nuovo che risolverebbe una situazione; e l’inventiva non viene perché manca il coraggio, perché il cuore non è aperto, non è libero. Spesso basterebbe così poco! Raccontano l’esempio di una situazione di stasi conflittuale in un consiglio di professori universitari, in cui l’atmosfera è veramente tesa e ciascuno aspetta che l’altro parli per poter avere il sopravvento. C’è una bottiglia sul tavolo: uno la rovescia. Tutti si alzano, cercano di asciugare, uno ride, l’altro commenta… La situazione di tensione è rotta con un fatto nuovo, banale, paradossale, che ha portato però a riflettere su quanto si era sciocchi a guardarsi in cagnesco l’un l’altro. Spesso occorre un piccolo atto rischioso, solo che uno non sa come andrà a finire e allora ha paura, preferisce continuare il gioco della difesa, di esplorazione delle possibilità che l’altro ha di coglierlo in fallo e quelle che

lui ha di rintuzzarle; e così la situazione permane. Ecco perché non sappiamo riconoscere il Signore nel fratello: perché abbiamo paura di questo tipo di rischio, abbiamo il cuore molto rattrappito. La parabola del seminatore: la fretta e l’ansietà Gesù, ancora molto amabilmente, continua nella sua catechesi e dice: figliolo, sai perché non mi hai riconosciuto? Perché hai troppa fretta. Qui ci soccorre la parabola del seminatore in Mt 13,3-10. Mi baso sulla spiegazione soprattutto, che si trova dal v. 18 al v. 23. Di questa parabola prendo solo un aspetto; anche gli altri possono essere utilmente meditati, ma mi sembra che questo ci riguardi particolarmente: il seme tra le spine. “Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola con gioia” (quindi noi, che siamo venuti qui volentieri ad ascoltare la parola del Signore), “ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto”. Gesù qui parla di due cose: il mondo (la stessa cosa che ci suggerisce sant’Ignazio: guardarci dagli inganni del mondo) e la ricchezza. Il testo greco spiega ancora meglio: “Tutta la situazione presente con il cumulo delle sue ambiguità in cui siamo immersi, la quale ha il suo affanno, cui segue la ricchezza che inganna, che ottenebra”. Come si può applicare questo alla nostra vita? È un po’ la stessa situazione del contadino che non vuole andare alle nozze del re perché deve pur andare ad arare il suo campo, altrimenti chi lo farà al suo posto? Abbiamo molte cose da fare, e nasce l’affanno per riuscire a farle tutte. Ed ecco che questa preoccupazione, quest’affanno ci prendono, con una certa complicità nostra, però, perché finché abbiamo molte cose da fare siamo dispensati dal pensare, dal vedere se non c’è qualcosa di più urgente, o di più importante. C’è una visita, una chiamata, una decisione da prendere: così faccio sempre qualche cosa e intanto mi illudo di essere un operaio del Regno di Dio. Ma spesso noi sappiamo (e lo vediamo con i nostri amici perché con noi stessi non riusciamo mai a vederlo) che c’è un certo avvelenamento. La persona a un certo punto si crea delle cose da fare perché non vuol pensare, perché non vuole prendersi un po’ di tempo per domandarsi se le cose che fa sono veramente necessarie: sono le più gravi quelle cui ho dato il mio tempo? Ho compiaciuto Tizio o Caio, ho messo a tacere il tale, ho dato il contentino

al tal’altro, ma ho veramente amato i fratelli? Ho veramente dato qualcosa di me, oppure ho solo risposto a delle domande “professionali” e mi sono talmente caricato di esse da dispensarmi dal chiedermi se queste erano la vera risposta, se la gente aveva bisogno davvero di questo? È un veleno sottile che appesta tutta la nostra esistenza e proprio perciò Gesù ci mette in guardia. La gente che tornava a casa, la sera, scendendo alla Stazione Termini, è chiaro che pensava: ho tanto da fare, devo tornare a casa, mia moglie e i bambini mi aspettano; certo, sarebbe molto interessante, magari, se si potesse fare qualcosa, forse ne parlo alla prossima conferenza della san Vincenzo, vedrò… Così i buoni propositi passano, ma in realtà non vengono portati avanti, perché ci sono tante cose che urgono, magari tutte cose buone. Il contadino che va al campo, il mercante ai suoi affari non fanno cose cattive, ma non è la cosa in sé, è l’affanno, i doveri fittizi. Come la padrona di casa che non ha mai tempo perché la casa deve essere sempre perfettissima, lucidissima, inappuntabile; sempre si crea nuovi espedienti, nuove cose da preparare, ed è sempre affannata, e gode di questo suo affanno perché, se non l’avesse, sarebbe di fronte alla sua verità e sarebbe molto peggio. Quindi, preferisce questo affanno fastidioso alla verità in se stessa; preferisce essere sempre di corsa, non avere mai tempo, perché così non è obbligata a riconoscere che il suo modo di trattare il marito, i figli, non è quello giusto: fa per loro molte cose, tutto a posto, in ordine, il pranzo sempre migliore. Ma chi è quest’uomo, chi sono questi ragazzi, cosa fa per loro, come cerca di capirli? A questo non c’è tempo per pensare. Gesù dice: tu non vuoi uscire da questa routine delle cose che ti assillano, ma di cui sei contenta, anche se sempre ti lamenti con le amiche che non hai tempo, che c’è questa crisi delle persone di servizio, che devi fare tutto, e non arrivi mai, e diventi l’eroina della casa perché sei sovraccarica di lavoro. C’è poi l’inganno delle ricchezze, che si ha nelle forme più evidenti quando non si è mai contenti, si vuol avere sempre di più; pensare come fare a guadagnare di più; e questo pensiero rode: la macchina sempre migliore, poi la seconda macchina, poi la seconda casa, si è sempre col pensiero lì e non c’è mai tempo di pensare agli altri. Ecco come si giunge, pur con tutta la buona volontà e volendo creare una famiglia giusta, buona, onesta, a non capire perché i figli non ci capiscono, perché non c’è dialogo con loro. Eppure si è fatto tutto, si è dato il motorino, una buona posizione, cosa non si farebbe per loro! Ma non ci si ferma mai un istante a pensare: chi sono questi ragazzi, cosa vogliono, quali sono le loro aspirazioni, le loro idee.

Questo è l’inganno della ricchezza, che naturalmente ha un significato molto più ampio. C’è la ricchezza spirituale: può anche capitare che uno sia così preoccupato di farsi dei meriti, di osservare tutte le regole, che non si accorga più di chi gli sta vicino. Oppure quella culturale di chi vuol sempre più approfondire per far sfoggio della sua conoscenza: uno conosce alla perfezione il Vangelo, le Sacre Scritture, la teologia antica e moderna, tutte le teorie degli esegeti, è sempre alla pari con i progressi, ma mai si domanda: che cos’è il Vangelo per me? Di tutte le cose che leggo, cosa veramente mi entra nel cuore, che cosa ritengo? Mi faccio una bella veste di tutto quello che ho letto, che conosco, solo per arricchirmi culturalmente? L’inganno della ricchezza ci toglie il contatto con la verità dell’amicizia del Signore, che è l’unica importante, e quindi l’amicizia vera con il fratello che mi sta vicino, che è l’unica cosa che conta. Ripetiamo in fondo l’errore di Marta, che vuol dare il pranzo più grande che mai si sia visto per Gesù e gli apostoli, ma sbaglia tutto, perché si è messa in mente di fare chissà che cosa e perciò non riesce a capire che Gesù non è venuto da lei per avere il pranzo più succulento che mai sia stato offerto in Palestina, ma per avere un ascolto. Ecco come Gesù ci lavora e ci fa capire: al momento giusto giri l’angolo, volti la testa dall’altra parte, non ti sei accorto. È vero, questo non accorgerti, in quel momento, del fratello forse non era del tutto colpevole, ma se tu me ne chiedi la ragione, te la dico: la ragione è dentro, è che il tuo cuore non è autenticamente liberato. Signore, abbi misericordia di noi, tu solo sei la salvezza, fa’ che non abbiamo paura della verità. Fa’ che la verità, anche amara di noi stessi, delle cose che non vogliamo fare, che ci rifiutiamo di fare, emerga. Signore, fa’ che non abbiamo paura davanti a te, e anche davanti ai fratelli, di riconoscere che siamo molto poveri, che siamo servi faccendoni e affannati, ma non sempre oculati e attenti a ciò che è veramente importante. Chiediamo alla Madonna, a Gesù, a Dio Padre che ci concedano questa conoscenza di noi stessi semplice, umile, tranquilla, senza irritarci perché siamo così. Gesù per primo ci dice: Non spaventarti, io ti conosco, lo so che sei così, non aver timore a parlare con me di queste cose, a mostrarti. Anzi, intrattieniti volentieri con me.

IV. CHE COSA MI MANCA? Iniziamo la nostra meditazione con una preghiera. Concedi, Padre, che ci conosciamo come tu ci conosci. Fa’ che attraverso questa conoscenza noi possiamo conoscere il dono del tuo Vangelo, che è il tuo stesso Figlio, Gesù Cristo, fatto uomo per noi, per noi morto e risorto, che ci dona lo Spirito Santo e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Continuiamo le nostre meditazioni nella via della purificazione, che certamente ha una sua fatica, ma che è necessaria, se vogliamo rientrare di più in noi stessi e scoprire in noi il dono del Vangelo. Chiediamo al Signore di farci compiere questo esercizio con diligenza, con pace e serenità. Mi ero proposto di suggerirvi questo lavoro, secondo due linee che si alternano. Abbiamo già riflettuto, sulla base della parabola di Gesù, su questa domanda: Signore, che cosa c’è dentro di me per cui non mi sono mosso ad aiutarti, che cosa c’è nel mio cuore che non va, per cui non si è mosso verso di te? Ora vorrei invece proporre una riflessione alternativa: Signore, cosa manca in me perché io mi muova a riconoscerti, a lasciarmi accogliere da te, nel tuo regno, a vivere quell’esistenza autentica che tu hai preparato per me fin da ora? Quindi, mentre nella meditazione precedente ci siamo interrogati su alcuni ostacoli negativi che sono in noi (e lo faremo ancora in seguito riflettendo sulle antitesi del discorso della montagna e interrogandoci su quel che in noi manca), ora vi propongo di farlo su tre passi di Matteo: Gesù e il giovane ricco (19,16-22), strettamente collegato con le due piccole parabole sul tesoro nel campo e sulla perla preziosa (13,44-46). Naturalmente leggeremo questo alla luce di un detto di Gesù del discorso della montagna in 6,20-21: “Accumulatevi tesori nel cielo, perché dove è il tuo tesoro là è il tuo cuore”, cioè là è la tua realtà profonda, di persona che agisce e si muove. Il giovane ricco: l’offerta di un’amicizia “nuova” Riflettiamo dunque insieme, prima di tutto, sul racconto di Gesù con il giovane ricco, esegeticamente irto di problemi; ne accenno solo qualcuno. Questo racconto, sino a una ventina di anni fa, era considerato il passo tipico della vocazione religiosa. Si distingueva, sulla base di questo racconto, la

duplice vocazione: da un lato l’osservanza dei comandamenti, dall’altro l’accettazione dei consigli evangelici, della povertà in particolare. Se invece leggete gli esegeti degli ultimi dieci, quindici anni, vedrete che ormai quasi più nessuno ritiene questo passo come tipico della distinzione tra vocazione comune e vocazione alla perfezione. In questo mi pare che ci siamo allineati all’opinione comune ormai da secoli tra i protestanti, i quali hanno sempre negato la distinzione tra i due stati. Oggi, noi, pur non negando la realtà nella Chiesa di questa chiamata alla perfezione, tuttavia riconosciamo che in questo brano si parla dell’uomo, non si tende a dividere in due categorie la gente: fin qui per tutti, poi di più a scelta. È un brano che parla dell’esistenza umana, della cosiddetta situazione esistenziale, della vita di ogni giorno, quindi di ciascuno di noi. Perciò ci rispecchiamo tutti in qualche modo in esso, anche se si tratta di un brano molto difficile da spiegarsi in tutti i particolari. Vi propongo una spiegazione, che mi sembra corrisponda all’insieme e che trovo spesso ben chiarita nei commenti esegetici. Vediamo, dunque, che Gesù si avvia verso Gerusalemme, e in vicinanza della città vengono trattati due grossi problemi dell’esistenza umana che sono contenuti in questo capitolo: il problema del matrimonio, del divorzio e del celibato nella prima parte e poi il problema della ricchezza. Tra i due, come intermezzo e punto di riferimento, troviamo il detto di Gesù sui piccoli: “Chi non si fa come questi piccoli non entrerà nel regno”. Lo leggiamo così, semplicemente, senza approfondire troppo il contesto, ma cercando di capire, parola per parola, che cosa ci dice. Chiediamo al Signore che ci metta dentro questa situazione, che anche questa volta ci sia dato di leggerla dall’interno. “Ecco che un tale viene e dice: Maestro, che cosa devo fare di buono affinché possieda la vita eterna?” Già questa domanda, se riflettiamo bene, è abbastanza significativa, perché nessuno di noi, come ci insegna la psicologia moderna, apre la bocca senza rivelare se stesso e il suo mondo interiore. Quest’uomo domanda: “Che cosa devo fare?” Già qui ci sembra un uomo abbastanza preoccupato del “fare”: che devo fare io, quali beni devo mettere in opera. Dopo sapremo che è ricco: è un uomo abituato a comprare, a sapere che ogni cosa ha un prezzo, che è in potere dell’uomo ricco fare molte cose. Pensa che ci sia qualcosa di grosso da fare, è un uomo che ha molta fiducia nell’efficienza: Signore mettimi un traguardo anche alto; in modo che io mi

misuri con questo. Un uomo che dice subito: quanto costa, sono disposto a pagare. È quindi un uomo pratico. “Per possedere la vita”. Anche qui il verbo significa: perché io ce l’abbia in mano, sia sicuro di averla. È un uomo abituato a comprare e a possedere mediante il denaro, quindi anche la vita eterna la vuole con sicurezza. Gesù con molta semplicità non lo respinge, mi pare, anche se faccio una lettura che non è molto evidente dalle parole. Suppongo che quest’uomo venga avanti con un po’ di boria, perché ci vuole una certa sicurezza di sé per fare una simile domanda davanti a tutta la gente che ascoltava. Gesù sta al gioco, vede che questo uomo in fondo ha buona volontà (Marco aggiunge addirittura che Gesù “lo amò”), anche se forse è un po’ pretenzioso e vuole fare bella figura di fronte alla gente. Gesù gli risponde cominciando a correggerlo benevolmente. La frase è molto misteriosa, qui anche gli esegeti si pongono dei problemi. Dice: “Perché mi interroghi su ciò che è buono. Uno è il buono”. Cosa vuol dire? Si capisce in Marco, dove il giovane chiede: “Maestro buono”, e Gesù risponde: “Uno solo è buono: Dio”. Ma qui, in che modo Matteo l’ha inteso? Io lo leggo così, proprio secondo l’ipotesi psicologica che ho fatto: questo è un uomo un po’ troppo preoccupato delle cose e Gesù gli dice: attento, il bene non è una cosa, ma una persona. Tu ti preoccupi di fare una certa quantità, siamo invece nel mondo delle relazioni, della qualità. Non si tratta di un bene, ma di una persona buona. Gesù non continua, solo dà un cenno di benevola correzione a questo atteggiamento troppo mercantile di chi lo ha interrogato; riprende la sua domanda, anche qui correggendola: non “se vuoi possedere la vita”, ma “se vuoi entrare nella vita”. La vita ti è offerta da Dio, quindi non è che tu possa possederla; ma, se vuoi parteciparvi, osserva i comandamenti. Gesù non si è sbilanciato, non ha detto assolutamente niente di nuovo, è rimasto sul terreno della domanda, correggendola soavemente, in modo che la persona capisca di non essere nella situazione giusta, di domandare a partire da un certa presunzione, forse inconscia, ma di cui Gesù tenta di rivelargli l’esistenza. Gesù gli dà una risposta che si trova nel libro del Levitico, in tutta la tradizione veterotestamentaria. Per avere una risposta del genere, così evidente, non c’era bisogno di fare una domanda così solenne in mezzo alla folla. Che età avrà avuto? Certo non è un ragazzino; il termine “ricco” indica un uomo sui 25-30 anni, un uomo che già possiede in proprio, ha un avvenire

davanti a sé. Non ancora sposato, quindi sta riflettendo su di sé, ha delle ambizioni, anche di carattere filantropico e morale, un uomo che sa che la vita non si gioca sul poco, ma bisogna spenderla per cose grandi. Quest’uomo incalza: “Quali comandamenti?” Anche qui Gesù sta sul suo terreno, gli dà una risposta evidentissima: “Non uccidere, non rubare, non fornicare, non dire falsa testimonianza, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso”. Come notano bene gli esegeti, e come potete vedere anche voi, qui Gesù parla della seconda Tavola dei comandamenti, cioè delle relazioni col prossimo: abbi giuste relazioni col prossimo, dice Gesù, non defraudarlo in niente, dà a ciascuno il suo: la roba, la sposa, l’onore al padre e alla madre, la verità a tutti. Solo Matteo aggiunge una cosa che disturba un poco gli esegeti, cioè il comando generale: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. È abbastanza indicativo, perché con questa parola di Gesù Matteo si ricollega esattamente al giudizio finale. Gesù gli risponde in pratica: abbi relazioni giuste con tutti, anzi esercita l’amore. Il dialogo sarebbe finito, ma qui interviene la sorpresa, il discorso va avanti, quasi che Matteo voglia rispondere a una domanda implicita: come è possibile esercitare le opere di carità senza cambiare il cuore? Oppure: com’è possibile voler esercitare queste opere di carità eppure non farle, non essere capaci neppure di vederle quando si presentano? C’è qualcosa di più, dunque, del materiale esercizio delle opere di carità, c’è qualcosa di più profondo. Il giovane infatti dice: “Tutto questo l’ho osservato”. Quindi questo giovane non solo è stato onesto nell’amministrazione del suo patrimonio, non ha rubato, non ha mentito, ha onorato i genitori, ma ha anche amato: ha fatto elemosine, è stato generoso con i poveri, si è preoccupato dei malati… E insiste: “Cosa mi manca ancora?” Qui mi fermo un momento, mi verrebbe da chiedere a questo giovane: ma perché, chi te lo fa fare di domandare ancora? Perché non dici: grazie, Signore, tutte queste cose le ho già osservate e vado a casa contento; perché ti metti nei guai, facendo ancora una domanda che ti farà star male? Il giovane potrebbe rispondere: sentivo che malgrado tutto non ero soddisfatto. La mia era una domanda sincera. Facevo tutto bene, avevo degli amici, amministravo bene le mie ricchezze, ero stimato una persona onesta, ma io sono giovane, mi sento chiamato a fare cose grandi nella vita, io voglio sapere… C’è nel fondo di noi stessi questa esigenza di qualcosa di più: sentiamo

che il fare “ragionevolmente bene” le cose non basta. O meglio, l’abbiamo già visto e lo vedremo ancora, il fare ragionevolmente le cose è impossibile, se non ci apriamo a qualcosa di più. Questo giovane ha capito perfettamente che l’uomo, che è desiderio di infinito, di profondità, di relazioni senza limiti, non si ferma sulle cose ordinarie, a meno che non accetti un’esistenza superficiale e piatta. C’è qualcosa in noi che domanda di più, che chiede profondità di rapporti, relazioni di persona che vadano fino in fondo, e questo si verifica principalmente con Dio. Dunque questo ragazzo domanda ancora: che cosa mi manca? Anche qui c’è ancora quella presunzione: voglio raggiungere quella misura che è la pienezza. Ora la risposta si fa solenne: “Disse a lui Gesù”. Prima Gesù era rimasto un po’ in superficie, ma visto che la persona ha tirato fuori qualcosa di meglio, cioè in fondo si è mostrata vera, esprimendo il desiderio di quel “di più” che fa vedere come la domanda non era solo convenienza umana, ma vera sete di sapere, allora anche Gesù va in profondità, scopre le carte: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi i tuoi possedimenti, dà ai poveri e avrai un tesoro nei cieli. Poi vieni e seguimi”. Notiamo il modo in cui è formata questa risposta: “Se vuoi essere perfetto”. Qui Gesù non parla di una gestione super-erogatoria, ma dice: se vuoi veramente essere ciò che come uomo sei chiamato a essere, compi quell’atto paradossale che finora non ti è neppure venuto in mente, cioè liberati di tutto ciò che è la vita abituale, di tutto ciò che è la routine della tua esistenza, di tutto ciò su cui ti appoggi, senza saperlo, e che rende la tua vita così immobile, così statica, così priva di sorprese, così borghesemente onesta. Devi accettare di compiere quel gesto paradossale che nessuno compie quasi mai, nella tua situazione, che la gente ritiene folle: cosa gli ha preso, adesso, di andare a vendere tutta la sua roba? Ma è pazzo! Forse aveva dei debiti segreti, giocava, non lo sapevamo, adesso finalmente si scopre, lo credevamo chissà chi… Così la gente comincia anche a malignare. A questo giovane non solo dispiace di lasciare tutto, ma anche di che cosa dirà la gente, di essere preso per matto, o per uno che ha dei secondi fini, perché in fondo la gente benpensante non crede mai che uno faccia le cose per scelta, per generosità. Quest’uomo si sente portato da Gesù a una situazione che per lui sarebbe veramente assurda. Gesù gli spiega benevolmente il perché di questo paradosso che gli è richiesto: “Avrai un tesoro nei cieli”. Abitualmente perché non riesci a sbilanciare la tua vita?

Perché il tuo tesoro è nelle cose che possiedi. Forse non te ne accorgi neppure, perché ti sei appoggiato finora a esse come a un’evidenza; ma quando ti mancheranno, vedrai quanto veramente ti difendevi; vedrai quanto diventerai libero, se porrai il tuo punto di equilibrio fuori di te, nei cieli, cioè in Dio; vedrai allora quanto il tuo rapporto con Dio diventerà vero. Finora era un rapporto di comodo, di chi si sente al sicuro e allora offre a Dio la sua vita, la sua fedeltà, l’osservanza dei comandamenti, pensando: in ogni caso sono tranquillo, ho le cose che mi sostengono. Invece così ti metti in un rapporto di inimicizia con la società che ti circonda, che, come minimo, almeno non ti capirà; ti metti così in una situazione di dipendenza totale davanti a Dio, hai giocato tutto per lui. Finora potevi giocare su due roulette diverse, puntavi un po’ di qua e un po’ di là; ora su una sola, quindi devi sbilanciarti per forza. Vedi la ragionevolezza di questo paradosso? Avrai un tesoro nel cielo. Solo allora potrai seguirmi. Qui siamo dinanzi a un concetto molto importante per Matteo, per lui è necessario seguire Gesù. Quest’uomo invece non poteva seguirlo perché non si era mai sbilanciato. Solo allora, continua Gesù, sarai quello che veramente devi essere, avrai la pienezza della vita e l’autenticità cui aspiri segretamente, avrai superato quella sottile scontentezza che ti rode, che è presente in tutte le cose che fai bene, in tutte le lodi che ricevi, in tutti gli onori che ti sono prodigati dalla gente che tu benefichi. Allora sarai vero. Ecco la proposta di verità. Conosciamo la risposta che Matteo riporta con molta solennità. “Avendo ascoltato la parola, il giovane se ne andò triste”. La parola sembra proprio da intendere come la Parola di salvezza, definitiva, chiara, quella che ti ci voleva. Tu hai insistito per averla, hai chiesto ripetutamente, tre volte: ora ti è stata detta, ora hai conosciuto la tua verità, come in fondo sei attaccato alle tue cose, al tuo mondo, alle tue abitudini; capisci che gli altri ti hanno etichettato come ricco e tu non puoi uscire da questa etichetta, sei condannato a rimanerci, anche tuo malgrado. “E il giovane se ne andò triste”. Perché triste? Perché si è scoperto schiavo. Strana condizione di questo giovane, che è giunto libero, baldanzoso, sicuro di sé, e se ne va riconoscendo la sua schiavitù, riconoscendosi stagnante nella sua vita, schiavo del giudizio altrui e delle cose che possiede e con un avvenire chiuso. “Se ne andò perché aveva molti possedimenti”, o meglio molte cose che lo possedevano.

Io vi suggerisco, nella meditazione, di non fermarvi qui, ma di andare a casa con questo giovane, di accompagnarlo e di vedere un po’ che cosa fa. Certo comincerà a dare ordini, a fare il disinvolto, a cercare di dimenticare, poi tutta la notte si roderà: chi me l’ha fatto fare? Perché ho fatto quella domanda? Non potevo starmene a casa? Adesso niente è cambiato, ma niente è più come prima. E domani cosa farò? Adesso farò grandi cose, mi darò da fare… Ma rimane sempre con quella scontentezza: è andato via triste, perché sa di non essere autentico, di non essere vero. Possiamo seguirlo nei giorni che verranno, apparentemente contento, pieno di allegria, disinvolto. Magari diventa anche più pio, più devoto, cerca di pregare di più, per mostrare a se stesso che è una persona onesta, giusta, retta. Va al tempio, dà grandi offerte alla sinagoga, ai poveri, viene stimato come una persona veramente devota, religiosa, però non si sente a posto. Certo possiamo continuare ancora con la fantasia, per poi rientrare nel Vangelo, anche se non ce ne stiamo allontanando poi troppo. Io immagino che a un certo punto questo giovane abbia pensato: voglio parlare un’altra volta con Gesù, la prima non mi è bastata, non mi arrendo. Lo cerca, s’informa e si decide, perché non può più vivere senza andare a cercarlo. Supponiamo che domandi consiglio a ciascuno di noi per sapere, ora che riandrà da Gesù, cosa dire, come comportarsi. Gli diremo forse: prendi una polizza e scrivi: “Tutto il mio lo do ai poveri” e consegnala a Gesù. Sarebbe l’atteggiamento giusto? Oppure che altro consiglio gli daremo? Come potremo dirgli di presentarsi a Gesù essendo vero, non facendosi ciò che non è? Se questo giovane è onesto, come appare dal Vangelo, alla fine sceglierebbe la via giusta. Cioè direbbe, magari, in un momento in cui Gesù è in disparte (non osa più parlare di fronte alla gente perché è già stato scottato con una risposta pubblica): “Signore, tu hai detto la verità. Hai ragione, sono un gran vigliacco, però non ce la faccio. Non ho niente da portarti, i miei possedimenti sono là, ma non servono. Non capisco perché non riesco a muovermi. Ti chiedo, Signore, di spiegarmi che cosa sta succedendo in me. Fa’ che io capisca meglio. Signore, capisco che non sono un eroe. Vedo la mia incapacità, la mia povertà, sono proprio niente, ma adesso te lo dico e dicendolo mi sento più tranquillo. Ti chiedo una cosa sola: fammi capire perché non sono stato capace, perché non ho colto la palla al balzo, perché anche ora mi sento così pesante, così diviso internamente…”

Qui rientriamo nel Vangelo. Gesù gli dirà: vedi, tu non potevi non comportarti così. Forse ci parrà strano, ma Gesù comincerebbe proprio con lo scusarlo: non potevi fare diversamente, perché il tuo tesoro era lì e tu non potevi cambiare il luogo del tuo tesoro. La perla preziosa Vedi, c’era una volta un mercante, che era un uomo molto concreto, non si muoveva se non c’era un guadagno sicuro, non cedeva mai di un centesimo sul suo, ma piuttosto cercava di imbrogliare il prossimo; un uomo disonesto, il quale guardava solo al denaro. Un giorno ha trovato, forse al mercato delle pulci, una perla preziosa; con occhio esperto ha calcolato subito che valeva molto. E ha fatto quello che tu non sei stato capace di fare: è corso a casa, ha venduto tutto e rapido come un lampo è corso lì e ha comprato quella perla, prima che qualcun altro gliela portasse via. Quest’uomo non era né devoto né fervente, né onesto, eppure ti ha battuto, ti ha superato. Il tesoro nel campo Poi Gesù potrebbe raccontargli anche l’altra parabola, quella di 13,44-46: “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo”. Sappiamo che gli antichi usavano spesso questo sistema: quando venivano le invasioni c’era pericolo, scavavano la terra e nascondevano dentro quello che avevano di prezioso. Poi capitava che magari la persona moriva prima di aver potuto rivelare il nascondiglio. Ancora a Qumran, qualche anno fa, fu trovato un simile tesoro: tre giare colme di monete, sepolte una vicino all’altra; si vede che nessuno aveva più saputo dove erano. Dunque un uomo scava e trova un tesoro. Anche questo è un uomo poco onesto, uno speculatore, quindi copre le tracce in modo che non si veda che qualcosa è stato toccato e poi “pieno di gioia – dice il Vangelo – corre a casa, va, vende tutto”. Magari la moglie, i figli gli dicono: cosa fai, ma sei impazzito, cosa succede? Non sente niente, non ha paura di nessuno, vende tutto e va a comprare il campo. Forse la gente ride di lui: perché ha comprato quel campo, non vale niente, è arido, non ci arriva l’acqua, l’hanno truffato!… Ma lui va avanti e sfida il ridicolo, perché sa che lì c’è il tesoro.

Allora Gesù forse dirà a questo giovane ricco: vedi, tu non puoi muoverti se qualcuno non ti fa capire che il tuo tesoro è altrove, che il bene che desideri è una Persona buona, che cerca un rapporto di verità con te. Delle parole che ti ho detto hai ascoltato solo le prime e hai detto: no, è impossibile, è una pazzia, cosa diranno i parenti, la gente… non posso. Vedi, tu invece dovevi badare all’ultima parola: seguimi. Era cioè un invito personale quello che il Buono ti rivolgeva, un invito a una relazione di amicizia “nuova”, nella quale ti saresti ritrovato davvero, quell’amicizia che nessuno dei tuoi parenti e degli amici che stanno con te per il denaro ti dà. Tu non l’hai capito. Allora non potevi. Così io ti ho lasciato nella tua tristezza, finché maturasse in te il bisogno di me. Qui allora credo che possa cominciare la nostra preghiera: Signore, perché non ti so riconoscere, perché non mi butto? Perché tu consideri sempre queste cose come doveri, come cose da fare, come beni da produrre. Perché non pensi che sono io che ti offro la mia amicizia: è il rapporto con me che è in gioco. Sono io l’origine della tua forza, della tua capacità di buttarti. Finché la cerchi in te o attorno a te, non l’avrai mai. Se io avessi comandato a quel mercante di comprare con tutti i suoi denari una perla che non gli sembrava valida, mai l’avrebbe fatto: l’ubbidienza non sarebbe servita a nulla. Se avessi detto a quell’uomo: compra quel campo, senza che egli fosse certo che c’era un tesoro, quando mai lo avrebbe comprato? Dunque guarda la sorgente da cui la verità della tua vita riceve luce: non è il dare ai poveri o il fare questo o quello, ma è, al fondo di tutto, un rapporto di verità e di amicizia con me. Soltanto qui tu puoi verificare quella verità di te stesso che finora ti pesa. Preghiamo così e capiremo che non si tratta di fare grandi cose, ma di trovare il Signore; se lui comincia a parlarci, a metterci nel cuore qualcosa, allora tutto cambia, tutto è diverso: allora i rapporti si rovesciano, non mi importerà più niente di quello che la gente dirà, perché avrò puntato il mio occhio sul tesoro che egli è. Voglio raccontarvi un fatterello che mi ha colpito molto, una storiella antica che ho letto facendo degli esercizi in lingua copta, parlata nell’Antico Egitto, che si studia al Biblico per approfondire meglio la conoscenza del Nuovo Testamento. Si sono conservate in questa lingua delle bellissime sentenze dei primi Padri del deserto, che sapevano raccontare in pochi tratti situazioni umane molto profonde. In questo episodio si dice che un tale andò da uno di questi grandi Padri

del deserto e gli disse: Padre mio, tu che hai tanta esperienza, spiegaci perché tanti giovani monaci vengono nel deserto, ma poi tanti se ne ripartono; come mai così pochi perseverano? Allora il vecchio monaco disse: “Vedete, succede come quando un cane corre dietro alla lepre, abbaiando. Molti cani, sentendolo abbaiare e vedendolo correre, lo seguono. Però soltanto uno vede la lepre; presto succede che tutti quelli che corrono solo perché il primo corre, si sfiancano e si fermano. Soltanto quello che ha davanti agli occhi la lepre continua, finché non la raggiunge”. Così, dice il vecchio monaco, soltanto chi ha messo gli occhi veramente sul Signore crocifisso sa davvero chi segue e sa che vale la pena di seguire. Questo è un altro modo di rispondere al giovane ricco: se tu metti gli occhi nel punto giusto, cioè se ti lasci guardare dal Signore, non solo come maestro, che ti insegna a comportarti meglio, ma come amico che ti chiama a seguirlo, se tu capisci di che genere è l’offerta che ti sta facendo e il rapporto nuovo che ti propone, allora fai quel salto di qualità che giustifica ogni paradossale scelta di vita, allora diventi ciò che Gesù, nella sua bontà, ti chiama a essere: una persona che è Figlio del Padre e che perciò entra nella libertà del Figlio. Quindi chiediamo anche noi questa grazia, chiediamo di capire questo Vangelo che è buona novella e non deve farci tristi, ma riempirci di gioia, come il mercante che ha trovato la perla. Noi ti ringraziamo, Gesù, perché tu ci proponi la tua amicizia; ti ringraziamo perché al di là di ogni cosa che facciamo, o possiamo fare, tu ci offri un rapporto vero, reale con te, da cui dipende ogni rapporto vero con gli altri. Ti chiediamo, Signore, di accettare questa tua offerta, di non respingerla o di considerarla come una cosa evidente, perché è un dono eccezionale che tu ci proponi. Ti chiediamo, Signore, di manifestarti a noi dicendoci ciò che siamo, rivelandoci la verità su noi stessi, perché possiamo gustare la gioia del tuo Vangelo. Ti preghiamo, Signore, che ci salvi, che ci doni il tuo Spirito di verità, tu che vivi e regni con il Padre e lo Spirito nei secoli dei secoli. Amen.

V. CHE COSA C’È NEL CUORE DELL’UOMO?

Rivolgiamo la nostra preghiera alla Madonna. Vergine Maria, madre del Signore, immacolata, tu che non hai conosciuto il peccato, fa’ che noi conosciamo il nostro peccato. Tu che hai conosciuto la misericordia del Signore, fa’ che noi conosciamo la sua misericordia. Amen. Affrontiamo ancora una meditazione che riguarda la via della purificazione. Non vi sembri tediosa questa insistenza; credo sia importante ritornare periodicamente su questo aspetto della purificazione per poter capire il Vangelo, il dono di Dio fatto a noi. Mi pare anche che, quanto più maturiamo nella vita, tanto più sentiamo chiaramente i nostri limiti e il nostro peccato. E il Signore ci invita a prenderne coscienza sempre meglio per capire più interiormente, più vivamente, la salvezza che il Vangelo ci propone. Quindi lo scopo di questa meditazione, come delle altre che seguiranno, non è direttamente ascetico, cioè vedere che cosa mi manca per impegnarmi, fare dei propositi immediati e cambiarmi, ma piuttosto uno scopo teologale, cioè di contemplazione di me stesso davanti a Dio. È la contemplazione che sant’Ignazio ci propone nella seconda meditazione sul peccato, quando ci fa dire “paragonare Dio con me e me con Dio”16. È questa contemplazione di sé davanti a Dio che dobbiamo chiedere nella preghiera. Contemplazione che sfoci nella preghiera battesimale, cardine e punto focale di tutta la nostra vita cristiana. Intendo per preghiera battesimale quella con cui l’uomo, riconoscendo la verità di se stesso, chiede il battesimo di fronte alla Chiesa; riconoscendosi peccatore (nella linea del cap. 7 della lettera ai Romani), chiede al Signore di immergerlo nella sua potenza per l’azione della Chiesa. Questa è la scintilla iniziale di tutta la nostra vita di fronte a Dio, della nostra verità. Siamo quindi chiamati, negli esercizi, a percepirla. Evidentemente, oggi, questa preghiera battesimale non si esprime più in richiesta di battesimo, ma di riconciliazione, con il ministero ecclesiale del perdono, divenendo dunque preghiera penitenziale: chiedere alla Chiesa che sottometta a Dio la nostra peccaminosità. Una grazia speciale, da chiedere in questa meditazione, sarebbe non solo – come ci fa dire sant’Ignazio –: “Sentire l’interno disordine della vita” come qualcosa che mi riguarda personalmente, ma allargare la considerazione e

sentire l’interno disordine della mia vita anche come qualcosa che mi impedisce realmente di fare comunità. Capire perciò come il mio peccato è l’ostacolo reale alla messa in atto di relazioni umane vere, e quindi alla creazione di un’autentica comunità. Analogia tra lo sviluppo di una comunità e il ritmo degli Esercizi Molto interessante un articolo del padre Rieman17, fino a qualche tempo fa responsabile mondiale delle Comunità di Vita Cristiana, che ha fatto un breve studio sullo sviluppo di una comunità e il ritmo degli Esercizi ignaziani. Egli dice che è un’analogia e che non bisogna insistere troppo nelle similitudini, tuttavia c’è nello sviluppo di una comunità qualcosa di analogo al ritmo delle quattro settimane degli Esercizi. Una comunità comincia, di solito, con quello che si chiama il “Principio e Fondamento”, cioè si vede la grandezza, la bellezza dello stare insieme, si apprezzano i vantaggi di essere capiti, di sentirsi appoggiati nella propria azione personale, sociale, apostolica, della possibilità di comunicare. Poi però segue ciò che egli chiama, secondo gli studi di psicologia sociale, la crisi comunitaria: dopo un po’ si comincia a vedere che in fondo stare insieme non è poi così bello, così roseo e così facile come pareva. A una certa cecità per i difetti altrui subentra la percezione di tante cose, magari piccole, ma fastidiose e irritanti, che rendono nervosi. Si comincia a vedere che vivere in comunità è molto difficile, i personalismi saltano fuori, ciascuno rivela se stesso, i propri conflitti, le paure, le aggressività, i tic nervosi, e allora tutto comincia a diventare pesante. A questo punto o la situazione scoppia, oppure si stabilizza in omeostasi, cioè in un certo aggiustamento dei conflitti interni in modo che la facciata non ne sia intaccata e ci si possa ancora presentare all’esterno come comunità. Anche se le cose, all’interno, non vanno tanto bene, per amore di pace e di bella figura si continua. Somiglia alla storia di parecchi matrimoni: si va avanti perché bisogna fare la figura di persone unite di fronte alla gente, anche se non lo si è, perché ci si è impegnati con onore a continuare. In questi casi la comunità diventa molto formale, senza i vantaggi veri della vita comunitaria, che sono raggiunti solo in minima parte. La crisi della comunità trova la sua vera soluzione quando, anche come comunità, ci riconosciamo peccatori davanti a Dio, incapaci di stare insieme,

e ce lo confessiamo a vicenda: se Dio non ci salva, non siamo capaci di fare comunità, è soltanto dono suo. È una specie di battesimo collettivo, una preghiera battesimale fatta insieme, nella quale ci si riconosce gli uni gli altri nelle proprie colpe, manchevolezze, limitazioni, si riconosce che Dio solo può a questo punto tenerci uniti e si chiede di sottoporsi insieme alla sua potenza. Di qui, allora, può cominciare il secondo stadio, quello veramente positivo del discernimento, della scelta. Il padre Rieman dice che ogni discernimento fatto prima di questo stadio non può avvenire. Naturalmente, periodicamente, questa situazione può ripetersi, a livelli più alti e più sottili, con il bisogno di mettersi insieme e di riconfessare che solo il Signore ci tiene insieme, mentre il nostro peccato tende a disgregarci, magari per cose che sono santissime, per diverse visuali sul come vivere, per esempio, la povertà o l’impegno apostolico, cose elevatissime che però cozzano insieme e creano scintille. Sempre il Signore ci riconduce all’umiltà battesimale: lasciatevi salvare da me, egli dice, riconoscete che non siete capaci di salvarvi da soli, né insieme: io sono la salvezza. Ecco il senso di questa riflessione. Vi propongo ora tre punti sui quali meditare. Ho pensato a questi tre, collegati tra loro, anche se presi da diverse parti della Bibbia, e di cui solo l’ultimo è di Matteo. Tutti e tre rispondono alla domanda iniziale: Signore, cosa c’è in noi per cui non riusciamo a fare comunità, a riconoscerti nei bisogni reali del prossimo, a stabilire rapporti autentici di amicizia? La risposta può essere triplice: c’è in ciascuno di noi l’uomo Davide (leggeremo una pagina della vita di Davide, che mi pare illuminante per riconoscere l’ambiguità dell’esistenza umana); c’è in noi una radice negativa che inquina le nostre relazioni (Mc 7,21-22); c’è in noi tutto ciò che è presente nel cuore dell’uomo religioso e impegnato, secondo le cinque antitesi di 5,20-48, nel discorso della montagna. Davide: l’ambiguità dell’esistenza umana Cominciamo con una sintesi di 2 Samuele (capp. 11 e 12), dove si descrive il peccato di Davide e Betsabea. Letterariamente è una delle pagine più belle dell’Antico Testamento. Questi capitoli, chiamati anche gli “Annali di Davide”, sono storicamente molto antichi, scritti dal punto di vista

stilistico con una maestria incomparabile: c’è una finezza, una conoscenza psicologica, un umorismo sottile che sta dietro le parole, veramente incantevole, se non ci fosse la drammaticità del racconto che ci trascina. Davide ha mandato in guerra contro gli Ammoniti il suo esercito, mentre lui è rimasto a Gerusalemme; un tardo pomeriggio, alzatosi, si mette a passeggiare sul terrazzo della reggia. “Dall’alto della terrazza egli vide una donna che faceva il bagno, molto bella di aspetto, e il re mandò a informarsi su chi fosse. Gli fu detto che era Betsabea, figlia di Elia, moglie di Uria, l’ittita. Allora Davide mandò messaggeri a prenderla: essa andò da lui ed egli giacque con lei, che si era appena purificata; poi essa tornò a casa. La donna concepì e fece sapere a Davide di essere incinta” (2Sam 11,2-5). Cominciarono allora le difficoltà di Davide: manda a chiamare Uria, il marito, che viene. Lo invita ad andare a casa sua, ma egli dorme davanti alla porta del palazzo reale. Davide lo richiama, cerca di ubriacarlo e di spingerlo a casa, ma l’uomo si ferma davanti alla porta di casa. Alla fine Davide scrive una lettera perché, quando Uria ritornerà al campo, sia messo in battaglia nel punto più pericoloso e lo si lasci solo, così che venga ucciso. Ecco in breve la storia che tutti ricordiamo. Cerchiamo un po’ di analizzarla. Chi è quest’uomo Davide, che si è trovato in quest’imbroglio? Chi è Davide a questo punto della sua carriera? È un uomo maturo, tanto è vero che non si sente neppure più di andare in guerra; lui che era un grande guerriero manda gli altri. È al colmo della sua carriera anche morale: è un uomo fondamentalmente pio, che ama molto Jahweh, ha già scritto molti salmi che a lui si attribuiscono. Uno dei più belli è il Salmo 18, dove egli parla a tu per tu con Dio che lo ha liberato: “Ti amo, Signore, mia forza, mia roccia, mio liberatore, mio Dio, mia rupe in cui trovo riparo…” Un uomo dunque di una religiosità profondissima, uno degli uomini più religiosi della storia del Vecchio Testamento, che ha scritto parole così belle che ancora noi usiamo; un uomo pio nel senso più vero e autentico della parola. È un uomo anche profondamente buono, che non sa voler male ai nemici: pochi capitoli prima (9,7 ss.) si racconta come fa cercare dappertutto i discendenti dei suoi nemici; ne trova uno storpio, discendente di Saul e di Gionata, e lo fa chiamare. Quello va pieno di paura, pensa che Davide voglia ucciderlo, invece gli dice: “Non temere, perché voglio trattarti con bontà, per amore di Gionata, tuo padre, e ti restituisco tutti i campi di Saul, tuo avo, e tu

mangerai sempre alla mia tavola”. Un uomo incapace di odio, capace di amare anche il più miserabile dei suoi nemici. Un uomo anche profondamente leale. Tra i racconti più belli della vita di Davide c’è quello di 1Sam 24,6 ss. dove si dice come Davide, quand’era ancora partigiano, viveva nelle caverne, braccato dal suo avversario Saul. Riesce a entrare una notte nella caverna dove Saul sta dormendo: “I suoi uomini gli dicono: ecco il giorno in cui il Signore ti dice: vedi, metto nelle tue mani il tuo nemico, trattalo come vuoi. Davide si alzò, tagliò un lembo del mantello di Saul senza farsene accorgere; ma ecco, dopo aver fatto questo, Davide si sentì battere il cuore, poi disse ai suoi uomini: mi guardi il Signore dal fare una cosa simile al mio re, al consacrato di Dio, dallo stendere la mano contro di lui, perché è l’unto del Signore. Si allontana e da lontano grida: Saul, perché mi perseguiti? Chi sono io, un cane morto, un disgraziato di cui cerchi la rovina; perché non hai pietà di me?” Quindi un uomo di una integrità e di una lealtà che rimangono proverbiali nella storia di Israele. È un uomo anche maturo, non privo di esperienze affettive; a questo punto della vita ha già avuto quello che voleva, sa cos’è la vita, conosce se stesso, i suoi limiti, la debolezza umana. Ma ecco che un uomo così, in poche ore, passa da un attimo di curiosità a un momento di debolezza, forse in seguito a un gesto di ripicca: “Non sono forse il re, non posso fare quello che voglio, non sono tutti miei sudditi?” E, così infatuato di sé, eccolo in poco tempo ormai vincolato a una situazione che è diventata rapidamente inestricabile. Forse, prima dell’annuncio di Betsabea, Davide sperava ancora: “Tutto passerà liscio, nessuno saprà nulla”. Ma quando Betsabea gli dice: “Ho concepito”, si sente smarrito e pensa: “Cosa ho fatto?” Non solo ha insultato una donna e ha insultato il marito entrando nel loro matrimonio, ma ormai si espone anche alla vergogna pubblica: “Il grande re, il pio, quello che non fa male neppure ai nemici…” La gente comincia a malignare: “Anche lui è come tutti noi”. Quindi lo prende la paura, la vergogna. Riflettiamo un po’ sulla situazione dell’uomo Davide: in fondo è un uomo buono, che ama Betsabea e non vuole far niente contro di lei, ama questo bambino che nascerà, quindi non vuol fare nulla contro di lui, ma ama anche Uria, che è uno dei suoi soldati più fedeli e neppure contro di lui vuol far niente; infine ama anche se stesso, evidentemente, il suo buon nome, la sua fama di re; queste quattro cose però non vanno insieme. Così si trova in una situazione drammatica perché, suo malgrado, non riesce a evitare di fare il

male, non riesce a uscire da questo cerchio nel quale si è invischiato, prima per divertimento, poi forse un po’ per puntiglio, ma da cui ora non può più districarsi. Questa è la situazione descrittiva della fragilità dell’uomo, che rapidamente può passare dalla tranquillità, dal possesso, dal dominio di sé a una situazione in cui ormai ogni scelta è drammatica, da qualunque parte si volga. Davide, però, è anche un uomo astuto, è un uomo che ha combattuto le guerre partigiane, che conosce tutti i raggiri politici per arrivare per vie traverse a ciò che vuole. È pieno di intelligenza e pensa: “Ecco come farò, chiamerò Uria, nascostamente lo farò tornare a casa e tutto sarà a posto, sarà coperto”. Nella sua astuzia tenta di salvarsi da solo, di trovare ancora una via onorevole per tutti, ma questa soluzione non riesce. Possiamo immaginare la rabbia quando, dopo la prima notte, il servo che ha mandato a sorvegliare tutti i movimenti di Uria gli riferisce: “Ha dormito qui, davanti alla reggia, ha posto un telo per terra ed ha dormito insieme ai suoi soldati”. Nasce la rabbia di quest’uomo che si scopre giocato nella sua stessa astuzia; forse Uria ha capito, è più astuto di lui, magari si sente una pulce di fronte al potere del re, ma pensa: “Anch’io non voglio cedere”. Ed ecco che l’astuzia del re raddoppia in moine, in falsità, in abbracciamenti ad Uria: lo chiama, lo fa bere, lo ubriaca. Vedete, qui, come un uomo leale comincia a diventare pieno di astuzia, di malvagità, di doppiezza, di modi subdoli di agire, perché ormai è forzato dalla situazione e non riesce a uscirne. Uria, che probabilmente esce ubriaco dalla reggia, viene accompagnato a forza davanti a casa sua, ma poi si scuote e si stende davanti alla porta di casa, con i suoi soldati attorno, e il re è beffato una seconda volta. Entrando un po’ più personalmente nel racconto, vorrei che ci domandassimo che cosa avremmo fatto noi al posto di Davide, che cosa gli avremmo consigliato. Davide non sa proprio come fare a uscire da questo cerchio e alla fine pensa: “Qualcuno deve pagare. Non voglio che ci passi la donna, né il bambino, non voglio passarci neppure io, uno deve andarci di mezzo, sarà Uria”. Nella sua astuzia, di nuovo, non vuole ucciderlo apertamente, né essere reo del sangue di nessuno, ma crea una situazione per la quale i nemici lo uccideranno. Tutti i capitoli precedenti su Davide sono qui rinnegati: un uomo leale, onesto, giusto, che non osa toccare un nemico (Saul) perché dorme, eccolo trasformato in un uomo subdolo, ingiusto, disonesto, sleale, che fa uccidere un proprio soldato, che lo manda allo sbaraglio contro il nemico, facendo la parte del nemico.

Ecco a quale assurdità in poco tempo può giungere un uomo! Si è rivelata la sua verità di uomo, che prima era nascosta anche a lui. Se pochi giorni prima gli avessero detto: tu ti metterai dalla parte del tuo nemico contro un tuo suddito fedele, l’avrebbe preso come un insulto; però è arrivato veramente a questo punto. Qui il testo abbonda in umorismo e sarcasmo: possiamo leggere anche questa parte che è così fine psicologicamente e letterariamente. Uria è caduto sotto la città, perché lo hanno spinto fin sotto le mura e poi si sono ritirati, lui è rimasto solo ed è stato ucciso; allora si tratta di annunciare la cosa a Davide. Il capo supremo dell’esercito, che conosce molto bene il suo re, dice al messaggero di riferire che la battaglia è andata male e, quando il re andrà in collera e si infurierà contro i suoi soldati, di annunciare che anche il fedele Uria è morto. Il messaggero riferisce quanto il capitano lo aveva incaricato di dire. “Davide andò in collera con Joab e disse al messaggero: perché vi siete avvicinati così alla città per dare battaglia, non sapevate che avrebbero tirato dall’alto delle mura? Perché vi siete avvicinati così tanto? Il messaggero rispose a Davide: i nemici avevano avuto un vantaggio, avevano fatto una sortita contro di noi, fummo loro addosso fino alle porte della città, allora gli arcieri tirarono dall’alto sulla gente e parecchi perirono; anche il tuo servo Uria, l’ittita, è morto. Allora Davide disse al messaggero: Di’ a Joab: non ti affligga questo fatto perché la spada divora ora di qua, ora di là. Rinforza l’attacco contro la città e distruggila. Anzi, tu stesso fagli coraggio” (2Sam 11,22-25). Il re però non riesce a nascondere la sua gioia perché l’inganno è ormai compiuto, egli ha salvato la faccia, ha salvato le persone più care, uno è stato inghiottito da queste difficoltà, ma pazienza, sono cose che succedono! La verità di sé di fronte a Dio Il testo continua: “Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, che andò da lui e gli disse…” (2Sam 12,1). Anche Natan è molto astuto, conosce il re e non lo affronta direttamente, ma cerca prima di tutto di stimolare il giudizio di Davide su un fatto in sé, prescindendo da lui stesso; poi gli presenta il piatto dicendo: “Ecco, tu sei quell’uomo!” Gli dice, come sappiamo, che c’erano due uomini, uno ricco e uno

povero; il ricco aveva tanto bestiame, il povero solo una piccola pecora, che gli era cresciuta in casa con i figli, mangiava il suo pane, beveva alla sua coppa, dormiva sul suo seno. Un ospite di passaggio arriva dall’uomo ricco, che non vuole sacrificare niente del suo e porta via la pecora del povero. “L’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse: per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte; pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una cosa simile, per non aver avuto pietà. Allora Natan disse a Davide: tu sei quell’uomo” (2Sam 12,5-7). Di fronte alla parola di Dio che gli rivela la sua verità (non ci sarebbe potuto arrivare da solo), ecco che Davide crolla e dice: “Ho peccato contro Dio”. Notare: qui Davide riconosce che in tutto ciò che ha fatto, in questo contorcersi menzognero di relazioni umane, in cui tutto quanto si è venuto guastando, egli capisce che è Dio che ha offeso. Dio che ha posto quest’ordine, queste relazioni umane nella verità. Davide, dunque, è un uomo che di fronte a Dio ritrova la verità di se stesso, e la ritrova così da non avere ormai più paura di nessuna di quelle cose che prima lo avevano come soffocato. Non ha paura di riconoscere pubblicamente il suo peccato, né di accettare ormai di dover perdere lui: il Signore faccia di me quello che vuole, perché io sono un peccatore. Non ha paura che sia riconosciuto pubblicamente quel che ha fatto; se noi conosciamo questo racconto, è appunto perché si era divulgato pubblicamente. Vediamo che un uomo, il quale nella difesa di sé era giunto fino a uccidere il fratello, nel momento in cui rinuncia a questa sua pretesa di onestà e si riconosce peccatore dinanzi a Dio, recupera la sua libertà, la forza di accettare la sua situazione, di guardare a viso aperto gli altri, di ricostruire, di lasciarsi purificare dal Signore. Cosa non avrebbe dato quest’uomo, nel momento in cui non sapeva ancora come risolvere la cosa, per riuscire a venir fuori da quella situazione! Se si fosse trattato di dar da mangiare a tutti i poveri di Gerusalemme per un anno intero, lo avrebbe fatto, purché il Signore lo liberasse da quel guaio. Però non osava fare l’unica cosa vera, cioè riconoscere il suo peccato. A un certo punto deve farlo, ma quando il Signore ha ormai permesso che scoppiasse talmente da sfociare in un omicidio: solo allora apre gli occhi e si rivela per ciò che è. Su questo possiamo meditare: Signore, noi non ci conosciamo, non sappiamo che ci sono situazioni che in poco tempo possono travolgerci e

portarci là dove non sapremmo più dove voltarci. Sappiamo che se in queste situazioni noi continuiamo a volerci considerare giusti, a non voler accettare il nostro peccato, non facciamo che indurirle. Più in generale possiamo dire: Signore, quanto è misera la sorte dell’uomo che, pur volendo amare tutti i fratelli, è quasi costretto dalla forza della paura a opprimere l’uno o l’altro, pur di salvare se stesso. Qui vediamo la profondità a cui Gesù vuole che giungiamo nell’interpretare la sua parola: “Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere…” Non si tratta soltanto di opere di carità, che Davide avrebbe moltiplicato all’infinito, ma di quella carità che accetta relazioni giuste e non può sussistere senza che qualche volta riconosciamo di essere peccatori e di essere pubblicamente umiliati per la nostra incapacità a realizzarle. Dal cuore dell’uomo escono le cattive intenzioni… La seconda riflessione che vi propongo di fare risponde anch’essa alla domanda: che cosa c’è nel cuore dell’uomo? Abbiamo già visto l’esempio concreto di Davide, che assurge a emblema del comportamento dell’uomo in genere. Ma ora interroghiamo ancora Gesù e gli chiediamo di dirci con la sua parola rivelata e rivelante che cosa c’è nel nostro cuore che ci impedisce di fare veramente comunità, di superare le difficoltà comunitarie che sorgono dopo il primo idillio del trovarsi insieme e dell’apparire gli uni agli altri preziosi. Gesù ci risponde con una frase che non c’è in Matteo, perché ampliata catecheticamente, ma che troviamo in Marco, il quale ha delle frasi molto lapidarie, in 7,21-22. Gesù ci dà una descrizione di che cos’è l’uomo, dicendo che non sono le cose esterne che inquinano l’uomo, ma la vera radice dell’inquinamento è dentro. “Dentro, infatti, dal cuore dell’uomo, vengono fuori i pensieri cattivi”. Può sembrare strano che qui Marco non dica: le azioni cattive; in realtà spesso queste non vengono fuori, perché le circostanze sono tranquille. Se Davide non si fosse trovato in quella circostanza, mai avremmo saputo che era capace persino di uccidere un uomo; ma la situazione ha fatto emergere quella profondità di miseria che era presente nel suo cuore. Gesù dice dunque in questo capitolo che “dal di dentro, dal cuore

dell’uomo escono i cattivi pensieri (‘le cattive intenzioni’ dice il testo greco): dissolutezze, latrocinii, assassinii, diffamazione, orgoglio, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono dal di dentro e contaminano l’uomo”. Abbiamo quindi qui una dottrina sulla negatività dell’uomo, la risposta alla domanda: perché, Signore, non siamo capaci di amare il prossimo davvero? Suggerirei qui di riflettere su questi dodici potenziali negativi che portiamo in noi, senza dire, troppo facilmente, che alcuni non ci riguardano, non sono nostri; in fondo tutti ci riguardano, perché noi siamo capaci di tutte queste cose. Cominciando dall’ultima, vediamo soltanto qualche esempio: la stoltezza. La parola greca aphrosýne, o meglio l’aggettivo áphros, stolto, ricorre ancora in quel racconto di Luca nel quale si dice che un uomo aveva raccolto molto quell’anno, e allora disse: “Mi farò dei granai grandi, metterò tutto nel granaio, finalmente ho assicurato il mio benessere. Mangia e bevi anima mia, ormai sono sicuro!” E Dio gli dice: “Stolto, questa notte la tua vita ti sarà chiesta” (Lc 12,20). Questa stoltezza è quindi la proprietà dell’uomo di fare dei progetti senza Dio, di farsi un progetto sicuro, tranquillo, nel quale può navigare bene, senza considerare come egli è un fuscello nella storia e basta un niente per travolgerlo. In fondo era stolto, Davide, quando passeggiava sul terrazzo e diceva: “Io sono il re, chi può venire contro di me, chi mi può dire niente? Ormai ho assicurato la mia fama in Israele, sono il più santo, il più giusto, il più pio”. Il penultimo, la superbia, è ciò di cui parla la Madonna nel Cantico: “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore” (Lc 1,51). La superbia è appunto affine alla stoltezza, è la pretesa di salvarsi da soli, di farsi una strada da soli e di dire: io ormai ho raggiunto un certo stadio di sicurezza, di tranquillità, sono capace di fare comunità, ho un’esperienza spirituale, pastorale, posso veramente ormai qualificarmi. È la situazione di chi non fa i conti con Dio. Vedete ancora, andando all’indietro, quella che qui nel testo greco è chiamata blasfemía, tradotta giustamente con calunnia: cioè tutte le volte che non riusciamo a sopportare il bene del prossimo, che abbiamo bisogno di farci valere distruggendo un pochino l’altro, che ristabiliamo l’equilibrio tra il meno che non abbiamo e il più che l’altro ha, con qualche piccola frecciata, qualche accenno conflittuale che ristabilisce, a nostro parere, la nostra integrità. Così possiamo esaminare ciascuna di queste parole e vedere come l’uomo è presente in queste realtà.

Le antitesi del discorso della montagna Infine, l’ultima riflessione che vi propongo (la preghiera poi vi metterà di fronte a Dio così come lo Spirito Santo vi ispira) è il brano di 5,20-48, sulle antitesi del discorso della montagna. Non mi propongo di esaminarlo esegeticamente, sarebbe troppo lungo. Abbiamo qui cinque antitesi; tutte cominciano con le parole: “Vi è stato detto”; quindi vi è stata proposta una certa norma morale, vi è stato detto che cosa deve fare l’uomo per essere onesto, “ma io vi dico” che ciò non basta. Tutto questo è riassunto nel v. 20: “Vi dico infatti che se non abbonderà la vostra giustizia più di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei cieli”. Ora questa parola è tale da spaventarci, perché la giustizia degli scribi e dei farisei era molto grande: è quella degli uomini onesti in tutti i rapporti della vita, di uomini pii, devoti, desiderosi di dare a Dio e al prossimo il suo. Ma Gesù dice che non basta ed enuncia in tutte queste antitesi il perché. Perché non bastano le opere di carità, di giustizia che gli Scribi praticavano? Perché, se l’uomo non si apre alla potenza di Dio, col solo volersi fare onesto da sé non riesce neppure a raggiungere il limite decente, giusto, di onestà. Gesù specifica ancora questo dicendo: “Vi è stato detto: non uccidere”; ma se il cuore non è risanato interiormente, attraverso la benevolenza, non si osserva il comandamento. Davide non l’ha osservato perché il suo cuore era pieno di preoccupazione di sé, di paura dell’umiliazione, di difesa del proprio orgoglio. Dice la seconda antitesi: “Non commettere adulterio”. Non basta osservare questo, dice Gesù, se il cuore non è risanato dalla cupidigia interiore. Mi sembra di vedere nelle parole che seguono qui al v. 29: “strappati l’occhio, strappati la mano”, quasi un tentativo disperato dell’uomo che dice: io voglio osservare la legge, ma è più forte di me! Cioè l’uomo, a un certo punto, è portato a riconoscere: se Dio non mi salva, io non riesco, con la sola buona volontà, a osservare la legge. Segue la terza antitesi al v. 33: “Non giurare il falso”. Gesù dice: non giurare il falso non basta, se il cuore non è risanato dalla doppiezza continua che lo anima, dal desiderio di apparire davanti agli altri ciò che non si è, di giocare quindi sempre sulle parole, di far vedere le cose diverse da come sono, cioè dalla continua menzogna della vita. Davide ha avuto paura di mostrare davanti al popolo chi era e allora è ricorso a tutti i sotterfugi possibili. Gesù dice: non basta, non arriverai a non giurare il falso, se non

togli la menzogna dalla tua giornata e la tua continua preoccupazione di nascondere agli altri il tuo vero io, per paura di essere disistimato, messo da parte, trascurato, il bisogno sempre affannoso di far vedere ciò che non sei. Gesù dice ancora: “È stato detto: non esagerare nella vendetta, tieni la giusta misura della giustizia”. Ma non si arriva a questo, dice Gesù, se il cuore non è pronto a cedere. Qui rimaniamo veramente sconcertati… se il cuore non abbandona tutte le difese, di fronte al prossimo: mi fa fare un chilometro e ne faccio due, mi prende la veste e gli do il mantello, mi schiaffeggia sulla guancia e gli porgo l’altra… Come è possibile? Sono parole che tutti sentiamo continuamente come un rimprovero perché sappiamo che non siamo capaci di fare questo. Ma Gesù ci vuole dire: è inutile che tu pretenda di conservare la misura della giustizia in tutti i rapporti, se in fondo hai una terribile ansia di difenderti; sempre guardi agli altri come possibili aggressori e mai accetti la prospettiva di essere un giorno soccombente. Qui già appare, oscuramente, l’ombra della Croce: è impossibile capire questo se non nel Signore crocifisso. Il Signore ci dice: tu credi di poter fare da solo, ma non è possibile, perché c’è dentro di te un desiderio di rivalsa così potente e violento che a un certo punto risorgerà. Infine Gesù dice: “Vi è stato detto: bisogna amare il prossimo”, ma non basta, se tu non riesci anche a fare il primo passo verso colui che ti sfrutta, colui che abusa di te, cioè il nemico. È bello parlare del nemico in astratto, ma in fondo il nemico è chiunque mi fa danno, che quindi sempre cerco, in qualche misura almeno, di mettere da parte. Anche qui ci sembra di essere nel paradosso e soltanto nella via della Croce potremo capire qualcosa. Gesù certamente non vuole dirci di vivere in maniera impossibile; ci presenta un modello ideale, ma realizzabile di umanità, e ce lo presenta in modo tale da schiaffeggiarci, da dirci: tu pretendi di saper amare il prossimo, di saper fare comunità; ma se a un certo punto non sai anche convivere con chi ti dà noia, con chi ti è ostile, è inutile che parli di amare il prossimo, devi riconoscere la tua incapacità a fare veramente comunità. Appare qui la crisi salvifica, salutare, della comunità in cui l’uomo dice: Signore, tu solo sei la salvezza. Credo che dobbiamo arrivare qui nella nostra preghiera, quella preghiera penitenziale che ci mette di fronte a Dio non come gente che dice: Signore, farò questo e quest’altro e sarò perfetto; ma: Signore, qualunque cosa faccia, so che non sarò perfetto, non riuscirò ad avere relazioni giuste. Riuscirò ad

averle, forse, quando le cose saranno tranquille, come quando il mare è tranquillo e quasi tutti sono capaci di condurre una barca. Ma la vita non è un mare calmo e allora, in un momento o nell’altro, scoppierà la contraddizione conflittuale che è in noi. Il Signore ci chiama a riconoscerla davanti a lui, nella preghiera penitenziale: Signore, ho bisogno della tua misericordia. Ecco la verità di noi stessi, che deve emergere anche di fronte alla Chiesa con il battesimo. Chiediamo che questa sia veramente un’accettazione gioiosa del Vangelo, cioè che la misericordia di Dio ci si presenti come Vangelo di salvezza; non come accusa che ci umilia, ma come unica possibilità di salvezza. Ti adoriamo, Signore, dal profondo del mistero nostro e di ogni uomo, del mistero che è nelle profondità insondabili di ogni uomo, che tu solo conosci. Signore, tu conosci fino in fondo al cuore chi siamo e chi potremo essere. Dal fondo di questo abisso noi ci affidiamo a te, invochiamo la tua salvezza, ci affidiamo alla tua misericordia. Ti preghiamo umilmente di non abbandonarci, Signore, ma di salvarci come singoli e come gruppo, come Chiesa, comunità, come società. Abbi pietà di noi, Signore, che non sappiamo vivere insieme; mostraci di essere tu Signore del nostro vivere insieme. Tu che vivi e regni col Padre, tu che in virtù della tua morte e risurrezione ci doni lo spirito di unità e di salvezza, tu che regni nei secoli dei secoli. Amen.

VI. ALCUNE SITUAZIONI BATTESIMALI Rivolgiamo al Signore la nostra preghiera. Noi ti ringraziamo Signore, per averci chiamato qui. Ti chiediamo di ricevere quel poco che possiamo dare; ti chiediamo di sostenere il nostro impegno di preghiera. Fa’ che non ci stanchiamo nel bussare, nel chiedere; fa’ che troviamo la gioia nell’adorare, nell’offrirci. Tu solo ci puoi chiamare a te, tu solo ci puoi manifestare la tua parola, tu solo ci puoi dare il gusto della tua verità. Fa’ che sentiamo, Signore, questo gusto forte, anche se amaro, talora, ma vero. Tu sei la via, la verità e la vita; tu sei il vincitore della morte, della malattia, tu ci insegni la vera compassione per l’uomo. Tu che vivi e regni con il Padre e lo Spirito Santo, in cielo e sulla terra, nei

secoli dei secoli. Amen. Per questa meditazione propongo alla vostra riflessione alcune situazioni battesimali. Per chi vuole riferirsi anche al libretto di sant’Ignazio, questa meditazione si situa tra la prima e la seconda settimana. Della prima settimana è, per esempio, il colloquio con il Crocifisso, dopo la meditazione sul peccato: “Immaginando Cristo nostro Signore presente e in croce parlare con lui e riflettere su me stesso: chi è, che cosa ha fatto per me, che cosa faccio per lui?” [53]. Così pure si riferisce a questa meditazione il colloquio, detto “di misericordia”, che si trova al n. [61], dopo la seconda meditazione della prima settimana: “Terminare con un colloquio sulla misericordia, riflettendo e ringraziando Dio che mi ha dato vita sinora, che mi ha sostenuto, che mi ha rifatto, che mi rifà continuamente”. Però questa meditazione già entra direttamente anche nella prima meditazione della seconda settimana, cioè la chiamata di Gesù a seguirlo, e, in particolare, nella risposta: “[…] quelli che si offriranno interamente alla fatica per dedicarsi al servizio del loro Re e Signore”18. Coscienza del peccato e vocazione Come è possibile unire direttamente una considerazione della nostra verità di fronte a Dio, del nostro peccato e della sua misericordia, con la sua chiamata? A me pare che questa unione la troviamo già nella Bibbia: nello stesso momento in cui Dio fa prendere coscienza a un uomo della sua inguaribile situazione di peccato, contemporaneamente quest’uomo, ormai posto nella verità, è pronto per la chiamata. Basta citare qualche esempio che tutti conoscete, come la vocazione di Isaia che dice: “Ohimé, sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito” (Is 6,5 ss.). Dunque un uomo al quale, di fronte alla maestà di Dio, appare evidente la propria situazione di peccato, personale e collettiva. A lui viene mandato il cherubino che gli tocca la bocca e gli dice: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità, il tuo peccato è espiato. Poi udì la voce del Signore che diceva: chi manderò e chi andrà? Ed io risposi: eccomi, manda me. Ed egli disse: va’ e di’ a questo popolo…” Quindi qui abbiamo

insieme la percezione della incapacità dell’uomo a uscire da una situazione così ambigua, quale quella sua e del popolo, e la chiamata di Dio: le due intuizioni si pongono nello stesso momento. Qualcosa di simile abbiamo nella chiamata di Geremia. Di fronte alla parola di Dio Geremia dice: “Ahimé, Signore, non so parlare, sono giovane!” (Ger 1,6 ss.). Riconosce la sua limitatezza, la sua pochezza: che cosa sono io, che sapienza ho? Ma il Signore gli dice: “Non dire: sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò, annunzia ciò che ti ordinerò”. Quindi il Signore interviene sulla verità riconosciuta da Geremia. Del resto anche nel Nuovo Testamento, riguardo alla chiamata di Pietro, Luca si esprime esattamente così, al capitolo 5,8 ss. Di fronte alla straordinaria manifestazione della bontà di Gesù, Pietro dice: “Allontanati da me che sono peccatore”, e Gesù: “Non temere, sarai pescatore di uomini”. Anche per Paolo, in fondo, la chiamata è manifestazione insieme di accoglienza del peccatore e di Dio. Ciò è chiaro soprattutto nell’ultimo racconto, quello teologicamente più elaborato: “Io sono quel Gesù che tu perseguiti” (At 26,15 ss.). La verità della situazione sbagliata di Paolo gli è buttata addosso; poi subito dopo segue: “Su, alzati, rimettiti in piedi, ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che ti ho mostrato e per le quali ancora ti apparirò”. Questa unione è dunque espressa più volte nella rivelazione biblica; perciò può essere benissimo parte di un approfondimento della nostra esperienza di chiamata pastorale, che si fonda sulla conoscenza della nostra povertà, di chiamata apostolica in genere, che si fonda anch’essa sulla conoscenza del poco che siamo e del molto che Dio, fidandosi di noi, ci chiama a essere. Alcune situazioni battesimali Propongo per la vostra lettura meditativa nove situazioni battesimali, cioè quei nove racconti di guarigione che Matteo condensa, subito dopo il discorso della montagna, nei capitoli 8 e 9, divisi in tre gruppi, su cui gli esegeti discutono ancora. Leggevo ancora poco fa l’ultimo commento molto ben fatto, di padre Sabourin, del Biblico, che discute tutte le opinioni precedenti19: perché Matteo ha messo in questo ordine questi miracoli, cambiando l’ordine di

Marco? In realtà non sappiamo esattamente perché l’abbia fatto, stiamo ancora cercando di capire. Quindi anch’io vi propongo un mio modo di capire, una lettura ecclesiale di questi nove miracoli. Prima di tutto mi sembra importante ricordare questi miracoli, che vedremo brevemente: guarigione del lebbroso, del servo del centurione, della suocera di Pietro. Un breve intermezzo narrativo, poi gli altri tre miracoli: i due indemoniati gadareni, la tempesta sedata, il paralitico a cui sono rimessi i peccati. Ancora un intermezzo narrativo e infine gli ultimi tre miracoli: la figlia di Giairo e l’emorroissa, i due ciechi che urlavano: “Figlio di Dio, abbi pietà di noi”, e il muto indemoniato. Segue un riassunto finale: Gesù che percorreva città e villaggi insegnando e predicando. È chiaro che questa sezione è stata concepita da Matteo in maniera unitaria, raccogliendo i miracoli che, invece, Marco e Luca hanno disperso; perciò essa ha un significato particolare. Chi legge il discorso della montagna, come abbiamo tentato di fare noi, rimane senza fiato e dice: chi metterà in pratica queste cose? Chi arriverà mai a tale stato di cuore indifeso da lasciarsi calpestare volentieri? Nessuno! Chi capirà mai questo capovolgimento del modo di essere verso gli altri che permette il perdono dei nemici, l’amore verso chi ci sfrutta? Sembra la descrizione di un uomo nuovo talmente diverso da apparirci assurdo e irragionevole. Se pure riusciamo, con la grazia di Dio, a capire che anche quello che sembra paradossale è l’unico atteggiamento che permette di vivere insieme con amore, anche allora diciamo: Signore, non ce la faccio! Matteo sa benissimo tutto questo, perciò mette in relazione dinamica il discorso della montagna con questi nove miracoli di Gesù. Dobbiamo leggerli insieme, per non rischiare di spaventarci e dire, come spesso è stato detto, che il discorso della montagna è una morale escatologica, che va bene per i tempi definitivi, ma non per questo tempo in cui viviamo, che ora l’applichiamo come possiamo; oppure che si tratta di esagerazioni, o ancora che è puramente una morale dei consigli. Gesù però ci dà dei “consigli” che ci dicono come essere uomini autentici in vere relazioni umane; quindi, se non li mettiamo in pratica, ci priviamo di una parte di umanità. Allora nessuna di queste interpretazioni, mi pare, coglie fino in fondo la serietà del discorso della montagna. Mi sembra invece che Matteo ce ne mostri tutta la serietà quando dice: “Gesù percorreva le città e i villaggi insegnando nelle sinagoghe, predicando

il Vangelo del Regno e curando ogni malattia e ogni infermità” (9,35). Il Signore ci dà qui la chiave del vero modo di vivere e anche la compassione per la nostra incapacità a vivere così, insieme alla promessa di essere con noi colui che opera questa nuova vita, di essere colui che ci risana. Ecco perché io chiamo questi miracoli “situazioni battesimali”, nelle quali leggo ciò che Matteo si aspetta da chi ha preso sul serio il discorso della montagna. Che uno dica, come il lebbroso: “Signore, se vuoi, puoi guarirmi”; oppure, come il centurione: “Signore, io non sono degno che tu venga nella mia casa, ma se dici una parola, le cose andranno meglio”. Il discorso della montagna deve suscitare in noi l’atteggiamento battesimale di richiesta di guarigione, di purificazione, di essere tirati fuori da situazioni impossibili, come quella di Davide dopo il peccato. Così sono questi malati, assolutamente impotenti ad aiutarsi, e il Regno di Dio viene a loro con l’offerta della potenza di Gesù e della Trinità, che nel battesimo cambia l’uomo. Così io propongo di leggere queste situazioni, ponendoci in modo particolare in quelle che il Signore ci suggerirà di rivivere. Se Matteo ha tramandato queste cose per la sua comunità è perché pensava avessero un valore permanente, cioè che il cristiano potesse, nella preghiera, con verità e senza artificio, rivivere queste situazioni di fronte al Signore, che è con noi tutti i giorni, in queste realtà raccontate e proclamate come forza di Dio per noi. Io, perciò, mi limito semplicemente a invitarvi a leggerle, esaminandone prima la struttura. Chiediamoci: di che tipo è la situazione in cui Gesù interviene, quali sono gli atteggiamenti di preghiera e di dialogo di coloro che Gesù risana, come si riflette in tutto ciò la mia situazione e il mio dialogo con il Signore? Le prime tre situazioni sono di semplice malattia, che appare esteriormente agli occhi di tutti: il lebbroso, è evidente, non ha bisogno che nessuno indichi il suo male, è segnato lui stesso e non può uscirne; può solo dire: “Signore, se vuoi, puoi mondarmi”. Il servo paralizzato e la suocera di Pietro hanno anche loro mali visibili, gli interessati non possono farci nulla e il Signore interviene a risanarli. Quali sono gli atteggiamenti di dialogo di queste tre persone? Il primo è molto bello: “Signore, se vuoi, puoi salvarmi!” Quanta fede in questa parola, quanta certezza che Gesù è l’incarnazione della potenza di Dio misericordia

per un povero lebbroso, che non interessa a nessuno! Sembra quasi dire: Signore, finora nessuno si è occupato di me, nessuno ha saputo far nulla; sono un derelitto, un reietto, un essere che deve nascondersi, ma tu, se vuoi, hai una parola per me. Anche il centurione ha un atteggiamento perfettamente dialogale. Prima si limita a dire: “Signore, il mio servo soffre terribilmente”. È quasi sottinteso: so che agli occhi del mondo vale poco, perché è uno schiavo di cui nessuno si occupa, ma ai tuoi occhi vale molto, so che tu ami anche gli umili. Quest’uomo è anche sofferente, quindi, a maggior ragione, ti interessa: c’è già un’apertura al Signore potente. Si aggiunge anche una grande percezione di sé: “Signore, chi sono io che vengo e ti chiamo in casa mia? È vero, io sono magari stimato un’autorità, ma di fronte a te chi sono?” C’è qui un chiaro riconoscimento del Signore. Il terzo miracolo non ha apparentemente dialogo, ma si intravede dal contesto: la suocera di Pietro, che è a letto con la febbre, forse, neppure può parlare, ma la sua stessa presenza silenziosa è una richiesta: Gesù la tocca con la mano e la febbre scompare. Sono tre diversi modi di stare dinanzi al Signore; ciascuno corrisponde a diverse situazioni, a diversi tipi di dialogo, anche muto, ma aperto al Signore. Sono tre situazioni in cui una malattia esterna, visibile, chiara, di natura sua non guaribile dagli uomini, viene sottoposta volentieri alla potenza del Signore. Nella seconda serie che inizia al cap. 8,23 ss., abbiamo tre situazioni più complesse, in cui entrano in gioco forze cosmiche di cui si ha paura. La tempesta, per gli antichi, era come la personificazione del male, di fronte a cui l’uomo non sa come reagire e si sente schiacciato. Anche gli indemoniati sono vittime di forze avverse, inafferrabili, segrete. Ancora di più nel terzo caso in cui, per rivelazione di Gesù, l’uomo appare peccatore; quindi ha un male che nessuno conosce, ma che Gesù ha intuito, anche se nascosto in profondità. Qui Gesù è colui che entra nella complessità delle situazioni umane. Situazioni in cui non c’è solo la debolezza personale, ma un convergere di forze cosmiche, sovrumane, in cui si è immersi, che appaiono inestricabili e in cui il Signore viene. Notiamo la diversità degli atteggiamenti dialogali. Il primo è apparentemente chiaro. Gli apostoli nella tempesta dicono: Signore, salvaci, siamo perduti. La barca è già ricoperta dalle onde, Gesù dorme. Però Gesù

rivela che quest’atteggiamento apparentemente chiaro non lo è affatto: “Perché avete paura, uomini di poca fede?” Egli denuncia nella stessa preghiera degli apostoli qualcosa che non va; la accetta comunque, ma insieme la corregge perché è una preghiera ansiosa. Se Gesù ci ispira a metterci in questa situazione, ci vorrà dire: “Non sempre la tua preghiera mi piace; talora sembra fiduciosa, in realtà è piena di un’ansia che non mi onora. Non è come quella del centurione, che pone tutto nelle mie mani”. C’è l’ansia di chi vuole salvarsi con i remi, con il timone e poi anche con il Signore, ma è diviso tra la salvezza che vuole da sé e quella che accetta da lui: è la situazione di chi ancora non ha capito chiaramente chi il Signore vuol essere per lui. Infatti i discepoli dicono: “Chi è mai costui al quale i venti e il mare ubbidiscono?” Ci stupisce un po’ una frase simile. Il lebbroso sapeva chi era Gesù e ha un atteggiamento giusto nei suoi confronti; il centurione pagano sapeva e viene anche lodato da Gesù: “Non ho trovato nessuno con una fede così grande in Israele”. Gli apostoli, invece, che gli erano più vicini, vengono rimproverati. Possiamo riflettere sul perché succede questo. Forse Gesù esige qualcosa di più dagli apostoli, dovrebbero capirlo meglio: perciò, mentre potrebbe accettare una preghiera ansiosa da chi non lo conosce bene, perché potrebbe significare già fede, dagli apostoli vorrebbe un atteggiamento più fiducioso, più abbandonato, con una più chiara percezione di chi è Colui al quale si rivolgono. È interessante anche il carattere dialogico della situazione seguente, che sembrerebbe una dialogalità rifiutata. I due indemoniati furiosi, che fanno paura a tutti quelli che stanno intorno, cominciano a gridare: “Ma cosa abbiamo in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui, prima del tempo, a tormentarci?” Abbiamo, apparentemente, un rifiuto di dialogo, anzi la situazione degli indemoniati è tipica della incomunicabilità: tutti gli uomini fuggono da loro. Cosa appare allora di Gesù in questo brano? Nella linea che ho indicato, vedrei Gesù che affronta anche la stessa incomunicabilità, che prende anche un rifiuto di dialogo per quel minimo che ha di positivo; infatti anche il rifiuto è già una forma di dialogo. Dire: non ti voglio, esprime una certa attenzione, una certa relazione. Gesù prende questo minimo e dialoga perfino con i demoni per umanizzare questa gente. Si vede qui il potere di Gesù di districare le situazioni umane più assurde.

Questi uomini abitavano lontano dalle città, tra i sepolcri, non più in mezzo ai vivi, ma tra i morti. Gesù affronta questa situazione apparentemente disperata, reinserendo questi uomini nel consorzio dei fratelli. Nel terzo gruppo di miracoli, senza voler sistematizzare a ogni costo, c’è l’emorroissa, che non osa parlare e neppure proclamare la sua malattia. Finora tutte le altre persone sono state aperte con Gesù; in un modo o in un altro è venuto fuori il loro male. Ma questa donna esprime il suo pensiero, la sua richiesta solo internamente: “Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salva”. Gesù accetta anche solo questo brandello di dialogo mentale, rendendolo pubblico: “Coraggio, figliola, la tua fede ti ha salvata”. Quindi, restituisce a questa donna anche il coraggio di essere qualcuno davanti agli altri. Una povera donna che cercava di nascondersi, di non farsi notare, viene messa di fronte a tutti, lodata come esempio di fede, perciò restituita anche al dialogo con la comunità. C’è poi la fanciulla morta che, come tale, è separata totalmente dal consorzio dei viventi e perduta per il dialogo della intimità familiare, che una bambina appunto evoca. Anche qui Gesù la restituisce a questa possibilità di essere con i suoi genitori, di rientrare nella vita. Ci sono poi altri due episodi: i due ciechi e il muto indemoniato. Anche i muti e i ciechi sono persone separate, in qualche modo, dal consorzio umano: i ciechi da quello che costituisce gran parte delle possibilità di dialogo, cioè il vedere, il comunicare con le cose; l’indemoniato muto dall’immensa possibilità di comunicare, che nasce dal linguaggio umano. In tutti i casi Gesù interviene a reinserire le persone nella comunità. Non mi fermo sui particolari, perché ciascuno potrà, con questo spunto, riflettere sul significato che essi hanno, per mostrare la capacità di Gesù di reinserire queste creature, esseri risucchiati ormai dai vortici laterali della vita, nel grande fiume dei rapporti umani, del dialogo. Nell’ultimo miracolo abbiamo una situazione di dialogo apparente; infatti il paralitico presentato a Gesù è disteso sul letto, ma se glielo portano è perché desiderano, chiedono che faccia qualcosa. C’è però l’iniziativa di Gesù di un dialogo a un diverso livello. Trascurando apparentemente la situazione che gli è stata presentata, egli porta il dialogo su un piano più profondo, che non appariva: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Da qui poi risale alla situazione iniziale. Questo ci fa riflettere molto sulla capacità di Gesù di non essere bloccato

dalle apparenze. Spesso noi ci lasciamo imporre da un altro il dialogo: se uno viene, si lamenta, noi siamo giocati da questo suo modo di parlare, ci preoccupiamo delle cose che dice, vorremmo aiutarlo, mettere ordine in quella situazione. In realtà spesso la situazione più grave è un’altra, quella che magari la persona neppure sa esprimere, e che noi, con la grazia del Signore, dovremmo aiutare a far emergere per far capire quale sia il vero problema. Dovremmo avere il coraggio di comportarci sempre così, di fronte a persone che sembrano esigere qualcosa da noi e che appunto per timidezza, per fretta o per comodità accontentiamo facilmente in modo superficiale. Contempliamo Gesù che entra in queste situazioni e mettiamoci, secondo quanto la preghiera ci ispira, in qualcuna di esse. Potremmo anche leggerci in quest’ultima e dire: “Signore, ti chiedo con insistenza sempre le stesse cose, continuamente ritorno a battere: quando finalmente mi avrai concesso di vincere questo mio difetto, quando questo mio pessimo carattere sarà cambiato…” Ma il Signore dirà: non è questo il problema; un po’ come rispondeva a san Paolo che voleva essere liberato da un pungiglione che lo tormentava. Chiediamo che il Signore ci riporti a un dialogo vero con lui, sia che ci chiami uomini di poca fede, oppure ci dica che il nostro problema è un altro; mettiamoci, così, in atteggiamento di ascolto di ciò che il Signore vorrà dirci. Vorrei aggiungere un secondo suggerimento, su questo stesso testo, e infine concludere con una parola sul sacramento della riconciliazione, che mi pare opportuno in questo momento degli esercizi. Tre chiavi interpretative Per capire questi testi, mi pare, non è sufficiente leggerli uno per uno, confrontarli con il discorso della montagna, interpretarli in situazioni dialogiche comunitarie. Ci sono altre tre piccole chiavi di lettura che Matteo ci suggerisce, e che sono date dai tre intermezzi narrativi, inseriti tra l’una e l’altra serie di miracoli. Di essi rilevo solo la frase fondamentale. La prima è in 8,17: dopo aver narrato la prima serie di miracoli, Matteo conclude: “Perché si adempisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie”. Veramente questa parola di Isaia, riferita qui dall’evangelista, ci offre una nuova visuale di formidabile apertura. Intanto tutti gli esegeti notano qui che

Matteo, che di solito cita secondo la Bibbia greca dei Settanta, traduce direttamente dall’ebraico; quindi certamente ha un motivo speciale, che però non è facile individuare. Mi colpisce molto il fatto che questo testo ha due facce, una voluta ambiguità, che si manifesta di una ricchezza insospettata. Un primo aspetto sarebbe questo: Gesù ha portato via le nostre debolezze, si è caricato delle nostre malattie per spazzarle via. Questa sarebbe l’interpretazione ovvia; Gesù ha raccolto i nostri mali come si raccoglie l’immondizia delle città per buttarla fuori. Quest’interpretazione, qui ovvia, è presa però da un altro contesto, il carme del Servo di Jahweh, che ha un altro senso. Infatti in Isaia queste parole significano che Gesù è venuto a prendere su di sé le nostre debolezze e a caricarsi delle nostre malattie; a farsi cioè malato, debole per noi, a lasciarsi contagiare dai nostri mali (cfr. Is 52,13-53,12). Il doppio gioco del testo si capisce soltanto in una prospettiva di mistero pasquale. Gesù ha tanta voglia di risanarci perché viene ad agire non solo come guaritore, ma partecipa alla nostra sorte, entra nel peccato e nella sofferenza del mondo. Qui già intravediamo che prezzo paga Gesù per liberarci perché, per poterci dare una mano e tirarci su, si lascia contagiare dal nostro male, fino a morire lui stesso di questa sofferenza del mondo. Vediamo che Gesù compie tutto questo non con una facilità gratuita, ma pagando di persona, lasciandosi contagiare dalla lebbra, sommergere dalla tempesta, maltrattare dalle forze maligne e diaboliche, lasciandosi ammutolire, accecare, uccidere. Come vedete, qui siamo già nella parabola del Regno, nella seconda settimana degli Esercizi: Gesù che viene a redimerci caricandosi dei nostri pesi, scendendo al nostro livello e affondando insieme a noi. Di qui deve partire la nostra preghiera, che ormai, sempre più chiaramente, deve rivolgersi e guardare al Signore crocifisso, morto e risorto per noi. Anche la seconda chiave di lettura io la vedo ambivalente, in 9,13. Dopo che Gesù ha chiamato Matteo e si è messo a tavola con i peccatori e i pubblicani, viene rimproverato (questo è l’inizio dei rimproveri che termineranno con quello definitivo: la sua condanna a morte), ma concluderà dicendo: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; andate dunque e imparate cosa significa: misericordia voglio e non sacrificio; infatti non sono venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori”. Gesù, paradossalmente, ha come bisogno della nostra malattia, del nostro

peccato, perché altrimenti non sarebbe vero con noi. Quando noi siamo noi stessi, cioè malati e peccatori, allora anch’egli è se stesso e il dialogo diventa giusto: egli è ciò che vuol essere per noi e noi siamo ciò che siamo realmente, dinanzi a lui. Però c’è una seconda ambivalenza in questa frase, che mi pare si possa suggerire: Gesù pronuncia questa frase dopo che ha chiamato Matteo, chiaramente un peccatore, un amico di pubblicani. Perciò non mi pare che Gesù dica genericamente: io sono venuto per i peccatori; ma, più precisamente: sono i peccatori quelli che io chiamo a seguirmi all’apostolato, a collaborare. Sono coloro che hanno riconosciuto la loro situazione di peccato quelli in cui io pongo la mia fiducia, coloro che si sono lasciati da me liberare che io volentieri accolgo come discepoli. È chiaro che qui c’è un doppio senso del verbo “chiamare”: chiamare a penitenza, come propone Marco, e chiamare a seguirlo. Essendo posto dopo la chiamata di Matteo, a questo secondo significato non si può sfuggire, anche se non mi pare che gli esegeti lo propongano. Mi pare che in situazione di meditazione ecclesiale, alla luce di tutto quanto abbiamo detto di Isaia, Geremia, Pietro, possiamo applicarlo anche a noi: Signore, ti ringrazio perché mi chiami così come sono, debole, incapace di parlare come Geremia, con le labbra impure come Isaia, ostile a te come Paolo, pesante, ottuso, calcolatore come Pietro; tu mi chiami come hai chiamato ciascuna di queste persone, mi chiami perché sono così e accetto di esserlo. Infine la terza chiave di lettura di queste situazioni battesimali, che poi trasformiamo per noi in situazioni penitenziali battesimali, è la finale, in 9,3637: la compassione di Gesù. Matteo conclude il racconto dicendo che Gesù predica il Regno, guarisce le malattie ed è pieno di compassione per la gente perché è dispersa, prostrata, come pecore senza pastore. Cioè come quelle pecore matte che dopo aver corso di qua e di là si buttano sull’erba a morire di sete perché non sanno dove andare. Gesù ha interesse per queste pecore. Questa chiave di lettura ci dice non soltanto che Gesù, mosso dalla compassione, fa sua questa situazione e ci viene vicino, ma anche che comunica ai suoi questo suo speciale interesse. Infatti al v. 37 dice: “La messe è molta, gli operai sono pochi, pregate il padrone…”; poi prosegue al cap. 10,1: “Chiamò a sé i Dodici e diede loro potere sugli spiriti immondi”.

Gesù, attento alla situazione di miseria degli uomini, dei poveri, degli affamati, dei carcerati, ci comunica questa sua attenzione come dono. Qui possiamo capire meglio la risposta alla domanda: “Signore, perché non ti ho visto nudo, affamato, ammalato?” “Perché non ti sei lasciato comunicare la mia capacità di attenzione, hai preteso di saper essere tu attento alle situazioni. Lasciati comunicare dall’interno la mia misericordia. Hai voluto, facendo grandi studi sociologici, ritenerti capace di capire gli altri, ma ti sei spesso accecato sui veri bisogni di chi ti sta intorno. Lasciati guarire da me anche in questa scarsa capacità di percezione, che io invece desidero infonderti con la mia potenza di morto e di risorto. Seguimi nella mia passione e risurrezione, lasciati battezzare in esse per ricevere da me questa nuova, vera attenzione al fratello”. Alcune riflessioni sul sacramento della riconciliazione Se il Signore ci ha già ispirato a porci in situazione battesimale vissuta nell’oggi della Chiesa, di chi cioè chiede la riconciliazione con Dio e con i fratelli, forse possiamo riflettere come ciò può essere fatto fruttuosamente oggi. Insisto sull’“oggi” perché tutti siamo consci che attualmente nella Chiesa c’è una crisi della penitenza; si dice che i confessionali sono vuoti, ma lo sono da entrambe le parti, sia perché manca la gente, sia perché i preti non ci vanno più dentro. Una volta il sacerdote aspettava ore e ore dentro e poi poteva non sentirsi colpevole se la gente non si confessava. Ora si suona il campanello, ma non arriva nessuno. C’è dunque questo allontanamento graduale, non sempre per colpa dei fedeli; spesso infatti anche i sacerdoti, più o meno esplicitamente, fanno capire che è meglio diradare. Tutto questo forse è anche utile; è una crisi salutare perché nasce dal rifiuto di un eccessivo formalismo nel modo di ricevere e di dare il sacramento della penitenza, che alla fine disgustava tanto il sacerdote quanto il fedele, che con sforzo eroico continuavano in quest’abitudine della confessione frequente. Siamo in questa situazione e la Chiesa è alla ricerca di nuove vie penitenziali. Mi pare che ci sia una purificazione giusta, uno sforzo lodevole di abbandonare una pratica solo formale. Però evidentemente si rischia di perdere anche un punto essenziale della pedagogia della Chiesa, una dimensione essenziale della nostra vita di

battezzati, che è vita di peccatori i quali, affidati alla misericordia, percorrono il cammino verso la risurrezione definitiva. Perciò il mistero della penitenza opera ancora in noi e sarebbe metterci fuori dalla realtà dire che non ne abbiamo bisogno. Certamente, se questo sforzo di uscire dal formalismo ci portasse a trascurare la pratica penitenziale della Chiesa, questo sarebbe un gravissimo male: non saremmo più nella verità di fronte a Dio e di fronte ai fratelli. Non voglio però qui fare uno studio pastorale, ma solo dare un suggerimento a quelli che si fossero trovati, a un certo punto, a diradare sempre più le loro confessioni senza riuscire ad analizzare bene il perché, e anche nell’incapacità di riprendere una pratica ormai formale, a causa di un certo disagio interno. Vorrei proporre qualche suggerimento unicamente perché è servito a me e ciascuno offre ciò che ha sperimentato positivamente. Io mi sono chiesto, o il Signore mi ha ispirato a chiedermi: se mi pesava tanto una confessione breve e affrettata, perché non provare a farla più lunga e con più calma. Sembra un paradosso, però anche i paradossi qualche volta aiutano a uscire da situazioni bloccate. Allora, anche con l’aiuto di qualcun altro, sono passato dalla confessione a quello che chiamerei dialogo penitenziale. Questo colloquio, tra l’altro, non fa che sviluppare le indicazioni date dall’ultima revisione del rito penitenziale, pubblicata dalla Santa Sede e poi applicata dalle singole Conferenze episcopali, che amplia largamente la possibilità di inserire preghiere e letture della Sacra Scrittura20. Mi pare innanzitutto un colloquio con un fratello che rappresenta la Chiesa, quindi un sacerdote, in cui vedo un diretto rappresentante di Dio. Un colloquio fatto pregando insieme, nel quale io presento ciò che sento di me, in questo momento; mi presento così come sono, di fronte alla Chiesa e dinanzi a Dio. Mi pare che sostanzialmente questo colloquio abbia due parti: la prima, che chiamo “confessio laudis”, cioè confessione secondo il primitivo significato del termine. Anche qui si può partire da un paradosso: se mi risulta così faticoso e difficile ogni volta dire i miei peccati, perché non partire dalle opere buone? Anche sant’Ignazio lo suggeriva negli Esercizi, prendendo come primo punto il ringraziamento [43]: Signore, voglio prima ringraziarti perché in questo tempo mi hai aiutato, si è compiuta la tal cosa, ho potuto avvicinare la tal persona, mi sento più tranquillo, ho superato un momento difficile, ho

potuto pregare meglio. Ringraziare Dio di ciò che sono, per suo dono, in forma di dialogo, di preghiera di lode; riconoscere ciò che adesso dinanzi a Dio mi dà gioia, sono contento che ci sia o ci sia stato. È anche importante che dinanzi al Signore emergano queste cose, il riconoscimento della sua bontà per noi, della sua potenza, della sua misericordia. Sullo sfondo di tutto ciò si può passare allora a una “confessio vitae” che io definirei così: più che una ricerca e un elenco di peccati formali, dire dinanzi a Dio che cosa adesso mi mette a disagio, cosa non vorrei che fosse. Spesso saranno atteggiamenti, modi di essere, più che peccati formali, ma in fondo le cause sono quei dodici atteggiamenti che elenca san Marco: superbia, invidia, possesso di sé… che emergono in questi stati d’animo. Oppure dirò dinanzi a Dio: mi dispiace perché non riesco a parlare sinceramente con una certa persona, con quel gruppo il mio rapporto non è autentico, non so da che parte iniziare. Mi dispiace di non riuscire a pregare, mi mette a disagio il sentirmi avvolto dalla sensualità, da desideri che non vorrei, da fantasie che mi disturbano. Forse non accuso nessun peccato specifico, ma pongo me stesso dinanzi al Signore, così come vorrei che lui mi risanasse. Sarà veramente non un mettere sul tavolo tre o quattro peccati, perché siano cancellati, ma un immergersi battesimale nella potenza dello Spirito: Signore, purificami, rischiarami, illuminami. Chiedo in questa confessione non soltanto che sia cancellato questo o quel peccato, ma che il mio cuore sia cambiato, che ci sia in me meno pesantezza, meno tristezza, meno scetticismo, meno orgoglio. Forse non so neppure da che parte cominciare, ma pongo tutto questo nella potenza del Crocifisso e del Risorto per la potenza della Chiesa. Di qui nasce l’invocazione di preghiera, che può essere fatta insieme al sacerdote: si può recitare un salmo, una preghiera della Bibbia, di ringraziamento o di richiesta, o comunque una preghiera spontanea, su cui l’assoluzione sacramentale viene come la manifestazione della potenza di Dio, che io chiedo perché so che non sono capace di migliorarmi da solo. Mi rimetto ancora una volta sotto la Croce, sotto quella potenza che mi ha battezzato, perché ancora una volta mi riprenda in mano. Ecco cosa intendo per colloquio penitenziale; non semplicemente un colloquio psicologico, quasi una forma terapeutica. Non c’è bisogno che il confessore mi riveli necessariamente le sorgenti segrete delle mie colpe;

potrebbe anche avvenire con uno specialista del cuore umano, ma anche se il confessore è una persona che non sa molto del cuore umano, può sempre pregare per me, su di me e con me. Questo è sottoporsi alla potenza della Chiesa, quindi anche salvare il valore del sacramento: vengo a confessarmi non per sentire cose interessanti, per vedere che consiglio mi viene dato, ma perché io sono il caso da sottoporre alla potenza di Dio e questo mi basta, mi dà gioia, mi dà pace. Questo, con molte possibili variazioni, è un suggerimento che mi sento di darvi. È chiaro che così la confessione può durare anche a lungo, ma la si affronta più volentieri perché si vede cosa significa nel cammino verso Dio. Probabilmente a ciascuno di voi il Signore avrà suggerito altre forme, che potranno forse anche utilmente essere comunicate a livello di esperienze, perché potrebbero aiutare altri. Ti ringraziamo, Padre, perché tu sei per ciascuno di noi come un mare sempre in attività, sempre in movimento; e ci guidi, ci sostieni, ci spingi, ci invadi da ogni parte, ci penetri. Ti ringraziamo, Padre, perché ti manifesti a noi nella potenza misteriosa di Creatore, di Vivificatore, di Redentore. Ti manifesti a noi nell’umiltà di Cristo crocifisso, fattosi malato, lebbroso, muto, sordo e cieco, incapace di parlare, ucciso per noi, per salvarci dalla nostra lebbra, dalla nostra cecità, dal nostro mutismo, dalla nostra morte. Ti ringraziamo, Dio onnipotente, perché manifesti la tua potenza proprio nella debolezza del tuo Cristo. Ti ringraziamo, Signore, perché ci avvicini non nella folgore, nei fulmini e nel tuono, ma nella mitezza, nella debolezza, nella povertà di Cristo. Fa’, Signore, che ci lasciamo conquistare da questa povertà e da questa debolezza, fa’ che apriamo il nostro cuore perché anche noi, nella stessa maniera, possiamo essere per i fratelli malati sorgente di compassione, di misericordia e di guarigione. Te lo chiediamo, Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.

VII. IL DONO DELLA PREGHIERA Leggiamo alcuni passi di Matteo. Quando pregate non fate come gli ipocriti, i quali hanno piacere di pregare in piedi, nelle sinagoghe o negli angoli delle piazze, per essere veduti dagli uomini. In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro

ricompensa. Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. E quando pregate, non moltiplicate vane parole, come i pagani, che credono di essere esauditi a forza di parole. Non siate simili a loro, poiché il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno, prima che glielo chiediate (6,5-8). Dopo il miracolo dei pani Gesù, congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù (14,23). Avanzatosi un poco, Gesù si prostrò […] e di nuovo allontanandosi, pregava (26,39 ss.).

Possiamo anche noi raccoglierci un momento, riflettendo sulla preghiera di Gesù. Signore Gesù, tu vedi quante stagioni si alternano nella nostra preghiera, come cambia spesso il tempo al di fuori di noi e dentro di noi; ti chiediamo di insegnarci a pregare. Facci conoscere la via della nostra preghiera, fa’ che anche nella preghiera lasciamo emergere la verità di noi stessi davanti a te. Fa’ che troviamo la via della preghiera nella gioia, nell’entusiasmo, e anche nella stanchezza, nella pesantezza del corpo. Donaci lo Spirito che ci insegna a pregare. Tu che vivi e regni con il Padre e con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen. Vi suggerisco, più che una meditazione, una riflessione, una specie di revisione di vita sul “dono” della preghiera. Mi pare opportuno, in questo momento degli esercizi, guardare un po’ indietro e domandarci a che punto siamo con la preghiera. Potrebbe essere questo un momento di sosta, guardando a ciò che il Signore ci ha ispirato e a ciò che ci chiede. Qualche spunto o avvio su questa riflessione personale ce lo danno gli Esercizi, nella quinta addizione, dopo la prima settimana, che dice: “Dopo aver finito l’esercizio, per lo spazio di un quarto d’ora… esaminerò come mi è andata la contemplazione” [77]21. Ciò che qui si suggerisce di fare, dopo ogni meditazione, noi lo facciamo ora chiedendoci come va, che cosa ci lascia scontenti nella nostra preghiera. Riflettiamo sul dono della preghiera, perché si tratta proprio di chiedere a Dio, come dono, questo atteggiamento. Vorrei prima fare qualche riflessione introduttiva sul mistero della preghiera, poi parlare di diverse esperienze che in questi anni si sono succedute e che hanno segnato, in qualche maniera, la preghiera di ciascuno di noi. Queste possono essere per ciascuno di noi uno stimolo a rifare la storia della propria preghiera, non solo di questi giorni, ma anche di questo periodo e di questi anni. Di qui seguirà un altro interrogativo: a che tipo di preghiera mi sta muovendo lo Spirito? Infine rifletteremo su ciò che è tipico della

preghiera cristiana. Riflessioni introduttive Parto dalla constatazione del mistero della preghiera di fronte al quale ho dovuto arrendermi. Ricordo che dando gli esercizi spirituali, tanti anni fa, insistevo molto sulla preghiera; anzi parecchie volte impostavo, e mi sembrava con frutto, tutto un corso di esercizi su questo tema, dando come prima meditazione la preghiera e poi, ogni giorno, un’istruzione sullo stesso argomento. Ricordo che esponevo diverse tesi sulla preghiera meditativa, cercando, giorno per giorno, di spiegarla. In seguito non ho più insistito perché ho avuto sempre più la concreta esperienza che la preghiera si impara, ma non si insegna. Cioè dobbiamo imparare che c’è un cammino di preghiera, però nessuno può teoricamente insegnarla a un altro. Possiamo dare delle indicazioni, delle riflessioni teologiche, ma la preghiera è qualcosa di talmente personale che non si entra in quella altrui. Ci sono nel mondo, diceva una volta un tale, più forme di preghiera di quante non siano le foglie degli alberi. Cioè sono tali e tante le diversità dei singoli che è presuntuoso voler insegnare a un altro la preghiera; è come per il respiro, ciascuno ha il suo ritmo inconfondibile: si può imparare a respirare meglio, però il respiro rimane una cosa propria. Questo è il mistero della preghiera. Gesù stesso lo rispetta quando dice: “Ritirati nel ripostiglio” (la parola sembra indicare quella che nella casa palestinese era la dispensa, quindi un luogo assolutamente isolato della casa, dove l’uomo è solo con se stesso e con Dio). È chiaro che Gesù non voleva condannare la preghiera pubblica; nell’orto del Getsemani anche lui chiama gli apostoli a pregare con sé e alla Cena prega insieme a loro. Quindi Gesù voleva indicarci non un precetto, ma il senso della preghiera che è il segreto di ciascuno con Dio, in cui nessun altro può entrare. È interessante vedere, per esempio, l’esperienza storica di sant’Ignazio, che certamente era un grande mistico, ma non ci ha lasciato i suoi segreti di preghiera. Ci ha detto negli Esercizi molte cose appena accennate discretamente, ma se, per caso fortuito, non avessimo ritrovato alcuni frammenti di un suo diario spirituale, che egli voleva distruggere, non sapremmo niente della profondità, della ricchezza, della indicibilità della sua

preghiera. Quindi, in fondo, anche lui non ha comunicato molto di sé, proprio perché è tanto difficile22. C’è questo mistero fenomenologico della preghiera, che è la verità nostra davanti a Dio e che Dio solo conosce fino in fondo. A questo mistero, impenetrabile in qualche maniera e quindi un po’ incomunicabile, si aggiunge anche quello teologico della preghiera. Perché pregare? Sempre mi chiedo a che serva la preghiera. Se Dio sa già tutto, perché raccontarglielo? Se Dio è così buono, perché insistere con lui? Non è tanto facile trovare risposte che convincano razionalmente; tant’è vero che alcuni per questo motivo si rifugiano nella sola preghiera di lode, di amore. In realtà però la preghiera di lode, se vuol essere preghiera cristiana, è anche preghiera di domanda, preghiera del peccatore che si rivolge a Dio. Nel Dizionario di teologia pubblicato dalle Edizioni Paoline c’è un articolo molto interessante sulla preghiera23, in cui si esamina tutta la situazione teologica e ci si domanda se nel cristianesimo vale solo la preghiera di lode, o meglio se la preghiera di lode è più alta di quella di domanda. Si espongono i diversi motivi, anche se non è facile rispondere e si conclude che, nel cristianesimo, religione dell’Alleanza, la preghiera di domanda ha un suo ruolo insostituibile. L’uomo manifesta la propria povertà di fronte a Dio e la esprime e, benché la lode sia bellissima, non si può ridurre tutto solo a essa. Si prende, poi, in esame anche la famosa questione del perché domandare a Dio, che sa già tutto. Una risposta convincente in fondo è questa: Gesù stesso ha pregato. Non aveva bisogno di pregare, eppure il Vangelo ci dice che ha pregato, e a lungo. Ci troviamo anche qui di fronte a un paradosso: Gesù ha detto di non pregare con tante parole, poi lui stesso ha pregato a lungo, ripetendo le stesse parole. Questo vuol dire che la preghiera è proprio qualcosa di inafferrabile; viene dato un precetto, che non è materiale, ma indica una linea che poi ciascuno vive come lo Spirito Santo gli insegna. In fondo anche per me la preghiera di Gesù è l’argomento decisivo: dobbiamo unirci alla sua preghiera; se lui ha pregato, vuole che preghiamo con lui e quindi viviamo la nostra esperienza di preghiera, che si giustifica da sola.

Nella vita di fede uno si accorge che non può fare a meno della preghiera di domanda, di lode, di intercessione, di pentimento. C’è un’autogiustificazione che è, in qualche maniera, quella delle cose fondamentali: perché respirare? Non c’è bisogno di un motivo, è la vita che porta a farlo. Perché vivere? È la vita che porta a vivere. Perché pregare? È la fede che porta a pregare, la preghiera è fede espressa. Qui cogliamo tutta l’indefinibilità della preghiera, proprio perché è un tutt’uno con l’esperienza di fede; quindi da qui derivano varie definizioni della preghiera che non coincidono. Quando si dice che la preghiera è “richiesta a Dio delle cose convenienti”, o la preghiera è “elevazione a Dio della mente”, già intendiamo due cose che vanno insieme, ma non sono identiche. Ciò vuol dire che la preghiera non è facilmente definibile con una parola, ma è il respiro della fede, respiro corporeo, mentale, linguistico, psicologico, passivo. È il corpo della fede, ed è in qualche maniera la fede stessa, in quanto adesione, abbandono, e in questo senso già elevazione a Dio. Dobbiamo entrare in queste considerazioni, sapendo che non possiamo dare nessuna descrizione fisica o biologica della preghiera, ma la prendiamo come realtà di prima evidenza, della quale si può dire solo qualche cosa, con il rispetto dovuto a ciò che non si può costringere in parole logiche. Il caso tipico in cui la preghiera sfugge alla logicità è quello della preghiera in lingue: se esiste una preghiera in lingue che è logica e metodologica, significa che non si può esprimere con parole ciò che a un certo punto ha la sua espressione verbale in parole non significanti logicamente. Qui di nuovo cogliamo il brivido di questo “di più” della preghiera, che non possiamo restringere. Esperienze di preghiera negli ultimi trent’anni Vorrei ora ricordare diverse esperienze di preghiera; a questo proposito suggerisco la lettura di un’operetta di Adrienne von Speyr: Esperienza di preghiera24, interessante, almeno come stimolo. È una mistica del nostro tempo, che esamina, tra l’altro, la preghiera di Maria nei diversi momenti della sua vita, quella di Pietro e di altri santi. Vorrei trattare la storia della preghiera in cinque brevi episodi che, naturalmente, si riferiscono a come l’ho sperimentata io, non perché voglia

essere autobiografico, ma unicamente perché sono esperienze che tutti abbiamo fatto, in qualche maniera, e che quindi ciascuno può ripetere. Ricordo come si definiva la preghiera trent’anni fa, specialmente in un ambiente come quello nel quale sono stato educato: l’ambiente del noviziato dei gesuiti, della provincia torinese25 molto rigida anche nel senso della preghiera. C’era, di fatto, una sola preghiera, quella che sant’Ignazio descrive con l’esercizio delle “tre potenze”: memoria, intelletto, volontà26. Ogni meditazione aveva tre punti, secondo questa forma di preghiera, alla quale siamo stati educati e a cui abbiamo educato altri. Perciò questo metodo si è diffuso e certamente ha avuto grandi vantaggi, perché abituava a una disciplina mentale molto rigorosa e anche utile. Non è certo un danno avere una disciplina mentale per superare il disordine della fantasia e cercare di riuscire, anche interiormente, a svolgere i propri pensieri in maniera ordinata. Ma, naturalmente, tutti sentivamo che era una camicia un po’ stretta, anche se ci si stava dentro, si cercava di viverla e molti si sono in essa santificati. Ricordo già un cambiamento, proprio dopo la guerra, nella seconda parte degli anni quaranta. Forse i temi della nuova teologia, la spiritualità un po’ nuova, la liturgia venivano a galla ed è avvenuto, mi pare, un allargamento anche nella preghiera. Per noi gesuiti ha coinciso con una lettera del padre Janssens, allora Generale27, sulle diverse forme di preghiera. Basterebbe paragonare una lettera del 1936 del padre Ledóchowski28, Generale dei gesuiti, che parla di preghiera molto rigorosa, molto minuta, con questa lettera di quindici anni dopo del padre Janssens, che diceva: “La preghiera non si fa soltanto secondo i tre punti tradizionali, ma anche, per esempio, meditando su ciò che il Concilio di Trento ha detto sull’Eucarestia”. Quindi portava il tema della lettura meditata della lectio divina. Mi ricordo la sorpresa suscitata da un padre spirituale molto versato e anche aperto, il quale disse una volta, in un corso di esercizi: “Non è necessario che ogni meditazione abbia tre punti, potrebbe averne anche trecento”. Come, trecento punti? Pareva di perdere completamente il senso dell’ordine. Si andava verso un’apertura, si vedeva che l’esperienza dello Spirito poteva essere molto vasta. Ecco una prima apertura, ma ancora preconciliare. Questo secondo momento dura a lungo, dà possibilità maggiori

alla ricchezza della liturgia, di nuovi lezionari; è il periodo degli anni cinquanta e sessanta. Nel luglio 1970, quando mi trovavo negli Stati Uniti, ho conosciuto dei gruppi pentecostali che erano nati poco prima, nel ’68-69. Debbo dire che questo rappresentò per me un nuovo episodio, e credo anche per parecchi altri, in molti sensi. Uno però mi pare particolarmente importante: una riscoperta della preghiera di lode, gioiosa, spontanea, libera, quindi espressa anche in forme un po’ tumultuose esteriormente, ma nella quale – queste esperienze comunitarie di preghiera, principalmente di lode, erano fatte da giovanissimi – risultava chiaro quello che già sant’Ignazio aveva detto all’inizio degli Esercizi: l’uomo è creato per la lode, quindi nella lode di Dio gioisce, trova se stesso, trova la sua verità. Questo atteggiamento non era entrato tanto nella nostra preghiera personale. Mi pare che ciò abbia costituito una nuova apertura, e ci sia stata inoltre la rivelazione del senso della partecipazione corporea e affettiva nella preghiera; senso che esisteva anche prima, ma in forma evidentemente molto più misurata, quindi talora un pochino compressa. Non per niente questo movimento carismatico è nato negli Stati Uniti, dove era in atto, da dopo il Concilio, una grandissima crisi religiosa, con molti abbandoni del sacerdozio, e anche con lo scioglimento di ordini femminili. Tutto infatti si era razionalizzato, codificato; la stessa liturgia si era sì rinnovata, ma secondo uno stile molto intellettuale: tutto doveva essere chiaro, intellegibile, le preghiere dovevano essere intese dalla gente, tutto doveva essere regolato secondo le leggi della psicologia, della comunicazione sociale. Ora, l’uomo ha una dimensione misteriosa, che non si regola con le sole leggi della psicologia e della sociologia. Quindi questo movimento pentecostale è esploso come una specie di rivolta dell’irrazionale, per così dire, contro la codificazione: tutto è già stato capito e noi diamo al fedele, nella liturgia, ciò che egli riceve con l’orecchio attento, capisce e basta. Ma ci sono delle esplosioni interne della fede che non si possono ridurre a formule e che nella liturgia precedente, attraverso il mistero, in fondo erano tutte meglio presenti. Invece quando si vuole razionalizzare tutto, si sente che qualcosa manca, si capisce tutto, ma si è insoddisfatti. Benché sia stato un passo notevole l’aver messo tutto in lingua volgare, quindi l’aver fatto capire tutti i testi, l’aver cercato di rendere tutto chiaro, mi

pare non sia sufficiente: bisogna tener conto che l’uomo è qualcosa di più di ciò che esprimono le parole di un discorso logico. Mi pare sia stato un episodio importante, perciò, questo sale pentecostale e carismatico, che è entrato a vivificare la stanchezza della nuova liturgia e di tutto un modo più psicologico e umano di comprendere il fenomeno religioso. Il quarto episodio è più personale. È accaduto per me nel contatto con la preghiera dell’Oriente, in particolare dei monasteri greci dell’Athos, di Patmos e anche, attraverso questi, di diverse forme orientali non cristiane: yoga, zen e altre. Naturalmente anche qui il messaggio è molto complesso, ma mi sembra emerga il valore della salmodia ampia, come ritmo del corpo. Mi pare che lo si recuperi anche nel momento in cui nell’Athos comincia la preghiera: dall’una alle due di notte i monaci pregano nella loro camera e recitano la preghiera di Gesù. Migliaia di volte ripetono, per esempio, l’invocazione: “Gesù, Signore, Figlio di Dio, abbi pietà di noi”. Poi alle due suona la campana e si scende nella chiesa; lì si comincia la salmodia, che dura fino alle sei, le sette, le otto del mattino a seconda dei giorni. Naturalmente può apparire o può diventare facilmente una cosa formale, però nei monasteri dove è vissuta secondo lo spirito autentico di preghiera è una vera immersione del corpo e dello spirito in un ritmo di preghiera, per cui la lunghezza, a un certo punto, non conta più. Noi siamo abituati a preghiere molto razionali, brevi, concise; invece là, nella prima mezz’ora uno sembra magari un po’ distratto, poi entra in questo ritmo e a un certo punto il tempo si ferma. Si fa cioè un’esperienza che forse, per noi occidentali che avevamo portato il nostro spirito di organizzazione anche nella preghiera, è utile a ricordare che ci sono certi ritmi senza tempo. Analogamente, la preghiera di Gesù, cioè la ripetizione a ritmo di respiro, è anch’essa qualcosa di irrazionale, in quanto non possiamo spiegare perché ha tanta efficacia santificatrice. In fondo anche noi avevamo una forma di preghiera a ritmo: il Rosario. Poi, a un certo punto, lo si è messo in discussione. Così abbiamo dimenticato questo ritmo corporeo e verbale insieme, in cui la preghiera si inserisce. A volte noi perdiamo alcune cose e poi le recuperiamo da lontano. Nell’Oriente non cristiano esistono quelle forme che tutti conosciamo: lo yoga, lo zen, che sottolineano come la preghiera entra anche nel nostro corpo, fa parte del nostro respiro e la posizione stessa è importante da ritrovare. Sant’Ignazio lo diceva tanto tempo fa, esse ce lo hanno ricordato. Anche la

preghiera, che pure è la cosa più spontanea, non va esente da una certa tecnica, da un certo esercizio esteriore; questo lo dico contro una fantasia, un formalismo e un anticonformismo troppo facili. L’ultimo episodio, infine, è un po’ la risultante di queste diverse forme, quale si ha oggi in molte cosiddette “comunità di base” o comunità di lettura della Scrittura, le quali assumono qualcosa della preghiera pentecostale e di quella biblica, in una atmosfera di grande semplicità e partecipazione. Ho raccontato questi cinque episodi perché ciascuno rifletta un po’ sulla storia della sua preghiera, su quali influssi esterni l’hanno vivificata, condizionata, o aiutata.

Lo stato di preghiera Alla luce di queste esperienze possiamo chiederci a quale tipo di preghiera ci stia muovendo lo Spirito Santo. Oppure, più profondamente, se abbiamo trovato il nostro “stato di preghiera”. Quest’ultima domanda suppone due o tre cose: che ci sia uno stato di preghiera proprio, e che si debba cercare per trovarlo, quindi che non sia una cosa immediata, nella quale entriamo subito. Non avevo mai pensato a una dottrina dello stato di preghiera, ma mi è stata suggerita da una lettura fatta due anni fa, per caso. Mi trovavo negli USA, ospite di una università americana tenuta dai Padri dello Spirito Santo; in camera, tra i libri, ho trovato le lettere spirituali del fondatore di questa congregazione, il venerabile Libermann29, un ebreo convertito, figlio di un rabbino. Ho letto queste lettere attratto dall’acume di quest’uomo. A un certo punto, si parla di una donna della città, apparentemente molto spirituale, ritenuta però strana da alcuni per il suo comportamento. Essendogli stato chiesto un giudizio su di lei, Lieberman disse che le avrebbe parlato solo dopo qualche giorno di ritiro. Egli diceva così: “Questa donna quando trova il proprio stato di preghiera, mi sembra veramente carismatica, intuitiva, dice delle cose profonde; quando invece non lo è, e pretende ancora di parlare, dice delle cose strane. Se riesco a metterla in questo stato di preghiera potrò verificare chi è”. Questo mi sembra molto saggio; non dà un giudizio né positivo né negativo, ma suppone una vera dualità nella persona. Egli pone dunque l’idea dell’esistenza, in noi, dello stato di preghiera, cioè di quella situazione in cui veramente siamo noi stessi. Se è vero che possiamo pregare in qualunque momento e in qualunque tempo, però non possiamo entrare in una preghiera un po’ prolungata e perseverarvi con frutto, se non si realizza quella certa condizione di posizione corporea, di ritmo, di tipo di pensiero nella quale veramente ci sentiamo davanti a Dio. È ciò che in fondo sant’Ignazio intende quando dice: “Trovata la posizione giusta, vado avanti senza cambiare finché non mi sento soddisfatto, tranquillo” [76]. Certe volte uno arranca, gira, è inquieto: anche questa preghiera è buona davanti a Dio, ma per essere vissuta ragionevolmente deve sfociare a un certo punto in questo atteggiamento in cui veramente dico a Dio

me stesso, mi lascio conoscere, mi apro a lui come sono. È un non so che per cui sentiamo che questa preghiera è più vera di altre, pure ugualmente buone. Gli esercizi dovrebbero proprio aiutarci a focalizzare questo stato di preghiera, per poi poterlo ritrovare facilmente. Quindi non dovremmo stupirci o spaventarci se non sempre possiamo pregare subito e facilmente; bisogna fare un po’ di tentativi, un po’ di ricerche. Non sempre, poi, questo stato di preghiera vuol dire stato di consolazione, di euforia, ma solo di verità; può anche darsi che uno si senta in pena, sia anche bruciato interiormente. I mistici ci parlano di una fiamma che brucia dolorosa, nella quale però sentono di essere se stessi davanti a Dio. Dobbiamo certo stare attenti a non confonderlo con pseudostati di preghiera. Non si tratta di leggere un bel libro sulla preghiera, di sentirsi entusiasti e di vivere un giorno o due di questa bella impressione. Questo può anche falsare la nostra preghiera: ci aiuta, però non dura. Lo stato di preghiera è invece quello in cui gli aiuti esterni a un certo punto tacciono e siamo veramente noi stessi, anche se poveri. Forse non è la preghiera così luminosa e bella che abbiamo letto nei libri, è poverissima, semplicissima, però è nostra. Non è uno stato indotto leggendo le pagine dei mistici, ma uno stato che è maturato in noi spontaneamente; anche se non è una pianta gigantesca, una palma o un cedro del Libano, ma soltanto una margherita, o anche un filo d’erba, è nostro, e ritrovarlo è molto importante. Lo specifico della preghiera cristiana: preghiera “nello spirito” Passando a una riflessione più generale, ci chiediamo che cosa è tipico della preghiera cristiana. Tutte queste esperienze di preghiera, in fondo, devono far emergere in noi questo; sono buone in quanto lo fanno emergere, oppure passeranno, saranno cioè solo paglia, sostegno, che poi cadrà. Ci si è posti spesso questo interrogativo. Io vi riferisco semplicemente ciò che disse il padre Mollat, un grande esegeta di san Giovanni e un grande padre spirituale30. Aveva pensato molto, letto molto, riflettuto sulla Bibbia e alla fine era giunto a questa conclusione: c’è un elemento tipico della preghiera cristiana, quello di essere preghiera “nello spirito”. Evidentemente si potrebbe sviluppare anche un altro aspetto: la preghiera per Christum Dominum nostrum. Anche questo è un carattere tipico;

prendendo però non tanto ciò che riguarda il contenuto, cioè il mediatore, ma solo il momento in cui si suscita, è preghiera nello Spirito. Basandosi sulla parola di Giovanni: “Dio va adorato in Spirito e verità” (4,23), ci spiegava che ciò non vuol dire affatto che Dio non va adorato col corpo, nei templi, nelle chiese; anzi, la preghiera è corporea, quindi è locale, ha bisogno anche di luoghi, di persone, di figure, di simboli. Ma Giovanni ci vuole dire che è preghiera nella verità, cioè nella realtà del disegno salvifico, per cui il Padre ci viene incontro nel Figlio e nello Spirito; è quindi suscitata, mossa, condotta dallo Spirito di Dio. Il padre Mollat diceva che neppure il Vecchio Testamento aveva capito questo rapporto dello Spirito con la preghiera; infatti esso appare soltanto nel Nuovo Testamento e in nessun’altra forma religiosa non cristiana, neppure nell’ebraismo. Spiegava che quella cristiana è una preghiera nello Spirito, perché lo Spirito suscita e sostiene la nostra preghiera, appoggiandosi a testi biblici, come la lettera ai Romani: “Noi non sappiamo cosa dobbiamo chiedere” (8,26). Quindi, come gli apostoli gridano nella tempesta qualcosa che manifesta la loro poca fede, “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa conviene domandare”. Come possiamo quindi pregare in verità? Possiamo solo mandare delle grida che esprimono davvero ciò che è necessario; allora lo Spirito stesso “intercede per noi con gemiti inesprimibili”. Certo è un passo molto difficile. Qui lo Spirito appare come suscitatore della preghiera e sostenitore, e viene in aiuto di una situazione stagnante, e insieme la porta avanti, mettendo in moto la preghiera, bloccata dalla incapacità a conoscerci. Non ogni preghiera è pregare, e noi abbiamo il terribile privilegio di bloccare anche Dio con la preghiera. Adrienne von Speyr, nel suo libro, fa l’esempio di una donna che ha passato la mattina in casa con i suoi nervosismi, le sue irritazioni; quando il marito ritorna, comincia a raccontargli tutto questo e lui, sommerso, si mette a leggere il giornale, non sapendo più che cosa fare, cosa dire. Ecco un esempio di come la preghiera può essere dialogo e bloccare Dio, perché buttiamo dentro tante cose non autentiche, che in realtà non fanno avanzare il dialogo, mettendo quasi a tacere Dio. Lo Spirito, invece, con i suoi gemiti, fa emergere le cose vere, quelle che veramente dobbiamo chiedere e alla luce delle quali anche le altre banalità possono acquistare un senso, diventare oggetto di preghiera. Lo Spirito, diceva padre Mollat, dà cordialità e affettuosità alla preghiera

cristiana, citando san Paolo: “Non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio” (Rm 8,15-16). Anche la gioia della preghiera cristiana viene perciò dallo Spirito, che ci dà questa verità, ci attesta che siamo figli e quindi ci permette di parlare come tali. Diceva ancora che lo Spirito dà alla preghiera cristiana la sua comunitarietà, che sembra una caratteristica esclusiva della preghiera giudaica e cristiana. Ci parlava, a questo proposito, dei grandi mistici non cristiani, per esempio di Plotino31, le cui preghiere sono state definite “la parola di un solitario a un Solitario”, cioè un dialogo bellissimo, ma nel quale l’uomo si isola, disprezzando in qualche maniera tutto, e parla con Dio come se non ci fosse altro. La preghiera cristiana invece, che lo Spirito suscita, tende di natura sua ad abbracciare tutto il corpo di Cristo. Quindi è la preghiera della comunità; non è una somma di preghiere singole, ma è un fatto nuovo, in cui la preghiera di ciascuno muore nella preghiera comune e risorge come unica preghiera. Infatti si coglie quando la preghiera è solo fusione di buone volontà o a un certo punto c’è un salto di qualità, si sente che è un fatto nuovo, che ciascuno ha dimenticato se stesso, che questa preghiera è la preghiera unica del Corpo riunito. Tutti facciamo questa esperienza e sappiamo subito distinguere se in una comunità c’è o non c’è questa cessione della nostra preghiera a quella del corpo di Cristo: è lo Spirito che ci permette di uscire da noi e di cedere alla nostra preghiera privata perché viva quella della comunità. Questo non cancella la validità della preghiera privata; Gesù stesso ha detto: “Vai nella tua camera…” Rimane sempre questo contatto unico e inalienabile con Dio, ma esso viene assunto nella sua verità da una preghiera ancora più bella, quella del corpo di Cristo. Ce ne parlano chiaramente gli Atti degli apostoli: “Erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui” (At 1,14). Ancora, la preghiera cristiana vera è quella che rimette la nostra vita nelle mani di Dio, che ci fa morire in Dio, con la quale noi ci consegniamo alla potenza divina e quindi anche alla Chiesa. La preghiera battesimale è consegnarsi alla potenza divina nel battesimo. La preghiera penitenziale è consegnarsi alla potenza divina nella Chiesa che riconcilia. La preghiera eucaristica è consegnarsi al Cristo immolato per essere con lui offerti al

Padre. Questa mi pare la preghiera a cui dobbiamo giungere, perché allora è veramente pregare in verità, cioè in Dio che viene a noi nel Cristo, e Cristo ci riporta al Padre. Mi pare che, in questo senso, la preghiera è la stessa vita cristiana, è il cammino della salvezza. Per questo, dicevo, si giustifica da sola: per il fatto che esiste una salvezza, esiste anche una preghiera che è l’espressione di questa salvezza. Ti chiediamo, o Signore, di darci il dono della preghiera, te lo chiediamo perché ne abbiamo bisogno. Sappiamo di non essere capaci di pregare e appunto per questo ti chiediamo come dono di poter essere noi stessi. Donaci, o Signore, di trovare volentieri la nostra preghiera, anche se piccola, povera, semplice, disadorna, priva di concetti grandiosi. Fa’ che sia vera, o Signore, che essa esprima ciò che noi siamo: poveri, peccatori davanti a te, e anche ciò che noi siamo per la tua grazia. Fa’ che sappiamo lodarti, o Signore: gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, come era nel principio, ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

VIII. LA PASSIONE DI GESÙ EDUCA PIETRO ALLA CONOSCENZA DI SÉ E DEL SIGNORE Leggiamo un brano del Vangelo di Matteo: In quel tempo Gesù prese a dire: ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto è stato dato a me dal Padre mio: e nessuno conosce il Figlio se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, eccetto il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo (11,25-27).

Preghiamo insieme: Signore, noi vogliamo guardare te per conoscere il Padre. Tu dalla Croce ci riveli il Padre. Rivela, o Signore, a noi il mistero della Croce; fa’ che non ne abbiamo paura, fa’ che in esso conosciamo Dio, conosciamo te, Figlio del Padre, conosciamo noi stessi, peccatori salvati. Donaci quella particella di intelligenza del mistero della Croce che hai stabilito per ciascuno di noi. Fa’ che la nostra vita sia coerente con ciò che tu ci fai conoscere e se vuoi farci prima praticare che conoscere, farci prima amare

che comprendere, donaci il tuo Spirito attraverso la tua morte e resurrezione gloriosa. Ti adoriamo presente tra noi, vivo, risorto, glorioso nei secoli dei secoli. Amen. Sgomento di fronte al mistero della passione In questa seconda parte degli esercizi, mi sento un po’ come un aeroplano che abbia rullato lungo la pista e poi, alla fine, si accorge di non avere i motori abbastanza forti e la corsa abbastanza lunga per salire. Così mi sento di fronte a ciò che ci sta davanti, di fronte alle meditazioni sulla passione. In fondo ciò che abbiamo fatto finora è stato un guardare al Signore, ricavandone soprattutto conoscenza di noi stessi. Adesso che si tratta di guardare a lui per ricavare conoscenza di lui (e questo non si può fare senza entrare nel mistero trinitario del Padre che ci dona il Figlio, e soprattutto nel mistero della morte di Dio), mi sento del tutto impreparato. Mi conforta il fatto che voi siete capaci di meditare guidati dallo Spirito, quindi di entrare anche per conto vostro in queste meditazioni, al di là di ciò che io posso suggerirvi. Mi conforta anche il pensiero che nessuno può esigere da un altro, nella fede, ciò che Dio non gli ha donato, quindi ciascuno risponde soltanto dei doni che ha. Certamente di fronte a questo mistero della passione, che ora dobbiamo affrontare più direttamente, ho un senso di timore, di distanza. Urs von Balthasar mi sembra uno dei pochi che ha trattato a fondo questo tema, non solo negli ultimi anni ma da secoli, perché, come lui stesso fa notare, dal 1500 non si è più teologicamente approfondito questo mistero32. Egli paragona l’entrare nella meditazione della passione, della morte di Dio e di tutto ciò che essa significa per il destino umano, all’entrare in un paese di morte, come descritto da Isaia nella piccola Apocalisse: Terrore, fossa e laccio ti sovrastano, o abitante della terra. Chi fugge al grido di terrore cadrà nella fossa, chi risale dalla fossa sarà preso nel laccio. Le cateratte dall’alto si aprono e si scuotono le fondamenta della terra. A pezzi cadrà la terra, in frantumi si ridurrà e, crollando, crollerà la terra. Certo barcollerà la terra come un ubriaco, vacillerà come una tenda; peserà su di essa la sua iniquità, cadrà e non si rialzerà. Arrossirà la luna, impallidirà il sole, perché il Signore degli eserciti regna sul monte Sion e in Gerusalemme e davanti ai suoi anziani sarà glorificato (Is 24,17-23).

L’autore cita questi versetti per evocare tutto il mondo di cose drammatiche che necessariamente siamo costretti a rievocare entrando nel

tema oscuro della storia: la morte di Dio. Egli dice infatti: “Se Dio muore, tutto muore, se la parola rivelante di Dio a un certo punto tace, tutto il mondo tace”33. Quindi ci fa comprendere veramente la serietà, la drammaticità di questo tipo di meditazione, che, quando viene fatta con verità, cioè vedendone le conseguenze per la nostra vita, ci appare più di un gioco, anzi quasi un laccio dal quale si è presi e come travolti. Perché la passione e morte di Gesù? Von Balthasar incomincia la sua trattazione con l’interrogativo fondamentale che sta al fondo di queste considerazioni, riportando una frase di Gregorio di Nazianzo34: “Perché questo sangue è stato versato?” La passione e la morte del figlio di Dio erano veramente necessarie dopo l’incarnazione? Su questo punto i teologi sono divisi. La passione non è forse, come dicevano gli scotisti35, subordinata allo scopo principale, l’incarnazione, che è la glorificazione del Padre attraverso l’unione di tutto il Figlio? Essa sarebbe allora qualche cosa di accidentale, di aggiunto. Se non accettiamo questa teoria che non sembra corrispondere, almeno così dice von Balthasar, ai dati della tradizione, e mettiamo invece la passione al centro, come termine dell’opera di Dio, allora ne deriva un altro problema: consideriamo il peccato come un contributo necessario all’opera di Dio, perché non c’è la morte di Gesù senza il peccato. Se la morte di Gesù è lo scopo, il culmine della manifestazione di Dio, allora il peccato è necessario a questa manifestazione. Alcuni teologi risolvono questa difficoltà individuando due scopi nell’azione di Dio; Suárez36, per esempio, parla di un doppio motivo principale dell’incarnazione. Ma già questo mostra un tentativo di eludere il problema: come può esistere un “doppio” motivo “principale”? Il motivo principale è uno, di sua natura. Il tentativo non fa che mettere maggiormente in risalto la difficoltà, mostrando la complessità del problema e la fatica anche teologica di chi vuole sceverare fino in fondo il mistero della rivelazione della gloria di Dio nella morte di Cristo. I due termini sembrano appunto antitetici: la rivelazione di Dio nell’annientarsi di Dio. Eppure questo è il mistero della passione. In un linguaggio semplice, ma efficace, von Balthasar dice: “Dio si rivela

in quello che costituisce l’aspetto più profondo della sua divinità e manifesta la sua gloria, proprio facendosi nostro servitore, lavando i piedi alle sue creature”37. La meditazione sulla passione richiederebbe quindi un tentativo di penetrazione amorosa del mistero di Dio che lava i piedi dell’uomo e, come tale, si rivela il Dio glorioso; un Dio che si sottomette al giudizio e allo sfruttamento dell’uomo, rivelandosi il Dio potente. Ecco la linea di meditazione del mistero che sant’Ignazio ha inteso molto bene, senza svolgerlo in fatti teologici, ma soltanto con intuizioni di tipo mistico, quando negli Esercizi fa contemplare la Croce fin dall’incarnazione. Mentre nella grotta di Betlemme c’è ordinariamente una scena idillica, di pace e di dolcezza, sant’Ignazio dice: “Contemplare come nasce in una grotta in tanta povertà per vivere in fatica, fame, freddo e sete e poi morire per me” [116]. Quindi, già da quel momento, mette la Croce come termine dell’incarnazione, già considerata come lo svuotamento di Dio in Cristo, Dio che si rivela attraverso il farsi niente. Questi sono i pensieri che il Signore ci chiede di approfondire e che io mi sento incapace di esporre in maniera sistematica, positiva; li lascio quindi alla vostra riflessione. Vi propongo ora qualche meditazione per aiutare la vostra riflessione personale che diventa sempre più centrale. Per collegare questa fase degli esercizi con la precedente, potremo richiamare due passi che ci hanno guidato; il primo è in 8,17: “Egli ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie”. Meditare sulla passione vuol dire chiedersi che cosa significa da parte di Gesù addossarsi le nostre debolezze. L’altro passo è in 25,44: “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato, assetato… e non ti abbiamo assistito?” Il Signore ci invita a contemplarlo nella sua povertà per accorgerci di ciò che ci circonda. Ugualmente ogni volta che impareremo ad aprire gli occhi per soccorrere qualcuno che è in infermità, capiremo meglio lui che si è addossato le nostre infermità. Prolunghiamo quindi questa linea di riflessione che ci siamo proposti sin dall’inizio, davanti al Cristo risorto, che manda i suoi come Chiesa nel mondo. Pietro di fronte alla passione Poiché è difficile entrare in queste meditazioni, facciamoci accompagnare da qualcuno che cominci a farci esplorare alcuni aspetti del mistero, per esempio Pietro. Vi propongo quindi di meditare su come Pietro ha vissuto la

passione di Gesù o, se volete, su come la passione educa Pietro alla conoscenza di sé e di Gesù. Non è ancora la contemplazione diretta del mistero, è piuttosto un arrivarci per gradi, attraverso le difficoltà che Pietro stesso ha incontrato nell’entrare in questo mistero. Chiediamo a Pietro che ci aiuti a percorrere il suo cammino, a cogliere quale è stata per lui l’esperienza scioccante, drammatica della passione di Gesù. Partendo da alcune frasi del Vangelo cercheremo di ricostruire, nella preghiera, l’atteggiamento di Pietro. In fondo Pietro è ciascuno di noi. È l’uomo che per la prima volta viene abbagliato dal fatto inconcepibile della passione di Gesù e viene colpito nella sua carne, perché si accorge che essa si riflette su di lui. Leggeremo 14,26, Pietro sulle acque, fino al pianto finale in 26,75, cioè dalla prima presunzione di Pietro, cambiatasi in paura e presto risanata, fino allo scoppiare in pianto che manifesta il venir meno di tutte le sue sicurezze di fronte al Cristo sofferente, di tutto ciò che egli aveva pensato di sé e di Gesù. La presunzione e la paura Cominciamo dunque da 14,26. Vedendo Gesù che, come un fantasma, viene incontro alla barca sul mare e dice: “Coraggio, non abbiate paura!”, Pietro dice: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. È una parola molto forte “camminare sulle acque”, è proprio di Jahweh, è una caratteristica di Dio nel Vecchio Testamento; quindi Pietro è molto ardito: chiedere di fare ciò che fa Gesù è partecipare alla forza di Dio. Questo corrisponde al sogno di Pietro: seguendo Gesù siamo stati investiti dalla sua forza, non ci ha forse comunicato i suoi poteri di cacciare i demoni e guarire i malati? Dunque entriamo in questa comunicazione di potenza con fede, con amore, con generosità, partecipiamo alla forza di Dio. Gesù acconsente: “E Gesù disse: vieni. Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento si impaurì e cominciando ad affondare gridò: ‘Signore, salvami’. Subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: ‘Uomo di poca fede, perché hai dubitato?’” Pietro vuol partecipare alla potenza di Gesù, però non si conosce e non sa che partecipare a questa potenza significa anche condividere le prove di Gesù, lasciarsi sconvolgere dal vento e dalle acque. Non aveva pensato a

tanto, immaginava un gioco più facile; allora, sconvolto, grida. Questo suo grido rivela il fatto che Pietro non conosceva se stesso perché presumeva di sé, si riteneva ormai capace di partecipare alla debolezza di Dio; non conosceva Gesù, perché a un certo punto non si è più fidato di lui, non ha capito che è il Salvatore e che in mezzo alla potenza dell’uragano, là dove la sua debolezza si manifestava, Gesù era lì per salvarlo. Questa è per Pietro la prima esperienza della passione; è però un’esperienza non riuscita, chiusa, appena iniziale, dalla quale, come noi facciamo spesso, non impara molto. Probabilmente si chiede che cosa gli sia capitato, perché si sia lasciato prendere dallo spavento. La cosa gli rimane però vaga, come molte nostre esperienze che non sono assorbite finché una più grande non ce ne rivela il senso. Evoluzione psicologica di Pietro Vediamo ora semplicemente tutti i luoghi in cui si parla di Pietro, chiedendoci che cosa possono significare per l’evoluzione psicologica di quest’uomo. In 15,15 con molta semplicità Pietro dice: “Signore, spiegaci questa parabola: quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo, non quello che vi entra”. Gesù risponde: “Anche voi siete ancora senza intelletto”. Pietro è dunque un uomo che ha coraggio, desidera capire qualcosa, però la sua conoscenza delle cose di Dio è ancora embrionale, ancora in movimento e questo si manifesterà lungo tutto il suo cammino. Il capitolo seguente (16,16 ss.) ci mostra il punto culminante di questo cammino; Pietro a nome di tutti è l’unico che ha il coraggio di parlare e alla domanda di Gesù “Ma voi chi dite che io sia?” risponde: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù: “Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa. Ti darò le chiavi del Regno”. Di fronte a queste parole Pietro si sente certo contento: ha risposto alla fiducia che il maestro aveva in lui. Egli l’ha chiamato vicino alla barca quando era ancora un povero pescatore, uno zoticone; ha avuto fiducia, e lui ora ha mostrato che era ben riposta. È vero che Gesù ha detto: “La carne e il sangue non te l’hanno rivelato”; quindi la rivelazione è di Dio, però è stata fatta a lui, Pietro; Dio gli ha dato la possibilità di dare questa manifestazione

e quindi di avere una responsabilità nel Regno. Questo certamente non gli dispiace, come non dispiacerebbe a nessuno di noi. Immaginiamo dunque lo smarrimento di Pietro quando, subito dopo, appena pensa di aprire bocca e di esercitare un po’ delle sue funzioni, viene rimbeccato duramente. Infatti quando Gesù, subito dopo, comincia a dire apertamente che deve andare a Gerusalemme, soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti, degli scribi, venire ucciso (la passione affiora qui per la prima volta), Pietro, da uomo prudente, non lo redarguisce in pubblico, ma lo prende in disparte pensando di dire al maestro con onestà qualcosa che gli sarà utile. E dice protestando: “Dio te ne scampi, Signore, questo non accadrà mai”. È una parola che gli esce dal cuore perché Pietro vuole bene a Gesù e pensa che debbano essere loro a morire piuttosto che lui, che deve risparmiarsi per il Regno. Pietro, mi sembra, è generosissimo: vuole essere lui piuttosto a morire perché sa benissimo che la vita che hanno cominciato è contrastata, ci sono nemici, difficoltà. Non si illude, però ragiona logicamente: se la Parola tace, chi la dirà? La Parola non deve tacere, piuttosto noi ci sacrificheremo per te. Quindi immaginiamo il suo disappunto, lo smarrimento per la risposta di Gesù: “Lungi da me Satana, tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Pietro ha parlato con tutta la generosità del suo cuore, ha parlato per il bene di Gesù e dei compagni, perché la Parola rimanesse ed è trattato da Satana. È confuso, tace e non fa l’unica cosa che mi sembra dovrebbe fare: chiedere al Signore di spiegarsi, di manifestare la sua perplessità. Poco dopo eccolo, di nuovo nella sua piena fiducia di “maggiordomo” del Regno, quando sul monte della Trasfigurazione prende la parola e dice: “Signore, è bello per noi restare qui” (17,4). Di nuovo prende la parola per tutti, ormai ha capito che tocca a lui interpretare il pensiero comune: “Se vuoi farò qui tre tende, una per te, una per Mosè ed una per Elia”. Cercando di mettermi nella psicologia di Pietro leggo in queste sue parole: provvedo io! E con molta generosità, perché per sé non fa la tenda ma è ormai lui che organizza il Regno di Dio. Matteo non lo dice, ma Luca aggiunge: “Egli non sapeva ciò che diceva”. Qui certo esplode la gioia di avere un posto e di voler fare il possibile per essere degno della fiducia riposta in lui. Poiché il Regno di Dio è una cosa grande, bisogna fare grandi cose: una tenda per ciascuno, che in Oriente è un

lusso notevole. Pietro qui certamente non riflette molto su di sé, dice ciò che gli sembra giusto, e non viene neanche redarguito da Gesù, perché poi la scena rapidamente si evolve. Viene la voce dall’alto: “Ecco il mio Figlio nel quale mi sono compiaciuto”. Forse Pietro avrebbe potuto capire che non era il caso di fare le tende, ma di guardare a questo Figlio, a come si comporta, a come Dio lo sta manifestando nella gloria e nella povertà; ma tutto questo non entra nella sua mente. Possiamo immaginare il momento in cui scendono dalla montagna e si avvicinano alla folla che sta intorno al luogo in cui l’epilettico non è stato guarito dai discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni sono dalla parte della ragione, sono coloro che non sono stati bruciati dall’esperimento fallito. Penso che Pietro con una certa soddisfazione interna si unisca a Gesù, che dice: “O generazione incredula e perversa, fino a quando starò con voi”, pensando che certo, se ci fossero stati loro, l’avrebbero guarito, mentre questi altri discepoli “di secondo grado” non sono stati capaci di farlo. C’è ancora un episodio molto interessante, in questo capitolo, che è ricco di simbolismo: l’episodio della tassa del tempio, dove Gesù con noncuranza dice: getta l’amo, prendi il primo pesce e dai la moneta (17,24-27). Ciò che mi colpisce è: “Prendila e consegnala a loro per me e per te”. Mi pare molto bello questo gesto di Gesù di mettere una moneta sola per sé e per Pietro, sembra quasi un avvertimento: guarda che siamo insieme, cerca di accomunarti al mio destino e non pretendere di fartene uno tuo diverso dal mio, o di guardare al mio dall’esterno. Non so se Pietro abbia capito la ricchezza di significato di questa unica moneta, la delicatezza di questa parola. Difatti lo vediamo qui non più direttamente nominato, ma insieme con i dieci, al cap. 20,24, che si sdegna contro i due figli di Zebedeo, dopo che la loro madre si è avvicinata a Gesù; la donna gli chiede che i suoi figli stiano uno alla destra e uno alla sinistra e Gesù risponde con molta calma che stare alla destra o sinistra è dono del Padre. Gesù tratta questa madre con molta bontà, con pazienza, senza irritarsi, invece gli altri dieci si sdegnano perché il posto lo vorrebbero loro. Ma in 20,24-28 Gesù dice: “I capi delle nazioni le governano da padroni, e i grandi esercitano il potere sopra di esse. Ma tra voi non sarà così; al contrario, chi

vorrà tra voi diventare grande, sarà vostro servo; e chi vorrà tra voi essere primo, sarà vostro schiavo. Così come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere primo, ma per servire e per dar la sua vita in redenzione dei molti”. Il testo non dice che cosa abbiano pensato gli apostoli, ma è chiaro, da ciò che segue, che ancora non hanno capito. Gesù parla, ma come succede spesso anche a noi, sentiamo le cose, ma non le realizziamo, cioè non le percepiamo fino a che un avvenimento imprevisto, duro, non ci mette a contatto con la realtà. Qui abbiamo lo stesso fenomeno, quello anche psicologicamente ormai codificato del punto cieco; ci sono cioè delle cose che non vediamo, su cui siamo ciechi o sordi; le cose ci vengono dette, ripetute, diciamo di averle capite, ma non le assimiliamo. Pietro è in questa stessa linea. Quante volte facciamo questa esperienza su di noi o forse sugli altri: capiamo solo ciò che siamo in grado di sperimentare, il resto è acqua che passa. Il dramma di Pietro Veniamo ora direttamente alle ultime battute del dramma di Pietro, che abbiamo visto così poco preparato (26,32-35). Gesù dice, mentre vanno verso il monte degli Ulivi, cantato l’inno dopo la cena: “Voi tutti vi scandalizzate per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge”. Qui c’è un’indicazione che fa capire tutta la debolezza degli apostoli: siete come pecore, se non c’è il pastore non sapete fare niente. “Ma dopo la mia resurrezione vi precederò in Galilea. E Pietro gli disse: anche se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai. Gli disse Gesù: in verità ti dico, questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte. E Pietro gli rispose: anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò. Lo stesso dissero tutti gli altri discepoli”. Riflettiamo un istante su queste parole. Dobbiamo certamente dare atto a Pietro della sua onestà e della sua generosità. Qui certamente Pietro parla credendo di conoscere pienamente se stesso, e con tutto il cuore. In fondo ha appena ricevuto l’Eucaristia, esce dal momento culminante della vita di Gesù, non possiamo pensare che parli con leggerezza; le sue parole sono anche molto belle: “Se dovessi morire con te”. Quel “con te” è la parola essenziale della vita cristiana.

Si direbbe che qui Pietro abbia ormai capito il senso dell’unica moneta per due: sono con te, Signore, nella vita e nella morte. Quante volte abbiamo detto questo? Gli Esercizi di sant’Ignazio ci fanno dire nella famosa parabola del Regno: “Chi vuol venire con me”; quindi è una parola chiave. Pietro dice una parola esattissima, non c’è insincerità, non c’è sbaglio nelle parole. Gesù però non ha detto: “Mi rinnegherete”, ma “vi scandalizzerete”; secondo l’espressione biblica: “Troverete una pietra imprevista”. Lo scandalo è un ostacolo imprevisto che fa da trappola. Per i discepoli sarà l’imprevisto scarto tra l’idea che avevano di Dio e quella che si rivelerà in quella notte. Il Dio di Israele, il grande, il potente, il vincitore dei nemici, che quindi non abbandonerà mai Gesù, è la loro idea di Dio, quella che hanno imparato dal Vecchio Testamento. Gesù li avverte che non sapranno mai resistere allo scarto tra ciò che pensano e ciò che si verificherà. Pietro non accetta per sé questo ammonimento, crede di conoscere il Signore pienamente, ha ormai accettato il rimprovero precedente, ha capito che deve affidarsi veramente a Gesù, quindi va fino in fondo, cerca di andarci almeno: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. Qui io vedo non soltanto un po’ di presunzione nel non conoscersi, ma anche già un errore: intanto crede di avere l’idea di Dio, ma non ce l’ha ancora, perché nessuno ha la vera idea di Dio finché non ha conosciuto il Crocifisso. Inoltre Pietro parla sì di morte, ma da ciò che segue mi sembra intenda la morte eroica, la morte del martire, gloriosa; morire con la spada in pugno, nell’eroismo, come i Maccabei, come gli eroi dell’Antico Testamento: la morte di colui nel cui grido ultimo contro i nemici appare sfolgorante la verità di Dio, l’ingiustizia e la vergogna di chi ha tentato di assalirlo. Penso che Pietro arrivi fin qui, ma non accetta di morire umiliato, in silenzio, quindi oggetto della pubblica vergogna. Leggiamo semplicemente dal brano seguente: Gesù lo prese con sé con i due figli di Zebedeo e cominciò a provare tristezza e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. E avanzatosi un poco, si prostrava e pregava: “Padre mio, se è possibile passi questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!” Poi tornò dai discepoli che dormivano e disse a Pietro: “Così non siete riusciti a vegliare un’ora sola con me?” (26,37-40).

Sembra impossibile che Pietro avesse tanto sonno dopo avvenimenti così eccitanti come quelli della sera, dopo l’Eucaristia, dopo le parole del maestro.

Sentiva anche lui, come tutti, che in città si correva, si tramava, c’erano voci e raduni. Nessuno di noi si abbandona al sonno in queste occasioni, è piuttosto il nervosismo che ci prende e l’incapacità a dormire. Mi sembra di vedere nel sonno di Pietro quel disgusto psicologico di una situazione inaccettabile come quella di Gesù nell’orto. Pietro poco prima aveva detto: morirò con te, andremo insieme a una morte eroica, cantando contro il nemico; invece Gesù ha paura e fa lo sbaglio di rivelarsi, di mostrare la sua verità che gli altri non sono preparati a ricevere. Comincia perciò lo scandalo di fronte a un uomo che ha paura, che si spaventa. Da ciò lo smarrimento e la voglia di non pensarci, come capita a tutti noi per certe sofferenze di amici, di persone care, perché non possiamo sopportarle insieme, non ne abbiamo la forza. Allora succede nella psiche una potentissima forza di obliterazione, cioè quell’accasciarsi di chi non sa più che cosa fare. È bastato a Pietro che Gesù si rivelasse “vero” e non fosse una volta tanto il maestro a cui si appoggiavano, quello che aveva sempre “la parola giusta”, ma un uomo come gli altri, un amico da consolare, per cominciare a scandalizzarsi e a non capire. “Gli occhi appesantiti” dice il Vangelo: anche questa mi pare un’espressione che richiama uno stato di accecamento interiore, di confusione mentale che grava nello spirito e lo rende pesante, torbido, offuscato. Gesù deve pregare da solo e ogni volta che risveglia i discepoli è un nuovo choc: vedono la faccia di lui così spaventata, angosciata, e comincia a affiorare il dubbio: è veramente il Messia? Come può Dio manifestarsi in un uomo così povero? Questo Gesù che si umilia, che diventa uno straccio, che cammina barcollando, li sconvolge sempre di più, sgretola il loro castello di forze mentali, la loro idea di come Dio si deve manifestare e deve salvare un uomo che gli è fedele, che è il suo Cristo. Questo tentennare interiore di Pietro crolla quando viene “Giuda, uno dei Dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni”, si avvicina a Gesù e lo bacia. Gesù non reagisce, dice soltanto: “Amico, per questo sei qui”; poi viene arrestato: “Misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. Ed ecco uno di quelli che erano con Gesù, messa mano alla spada, la estrasse e colpì il servo del Sommo Sacerdote, staccandogli un orecchio”. Pietro fa quindi l’ultimo tentativo per morire da eroe. Certo di fronte alla moltitudine della gente è un atto disperato, però anche coraggioso.

Ma l’ultimo colpo alla sua ormai troppo meschina sicurezza, che ha cercato qui una rivincita, è la parola di Gesù: “Metti la spada nel fodero”. Gesù sconfessa pubblicamente Pietro, che non capisce più niente e si domanda perché il Signore li ha chiamati a seguirlo, se proprio voleva morire. Tanto più che poi Gesù sembra dialogare con i suoi avversari: “Siete venuti come contro un brigante, perché non mi avete preso prima, ero nel tempio. Devono adempiersi però le Scritture”. Se non possiamo noi mettere mano alla spada, si domanda Pietro, perché non vengono queste famose legioni di angeli, perché Dio non salva il suo consacrato, o almeno lo fa arrestare nel tempio, mentre la folla grida e succede un tumulto? Invece, così, nella notte, come un malfattore! E lui neppure reagisce. Allora, dice il testo al v. 56: “Tutti i discepoli, abbandonandolo, fuggirono”. Qui è indicato proprio il loro smarrimento, certo non totale, perché avranno conservato almeno la fede di fondo; ma come succede in noi, si accavallano talmente i pensieri tenebrosi che ci pare ormai di non capire più chi è Dio. Pietro è ormai confuso anche nella sua identità: non sa più chi è, che cosa deve fare, qual è il suo compito nel Regno di Dio, non sa chi è questo Gesù che viene abbandonato da Dio. Tutto questo si agita nell’animo di Pietro che, però, ama profondamente Gesù e quindi, come dice subito dopo, al v. 58: “Lo aveva seguito da lontano”. Non osa seguirlo da vicino perché ormai non sa più cosa deve fare, però non può non seguirlo. È un uomo divino, che ormai è stato afferrato da Cristo e sente però insieme di volerlo respingere, quindi lo segue da lontano: ecco il compromesso, che diventa palese per tutti nella scena del triplice rinnegamento (27,69-75), che non è, mi sembra, se non la manifestazione, ormai pubblica, dello smarrimento di Pietro. Non sapendo ormai più chi è lui e chi è Gesù, Pietro dà quindi delle risposte che, paradossalmente, sono vere. “Quando una serva gli si avvicinò e disse: ‘Anche tu eri con Gesù il galileo’, egli negò davanti a tutti: ‘Non capisco che cosa tu voglia dire’”. C’è un atto di vigliaccheria, che non nasce però da paura pura, perché Pietro era pronto a morire, ma dallo smarrimento. Alla seconda domanda – “‘Costui era con Gesù, il nazareno’. Ma egli negò di nuovo giurando: ‘Non conosco quell’uomo’” – l’evangelista sembra giocare sul sottinteso: veramente non capisco chi sia quell’uomo, ormai è un enigma per me, non posso più far niente per lui perché non so chi sia, non so

che cosa voglia, tutto sta crollando. Dio interviene sempre per il giusto, dunque quest’uomo non è giusto, ci ha ingannato. Questo stato di confusione lo porta a giurare e a imprecare contro quell’uomo. La conversione Dice ancora il Vangelo: “Subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò delle parole dette da Gesù: ‘Prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte’. E uscito all’aperto, pianse amaramente”. L’evangelista è estremamente sobrio, ma noi possiamo chiederci che cosa è successo. Il canto del gallo sembra cogliere un uomo ancora confuso, poi il ricordo delle parole di Gesù, quindi, gradualmente, la percezione: Gesù aveva voluto veramente queste cose, e se corrispondono al suo piano, corrispondono anche al piano di Dio. Allora non ho colto nulla del piano di Dio, sono stato un cieco per tutta la vita, ho vissuto con un uomo di cui finora non ho capito niente! Dice poi Luca: “Gesù passò e lo guardò” (cfr. Lc 22,61). Matteo non ne parla, ma possiamo intuirlo semplicemente dalla scena. Pietro pensa: ecco l’uomo che io non ho capito, di cui mi sono sempre servito, in fondo, per avere una posizione di privilegio, e che adesso va a morire per me. Nasce la conoscenza di Gesù e di sé, finalmente si spezza il velo e Pietro comincia a intuire tra le lacrime che Dio si rivela nel Cristo schiaffeggiato, insultato, rinnegato da lui e che va a morire per lui. Pietro, che avrebbe voluto morire per Gesù, adesso capisce: il mio posto è lasciare che egli muoia per me, che sia più buono, più grande di me. Volevo fare più di lui, volevo precederlo, invece è lui che va a morire per me che sono un verme, che per tutta la vita non sono riuscito a capire che cosa voleva; adesso egli mi offre questa sua vita che io ho respinto. Pietro entra, attraverso questa lacerazione, questa umiliazione vergognosa, nella conoscenza del mistero di Dio. Chiediamo a lui che dia anche a noi di entrare un poco, attraverso la riflessione sulla nostra esperienza, in questa conoscenza del mistero della passione e della morte del Signore. Signore, Figlio di Dio crocifisso, noi non ti conosciamo. Ci è così difficile riconoscerti nella tua Croce, riconoscerti nella nostra vita. Ti chiediamo di aprirci gli occhi, di farci vedere il significato delle esperienze dolorose attraverso le quali tu spezzi il velo della nostra ignoranza, ci permetti di

conoscere chi è il Padre che ti ha mandato, chi sei tu che ci riveli il Padre nella ignominia della Croce, chi siamo noi che abbiamo una rivelazione di te nell’umiliazione della nostra povertà. Ti chiediamo, o Signore, di seguirti con umiltà per il dono del tuo Spirito, che con te e con il Padre vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.

IX. LA DEBOLEZZA DI DIO Cominciamo queste meditazioni con una preghiera. Signore tu ci hai detto: chi di voi può abitare con un fuoco divorante? Tu vedi che noi abbiamo timore di meditare sulla tua passione perché abbiamo timore di entrare in questo fuoco e di essere da esso consumati; abbiamo timore che questa meditazione da contemplazione esterna diventi esperienza interna. Ti chiediamo, o Signore, di sostenere la nostra paura, di farci conoscere la tua verità e noi stessi in essa. Ti chiediamo di guidarci, nella nostra povertà e nella nostra debolezza, alla conoscenza della tua povertà e della tua debolezza. Tu che ti sei fatto debole per noi, ci doni lo Spirito, sei presente in mezzo a noi come Risorto, il cui Regno dura per tutti i secoli. Amen. Cerchiamo dunque di entrare ulteriormente in questa meditazione sulla passione del Signore. Come ho già detto c’è una certa fatica in noi nell’entrare in essa, perché è troppo vera; troppo ci mette a contatto con quegli aspetti dell’esperienza nostra e altrui che ci spaventano, con quegli aspetti di Dio che non conosciamo e che ci possono riempire anche di timore. Ma è soltanto superando tutto questo che il Signore ci chiama a conoscerlo, ad ascoltare il suo Vangelo, a ricevere la passione come manifestazione dell’amore di Dio. Quindi chiediamo di essere guidati in questa via, ciascuno come può. Naturalmente sono esperienze tali da non poter essere rese con le parole; quindi anch’io mi accontento di esprimere, a partire da quel poco che posso vedere io o per mezzo delle parole altrui, ciò che voi stessi potete verificare e anche ampliare, prolungare nella preghiera, nella meditazione personale. Ci sono infatti molti modi, molte vie per meditare la passione, molte linee

diverse che corrispondono alla molteplicità dell’esperienza umana rispetto a questo punto centrale e portante della storia e di tutta l’esperienza del mondo. Vorrei incominciare enucleando brevemente alcune di queste linee; poi diremo brevemente quale sia la grazia da chiedere in queste meditazioni; infine ne proporrò una prima sulla “debolezza di Dio”. Prolungheremo questo argomento con una seconda meditazione sulla “vulnerabilità di Dio” e successivamente con un’altra sulla “morte di Dio”. Come vedete, cerchiamo di avvicinarci a questo mistero gradualmente, considerando, chiedendoci come Dio in esso si manifesti, quale idea di Dio ci viene rivelata attraverso la meditazione della passione. Dicevo che vi sono molte linee meditative e ciascuno è chiamato alla sua; anzi, in diversi tempi della nostra vita, siamo chiamati a diverse di queste linee, quindi ciascuno deve cercare la propria. Tre linee meditative sulla passione Partendo da una mia lettura di questi giorni di un trattato di Urs von Balthasar, vedo tre linee di meditazione della passione che si alternano, come dicevo, nella nostra vita: alcuni caratteri, alcuni temperamenti sono portati più per l’una che per l’altra38. Nessuna di esse raggiunge il mistero completo, appunto perché la passione è l’opera di Dio per eccellenza e quindi è l’opera in cui Dio si manifesta in tale potenza, e noi non possiamo coglierlo, se non in aspetti particolari. Quando parlo di passione, evidentemente intendo la passione di Gesù, Figlio di Dio, che sfocerà nella risurrezione. C’è un legame intimo tra passione e risurrezione ma, mi pare giustamente, von Balthasar insiste sul fatto che non dobbiamo banalizzare questo legame pensando la passione come un preludio alla risurrezione. La passione è veramente, a modo suo, una fine: la morte di Cristo. Come tale è in se stessa definitiva, così come è voluta dagli uomini e così come lo tocca nell’esperienza. Quindi c’è, egli insiste, tra passione e risurrezione un abisso; soltanto dopo averlo compreso possiamo capire come la potenza di Dio passa dall’una all’altra. Ma occorre, per comprendere questo, meditare la passione e la morte del Figlio di Dio in tutta la sua terribilità e, di per se stessa, così come è stata vissuta storicamente dagli uomini che l’hanno provocata, nella sua definitività. Quindi per passione intendo tutto questo vasto mistero che poi

diventa il mistero pasquale. C’è una linea meditativa che si potrebbe chiamare “storico-affettiva”, quella della Via Crucis, per esempio, che si basa sui Vangeli o anche su tradizioni, interpretazioni, scene aggiunte, che però concretizzano la via di Gesù al Calvario, e che medita, seguendo stazione per stazione, tappa per tappa, la sofferenza di Gesù con la partecipazione affettiva. Questa linea è chiamata storica, perché parte dalla descrizione della Via Crucis dei Vangeli, e affettiva, perché suppone una partecipazione intima, personale alle sofferenze, principalmente alle sofferenze dell’uomo così come appaiono. Una seconda linea di riflessione sulla quale insiste spesso san Paolo è quella che si può chiamare “esistenziale-salvifica”, nella quale si considera della passione soprattutto il “pro me”: ecco colui che per me si dona e che, donandosi, rivela il suo amore, la sua grazia per me e quindi il mio peccato. È la considerazione dell’uomo peccatore salvato, il cui peccato e la cui salvezza sono rivelati nel processo della passione. La passione è il caso limite, nel quale scoppia l’umana malvagità e di fronte alla quale si mostra potente la divina salvezza. La prima linea, la storica-affettiva, suggerisce la compassione. La seconda linea, l’esistenziale-salvifica, suggerisce la gratitudine, la conoscenza della verità del proprio peccato. La terza linea, che si potrebbe chiamare di “contemplazione trinitaria”, è quella che medita la passione considerandola come la rivelazione definitiva di Dio cioè del mistero pasquale. Quindi è la linea di adorazione, di contemplazione della verità di Dio, da cui risulta anche, evidentemente, la verità dell’uomo coinvolto in questa azione. La verità di Dio che però si contempla è Dio potente fatto debole, Dio vita che entra nella morte, ma soprattutto contemplazione trinitaria: il Padre che consegna il Figlio e il Figlio consegnato, nel duplice senso della parola “tradito”: tradito dagli uomini e consegnato dal Padre agli uomini. Alcune esperienze mistiche Qui si aprono appunto misteri di contemplazione e anche di esperienza misteriosissima della Croce, perché appare quello su cui von Balthasar insiste: il “mistero dell’abbandono”, Cristo consegnato, Cristo abbandonato

nelle mani degli uomini, che vive l’abbandono del Padre39. Qui, allora, si apre tutta la linea mistica della desolazione interiore di un apparente abbandono di Dio, cioè di tutte quelle esperienze che gli uomini che amano Dio fanno talora lungamente e amaramente. Chi passa dentro a queste esperienze dolorosissime, purificatrici, terribili, dice che non c’è nessuna sofferenza al mondo che le sia paragonabile: cioè la sofferenza di chi, avendo messo in Dio tutta la sua speranza, tutto il suo amore, soffre momenti di oscurità, di abbandono, di solitudine, di aridità. A partire da queste esperienze, di nuovo si può rientrare in quella del Figlio abbandonato e, quindi, intuire qualcosa di questo mistero dell’angoscia dell’uomo-Dio e nostra. Von Balthasar ricorda qui alcuni tra i principali uomini e donne che hanno saputo anche oggettivare questa esperienza dell’abbandono. Ricorda alcuni mistici dell’Oriente, come Isacco di Ninive40, che parla di un “inferno mentale” vissuto in questa situazione di abbandono, di un gusto della Geenna, nel quale si esperimenta l’assenza di tempo: “Un tale uomo non crede più che possa cambiare ormai niente della sua vita, che egli possa mai più trovare la pace. La speranza in Dio e la consolazione della fede sono completamente scivolate fuori dalla sua anima e quest’anima è riempita, senza sostanza e senza respiro, di dubbio e di angoscia”. Poi von Balthasar ricorda soprattutto molti mistici dell’Occidente, da san Bernardo41, che descrive l’abbandono della sposa, commentando il Cantico dei cantici, fino ad Angela da Foligno42 e a santa Rosa da Lima43. È interessante la descrizione che di quest’ultima viene data da un grande storico della mistica: Questa Santa veniva ogni giorno provata con i più terribili annebbiamenti, oscuramenti dello spirito e del sentimento. Restava ore e ore in stati di tale angoscia da non saper più se stava in terra o all’inferno. Essa stava là, gemendo sotto il peso insopportabile delle tenebre; la volontà voleva spingersi, voleva portarsi verso l’amore, ma sembrava raggelata come ghiaccio. La memoria si rifiutava di pensare, di esercitarsi almeno a ritrovare un’immagine delle consolazioni precedenti; non riusciva più a rintracciarle, a ripescarle. Timore e angoscia si impadronivano di lei interamente e il suo cuore gridava: mio Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato! Ma nessuno rispondeva. Il più grande di questi dolori era che questo male le veniva addosso come se dovesse durare sempre, come se ci fosse un muro di bronzo che le rendesse impossibile di uscire da questo labirinto nel quale si aggirava44.

In forma, diciamo, più velata di delicatezza, simili cose descrive di sé anche santa Teresa di Gesù Bambino45, quando parla del suo essere in una galleria oscura di cui non conosce la fine, e lei va avanti. In fondo è la stessa esperienza che appare in parole un po’ più doloranti nei “novissima verba”,

nelle ultime parole raccolte dalla sorella. Troviamo queste descrizioni anche negli Esercizi, in sant’Ignazio di Loyola, che era passato a Manresa per queste prove, quando voleva buttarsi nel pozzo per l’orrore della desolazione che lo invadeva: poi anche lui descrive, con parole molto sobrie, molto delicate, ma chiaramente allusive, esperienze terribili. L’esperienza della desolazione, nella quale egli riassume un po’ questa tradizione orientale e occidentale delle notti, è descritta nel passo: Chiamo desolazione tutto ciò che si oppone alla terza regola, cioè la regola della consolazione, tutto ciò che è contrario: per esempio, l’oscurità dell’anima, il suo turbamento, l’inclinazione alle cose basse e terrene, l’inquietudine dovuta ai vari tipi di agitazioni e tentazioni, quando l’anima è sfiduciata, senza speranza, senza amore, e si trova tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore [317].

Qui abbiamo una descrizione molto chiara che va fino alla teologia della separazione, dell’abbandono, come se il Signore non rispondesse. Von Balthasar insiste dicendo che, attraverso queste esperienze, si può intuire qualcosa del mistero dell’abbandono di Cristo, che sta al centro della passione. Egli dice, concludendo questa breve analisi delle personalità spirituali che hanno parlato di questa situazione, di questo stato dell’anima: “Non possiamo qui, evidentemente, indagare in ciascuno di questi casi qual è l’autenticità, qual è il carattere teologico specifico di tutte queste esperienze, che sono poi diverse per ciascuno e possono essere in molti casi anche delle fantasie o delle forme di esaurimento”. Così egli continua: “Bisogna ricordare, però, che molto spesso questi stati di sofferenza sono la risposta alla generosa offerta di anime che hanno chiesto di soffrire la pena del danno per altre anime”46. Quindi, egli ricorda anche la possibilità, che è nella storia della mistica, di offrirsi al posto di un altro, e questo lo fanno perché intuiscono che cosa può essere avvenuto nel Cristo, che si è offerto per noi. Dice ancora: Tutto ciò rende queste esperienze del tempo della Chiesa come uno specchio dell’esperienza veterotestamentaria dell’abbandono, che è espressa in molti salmi; soltanto chi ha veramente posseduto Dio nell’Alleanza, cioè ha avuto anche soltanto una volta la sensazione di che cosa è possedere Dio in un’alleanza d’amore, sa che cosa vuol dire sentirsi abbandonato da lui. Ma non tutte queste esperienze di notte, di oscurità del Vecchio e del Nuovo Testamento sono, anche nel caso migliore, avvicinamenti lontani, indicazioni, rispetto al mistero incomprensibile della Croce, data l’unicità di esperienza del Figlio di Dio e quindi anche l’unicità dell’esperienza del suo abbandono da parte del Padre47.

Da queste parole credo possiamo intuire qualche cosa di quella che è

l’esperienza o la via trinitaria nella contemplazione della passione. Come vedete sono cose che non si possono esprimere a parole, ma che possono diventare realtà anche molto drammatica nella preghiera personale, quando intuiamo che, forse, certi stati d’animo di cui non sapevamo renderci conto, sono in fondo esperienze di abbandono, in cui Gesù ci chiede di entrare in una conoscenza più viva della sua passione. Qual è dunque la grazia da chiedere in queste meditazioni? Sant’Ignazio ce ne dà due formulazioni un po’ diverse una dall’altra, che mi pare indichino la diversità delle esperienze possibili. Nel terzo preambolo48 della meditazione della Cena dice: “Chiedere quello che voglio: sarà qui chiedere dolore, afflizione e vergogna perché il Signore va alla passione per i miei peccati” [193]. Qui mi sembra di leggere specialmente la linea esistenzialesalvifica della riflessione. Nella meditazione dell’orto del Getsemani dice invece: “Chiedere ciò che voglio: ciò che bisogna propriamente chiedere nella passione è dolore con Cristo addolorato, tormento con Cristo tormentato, lacrime e intima pena, per la grande pena che Cristo soffrì per me” [203]. Qui, anche se rimane ancora l’aspetto esistenziale-salvifico – per me – però al centro c’è il tormento di Cristo e l’intima pena. È vero che può essere vista anche nell’aspetto storicoaffettivo, ma mi pare che qui sant’Ignazio ci fa intuire, come egli sa fare, l’intima pena, cioè l’apertura trinitaria del mistero: il Figlio abbandonato dal Padre. Ciascuno deve chiedere ciò che si sente di fare, nessuno deve fare una domanda superiore alle proprie forze. San Francesco49, nell’episodio della Verna, che è il culmine della sua esperienza mistica, aveva chiesto di sentire ciò che il Cristo stesso sentiva sulla Croce, cioè di entrare nel cuore di Cristo, nel cuore di questa esperienza. Ciascuno potrà fare la domanda che si sente di fare, con la percezione che queste sono domande trappola, cioè Dio ci prende in parola e quindi possiamo restare presi dalla domanda che facciamo. Indicazioni per la riflessione Vi do ora, sul tema della “debolezza di Dio”, qualche punto della Scrittura. Ho pensato alle seguenti riflessioni. Leggere insieme quella chiave di lettura della vita di Gesù e della

passione che abbiamo già letto in 12,18-21. È la citazione più lunga che Matteo fa del Vecchio Testamento nel suo Vangelo; è propria di Matteo soltanto, e quindi è tipica della visuale matteana della vita di Gesù. Come seconda riflessione vi propongo un’altra pista meditativa, che è quella di 21,33-45: la parabola del padrone della vigna, che Gesù pronuncia riferendosi alla sua passione imminente. Quindi anch’essa è una chiave interpretativa della passione. Cercherò di suggerirne una lettura in chiave esistenziale-salvifica e trinitaria, che forse va un po’ più in là di quello che è il significato immediato, storico della parabola, ma vedendola già nella Chiesa, a partire da un’esperienza di Chiesa. Infine un’ultima riflessione che propongo, proprio perché mi pare collegata, è la domanda che ci siamo posti dall’inizio di questi esercizi, meditando su Mt 25: perché questa debolezza di Cristo? O, rovesciando la domanda, secondo la scena del giudizio di Mt 25: perché Cristo si identifica con i minimi? Certamente queste due cose hanno un collegamento immediato: il fatto che Gesù si identifica con i “minimi” è il suo indebolimento, l’apparente indebolimento di Dio, di cui testimonia la passione del Figlio di Dio. Dunque la prima considerazione riguarda 12,18-21. Nell’episodio precedente (al v. 14) Gesù guarisce l’uomo dalla mano inaridita, di sabato, suscitando l’ira dei farisei, i quali tengono consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo. “Ma Gesù, saputolo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo, perché si adempisse il detto del profeta: ecco il mio servo, il mio prediletto […] non griderà, non si udrà sulle piazze la sua voce […] nel nome di lui spereranno le genti” (cfr. Is 42,1-4). La forza di Dio nel Vecchio Testamento Vi propongo prima di tutto una riflessione sull’idea che della forza di Dio ha il Vecchio Testamento, cioè la rivelazione di Dio che ci presenta (sullo sfondo dell’Esodo, principalmente, ma già a partire dalla creazione) un Dio forte, che compie ciò che vuole, al quale nulla è impossibile, un Dio il quale può sterminare l’esercito degli egiziani, può divorare con il fuoco i peccatori; un Dio che schianta i cedri del Libano, che rovescia gli abissi del mare, che fa tremare le montagne come i vitelli che saltano nella prateria. Quindi il Vecchio Testamento educa a un senso della forza irresistibile di

Jahweh: “Chi potrà resistere di fronte a lui?” Il Vecchio Testamento ci fa comprendere che questa forza è tipica di Dio; cioè a nostro modo di intendere, Dio non può rinunciarvi senza rinunciare a essere Dio, perché Dio è il forte, il potente, quindi lo è di natura sua; la sua potenza è la sua natura, il suo essere è capacità di sovvertire tutto. Dio è forte e non può rinunciare alla sua forza, perché non può rinunciare a essere Dio. Una seconda considerazione che il Vecchio Testamento suscita in noi e a cui educa il credente è che Dio non può non odiare il male con tutta la sua forza, perché Dio e il male sono talmente opposti che non si tollerano; quindi Dio distrugge il male, lo annienta. La sua natura di forza, di fronte al male, diventa “la collera”, l’ira di Dio; non c’è pace tra Dio e il male, il male non può se non sciogliersi, sentirsi distrutto di fronte a Dio. La “debolezza” di Dio nel Nuovo Testamento Sullo sfondo di queste verità antico-testamentarie, alle quali mi pare non ci viene chiesto di rinunciare, ecco Gesù, il Servo che Dio si è scelto, il prediletto nel quale Dio si è compiaciuto. Matteo ha ampliato il testo di Isaia, nel quale diceva semplicemente: “il mio eletto”. Qui è il mio prediletto, il mio amatissimo, quindi c’è già l’idea di figlio unico. Quindi Gesù, servo prediletto, scelto, eletto, non è soltanto colui che compie le cose di Dio, ma anche colui che ci rende Dio vicino, il Dio con noi quindi, che ce lo manifesta, che ci fa vedere chi è Dio, colui guardando il quale comprendiamo chi è Dio. Ed ecco il paradosso inatteso e per gli apostoli così difficile da capire: questo Gesù che è Dio con noi, il prediletto, il Figlio amato, è debole e si manifesta come tale. Quando i farisei tengono consiglio per toglierlo di mezzo, Gesù si allontana, cede, quindi lascia che questa ira divampi, si accenda. Già nell’allontanarsi di Gesù ci sono due aspetti negativi: uno, che questa ira non viene rintuzzata subito, non viene schiacciata, quindi può accendersi; l’altro, che Cristo fa la figura del debole, quindi su di lui domani potranno trionfare, perché in fondo non ha forze. Gesù si ritira, si allontana, e questo è un primo segno della debolezza. Segue poi un altro aspetto che ancora ha colpito Matteo: guariva tutti, ma ordinava di non divulgarlo. Questo per Matteo, per Pietro è ancora più strano.

Come dicevano infatti i fratelli di Gesù: mostrati al mondo; se sei venuto per parlare al mondo, perché non ti fai sentire? Quindi Gesù non cerca adesioni, non sa farsi propaganda, non sa farsi valere; ma questo come va d’accordo col suo essere inviato di Dio, Parola di Dio? Ecco dove i discepoli dovevano vacillare. L’oracolo rincara la dose su questa impressione generale che i discepoli stanno ricavando: quest’uomo non è forte, non sa farsi valere; è un uomo che ci obbliga a cedere, a ritirarci con lui, è un uomo che dice di voler parlare al mondo, ma poi non usa i mezzi necessari. Che cosa dice la profezia? “Porrò il mio spirito sopra di lui, annunzierà la giustizia alle genti, però non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce”. Questa è per il momento l’unica consolazione che i discepoli hanno: fa così, non capiamo perché, ma in fondo l’hanno detto già i profeti. Tutto questo però i discepoli lo capiranno molto più tardi; solo dopo la risurrezione sono arrivati a intendere questo. Pensiamo come doveva turbarli il fatto che Gesù non contende. Questo particolare sembra aggiunto qui da Matteo, infatti il testo ebraico diceva: “Non griderà, né alzerà il tono”. Qui addirittura si dice: “Non contesterà”. Ora l’immagine del Messia che vuole farsi valere contro i nemici è anche quella di uno che contesta il male, che lo affronta direttamente; qui invece si dice: “Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce”. Cioè non userà i mezzi per impressionare le grandi masse. Anzi di più: “La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante”. Quindi è un mite, uno che non sa essere invadente, è rispettoso, timido. Ecco il paradosso della forza di Dio che invece si manifesta come debole, che viene per sconfiggere il male, ma sembra avere una voce così fievole che il male può gridare e soffocarla. Eppure la profezia mantiene il carattere di missione universale. Farà queste cose deboli finché non abbia fatto trionfare la giustizia: “Nel suo nome spereranno le genti”. Dunque in lui Dio si rivela; non soltanto Dio è contento di lui, ma anche il mondo, in fondo, aspetta uno così. Qui il mistero rimane ancora: c’è una potenza di Dio, c’è una potenza distruggitrice del male, tuttavia abbiamo qui un uomo che non sa farsi valere, che non sconfigge i nemici, non contesta l’ingiustizia schiacciandola, anzi addirittura si ritira e quindi darà adito all’ingiustizia di prevalere, di fare la voce forte. Potremmo forse leggervi di più, se intendessimo questa parola, come mi

sembra faccia Matteo, già in chiave di passione e morte di Gesù: la canna infranta non spezzerà, però lui stesso sarà spezzato, proprio per questa sua debolezza; non spegnerà il lucignolo fumigante, ma saranno gli altri a spegnere lui perché non avrà saputo farsi valere. Qui si apre la nostra meditazione: Tu, Dio grande che reggi i cieli, che governi la terra, che hai in mano ogni cosa, perché ti manifesti con scandalo permanente per tutta la storia dei buoni, dei così detti giusti? Vedete, Dio non ci annienta, non ci distrugge. Il Dio che ci è presentato qui si lascia irridere dalla scommessa di chi dice: ecco, se Dio c’è, venga ad annientarmi. Qui entriamo in un paradosso misterioso, nel quale noi viviamo in questo mondo, in cui (come dicono così spesso i salmi) l’ingiusto trionfa e chi non si cura di Dio fa i propri affari, che vanno a gonfie vele. Ecco come noi stessi viviamo il mistero della debolezza di Dio, nella debolezza che, in qualche maniera, si schiera con Gesù. Cerchiamo nella meditazione di riflettere su queste cose, che sono la nostra esperienza di ogni giorno. Una seconda riflessione sulla debolezza di Dio, che si manifesta in Gesù, la prendo da 21,33-45. È la parabola che Gesù pronuncia a Gerusalemme, in un momento di polemica ormai tesissima con i suoi avversari, quando dice: “C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre”. Fin qui è Isaia 5, cioè l’amore di Dio per la sua vigna: la “vigna” è il popolo di Israele che Dio ama, per la quale ha fatto tanto. Gesù aggiunge: “L’affidò a dei vignaioli e se ne andò”. Ecco qui, diremo, lo sbaglio del padrone: se ci teneva tanto alla vigna doveva starci lui, doveva tenerla in proprio, invece si è fidato di altri. Qui comincia appunto la storia della debolezza di Dio, che affida le sue cose più care all’uomo; la sua stessa vigna, a cui tiene tanto, la affida a gente di cui non dovrebbe fidarsi, ma di cui in realtà, in quella che può apparire a noi dabbenaggine e illusione, si fida. Ecco la debolezza di Dio che si fida della libertà umana. Però questa fiducia è mal riposta. “Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi, uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono”. Qui gli esegeti rimangono perplessi su che cosa voglia dire il testo, ma l’essenziale è ciò che fanno quei vignaioli. Leggiamo la parabola dalla parte dei vignaioli. Questi ormai pensano: “La

vigna è nostra, ne facciamo ciò che vogliamo”. Sono abituati a far da sé, siccome il padrone li ha lasciati liberi si sono presi confidenza e hanno dimenticato che la loro libertà era data per coltivare bene la vigna, per farle fare frutti. Quando vengono i primi servitori per esigerne i frutti sono un po’, mi pare, come i bambini quando arriva una nuova maestra, che cominciano a fare qualche scherzo per vedere come reagisce, se sa tenere o no la disciplina; se vedono che la cosa può andare, allora continuano sempre peggio. Così mi pare facciano un po’ questi: prima sono un po’ guardinghi, poi li accolgono a tavola, cominciano a far finta di arrabbiarsi, uno ne schiaffeggia uno, uno l’altro. I servi tentano quindi la forza del padrone: “Forse non è tanto forte, forse ce la facciamo, forse la vigna è nostra”. Il Vangelo continua: “Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo”. I servi sono di più, però magari quelli chiamano degli amici, cominciano a litigare e la stessa scena si ripete, cioè i servi sono cacciati via e i vignaioli pensano: “Veramente questo padrone non sa farsi valere, è un uomo debole”. Ed ecco la prova definitiva: “Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: avranno rispetto di mio figlio!” Ormai i servi sono diventati talmente malvagi e strani da non riuscire più a rendersi conto della situazione. Pensano: “Perché ci manda il figlio, dopo tante botte ricevute dai servi precedenti? Non ci tiene neanche molto al figlio, forse se ne vuole sbarazzare. Forse, anche se ci tiene, è comunque un ingenuo, un illuso; ormai abbiamo capito che non ha quella potenza che temevamo”. Allora dicono tra sé: “Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l’eredità. E presolo, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero”. Cerchiamo ora di vedere le cose dalla parte del padrone. Il padrone vuol dare fiducia: “Questa vigna, a cui tengo molto, la do a questa gente per dare loro la possibilità di farsi strada, di rendere un servizio importante anche a se stessi”. Poi, quando manda i servi e vede che ritornano così malconci, pensa: “Forse è stato un momento difficile, non hanno capito, devo aiutarli a capire, sono gente che ragiona, si convincerà”. Alla fine manda il figlio, rischia tutto per la fiducia che ha in loro: “Avranno rispetto di mio figlio, finalmente capiranno ciò che stanno facendo”. La debolezza del padrone è quindi amore, è volontà di promuovere, nel bene, la libertà dei servi, rischiando tutto. Ecco come la Croce ci manifesta l’amore salvifico a ogni costo, l’incredibile fiducia di Dio nei confronti dell’uomo, nei confronti di ciascuno di noi, tanto da rischiare tutto.

Ormai diventa difficile lavorare con paragoni. Ci appare strano che il padrone mandi il figlio pensando che sia ucciso, ma nella Scrittura si dice che Dio consegna il Figlio, così lo consegna senza risparmio, senza riserva agli uomini, perché bisogna dar loro fiducia fino in fondo. Che il padrone non sia un debole lo mostrano le parole seguenti in cui la collera di Dio ritorna fuori. Gesù dice: “Che cosa farà il padrone della vigna quando verrà?” (cioè quando ormai il tempo della prova e della libertà sarà finito). Gli rispondono: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture: la pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo”, e poi: “Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà?” Quindi la Croce non è solo potenza di Dio, è anche terribile giudizio, ma può esserlo proprio perché è la prova senza riserve che Dio ci vuole liberi, che vuole darci la possibilità di esprimere la nostra libertà nel servizio. Dandoci questa libertà, ci dà però anche la libertà opposta. Facciamo un altro passo nel constatare come questa debolezza di Dio non è soltanto un artificio retorico; cioè Dio che dice: “Io sono forte, ma per umiliare voi che credete nella forza, mi faccio debole”. C’è proprio anche l’aspetto dialogico di Dio con la libertà umana, rapporto che giunge fino all’incredibile per noi. Per noi risultava quasi inconcepibile, quando leggevamo le parole del discorso della montagna, che bisognasse avere tale assenza di difesa da consegnarsi al nemico. Come si può arrivare a questo? Ecco il Padre che consegna il Figlio al nemico, non come nemico, ma nella speranza che capisca. Vi propongo di considerare ora l’aspetto di questa debolezza di Dio che si incarna nei piccoli e nei deboli, nella Chiesa, nella comunità e nella storia. Mi limito semplicemente al commento che Barbaglio fa al capitolo 18 di Matteo50, il discorso ecclesiale, la cui prima metà è tutta sui piccoli: “Chi è il più grande nel Regno dei cieli? Allora Gesù chiamò un bambino e disse: se non vi fate piccoli non entrerete nel Regno”. “Chi accoglie in nome mio uno diventato come questo bambino, è me che accoglie”. “Non essere di inciampo a loro; stràppati mani e piedi, piuttosto che essere di inciampo a uno di questi piccoli”. Poi continua: “Se uno ha cento pecore non ne lascia novantanove per una?” “Così il Padre vostro celeste vuole che neppure uno di questi piccoli vada perduto”. Da qui si passa alla bontà verso il fratello peccatore:

“Se uno cade in peccato, ammoniscilo a quattr’occhi, se no prendi dei testimoni”. Infine ordina di perdonare senza fine “sette volte sette” al fratello. Questa è la sostanza del capitolo. Mi rifaccio a Barbaglio, il quale, nel suo commento a questo capitolo, dopo un excursus sul singolo individuo nella comunità cristiana, riporta una frase di René Guisan: “Il solo individualismo che il Vangelo autorizza è quello della pecora smarrita”. Matteo è quindi un Vangelo ecclesiale, in cui appare il senso del singolo, dell’unico. In questa luce ho riletto poi attentamente il capitolo 18 e mi sono accorto che, all’interno del discorso ecclesiale, uno dei motivi più caratteristici è appunto il peso attribuito al singolo, in particolare nella prima parte, polarizzata sulla realtà dei piccoli, cioè dei credenti umili e vacillanti, che non sono considerati in quanto gruppi, stato e ceto, ma nella loro individualità. Cinque volte ricorre il pronome numerale indefinito “uno”. “Chi accoglie uno diventato come questo bambino”, “Chi è di inciampo a uno solo di questi”, “Badate di non disprezzare uno di questi piccoli”, “Che farà un uomo che ha cento pecore e una ne smarrisce?”, “Così il Padre celeste non vuole che neppure uno di questi sia perduto”. Ricordiamo anche il discorso finale: “Quanto avete fatto a uno solo di questi minimi l’avete fatto a me”. Siamo chiaramente in questa linea del giudizio di Dio sulle cose. Il commentatore continua: Tutta la comunità è chiamata dal suo Signore ad assumere precisi atteggiamenti nei confronti del singolo credente, che si trova ai margini ed è privo di incidenza sociale. Essa gli deve accoglienza nell’amore, attenzione premurosa, considerazione, ed è corresponsabile della sua eventuale rovina. Nel Vangelo apocrifo di Tommaso si dice che la pecora smarrita era la più grassa del gregge. Il Vangelo però non dice così, dice che era una pecora qualunque, solo smarrita: ciò basta perché debba essere ricercata dal gregge; era sola, disorientata, non trova il modo di riunirsi alle altre: non occorre altro perché si debba partire senza esitazione alla sua ricerca. Fuori parabola: un membro della comunità si è smarrito, è un credente umile, debole, che fa fatica nel cammino della fede. Vale la sua individualità, senza attributi speciali, tutta la Chiesa è mobilitata a ricercarlo, anche se è uno solo e non eccelle per niente51.

Poi si domanda: qual è il motivo di tanta premura e di tanto amore per l’individuo? È perché egli conta molto dinanzi al Padre, il quale non si rassegna ad assistere passivamente alla sua perdita. Entriamo dunque in quella che l’autore chiama “la logica del Padre”: proprio i piccoli gli stanno a cuore, i vacillanti, gli emarginati, gli smarriti. Qui ci ricolleghiamo direttamente alla nostra riflessione: ecco Dio che cerca i deboli e per questo si fa debole; quindi chi riconosce in questa

debolezza il Figlio di Dio incomincia a entrare nei disegni di Dio, a capire qualcosa dei paradossali modi di Dio di rivelarsi. Per questo, mi sembra, Gesù dice: “Quando avete fatto qualcosa a qualcuno l’avete fatto a me”. Non soltanto per una identificazione di comodo o di misericordia, ma perché così si entra nel mistero di Dio, che si è rivelato nella debolezza, e si incomincia a intuire qualcosa di ciò che Dio è. Quindi una duplice via: il riconoscimento di Dio nel piccolo, nel debole e il riconoscimento, nella debolezza, di Cristo, forza di Dio. Cerchiamo di meditare e di vivere nell’una e nell’altra di queste vie, che ci permettono di entrare nel mistero rivelatore del Signore. Preghiamo il Signore che ci dia la forza di entrare in questo mistero. Ti ringrazio, Signore, perché ti manifesti a noi non come ci aspetteremmo, ma in maniera sempre inedita, nuova, sorprendente. Ti chiediamo, Signore, che neppure un briciolo di questa conoscenza resti nell’aria, ma che subito si applichi a tutte quelle situazioni nelle quali riconosciamo vicino a noi qualcuno che ti rappresenta, che ti manifesta. Concedici, Signore, una conoscenza che sia subito messa in pratica. Una pratica che sia illuminata, approfondita nella conoscenza e nell’amore della tua passione e morte. Guidaci, Signore, in questa ricerca difficile, nella quale possiamo così facilmente illuderci. Fa’ che le parole che diciamo o che sentiamo, le percepiamo come parole serie, che un giorno ci potranno condannare, se le ripetiamo solamente. Salvaci, Signore, per la tua misericordia, tu che ci doni lo Spirito e vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.

X. LA VULNERABILITÀ DI DIO Alcune riflessioni di preghiera sul testo di Isaia: “Il Signore Iddio mi ha dato una lingua da iniziati […] per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso…” (Is 50,4-7). Vergine Maria, madre del Signore, tu che, dietro al tuo Figlio, hai salito faticosamente il monte della passione, concedi anche a noi, che con fatica camminiamo per questa strada, di essere col tuo Figlio e di comprendere in lui il dono del Padre e dello Spirito. Amen.

Seguiamo dunque la nostra strada, anche se, salendo sul monte della passione, forse sentiamo la fatica di questa salita. Vi propongo tre episodi: Gesù e Giuda, Gesù e le guardie, Gesù e Pilato. Entriamo dentro l’episodio, mettiamoci dalla parte di Gesù, dalla parte di Giuda, dalla parte delle guardie, da quella di Pilato e chiediamoci che cosa avviene e perché. Ciò che io espongo con un linguaggio che vuol essere di parole, quindi con una sintassi e con un ragionamento, in realtà dovrebbe essere vissuto attraverso l’immedesimazione nella scena; ci chiederemo sempre ogni volta che cosa ha da dire a noi. Giuda: meschinità e nostalgie di grandezza I testi sono quello del tradimento (subito dopo la lode fatta da Gesù alla donna che spezza l’alabastro di olio profumato molto prezioso e che Gesù difende contro gli apostoli): “Allora uno dei Dodici, chiamato Giuda Iscariota, andò dai Sommi Sacerdoti e disse loro: che cosa mi volete dare, ed io ve lo consegnerò? […]” (26,14-16); e ancora 26,20-26.47-50; 27,3-10. Come sappiamo, non c’è figura evangelica su cui più si sia sbizzarrita la fantasia dei romanzieri e dei cineasti; una figura che appunto attrae psicologi e letterati, proprio perché rappresenta tante contraddizioni dell’esistenza umana. Non voglio qui tentare con voi una nuova, ennesima ricostruzione degli antefatti, dei perché, ma guardando le cose molto semplicemente sulla base dei testi citati, mi pare di poter rispondere alla domanda: chi è Giuda? In fondo è un uomo che unisce meschinità e nostalgia di grandezza. La meschinità si vede nella questione del denaro: sembra addirittura banale in un fatto così tragico pensare al denaro, ma quando uno è meschino, anche nelle situazioni più drammatiche la banalità affiora. Però è un uomo che ha anche delle nostalgie di grandezza; la sua morte in qualche maniera “grande” vuol essere una tragedia vissuta in se stessa, di fronte a tutti. Probabilmente è anche un uomo deluso di Gesù. Non possiamo pensare che Gesù, sin dall’inizio, abbia scelto così male da non accorgersi che si trattava di un uomo che non aveva nessun interesse per lui. Probabilmente era un apostolo desideroso, entusiasta, impegnato (Gesù li ha scelti tra centinaia e migliaia di seguaci), ma, dopo un po’ di tempo, è deluso di Dio: perché Dio si manifesta così, perché non interviene, perché questo maestro va di debolezza in debolezza? Non è accettabile, Dio non è con lui. Quindi è deluso di come

Dio si manifesta in Gesù e di come Gesù manifesta la potenza di Jahweh in cui egli sperava, una potenza forse anche di rinascita politica e morale della nazione. Gesù non è quel “leader” che si aspettava e allora, se non lo è, tanto vale perseguire il proprio sogno di grandezza facendo qualcosa contro di lui. Quindi, in ogni caso, vuol fare qualcosa di grande; non si allontana come i mediocri, deluso e basta. No, è deluso, è risentito e irritato. Dice: se Gesù in fondo fa del male al mio popolo dobbiamo impedirlo, quindi è meglio che cada presto, se deve cadere. È un uomo che, deluso in se stesso, si lascia attrarre da un miraggio di grandezza, di rivalsa, di risentimento, che a un certo punto lo travolge. Difatti, quando dice: “Ho tradito un sangue innocente”, vuol dire che la verità l’aveva in mano, solo si è lasciato travolgere dall’emotività politica, dal risentimento personale, dall’amarezza e insieme anche dalla meschinità della propria passione, tutto un miscuglio che ha agito in lui. Questo è dunque Giuda. Qui ammiriamo nella meditazione, nella contemplazione, la “vulnerabilità” di Dio in Gesù. Gesù si comporta come ci si comporterebbe con un uomo libero, leale, onesto, cioè ammonendo, parlando chiaro, cercando di scuotere; però in fondo non pone impedimenti, si offre a Giuda, lascia fare. E dobbiamo aggiungere di più: Gesù facilita il compito di Giuda; qui siamo appunto al limite del paradosso, al limite della comprensione di ciò che Gesù fa. Ci sono due testi che ci fanno pensare nella Scrittura. Uno, più chiaro, è quello di Giovanni 13,27: “Ciò che devi fare fallo presto”, che in qualche maniera dà licenza a Giuda di scatenarsi. Quasi che Gesù dicesse, col linguaggio della libertà: realizza quello che ti sembra giusto, va’ fino al fondo di quella che ti sembra la tua visione di Dio e delle cose, opera con libertà e vedi che cosa ne viene. Un altro passo più misterioso è quello già citato di 26,50: la risposta di Gesù al bacio di Giuda. Intanto oggettivamente Gesù lo facilita, perché andando al Monte degli Ulivi, in un posto che Giuda conosceva, si lascia prendere; se Gesù quella notte fosse fuggito in Galilea, le cose sarebbero andate diversamente. Quindi si ha l’impressione che Gesù si abbandoni, si consegni; al bacio di Giuda risponde con una frase misteriosa: “Amico, per questo sei qui!” Il testo greco dice: “Amico, ecco ciò per cui sei qui”. Non è

che incoraggi Giuda, però si limita a ribattergli: guarda chi sei, guarda ciò che fai! Se vuoi, compi questo, ma attenzione a quale immagine di te ti presenta ciò che compi! Domandiamoci ora, seguendo il racconto, che cosa segue dal fatto che Giuda prova fino in fondo a esercitare la propria libertà, il proprio risentimento, la propria ansia di fare qualcosa di grande, deluso per ciò che Gesù non gli ha permesso di fare. Ne deriva la disperazione di Giuda, il quale, vedendo come tutto ciò che egli sognava di grande gli si rompe in mano e un uomo innocente viene condannato, riconosce che è tutto sbagliato. Dobbiamo leggere però questo racconto tenendo presente che esso si trova nel capitolo 27 di Matteo, cioè parallelo alla descrizione di Gesù, che va a morire anche per Giuda. Qui vediamo anche il rapporto Dio-uomo: Dio che concede all’uomo la libertà contro di sé, in Cristo, e si offre per questa libertà sbagliata. Dunque Gesù muore anche per Giuda e sarà colpa di Giuda se non sa capire, come capirà Pietro, chi è Dio per lui. Concludiamo questa considerazione domandandoci ancora: chi è Giuda? Chi è il traditore? Chi è l’uomo sconvolto, che abusa della sua libertà fino ad accorgersi che è tutto sbagliato? Sono io, è ciascuno di noi. Sono io ogni volta che deluso, amareggiato, anziché riflettere all’interno, e tirar fuori i presupposti sbagliati di questa delusione, mi sono fatto un’immagine falsa di Dio e di me stesso. Per non ammettere questo, mi attacco a qualche miraggio esteriore di rivalsa, di ripicca, e arrivo così chissà dove. Chi è Gesù dinanzi a me? È ogni mio fratello vittima delle mie ripicche, delle mie rivalse, del falso uso della mia libertà. Ecco come si continua in noi, attorno a noi e accanto a noi questo gioco drammatico di Gesù e Giuda, questo malinteso sostanziale di un uomo che, non volendo vedere in se stesso, si butta contro gli altri. Qui sta la risposta alla domanda, che forse ci siamo fatti al termine della meditazione sulla parabola degli agricoltori della vigna e del figlio. Quando facciamo queste considerazioni, pensiamo sempre: il figlio si è presentato a questi coloni malvagi e lo hanno ucciso, ma se si presentasse a noi suo Figlio, lo accoglieremmo ben diversamente. Ora Dio non ci manda più il Figlio direttamente, ma ci manda i nostri fratelli, cioè ci affida gli uni agli altri. Quel Dio che ha affidato il Figlio alla libertà, alla discrezione, alla comprensione degli agricoltori, affida ogni nostro fratello alla nostra libertà. Noi possiamo di ogni nostro fratello o sorella fare ciò che vogliamo:

possiamo fare il peggiore uso della nostra libertà. È tremendo il pensiero che l’uso della libertà umana verso ogni altro essere non ha limiti: Dio affida ciascun fratello a noi e noi agli altri. Qui si realizza appunto la scena finale del giudizio: vi siete riconosciuti? Che uso avete fatto della vostra libertà reciproca: mi avete accolto, vi siete accolti? Oppure vi siete serviti dell’altro, come ha fatto Giuda con Gesù, come di un oggetto di rivalsa, di rivincita, come sfogo della vostra sete delusa di essere qualcuno? Quanto spesso la sete delusa di essere qualcuno si riflette su un altro! Qui dobbiamo ragionare, evidentemente, non soltanto a livello familiare, ma a livello sociale e politico. Rifletto su come la rivalsa dei gruppi, le ripicche, i personalismi entrano in gioco in tutta la conflittualità della vita politica e sociale, nazionale e internazionale, costituendo le forze che spingono gli uni contro gli altri e spingono alcuni a portare avanti il loro orgoglio, magari mascherato da fini umanitari, ma sempre a scapito degli altri. Quindi il giudizio di Gesù è rivolto alle nazioni, a ogni gruppo sociale, a ogni classe: che uso avete fatto della vostra forza, della vostra potenza, dell’affidamento a voi concesso di altre persone, di altri gruppi? Le guardie: frustrazione e desiderio di rivalsa La seconda considerazione è su Gesù e le guardie, o meglio su Gesù e il sinedrio. La scena forse non è molto chiara in Matteo, ma lo è molto di più in Luca (Lc 22,63-65). Si tratta di 26,65-68: “Allora il Sommo Sacerdote si stracciò le vesti, dicendo: ‘Ha bestemmiato’ […] allora gli sputarono in faccia e lo percossero…” Qui non è chiaro chi sia l’agente. Secondo il contesto di Matteo sembrerebbe il sinedrio, tuttavia parrebbe che l’azione, molto generale, si riferisca piuttosto ai soldati, ai servi del sinedrio i quali, visto che quest’uomo non ha più dignità, si sfogano su di lui. È difficile capire esattamente: può darsi che vi partecipino anche dei membri del sinedrio; possiamo immaginare che la scena si sia svolta in maniera confusa. Comunque entriamo in essa e domandiamoci anche qui chi sono questi uomini che schiaffeggiano, bastonano, sputano, irridono dicendo: “Fa’ il profeta, Cristo! Indovina chi ti ha colpito!” (qui è l’unica volta che nei Vangeli è usato il termine “Cristo”). Quindi Gesù viene irriso nel cuore stesso della sua missione e il Padre viene irriso in Gesù, proprio nel dono più prezioso che fa all’uomo. È una scena banale, molto meschina.

Sono persone molto infelici, gente mal pagata, che ha una vita grama e misera, che deve star su la notte senza sapere perché, che è alla mercé di chi la comanda, di chi la fa andare di qua e di là; gente senza dignità, la cui famiglia, se ce l’ha, è piena di guai. Gente servile, che odia il servizio che fa, abituata a essere sempre mal comandata, a essere trattata male da chi ha il potere, e quindi bisognosa di rivalsa. Una volta tanto che hanno il potere loro, lo esercitano; forse sono stati più volte schiaffeggiati loro, o trattati male, o puniti ingiustamente, ed ecco un uomo su cui possono rivalersi, far vedere che sono qualcuno, che anche loro hanno una dignità e quando c’è uno inferiore lo vogliono dimostrare. Non sono altro che la natura umana che è in ciascuno di noi, la quale alterna il servilismo ossequiente con la rivalsa su chi ci sembra minore di noi. La rivalsa ha molte forme subdole, perché c’è una rivalsa culturale (chi sa parlare verso chi non sa), la rivalsa dell’educazione (chi ha modi fini verso chi non li ha), tutte forme che servono a mantenerci in una certa superiorità. Questi uomini sfogano su Gesù le loro frustrazioni, le ore di guardia pesantissime, la loro vita grigia, senza futuro, sempre col pericolo che capiti loro qualcosa. Che cosa fa Gesù? Secondo il brano evangelico non fa niente, non dice niente; essendo il Figlio di Dio dato a noi, Gesù lascia fare. C’è però una sua parola, che possiamo prendere da Giovanni, che ci indica cosa vuol dire Gesù con il suo atteggiamento. Possiamo forse chiedere nella preghiera, come san Francesco di Assisi, di entrare nel cuore del Signore crocifisso e umiliato. Signore, cosa vivevi in quel momento, mentre ti sentivi abbandonato da tutti, mentre di fuori gli apostoli ti rinnegavano, fuggivano, nessuno veniva a testimoniare per te? Tu ormai non eri più niente per nessuno, tutte le persone che potevano fare qualcosa per te si erano ritirate. È un momento terribile. Non so se avete letto la biografia del cardinale Mindszenty52, quando egli racconta appunto di un simile momento: era stato già in prigione più di una volta, però sempre da cardinale, cioè con onore, come un uomo temibile e sempre dopo pochi giorni liberato. Quindi c’era stato con quell’aureola di gloria di chi va sì in prigione, ma ci va sapendo che molti uomini potenti sono con lui, che egli ha un nome che conta in campo internazionale. Egli parla poi della volta in cui, messo in prigione definitivamente, lo chiamarono nei sotterranei, lo spogliarono e incominciarono a percuoterlo. Dice che in quel momento tutto il mondo era crollato, quel mondo in cui fino ad allora era vissuto con pericolo, ma anche con onore, sapendo di essere “qualcuno”.

Da allora aveva capito di non essere “niente” per nessuno. Appunto simile deve essere stato il momento vissuto da Gesù. In Giovanni 18,23 Gesù dice a chi lo percuote: “Se ho fatto male, mostramelo, ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” Ciò che mi sembra formidabile in questa parola è di nuovo l’appello di Dio alla libertà umana: se ho fatto male, eccomi nelle tue mani; se ho fatto bene, allora chi sei tu che mi percuoti? Guarda in te stesso, che ti sta succedendo, perché fai così? Quale serie di frustrazioni, di servilismi, di paure, ti hanno condotto a questo punto? Ecco Gesù, la vulnerabilità di Dio che si offre all’uomo, come specchio della sua meschinità, perché l’uomo si veda e abbia orrore di sé, e quindi accetti la salvezza che questo umiliato gli offre con il suo silenzio. È la sua vulnerabilità che Dio mi offre in ogni mio fratello debole, che non sa reagire, anche semplicemente, che non ha la presenza di spirito di rispondere a una frecciata, a una parola amara. Dio si offre a noi in Gesù per risanarci, si offre a noi nei fratelli per confonderci, ma anche per liberarci, per farci vedere chi siamo. Pilato: il rispetto umano Ancora, in 27,11-16, Gesù è portato da Pilato e il governatore lo interroga: “Sei tu il re dei giudei?” “Tu lo dici”, risponde Gesù. Poi seguono le accuse dei sacerdoti e degli anziani, ma Gesù non risponde più niente. Pilato gli dice: “Non senti quante cose attestano contro di te?” Ma Gesù non risponde neanche una parola, con grande meraviglia del governatore. Seguono i tentativi affannosi di Pilato per uscire con onore da questo guaio. Prima cerca di rilasciare Barabba: “Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo? Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia”. Pilato è un uomo intuitivo, un uomo di legge e di governo, che capisce subito ciò che sta succedendo. La situazione si aggrava nel suo cuore quando la moglie gli manda a dire: “Non avere a che fare con quel giusto, oggi fui molto turbata in sogno per causa sua”. Intanto i sommi sacerdoti e gli anziani persuadono la folla a chiedere Barabba e quando il governatore domanda: Chi dei due volete che vi rilasci? Questi risposero: Barabba! Che farò di Gesù? Sia crocifisso! Ma che male ha fatto? Sia crocifisso! Pilato, visto che non ottiene niente e il tumulto cresce sempre più, prende dell’acqua e si lava le mani, dicendo: non sono

responsabile del sangue di quest’uomo, vedetevela voi. Il suo sangue ricada su di noi, risponde la folla. Allora rilasciò Barabba e dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso. Chi è dunque Pilato? È il “burocrate” attaccato alla sedia; la cosa più importante per lui è non perdere il posto. Però è preso tra due fuochi, come spesso succede: dall’alto ordini, manovre, tempeste, cose da fare; dal basso inquietudini, malcontenti. Quindi lo sforzo amaro di tenere ogni giorno tra i due fuochi un certo equilibrio, cercare di non perdere la carriera e di non dispiacere a nessuno; di non dispiacere alla coscienza, però neanche all’imperatore, e neppure alla gente, perché in fondo l’imperatore è lontano, ma lui con la gente deve vivere. Ecco il dramma di questo pover’uomo che ha pure una certa cultura, un senso di dignità, di onestà fondamentale, anche se ha i suoi grossi difetti. Qui appare anche un uomo che ha una sua linea, però vuole salvare tutto: il posto, la grazia dell’imperatore, i buoni rapporti con le autorità giudaiche e il favore del popolo. Quindi, essendo un uomo scaltro, cerca espedienti, e quando gli viene in mente l’idea di Barabba, pensa di farcela, di cavarsela anche stavolta con buona soddisfazione di tutti. È contento il popolo, perché rilascia un prigioniero; è contento l’imperatore, perché non gli arrivano lamentele; è contenta la coscienza, perché intanto quell’uomo meritava la morte. Ma questo espediente non riesce e allora diventa persino ingenuo, perché si presenta a una folla irata, pensando di riuscire a convincerla. Ciò mostra a che punto è giunto ormai il suo smarrimento e anche la sua saggezza politica, perché si vede che ormai non ha più presenti le normali reazioni della gente. Si vede che cerca di uscirne disperatamente, come un leone in gabbia: cerca una via d’uscita che non sia contro la sua coscienza, che insieme salvi se stesso e colui che non ha fatto niente di male. La vita probabilmente non l’aveva preparato a questa situazione, che da banale è divenuta all’improvviso fastidiosa e umiliante. Cerca tutte le vie d’uscita, tranne quella vera, cioè far uso della sua libertà, della sua dignità. Cosa fa Gesù? Dice l’unica cosa che può dire in quel momento: “Tu lo dici”. Anche qui, mi pare, come per Giuda e per le guardie, c’è un rimando alla dignità della persona: tu vedi, tu sai; se sono colpevole, sono pronto a essere condannato, se non lo sono, interroga la tua coscienza, se sei un uomo libero mostrati tale, fa’ che la tua dignità trionfi. Qui senz’altro prendo in considerazione un’ipotesi immaginaria, che mi pare però accettabile. Mi piace pensare che a questo punto Pilato abbia avuto

un istante di incertezza e si sia domandato: sono un funzionario o sono un uomo? Se sono un uomo, ho la mia libertà e quest’uomo qui davanti mi interessa: forse ha qualcosa da dirmi, forse può spiegarmi perché mi sento così inquieto, cosa mi succede; se ci sediamo insieme mi dirà qualche parola delle sue. Pilato avrebbe così abbandonato la veste di funzionario, si sarebbe messo a livello di un uomo. Cosa gli avrebbe detto Gesù? Più o meno ciò che era già esplicitamente contenuto nel suo “Tu lo dici”. Come funzionario puoi condannarmi, hai il potere, e se mi trovi colpevole, sei libero di farlo. Ma sei libero di farlo anche se non mi trovi colpevole, sono nelle tue mani. Chiediti però cos’è questa inquietudine che ti rode; chiediti perché in fondo non sai avanzare, di che hai paura, che cosa desideri. Penso che allora Pilato, per la prima volta in vita sua, si sarebbe sentito in un colloquio da uomo a uomo, con uno che non lo adulava e neanche lo rifiutava, ma parlava con lui liberamente. E immagino che, se Pilato avesse fatto questo gesto, in questo colloquio si sarebbe sentito libero dal rispetto umano verso l’imperatore e verso il sinedrio, capace di affrontare il pericolo del tumulto della folla. Questo è capace di fare un colloquio a tu per tu con Gesù: rendere un uomo autentico, libero da tutte le paure assurde, che all’improvviso ti fanno sentire ridicolo. Gesù muore per rivelare anche a Pilato qual è la via d’uscita. Questo è il colloquio liberatore che Gesù vuol fare con ciascuno di noi; l’unica soluzione per Pilato era mettersi al livello del fratello e parlargli, perché la persona era più importante delle leggi, della carriera, della burocrazia. Gesù ci insegna che c’è sempre, in qualunque situazione, la possibilità di un rapporto autentico con lui, che ci riporta alla nostra autenticità. Ci insegna che c’è sempre la possibilità di un momento di pausa, anche nelle situazioni più intricate, più assurde, più ridicole, per scoprire il significato più profondo, per trovare il vero rapporto con le persone, per ridare importanza all’uomo e non alle cose, alle strutture. Siamo dinanzi a Gesù che, come uomo, ci rivela la vulnerabilità di Dio, che si lascia trattare come vogliamo, che, nella sua vulnerabilità, vuole che ciascuno di noi lo riconosca. Siamo questo Pilato che ha una facciata, un’onorabilità, un’etichetta che vuol salvare a tutti i costi dinanzi agli altri. Chiediamoci che cosa c’è in noi di Pilato, che cosa ci impedisce di essere liberi. Quali sono le nostre paure, le nostre etichette, le vesti e le maschere che portiamo in pubblico, per cui non sappiamo rischiare. Di fronte al caso

concreto appaiono tutte le nostre assurdità, la capacità di trascurare e calpestare l’altro per l’apparenza, per mantenere la facciata, o il posto importante, o il buon giudizio della gente sulla nostra onorabilità, sulla nostra fama o buona stima. Parla con me, ci dice il Signore, fatti liberare, sappi che, in ogni momento, per te, può scoppiare il caso in cui sei portato a calpestare l’altro per difendere un mondo che ti sei costruito, a metterti in una situazione irreparabile, senza vie d’uscita. Con il suo affidarsi a noi, con la sua vulnerabilità Dio ci rivela questo: voglio illuminarvi su ciò che siete e su ciò che potete essere, se mi riconoscerete. Signore, tu ci hai manifestato il tuo Figlio nella povertà di un uomo: rivelaci quello che siamo. Fa’ che il sangue delle tue ferite non sia vano per noi, fa’ che per le tue ferite noi siamo risanati; in virtù di questo sangue ognuno di noi ritrovi la libertà cui era destinato. Amen.

XI. LA MORTE DI DIO Mediteremo insieme ora sulla morte di Dio. È la terza di tre meditazioni che abbiamo dedicato alla passione: la “debolezza” di Dio in Cristo, la “vulnerabilità” di Dio, e ora, infine, la “morte”. Mi ricollego a ciò che è già stato meditato contemplando l’offerta di amicizia che Gesù offeso, schiaffeggiato, umiliato, giudicato, fa a coloro che lo tradiscono, lo umiliano, lo giudicano. Gesù fa a Giuda, alle guardie, a Pilato l’offerta della sua amicizia, che sola potrebbe farli uscire dal gioco di malvagità, di ripicca, di risentimento, di paura in cui sono chiusi. Abbiamo persino immaginato che Pilato, per un momento, riuscisse a sedersi su una panca e a parlare da uomo a uomo con Gesù, e uscisse per un momento da questa cerchia di paura che lo costringeva. Però noi sappiamo che purtroppo né Pilato, né le guardie, né Giuda si sono lasciati scuotere, di fatto, storicamente, dalla vulnerabilità di Gesù, così come non si sono lasciati vincere dalla sua offerta di amicizia; perciò non hanno accettato la sua offerta di verità per loro. Questo non a caso, non per una cattiva sorte della storia e non perché Gesù purtroppo è capitato in mano a un Giuda, a delle

guardie, a un Pilato che erano particolarmente cattivi, malvagi, ma semplicemente perché è capitato in mano a uomini, cioè a gente come noi. L’uomo (questo ci insegna la storia della passione) non accetta l’offerta di amicizia che Dio gli fa in Gesù, quando si accorge che questa offerta comporta una verità di se stesso e quindi, di conseguenza, la necessità di uscire da un cerchio da cui non si sente di venir fuori. L’incomunicabilità della morte Allora non rimane se non la morte di Dio; visto che l’uomo non riesce a uscire dal suo cerchio di rivalsa, di ripicca, di sentimenti sbagliati portati all’estremo, esasperati, non rimane a Dio, che gli presenta la sua amicizia in Gesù, se non di lasciarsi uccidere, di morire. Ecco la morte di Dio per amore dell’uomo che lo respinge. Dio va fino in fondo nella sua offerta, ed essendo l’offerta respinta, questo andare fino in fondo comporta la morte. Come dicevamo all’inizio, qui cessa ogni parola, perché che cosa sappiamo noi della morte di Dio in Gesù? Niente! Come non sappiamo niente di nessuna morte. La morte è il momento dell’incomunicabilità assoluta e, a mano a mano che una persona si avvicina alla morte, noi sempre meno capiamo che cosa succede in lei. Immaginiamo, supponiamo, ma sempre meno capiamo qualcosa, finché si entra nell’assoluta incomunicabilità, nella assoluta incapacità di dare e ricevere. Ogni morte ha questo segno di mistero assoluto, da cui poi nascono anche gli usi, i costumi degli uomini, il nostro modo di reagire alla morte degli altri o alla morte che ci tocca. Non è successo forse a ciascuno di noi, quando ci capita qualche morte grave, che ci tocca da vicino, di vedere come gli altri, praticamente, hanno quasi paura di noi? Passano vicino e dicono una parola di condoglianza sempre uguale, poi via, presto, perché non sanno come fare. Nessuno di noi sa come comportarsi in queste circostanze; soltanto una grande amicizia, una grande confidenza può permettere di entrare un po’ in queste cose; ma per lo più si ha paura, si dicono parole di convenienza che bisogna dire, che si pensa sarebbe bene dire in quel momento, ma poi tutti sono un po’ colpiti, messi a disagio da questa esperienza incomunicabile. Si aspetta che passi un po’ di tempo, che la cosa si dimentichi, perché non si può vivere con questo mistero di incomunicabilità. Ora, se ci è impossibile capire la morte dell’uomo, come potremmo

capire la morte di Gesù e il mistero che essa racchiude? Questa morte, che, come dicevamo citando il teologo Urs von Balthasar, ha di per sé carattere di definitività, non è un esperimento che Gesù fa per entrare nella morte e uscirne poi, come uno che entra sott’acqua e poi ne riesce. È un lasciarsi cadere nel mare della morte e quindi è un finire come tale; soltanto la potenza di Dio compie ciò che è assurdo per l’uomo, fa cioè emergere da questo mare. Gesù quando muore, però, muore come ogni altra persona, per sempre, definitivamente, si lascia inghiottire da questo mare degli Inferi. Non diciamo forse nel Credo: discese negli Inferi? Non sappiamo bene cosa voglia dire esattamente, ma dietro c’è questa esperienza assoluta, irripetibile, incomunicabile, in quanto esperienza della non esperienza, della fine; per cui non abbiamo nessun paragone, se non per analogia, sulla fine di un’esperienza. Quando partiamo da un luogo caro e sentiamo che è finita, ne abbiamo un’analoga esperienza: infatti si dice che “partire è un po’ morire” proprio perché sentiamo che c’è una cessazione. Però, subito, ci consoliamo con altre cose che sono presenti e quindi è sempre un’analogia molto lontana. Nessuno di noi può dire che cosa sia l’esperienza che è cessazione di ogni esperienza. Per questo di fronte alla morte di Gesù vengono in mente piuttosto alcune parole misteriose dell’Apocalisse: “Quando l’Agnello ebbe aperto il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per lo spazio di circa mezz’ora” (Ap 8,1 ss.). Questa “mezz’ora” chissà quanto dura ed è l’incapacità di capire, l’ammutolimento di tutte le cose. Possiamo anche constatare quanto abbiamo detto in un’esperienza umana, più vicina alla nostra: i tre amici di Giobbe, venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui, partirono ciascuno dalla sua contrada e si accordarono per andare a condolersi con lui, a consolarlo. Però poi si trovarono male, anche se avevano fiducia di potergli dire chissà quali parole: “Alzarono gli occhi da lontano, ma non lo riconobbero e, dando in alte grida, si misero a piangere”. Loro stessi, che erano andati per consolare, a un certo punto sono travolti da ciò che hanno visto, non capiscono più niente. “Ognuno si stracciò le vesti e si coperse il capo di polvere, poi sedettero accanto a lui in terra per sette giorni e sette notti e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore” (Gb 2,12-13). In queste forme immaginifiche della Bibbia, in questa maniera colorita di parlare, qualcosa si può intendere. Ecco che cosa vuol dire l’avvicinarsi a

questi misteri: significa, a un certo punto, esserne travolti e poi restare zitti, senza parole. Mediteremo, come ci propone san Matteo, su alcune delle ultime cose; quindi, prima di tutto, sugli insulti che Gesù riceve sulla croce, in 27,39-44. Gesù sulla croce viene insultato e qui l’evangelista descrive con ampiezza la scena, in cui c’è un significato molto profondo da ricavare. Poi potremo meditare sull’ultima parola di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Infine su qualcuna delle cose che Matteo ci dice siano avvenute dopo la morte di Gesù, come il velo del tempio che si squarcia e l’episodio del centurione. Gli “insulti” rivolti a Gesù Caratteristica della morte in croce, che era considerata “vergognosissima”, era proprio quella di far morire un uomo irridendolo. Questo era il colmo dei supplizi inventato dalla crudeltà umana: far morire una persona nello stesso tempo in cui la si esponeva all’insulto, alla vergogna pubblica. Anche la stessa posizione del condannato lo esponeva al ridicolo, perché il disgraziato assumeva posizioni goffe, contorte, in questa lotta contro la morte e quindi ciò accresceva il macabro della scena. Per questo la Scrittura ci presenta gli insulti lanciati contro Gesù e vi insiste molto. Vediamo che significato hanno, vediamo chi insulta Gesù e che cosa gli dice. Leggiamo prima di tutto il testo in 27,39-44. “Coloro che passavano, lo ingiuriavano e scrollavano il capo […] Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano e, nello stesso modo, lo beffeggiavano anche coloro che erano stati crocefissi con lui”. Abbiamo qui tre categorie di persone che oltraggiano Gesù. I passanti, “l’uomo della strada”, gente che sapeva poco o niente, ne aveva sentito parlare, magari aveva anche qualche volta sentito qualche predica, aveva pensato che parlava bene, ma poi se n’era andata; come molti, ora se lo ritrova qui, per caso, e pensa: “Ma guarda com’è andato a finire!” Naturalmente comincia anche a venire fuori quel gusto della malignità che sempre è presente in noi: in fondo, se Dio era veramente in lui, non avrebbe fatto questa fine, vuol dire che ci ha ingannati; come minimo quelle ore in cui lo abbiamo ascoltato sono state una perdita di tempo, difatti il Vangelo dice

qui: “Scuotevano la testa”. Quindi c’è una parvenza di ragione anche in questa gente della strada che giudica così, grosso modo, e pensa: “In fondo qualcosa l’avrà ben fatta; se avesse parlato bene, i nostri capi l’avrebbero ascoltato; se l’hanno messo lì, se lo sarà meritato”. Quando il giusto è perseguitato e all’estremo delle forze, i benpensanti dicono: “Se è finito così, qualcosa ci dev’essere sotto”. Qualcuno si ricorda anche di qualche parola: “È quel tale che aveva detto che avrebbe distrutto il Tempio!” La cosa certamente era passata di bocca in bocca, perché faceva colpo e si poteva ricordare: “Adesso vediamo che cosa sa fare, provi a salvarsi, se ha questo potere, che lo mostri!” Qualcuno aveva anche sentito parlare Gesù più a lungo, e ricordando che pretendeva addirittura di essere Figlio di Dio, dice: “Se è un amato da Dio, adesso lo mostri, scenda dalla croce”. Dietro questo ragionamento, che appare così di buon senso, c’è, come abbiamo detto, una certa idea di Dio: Dio è il grande, il potente, il vittorioso, e quindi chi si affida a lui magari avrà delle prove, dei momenti oscuri, ma alla fine trionferà. Perciò, se uno alla fine non trionfa, Dio non è con lui, perché altrimenti Dio non sarebbe grande. A partire da questa idea di Dio, ecco che sorge questa parola che diventa addirittura “bestemmia”, come dice il testo greco, e che viene tradotta qui con “insulto”. Si tratta di un insulto che viene dall’interno, cioè c’è una specie di rivalsa: “Quest’uomo credeva di dirci chissà che cosa, ma a noi sembrava che le sue parole fossero troppo strane e adesso, finalmente, abbiamo ragione noi, gente semplice”. È la rivincita di chi non si era impegnato troppo, di chi non aveva voluto capire. Ancora una volta di fronte a Gesù, anche nella morte, ogni uomo rivela se stesso, manifesta la sua meschinità, la mediocrità dei propri pensieri, che si esprime con tale spontaneità che le persone credono di dire le cose più sensate di questo mondo. C’è poi il secondo tipo di persone: i “teologi”, le persone che si sono sentite maggiormente minacciate, nella loro immagine di Dio, dal modo di agire di Gesù. Sono i sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani, cioè tutte le categorie che tenevano in mano il potere religioso, quello culturale e anche, in parte, quello amministrativo. Tutta gente responsabile, seria, che irride anch’essa, che si prende gioco come di qualcosa di cui ormai s’è svelato il trucco: quest’uomo, per un momento, ci ha impressionato, l’abbiamo preso

anche un po’ sul serio, ma adesso vediamo che non valeva nulla, non può salvare se stesso. È interessante vedere come si rivela la mentalità di questi teologi ed eruditi. “Ha salvato gli altri”: riconoscono l’attività taumaturgica di Gesù che li ha impressionati. “E adesso non può salvare se stesso: allora vuol dire che in quel salvare gli altri c’era qualcosa che non andava. Quando noi abbiamo gridato che in nome di Belzebù cacciava i demoni e lui s’è indignato, in fondo avevamo ragione e adesso si vede. Anche il nostro ragionamento teologico, con cui già fin d’allora abbiamo smascherato la sua posizione, attirandoci l’odio della gente, adesso si mostra giusto, perché non può salvare se stesso, pur concesso che abbia salvato altri. Se è ‘re di Israele’, così come ha detto, come è sembrato dichiarasse nell’ultima seduta del sinedrio e anche di fronte a Pilato, adesso scenda dalla croce e gli crederemo”. Qui, vedete, entra in gioco anche il momento religioso: “scenda dalla croce, mostri di avere il potere di salvare se stesso e allora crederemo anche che può salvare Israele”. A questo ragionamento teologico si aggiunge una citazione della Bibbia: “Si è fidato di Dio, adesso lo salvi, ha detto di essergli figlio”. Se veramente egli è così legato al Padre, come ha detto, allora adesso Dio mostri la verità di questo legame. La terza categoria sono i ladri crocifissi con lui. Come ci dice il testo, anch’essi lo insultano. Ciascuno lo fa dal suo punto di vista: l’uomo della strada perché si è sentito defraudato e come ingannato da Gesù; i sacerdoti, i rappresentanti della cultura, perché con la sua dottrina li ha minacciati. Questi ladri lo insultano, come pare anche confrontando con Luca o ripensando alla situazione concreta, perché non li aiuta: “Se tu in questo momento sei un disgraziato come noi, fa’ sentire che sei qualcuno”. Cosa fa Gesù? Pensiamo a che cosa rappresenta per lui, nel momento della sofferenza e dell’agonia, ascoltare queste parole che toccano il cuore della sua missione: la salvezza, essere Figlio di Dio e Re di Israele, il nuovo Tempio, la capacità di salvare gli altri, la fiducia nel Padre. Tutte le prerogative di Gesù sono qui messe alla prova e legate a un filo sottilissimo: se tu scendi dalla croce, tutto questo ci sarà chiaro; ma se tu ci rimani, tutte le cose per le quali hai detto di essere venuto non possiamo accettarle. Riflettiamo un momento su che cosa avremmo detto a Gesù, come gente della strada, anche senza insultarlo. Mettiamoci nella categoria di coloro che, in fondo, non vedevano chiaro in quel che stava succedendo; forse anche noi

gli avremmo detto: “Noi crediamo in te, ma scendi; se compi anche un minimo gesto in questo momento, quanti crederanno in te! Hai compiuto tanti miracoli, se sei venuto per farti accettare cosa ti costa compierne un altro per farti acclamare? Che tutti cadano in ginocchio e gridino: veramente era il Figlio di Dio, ci siamo sbagliati!” Perché Gesù non lo fa? Perché il Padre è chiamato in causa direttamente con il Salmo 22, con la parola di Dio ispirata, infallibile? Credo che ciascuno, proprio nella contemplazione, debba fare questa domanda al Crocifisso. Il Signore ci risponderà: “Rifletti: a quale immagine di Dio è collegata questa richiesta dei sacerdoti, degli Scribi, dei ladri, della gente? È il Dio potente, vittorioso, che salva con un atto di forza. Invece l’immagine di Dio che io, per incarico del Padre, vi porto è quella di un Dio fattosi debole, vulnerabile, sottoposto fino in fondo alla libertà dell’uomo. Come potrei, senza rinnegare tutto questo, scendere dalla croce? Trionferebbe l’immagine del Dio potente, ma io non porterei a termine la mia missione perché, nel momento decisivo, rinnegherei la vulnerabilità di Dio messa nelle mani dell’uomo. Avrei dato credito alla vostra libertà, ma solo fino a un certo punto”. In tal modo si direbbe che Dio non è stato serio nell’offerta dell’amicizia, non si è sottoposto a tutte le sue conseguenze; quindi, in fondo, Dio non ama l’uomo, né la sua libertà. Come si potrebbe dire che la misericordia di Dio è senza limiti, se a un certo punto dicesse: basta, l’esperimento è finito, è andato troppo in là, voi non avete capito? Chiediamoci: è questo il Dio in cui crediamo, il Dio del Vangelo, il Dio della Rivelazione di nostro Signore Gesù Cristo? È questo il Dio che nessun filosofo ha mai potuto pensare o immaginare, che si rivela da sé in questo modo, che non si può riconoscere se non con una totale conversione del cuore? Chiediamo al Signore, alla Madonna, che hanno vissuto questa drammatica e seria rivelazione del Padre, che la imprimano nel nostro cuore, che ci facciano capire quanto ancora siamo pagani nel nostro concetto di Dio. Vogliamo un Dio che ci metta alla prova, ma che alla fine ci salvi, prima che le cose vadano male, che non abbia in noi quella fiducia così totale che ha avuto in Gesù. Sempre ci rifacciamo, senza volerlo, ma spontaneamente e paganamente, a un’immagine di Dio al nostro servizio, al servizio della nostra potenza, della nostra riuscita, non un Dio al quale possiamo e dobbiamo affidarci totalmente, così come Gesù si è affidato. Dio è per noi un mare in cui ci buttiamo, ma sempre con qualche piccolo

strumento di salvataggio, perché alla fine, se il mare non ci sostiene, possiamo riuscire a salvarci da noi. Gesù ci mette quindi di fronte al nostro paganesimo dicendo: “Sei disposto ad aprire il cuore al Dio del Vangelo e a tutto ciò che questa accettazione comporta?” Gli ultimi istanti Il mistero diventa ancora più grave con le ultime parole di Gesù, come dicevo, le uniche secondo Matteo e Marco, mentre Luca e Giovanni hanno ampliato il dialogo. In ciascuna delle scene abbiamo un aspetto della ricchezza inesauribile del mistero della morte del Signore, quindi nessun evangelista va meditato a scapito dell’altro o contro l’altro. Qui abbiamo, in Matteo, semplicemente: “Dall’ora sesta ci furono tenebre su tutta la terra, fino all’ora nona”. Questa espressione così densa e pesante mi richiama alla mente le tenebre che ricoprivano l’abisso all’inizio della creazione. Von Balthasar, in un suo lavoro, segue una via di interpretazione che, per la prima volta, vedo approfondita in maniera così rigorosa: egli vuole dare tutto il realismo possibile alla derelizione di Cristo, prolungando anche alcune teorie già esposte nell’antichità, soprattutto da Lutero53 e Calvino54 i quali, egli dice, in questo non sono eretici, ma danno una loro interpretazione approfondita della passione del Signore. Egli propone di leggere, in questo momento misterioso della vita del Signore, l’avverarsi di quello stato di abbandono che, in maniere incoative ed embrionali, viene sperimentato dai mistici cristiani nella desolazione spirituale. Abbiamo già letto le parole di sant’Ignazio: ci si sente come abbandonati da Dio, con un muro tra se stessi e lui. Ora, Gesù sarebbe giunto a sperimentare al massimo questo stato di abbandono, fin quasi a parlare, come fanno alcuni autori, anche se con molta cautela, di “pena del danno”55. Mi pare che anche von Balthasar, in maniera molto personale e intelligente, segua questa linea: addirittura parla come di una pena dell’inferno; Gesù cioè sarebbe giunto a conoscere l’estremo della disperazione umana, non in quanto peccaminosità e rivolta contro Dio, ma in quanto angoscia e sofferenza. Certo io credo che sia presuntuoso, per ciascuno di noi, dire che cosa è successo in questo momento in Gesù. L’unica cosa che possiamo fare è

approfondire questo momento cruciale, illuminante, determinante, della vita del Signore con le esperienze che il Signore ci dà di compiere. Certamente mi sembra che possiamo ritenere che Gesù muore come capo del Corpo Mistico. Quindi, tutte quelle esperienze che in noi si verificano e che possiamo così difficilmente oggettivare e comunicare ad altri, proprio perché di loro natura affini a quelle della morte, tutto ciò che in noi si verifica di abbandono, di tristezza, di accidia, di angoscia, di solitudine, di chiusura, di mancanza di fede, di speranza e di amore a Dio, tutto questo è, per noi, una via per conoscere il Cristo. Ciascuno di noi può quindi, partendo dalla propria esperienza, senza bisogno di teorie, fare una teologia ragionata su queste parole di Gesù. Esse sono certamente un punto di riferimento per intuire che cosa si svolge in noi. Ancora una volta Gesù, anche nel suo abbandono, ci si mostra amico e ci rivela chi siamo, che cosa avviene in noi, attraverso quali misteriosi sotterranei (il “tunnel” di cui parla santa Teresa di Gesù Bambino) giungiamo alla conoscenza di Dio e alla libertà del cuore. Giustamente von Balthasar insiste su questo pensiero: una certa mistica, specie occidentale, ha spesso considerato questa esperienza ineliminabile nell’uomo spirituale; cioè l’esperienza dell’aridità, del tedio, della fatica, dell’oscurità, della notte, sarebbero semplici cammini ascendenti, l’ascesa dalla pesantezza della carne attraverso la purificazione, verso la contemplazione della luce di Dio. Egli invece dice: alla luce del Vangelo dobbiamo piuttosto interpretare cristologicamente questa realtà; cioè noi siamo chiamati a essere là dove è Cristo, siamo chiamati a conoscere Dio come Cristo ce l’ha fatto conoscere. Poiché la potenza di Cristo si è rivelata nella debolezza, la luce di Dio si è rivelata nell’oscurità di queste ore, la gloria e la speranza di Dio si sono manifestate nel grido di dolore, di abbandono di Gesù, così anche noi, in qualche maniera, siamo chiamati alla conoscenza di un Dio diverso da quello che possiamo immaginare, attraverso questa via che Gesù ci propone. Mi rendo conto che con questo non abbiamo detto niente, ma soltanto posto un mucchio di problemi. Di nuovo emerge la domanda: perché Dio si fa conoscere così, che bisogno c’era di venire a noi in questo modo? Gesù non poteva scendere dalla croce e salvarci in maniera più facile? Ma salvandoci così ci avrebbe preso come siamo, avrebbe preso sul serio l’abisso di malignità dell’uomo e del mondo? Così, di nuovo, siamo portati a cercare di capire la verità di questo modo paradossale di morire di Gesù. È una

considerazione difficile, che io stesso non volevo fare fino a poco tempo fa o che, quando qualcuno me la faceva, respingevo; ma adesso, non so, mi pare che da questa pagina di Matteo sia difficile sfuggire. La morte di Gesù non è gloriosa, grande. È vero, ci sono per grazia di Dio delle morti illuminate; noi tutti forse abbiamo assistito a delle morti di persone che già trasfiguravano la risurrezione, presso le quali si respirava in fondo qualche cosa della serenità, della pace di Dio. Questa è la grazia del Risorto, che già si riversa nell’esperienza più tragica dell’uomo e, in certi casi, già può trasfigurarla. Ma la morte di Gesù non è stata così. Dopo le ultime parole di Gesù c’è il malinteso: credono che Gesù chiami Elia, gli danno una spugna con aceto. C’è un po’ di confusione, ma nessuna scena di grandezza, non gente ammirata che prega, tutto si svolge così, un po’ tra il serio e il ridicolo, tra gente abituata a veder morire i condannati: “[…] e Gesù di nuovo grida con grande voce”. Veramente quest’ultimo grido non ha neppure parole, è misteriosissimo e non possiamo interpretare più niente. Così questa morte di Gesù è drammatica, non ha l’aureola della gloria, della pace, ma è piuttosto una morte nella sofferenza: Gesù precipita nell’abisso della morte, della malvagità umana che lo inghiotte. È difficile rispondere alla domanda se Gesù è morto di una bella morte, oppure di una morte drammatica, amara; dipende da come intendiamo queste parole. Quando, qualche tempo fa, me l’hanno posta proprio in un incontro, io mi sono difeso dicendo che la morte di Gesù non era amara. Ma ora, leggendo di nuovo con voi queste pagine, mi pare che, mentre Giovanni e Luca ci presentano l’aspetto trasfigurato della morte di Gesù, Matteo e Marco ce ne presentano uno più drammatico e amaro. Questo aspetto, che non deve far dimenticare l’altro, anch’esso vero, è la partecipazione di Gesù, mi pare, a tante morti che appunto ci lasciano perplessi, senza grandezza, che sono proprio quelle della maggior parte degli uomini di questo mondo. Ho letto, quest’estate, un racconto di Ivo Andrić sui francescani della Bosnia56, che dovevano essere tipi piuttosto caratteristici, gente che viveva sotto il dominio turco e quindi in continue situazioni di difficoltà e di sofferenza. Uno di questi francescani, ardente e rozzo insieme, viene chiamato da un contadino per un moribondo sconosciuto. È notte, parte con un po’ di paura e, quando è a casa del contadino, questi lo conduce in montagna dove, in una caverna, c’è un bandito cristiano, il quale ha combattuto tutta la vita contro i Turchi, ma ha anche ucciso della gente. Qui comincia la lotta del francescano con questo bandito che rifiuta il prete. È una

lotta veramente da giganti; il frate semplice, ma insieme pieno di entusiasmo, gli ripete le parole più dure sull’inferno, sul Crocifisso; l’altro volta la testa contro il muro, non vuol rispondere. A un certo momento quest’uomo si volta e il frate capisce che sta per arrendersi; allora gli butta addosso un’assoluzione e si rende conto che l’altro l’ha accettata, in qualche maniera. Se ne esce tutto contento pensando: ho salvato un uomo. Più tardi il contadino torna a chiamarlo di corsa; egli corre di nuovo verso la montagna e vede l’uomo come crocifisso su un albero, sul ciglio del burrone, sotto la caverna. Il frate si domanda: “Perché morire così? Gli avevo dato l’assoluzione, non poteva morire con più calma? Perché, Signore, mi hai fatto questo?”57 Mi pare che questo racconto presenti molto bene come noi vorremmo si svolgessero le cose: nella calma, nella serenità, nell’abbandono; e come invece le cose succedono: strane, misteriose, imprevedibili. La morte di Gesù partecipa, mi sembra, di questa imprevedibilità dell’esperienza umana e della morte. Non resta che adorare questo mistero del Signore, che ci è venuto incontro fino a questo punto e si è assimilato con ciascuno di noi. Non sappiamo quale sarà la nostra esperienza o non esperienza di questa realtà, ma sappiamo che il Signore, con amicizia, anche qui ci ha preparato la strada e ci è venuto incontro. Dopo la morte Consideriamo ora ciò che succede dopo che Gesù ha reso lo Spirito: si schianta il velo del tempio in due parti, trema la terra e si spezzano le pietre, si aprono i monumenti dei morti, i corpi si mostrano in giro e il centurione teme. In genere gli esegeti rimangono perplessi di fronte a queste parole, invece mi sembra che siano proprio quelle che cercano di esprimere l’incredibile. Abbiamo detto che di fronte alla morte di Cristo non c’è che il silenzio; però questo silenzio ha delle risonanze cosmiche, ha delle risonanze umane, che nella fede si possono cogliere. Io mi limito qui a ricordare la più facile, il centurione e le guardie, perché è un’esperienza umana e quindi si può capire: “Il centurione e quelli che con lui custodivano Gesù, vedendo il sisma, il terremoto e le altre cose che avvenivano, temettero molto, dicendo: veramente costui era Figlio di Dio”.

Abbiamo qui, dunque, la prima proclamazione di Gesù e il primo rivelarsi degli effetti del paradosso di Dio nell’esperienza umana. Nel momento, diciamo, umanamente meno adatto, in cui tutta l’amarezza della morte di Gesù era stata vista da questa gente, forse con una qualche indifferenza, con fretta, questi che sono al di fuori, ma che pure hanno un animo umano, non possono resistere al linguaggio di ciò che sta avvenendo e dicono: malgrado tutto, questi era qualcuno, anzi forse un amato da Dio. Come ci sono giunti? Forse sembra impossibile, a questo punto, ma è qui che si manifesta il paradosso di Dio, che si è rivelato nella maniera più contraria a quello che ci saremmo aspettati. Perciò quello che i passanti, gli uomini della strada, i sacerdoti non hanno capito, l’hanno capito questi uomini: il centurione e i soldati. Possiamo pensare che tra questi ci fossero anche quelli che prima avevano insultato Gesù, ma che poi, standogli molto vicino, lo hanno riconosciuto. In fondo sono i testimoni più vicini della passione, quelli che hanno visto le sue reazioni, i suoi fremiti, l’espressione del suo volto. Così, gradualmente, da questa vicinanza di Gesù, da questa sua vulnerabilità hanno cominciato a capire qualcosa della pazienza di Dio. Da qui il loro cuore si apre e comincia a capire ciò che nessun altro era riuscito prima, con i suoi pregiudizi teologici su come Dio deve essere, su come deve agire. Chi guardava da lontano non ha colto il senso della scena, ma chi ha visto Gesù a breve distanza non è riuscito a sottrarsi all’impressione che Dio fosse in quell’uomo, anche se tutto, apparentemente, diceva il contrario. Perciò questi uomini sono preparati e quando qualche segno esterno scuote la loro fantasia e anche il loro forte senso della divinità, il passo è fatto: veramente quest’uomo era qualcuno, era veramente un amato da Dio. Qui, credo, dobbiamo chiedere al Signore di non riflettere su di lui soltanto da lontano: chi sei, perché ti sei comportato così, era proprio necessario, perché anche noi dobbiamo fare così? Chiediamo a lui di andargli invece vicino come hanno fatto questi soldati, loro malgrado, così che tutte le ricerche mentali si dissolvano al contatto con la verità di Dio. Se abbiamo il coraggio di fare questo passo, di superare il cerchio della gente che, da lontano, grida senza capire, e cerchiamo di parlargli, di entrare in ciò che sta succedendo in lui, allora ci sarà anche per noi questa rivelazione e si spezzerà il velo del tempio, che è l’antica conoscenza di Dio: il Dio grande, il Dio potente, che vince il nemico, che schiaccia l’avversario. Questo Dio misterioso che un velo copriva, conservandone insieme

l’intangibilità, l’alterità assoluta, l’inaccessibilità, che ora, invece, in Gesù Cristo fattosi debole, povero, vulnerabile, può entrare nel cuore di ogni uomo e diventare esperienza di ciascuno. Esperienza sia di Cristo, come dicevamo, sia di tutte quelle sofferenze umane di cui abbiamo paura, che stiamo a guardare da lontano, da cui ci difendiamo con parole convenzionali e alle quali avremo finalmente il coraggio di avvicinarci fino in fondo, anche se apparentemente ci sembrano amare, incomprensibili, assurde. Chiediamo al Signore che ci aiuti a metterci con i soldati sotto la croce e chiediamolo anche per intercessione della Madonna, con le parole con cui la Chiesa ci fa chiedere di essere posti vicino al Crocifisso: Santa Madre, deh, voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore…

XII. VARIE ESPERIENZE DEL RISORTO In questa e nella prossima riflessione trarremo spunto per le nostre meditazioni dal testo degli Esercizi di sant’Ignazio, quarta settimana58: [219]: “Come Cristo Nostro Signore appare allaMadonna” (tema di Maria). [221]: “Quale grazia chiedere”59. [223]: “Quali spunti considerare”. [224]: “Come Cristo esercita nel mondo l’ufficio di Consolatore, paragonato al modo con cui gli amici sogliono consolarsi a vicenda” (tema di ciò che Cristo fa per il mondo nel ruolo di Consolatore e tema dell’amicizia: come gli amici consolano altri amici). Penso dovremo chiarire ciò che la Chiesa intende per “ruolo di Consolatore”, cioè dello Spirito Santo, che il Cristo risorto invia e di cui sant’Ignazio non parla direttamente, lasciando tuttavia che noi vediamo dietro alle cose, come vede chiunque ha un senso di Chiesa. Partendo da queste indicazioni possiamo fare una breve preghiera prima di passare alla meditazione. Gesù, Signore risorto, Tu che sei sempre con noi e sei ora tra noi con la tua potenza, ti preghiamo di farci sentire, attraverso il dono dello Spirito, l’effetto della tua consolazione e di sperimentare anche solo un poco la tua

amicizia. Ti chiediamo di unirci alla tua Madre nell’accoglierti nella gioia della tua risurrezione, di comprendere che cosa questa significhi per il mondo, per i morti e per i vivi, per tutta la nostra esperienza umana, per tutto ciò che c’è dentro di noi e fuori di noi. Donaci, o Signore, questa esperienza gratuita, dono tuo, non frutto di ricerca nostra, ma di accettazione della tua bontà. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. Difficoltà a meditare sul mistero pasquale Continuiamo le nostre meditazioni sul mistero pasquale. A mano a mano che avanziamo in queste riflessioni, sentiamo crescere la difficoltà, perché entriamo in cose di cui abbiamo poca esperienza e di cui quindi è difficile parlare. Uno dei motivi mi pare questo: in realtà, noi siamo ancora dentro il mistero pasquale, che si sta compiendo. È vero, Cristo è risorto per sé, ma noi ne cogliamo gli effetti solo gradualmente nella nostra vita. Sarà soltanto nel momento della manifestazione finale del Cristo totale che noi coglieremo il mistero pasquale nella sua pienezza; allora potremo parlarne, prima non possiamo, se non riferendoci a quegli effetti di cui parla sant’Ignazio nel quarto punto della quarta settimana: “Ci sono dei veri e meravigliosi effetti di questa resurrezione” [223]. A mano a mano che nella nostra esperienza appaiono questi effetti, possiamo cercare di oggettivarli e di manifestarli; ma quanto al mistero della resurrezione come tale né ci viene descritto mai dalla Scrittura, né possiamo avere dello stesso esperienza completa, perché il mondo è ancora in via di risorgere e noi stessi, nella nostra esperienza, stiamo passando dalla morte alla vita. Possiamo parlare di vita in quanto abbiamo già sperimentato alcuni effetti di vita del battesimo, ma non ancora di resurrezione definitiva, fino a che tutto il nostro corpo non sia trasformato nella “libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21). Ora, questo noi lo aspettiamo e per questo non possiamo descrivere ciò che è ancora oggetto di speranza e non di esperienza. Paolo dice appunto che “le sofferenze del momento presente” (e ne possiamo parlare perché in fondo costituiscono la nostra esperienza attuale) “non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18). Questo è il mistero pasquale nella sua attuazione definitiva, attesa con

impazienza: “Gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli” (Rm 8,23). Addirittura l’adozione, che di per sé riceviamo già nel battesimo, qui è vista come futura, cioè nei suoi effetti definitivi e trasformanti. Aspettiamo la redenzione del nostro corpo, per cui parliamo della resurrezione come si parla della mèta del viaggio stando in treno. Siamo dunque in una resurrezione in divenire; si sta dipanando il mondo nuovo, la vita sta entrando nella morte, ma con ambiguità e con rigurgiti di morte sulla vita: ecco la nostra esperienza. La stessa Scrittura non pretende di più quando negli ultimi capitoli dei Vangeli non si attarda in descrizioni grandiose del Risorto, ma ci presenta scene molto semplici e modeste di alcune apparizioni di Cristo risorto. Soltanto Matteo, verso la fine del suo Vangelo, descrive quella scena un po’ più solenne che abbiamo già meditato agli inizi degli esercizi, in cui però, come avete notato, mette il segno dell’ambiguità, perché dice “alcuni dubitavano”. Questo mi sembra uno dei motivi della difficoltà che troviamo e che io provo a riflettere sul mistero pasquale. Diversi modi di porsi di fronte al mistero pasquale Suggerisco una proposta: cercare di entrare anche ora nella resurrezione, attraverso l’esperienza ora embrionale, ora ambigua, ora negativa, ora positiva di coloro che l’hanno fatta, immedesimandoci nella situazione di quelle persone che l’hanno sperimentata. Ho pensato perciò di proporvi, leggendo gli ultimi capitoli di Matteo, tre tipi di persone che fanno in qualche maniera l’esperienza del mistero pasquale nella sua complessità, fermandomi soprattutto sull’ultima categoria di persone. In Matteo troviamo un gruppo di persone che di fronte al mistero pasquale sono presenti dall’esterno, quasi come ammiratori; altri che sono presenti con timore e altri, ancora, con amore. Alcuni onorano in Gesù che è morto un grande uomo da rimpiangere, un uomo che merita affetto, stima, ma da lontano, un uomo che ha lasciato un solco e basta; altri invece lo temono, altri lo amano e si lasciano guidare da questo amore. Nel racconto della sepoltura di Gesù, Matteo ci presenta i due protagonisti, Giuseppe di Arimatea e Pilato, in un atteggiamento di nobiltà e di una qual certa coerenza (27,57-61). È interessante questo Giuseppe di Arimatea che appare per la prima volta

qui nel Vangelo. Dice il testo greco: “Giunta la sera, venne un uomo ricco da Arimatea”. Sembra addirittura, in Matteo, che sia venuto da lì, forse a cavallo, non che sia originario di Arimatea: probabilmente Matteo vuol sottolineare che era estraneo alla morte di Cristo, ma tuttavia si era commosso per questa morte. Giuseppe era un vero discepolo, pur non essendo dei Dodici, e forse ci stupisce questa insistenza sul fatto che fosse ricco. Matteo invece lo sottolinea, forse per correggere un po’ l’impressione data dalle parole di Gesù e da lui riferite: “Com’è difficile che un ricco entri nel Regno”. Quest’uomo arriva tardi, quando ormai non può fare più niente per salvare Gesù, se non rendere onore alla salma, ed essendo un uomo ricco, influente, può direttamente avere accesso a Pilato, chiedergli il corpo e ottenerlo. Quindi lo vediamo compiere l’opera di misericordia del seppellimento di Gesù, il quale viene descritto in maniera molto semplice. Ci troviamo, dunque, di fronte a due uomini, Pilato e Giuseppe, che rappresentano in fondo già un primo effetto del mistero pasquale. Giuseppe compie effettivamente un atto di coraggio, perché sapeva benissimo che non poteva essere gradito al sinedrio questo suo rendere onore alla salma di Gesù; lo stesso Pilato, che dà il corpo, sapeva che non era obbligato a darlo e che quel gesto lo avrebbe compromesso. In questi fatti mi pare di cogliere già un primo effetto della morte del Signore, che anche da lontano comincia ad agire, ad aprire un po’ il cuore, a suscitare un coraggio postumo sia in Pilato, sia in Giuseppe. Giuseppe è giunto tardi: forse non poteva, forse ha temuto di buttarsi nella mischia; in ogni caso c’è già qui un primo effetto della morte del Signore. Tuttavia queste persone partecipano solo dall’esterno, quasi con ammirazione, al mistero pasquale: Giuseppe che pure è discepolo, che aspettava il Regno di Dio, sembra compiere quest’atto con deferenza, con rispetto, ma onora Gesù come un grande profeta e niente più. Anche Pilato, che concede il corpo, certo compie un atto buono, di rispetto e basta. Un secondo gruppo di persone, rappresentato qui da quei sacerdoti che Matteo descrive subito dopo (cfr. 27,62-66), di fronte al mistero pasquale si pone con cautela, a distanza, come preso dal timore che un fatto nuovo li spinga ad ammettere che Cristo è veramente risorto. Anche questo è un effetto del mistero pasquale: l’inquietudine della coscienza di chi non lo vuole accettare. Gesù, come si vede, opera in silenzio, la sua morte comincia ad agire e lui, morto, suscita stranamente e

irragionevolmente più paura adesso di prima. Si tratta, tuttavia, di una morte colta ancora da lontano, con occhi umani, con un atteggiamento non privo di superstizione e di difesa. Solo le donne, che andranno al sepolcro per onorare Gesù, sono capaci di cogliere gradualmente il significato delle cose che stanno avvenendo e che sono avvenute. A questo punto vorrei allargare il campo della nostra riflessione oltre alle prime due categorie, rappresentate da Giuseppe di Arimatea e Pilato e dai sommi sacerdoti, che ci sono servite in un certo senso come preparazione per vedere in quali diversi modi ci si può collocare di fronte al mistero pasquale. Uno dei modi più comuni è cercare di difendersi da esso, di assumere solo gli aspetti esteriori, direi quasi folkloristici, o di coglierne solo qualche aspetto superficiale, senza lasciarsi trasformare completamente. Le “tre Marie”: partecipazione affettiva Le donne del Vangelo, invece, sono guidate dalla consolazione del Signore a entrare davvero nel mistero ed è quindi il loro atteggiamento che dobbiamo attentamente considerare. Occorre però allargare il quadro, non fermarsi semplicemente al momento in cui le donne vanno al sepolcro, ma considerare gli antefatti del mistero pasquale, sia remoti sia prossimi, in quanto queste donne vi hanno preso parte. Intendo interrogarmi e interrogare voi sul significato della partecipazione affettiva della Chiesa alla risurrezione del Signore e al mistero pasquale, tipizzata dalle “tre Marie”, ma che riguarda chiaramente ogni persona che vuole entrare nel loro modo di agire e che non si oppone, ma si integra con la partecipazione organizzativa della Chiesa al mistero del Signore, simbolizzata da Pietro. Abbiamo qui le due componenti della situazione ecclesiale: la componente di efficienza, di organizzazione, di lavoro apostolico da portare avanti, che si esprime in Pietro, e la partecipazione affettiva della Chiesa all’opera del Signore nell’amore, nella preghiera, nella dedizione, nella scoperta delle realtà interiori, simboleggiata da queste “tre Marie”. Non che si voglia qui trarre alcuna conclusione sulla diversa funzione dell’uomo e della donna nella Chiesa; anche l’uomo infatti è chiamato a partecipare alla scoperta affettiva del mistero pasquale, come la donna

all’opera organizzativa. Si tratta piuttosto di una visione simbolica della Chiesa, nelle sue varie componenti. Anche questa visione la debbo a Urs von Balthasar, che esamina il perché oggi ci sia tanta animosità nella Chiesa e fa uno studio molto interessante, teologico, spirituale, su questi temi. Lo stesso autore, trattando il tema del principio mariano nella Chiesa60, dice che la nostra Chiesa postconciliare sta diventando in certe regioni una Chiesa litigante, perché abbiamo lasciato troppo emergere il principio petrino dell’efficienza e dell’organizzazione, mentre abbiamo fatto tacere il principio mariano dell’affettività, della comprensione, dell’amicizia. Senza l’equilibrio di questi due princìpi la Chiesa soffre. Non per niente dobbiamo dire che anche la devozione mariana sembra sia andata perdendosi nella Chiesa, almeno come manifestazione esteriore. Von Balthasar vedeva in questo una delle possibili cause dell’animosità, dell’irritabilità nella Chiesa, della incapacità a prendere le cose con calma, con pace, con serenità. La meditazione tocca quindi elementi ecclesiali che mi sembrano abbastanza importanti per l’equilibrio della Chiesa, di ogni gruppo di Chiesa, e anche per l’equilibrio della persona singola nella Chiesa. Chi sono queste “tre Marie”? Evidentemente la prima è Maria di Nazareth, la madre di Gesù che è per eccellenza il prototipo della partecipazione affettiva dell’umanità all’opera di redenzione che culmina nel mistero pasquale. Questo è il punto di partenza. Maria a Nazareth non è soltanto se stessa, ma rappresenta la partecipazione cordiale di accettazione, di fede e di amore dell’umanità all’opera di Dio, ed è quindi l’inizio del mistero pasquale nel cuore dell’uomo. Con il sì di Maria di Nazareth si congiungono altri due “sì”, di altre due Marie che curiosamente hanno lo stesso nome: in una valutazione che tenga conto del significato simbolico dei Vangeli, non si può del tutto trascurare questo aspetto. Sembra che queste due Marie prolunghino la prima; quindi, al “sì” di Maria di Nazareth, da me richiamato, si collega, prolungandolo, il “sì” di Maria di Betania, nell’unzione di Gesù prima della passione, e il “sì” di Maria di Magdala. Tutti gli esegeti riconoscono che nell’attuale forma del Vangelo di Matteo e anche negli altri, il racconto della passione comincia con l’unzione a Betania, che è già parte del mistero pasquale. Tale mistero inizia, ha la sua prima manifestazione, nell’apparizione di Gesù a Maria di Magdala e all’altra

Maria, secondo Matteo. Più chiaramente si potrebbe meditare con l’apparizione di Maria di Magdala in Gv 20,14 ss., che approfondisce il tema; ma anche nei due versetti di Mt 28,9-10, possiamo vedere un collegamento tra l’inizio della passione e il completamento, le prime manifestazioni storiche del mistero pasquale. Riflettiamo sull’episodio di Maria di Betania, in 26,6-13, direttamente collegato alla passione, anche per il fatto che, a partire da esso, Giuda prende la decisione definitiva di tradire Gesù. Conosciamo l’episodio: Gesù è in casa di Simone il lebbroso, a Betania; gli si avvicina una donna con un vaso di alabastro, contenente un olio profumato molto prezioso, e glielo versa sul capo mentre sta a mensa. I discepoli, vedendo ciò, si sdegnarono e dissero: “Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri”. Ma Gesù, accortosene, disse loro: “Perché infastidite questa donna? Essa ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi. Me invece non sempre mi avete. Versando quest’olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità vi dico, dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto in ricordo di lei”.

Fino a oggi mi son sempre domandato come mai tanta enfasi in questo episodio. Addirittura “dovunque sarà predicato questo Vangelo”: perché questa forte sottolineatura? Non senza motivo l’evangelista dice di questo episodio qualcosa che non ha detto di nessun altro, se non di Maria madre di Gesù. Quindi esiste un’evidente analogia col Magnificat che ci richiama al “sì” di Maria di Nazareth. Forse possiamo capire meglio tale analogia sullo sfondo degli altri personaggi di questo racconto: uno è Giuda, l’altro non è nominato se non per omonimia col capo di casa, Simone, ma in realtà noi possiamo già intendere che è Pietro. Abbiamo già meditato a lungo sull’atteggiamento di Pietro rispetto alla passione di Gesù: egli non vuole che Gesù muoia per lui, morirà lui piuttosto, ma non Gesù. Quindi vorrebbe trattenerlo, non vorrebbe che Gesù facesse qualcosa per lui, ma vorrebbe essere lui a fare qualcosa per il Signore. Questo risuona anche nelle parole che dice a Gesù quando gli lava i piedi: “Non mi laverai i piedi in eterno”, non compirai verso di me questo servizio di cui ti possa ringraziare. Pietro vuol trattenere Gesù perché spinto dalla sua ansia efficientistica, organizzativa. Il Signore deve starsene indietro, non ammette che possa fare qualcosa per lui, morire per lui e quindi non ha l’atteggiamento giusto verso la passione del Signore.

Qual è la logica di Giuda? Giuda fa il contrario e, come si vedrà nel v. 14, alla fine dell’episodio, vuol spingere Gesù alla passione. Perché? Prendiamo Giuda, non entrato ancora nella risoluzione finale che, come dicevamo, nasce forse da un sentimento di rivalsa. Giuda è certo tra coloro che maggiormente insistono nella critica: “Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri”. Non so se anche a voi sia mai capitato di trovarvi d’accordo con lui: in fondo non si poteva prendere un unguento di minor prezzo e fare una bella offerta ai poveri? Quanti di noi non hanno segretamente pensato questo? Quindi anche noi non riusciamo a capire che cosa sta succedendo. In fondo diciamo: i poveri sono importanti e Gesù stesso ha detto pochi versetti prima: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”, e “ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli non l’avete fatto a me”. Quindi Giuda potrebbe dire: “Signore, ti prendo in parola, queste centomila lire si potevano dare ai poveri e non sono state date, quindi è inutile anche che si diano a te”. Quante volte anche noi abbiamo pensato questo? Tutto è spreco, quindi vendiamo tutto, anzi vendiamo anche il tempo della preghiera, perché mentre prego non assisto un malato, mentre prego c’è uno che ha bisogno di me. Ecco la logica definitiva: se vale soltanto il servizio diretto del prossimo, come ha detto Gesù, allora ha ragione Giuda. Vediamo che in questo episodio si gioca qualcosa di molto importante: l’atteggiamento dell’uomo verso la Redenzione di Gesù. Difatti la risposta di Gesù è ampia: “Perché infastidite questa donna?” Come formula è abbastanza forte e, per analogia, mi ha colpito soprattutto Paolo (Gal 6,17) quando, dopo aver disputato per tutta la lettera contro quelli che volevano le osservanze giudaiche, dice: “Per il resto nessuno più mi dia noia, lasciatemi in pace. Io porto nel mio corpo le stigmate di Gesù” (Gal 6,17), cioè io ho la certezza di essere con Cristo, nella pienezza della verità. Anche Gesù mi pare dica qualcosa di analogo: questa donna è nel giusto, è l’unica che ha capito ed è assurdo volerla disturbare. Perché ha capito? Gesù continua: “Essa ha compiuto una azione buona verso di me”. I giudei parlavano spesso di azioni buone, che erano appunto le opere di misericordia e Gesù sembra dire: anch’io sono qualcuno, anch’io sono l’oggetto del vostro amore, della vostra misericordia, quindi logicamente non dovrete negare qualcosa a me col pretesto di darlo a un altro; anch’io sono una persona di fronte a voi, che può avere bisogno di voi. Possiamo intuire questo significato: questa donna ha fatto bene, mi ha reso onore e questo è giusto;

nessuno può dire che ciò sia perdere tempo o sprecare denaro. Poi Gesù continua con una frase che, come sappiamo, ha subìto delle mistificazioni terribili; è una frase che ha fatto tanto male alla Chiesa e ai poveri: “I poveri, infatti, li avete sempre con voi”. Come sappiamo, questa frase è stata usata per dire che, in fondo, i poveri ci sono sempre; i poveri non possono venire meno. Gesù, pronunciando questa frase, ha rischiato dei fraintendimenti terribili. Ma se l’ha fatto, vuol dire che aveva qualcosa di importante da dirci: “I poveri, infatti, li avete sempre con voi; me, invece, non sempre mi avete”. Su che cosa ci fa riflettere Gesù? Mi sembra che, se leggiamo questa frase alla luce delle parole da lui precedentemente pronunciate – “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me…” – ne ricaviamo il senso che mi pare abbiamo cercato di approfondire in tutte queste meditazioni: ciò che fate a loro, lo fate a me, ma ciò che fate a me lo fate a loro. Cioè non crediate di poter diventare Chiesa di efficienza, la quale organizza, sì, la beneficienza, ma senza essere Chiesa di amore. Se queste due cose non vanno insieme e a un certo momento si separano l’una dall’altra, la Chiesa diventa opera sociale come le altre; una grande organizzazione nella quale poi ci si chiede perché conservare quel residuo di preghiera e non darle invece un significato secolare; perché leggere il Vangelo e non piuttosto un’opera di sociologia, tanto il significato è lo stesso. Mi pare che qui Gesù, chiaramente, fortemente, ci fa capire questo inscindibile legame che Pietro e Giuda soprattutto tentano di rompere: quando non ci sarò più avrete sempre i poveri, ci sarà sempre un fratello vostro, aiutando il quale aiuterete me, ma quando aiutate me aiutate gli altri. Qui siamo, però, solo alla soglia del mistero, perché Gesù aggiunge ancora una frase: “Versando quest’olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della mia sepoltura”. Maria di Betania rappresenta, mi sembra, il “sì” dell’umanità alla morte di Gesù. Non è Pietro che dice a Gesù: “Tu non farai questo”, ma è l’umanità che dice a Gesù: “Ti ringrazio, o Signore, ti lodo e ti onoro per l’amore con il quale darai la vita per noi”. È la partecipazione dell’umanità alla morte del Signore. Partecipazione che è passiva, è umiliante, se volete, per chi desidera essere sempre al primo posto. Umiliante per Pietro e per Giuda, umiliante per tutti noi, che vorremmo sempre fare qualcosa per il Signore, ma a cui il Signore dice in realtà: voi credete di fare qualcosa per me, ma se aveste il cuore illuminato dall’amore come questa donna, capireste che sono io che sto facendo qualcosa per voi. Questa donna

sta accettando il mio amore di salvatore: è l’unica che ha capito il Vangelo. Il Vangelo è l’amore di salvezza, è per questo che sarà predicato. La buona novella appare quindi, qui, in una persona che è riuscita a capire che il Vangelo non è gloriarsi di far qualche cosa per il Signore, ma ringraziare perché il Signore fa qualcosa per noi poveri. I primi poveri da aiutare siamo noi. Questa donna, dunque, è il simbolo dell’umanità che si è lasciata amare da Gesù nella sua passione. È il simbolo della realtà di Maria: questa donna compie in maniera “intuitiva” questo gesto, ma chi lo compie “pienamente” – lo sappiamo da Giovanni – è Maria, la quale come madre accetta l’assurdo che suo figlio soffra per lei. Una madre vorrebbe accettare qualunque sofferenza per il figlio, non viceversa; invece, siccome questa madre non possiede Gesù, ma ne è posseduta come umanità e come Chiesa, allora attraverso un cammino doloroso di fede, un lungo cammino che Giovanni e Luca ci descrivono, giunge al Calvario disposta a lasciarsi salvare dalle sofferenze del Figlio. È lei che dice il suo “sì”, non un “sì” per fare qualcosa, ma un “sì” per lasciar fare, che è la cosa più terribile che lei, come Madre, possa accettare. Vorrebbe fare qualunque cosa, invece il sì del lasciar fare è proprio la spada che trafigge il suo cuore ed è contemporaneamente il sì dell’umanità che, mettendo sotto i piedi l’orgoglio della propria salvezza, dice: Signore, ti ringrazio perché sei più buono di noi, perché sei venuto in aiuto di noi poveri. Qui, meditando, ciascuno potrebbe dire: dove sono? Sono con Simone, preoccupato di trattenere Gesù? Con Giuda, preoccupato di qualche iniziativa che deve andare avanti a ogni costo? Oppure dico con Maria di Betania e con Maria di Nazareth: “Fai tu, Signore, grazie”? Dico: “Signore, lascia fare a me” o “Signore, ti ringrazio perché fai Tu”? Meditiamo ora sul terzo “sì”, quello di Maria di Magdala, e di un’altra donna collegata dallo stesso nome sul quale insiste Matteo: “Maria di Magdala e l’altra Maria”. È il “sì” dell’umanità alla gloria di Gesù e al modo speciale di questa gloria (28,9-10). Matteo sottolinea che Gesù si presenta, quasi che ci voglia far notare come non è capace di aspettare. Egli aveva fatto dire loro: “Andate ad annunziare ai miei fratelli che vadano in Galilea e là mi vedranno”. Ma poi rompe l’indugio, lui stesso si presenta, cioè si muove incontro, un po’ come il padre della parabola del figliol prodigo che non sa aspettare, ma deve correre incontro. A questo punto leggiamo ciò che sant’Ignazio ci fa meditare; Gesù vuol

consolarci più di quanto noi siamo capaci di desiderare [224]. Egli prende quindi l’iniziativa della consolazione e si presenta a queste donne, che rappresentano precisamente la ricerca affettuosa del Signore nella Chiesa. Sono esse le prime persone capaci di ricevere Gesù, di vederlo, di capirlo. Gesù dice loro la parola stessa dell’angelo a Maria di Nazareth: “Vi saluto”, che in realtà è l’Ave. Se alcuni esegeti oggi propongono di tradurre il saluto dell’angelo a Maria non semplicemente come un “salve”, un “ti saluto”, ma come un “rallegrati”, qui ancora di più possiamo leggere “rallegratevi, porto a voi l’opera di salvezza”. E le donne, dice Matteo, “avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono”. L’atto del cingere i piedi penso rappresenti un’espressione ancora incoativa di questa fede affettuosa, ma timorosa di perdere Gesù. Se noi possiamo sorridere di fronte a questa espressione di affetto, credo che però dobbiamo riflettere quante volte anche noi sperimentiamo lo stesso atteggiamento. Vuol dire che, come queste donne, non abbiamo ancora detto completamente il nostro “sì” alla resurrezione di Gesù: abbiamo detto il “sì” all’incarnazione, alla morte forse, abbiamo anche lasciato che Gesù agisse nella nostra vita, ma poi temiamo sempre che il Signore, a un certo punto, ci sfugga, che ci mancheranno la preghiera, la fede, la speranza. Cioè non abbiamo ancora accettato che Gesù è veramente risorto, per sempre, nella potenza dello Spirito, e che quindi è sempre con noi, tutti i giorni. Allora dobbiamo riceverlo con fiducia, con affetto, ma lasciando a lui la preoccupazione di consolarci, di farsi presente a noi. Come ci è stato dato attraverso Maria di Nazareth e Maria di Betania di lasciarci salvare da lui, buttando in lui i nostri peccati, le nostre debolezze, la nostra povertà, la nostra incapacità ad amare il prossimo, ad avere relazioni giuste, così dobbiamo accettare che lui, risorto, giorno per giorno ci terrà in sé, nelle sue braccia, e ogni giorno ci darà lo Spirito, il pane quotidiano necessario per fare il cammino del Regno di quel giorno. Che cosa significa accettare la resurrezione del Signore Questo è accettare la resurrezione del Signore: è accettare che Cristo non è più come prima, capace di scomparire, di lasciare i suoi. La Chiesa deve abituarsi alla nuova presenza di Gesù, gloriosa e spirituale. Queste donne

sono chiamate con la Chiesa a dire: “Sì, Signore, abbiamo fiducia in te, siamo portati da te, oggi come domani, quindi non temiamo per il futuro. Il domani avrà il suo affanno, ma già sperimentiamo, o Signore, la grazia dell’oggi che, essendo grazia del Risorto che non muore mai, è certezza per il domani”. Le parole: “Non temete” che Gesù dice loro, io le interpreto alla luce di quelle: “Si impadronirono dei suoi piedi”. Non temete, sono sempre con voi, andate tranquillamente, annunciate ai fratelli che vadano in Galilea, là mi vedranno; cioè compite l’opera della Chiesa, l’opera dell’annuncio ai fratelli, fate che questo annuncio vada avanti, io sarò con voi, mi vedrete al momento opportuno, sarò con voi sempre e mi presenterò ogni volta al momento giusto. E le donne, correndo via ad annunciare agli apostoli, come si suppone, pronunciano il “sì” della Chiesa a questo nuovo aspetto della presenza di Gesù. Chiediamoci fino a che punto accettiamo nella nostra vita queste manifestazioni discrete, delicate, del Signore risorto. Come vedete non sono cose strabilianti, Gesù non rovescia i cieli, non abbatte le mura di Gerusalemme, ma tocca qua e là i cuori di gente un po’ indifferente o lontana, come Pilato, Giuseppe e altri che sono stati un po’ mossi; spaventa gli avversari, ma soprattutto si rivela agli amici, si rivela “a coloro che lo cercano con affetto sincero”. Potremmo dire, riassumendo, che Gesù manifesta se stesso gradualmente ai suoi nella Chiesa, per la gioia dei suoi amici, rinnovandoli, ripresentando definitivamente l’offerta del suo perdono, della sua amicizia, della sua riabilitazione, della certezza di poter far Chiesa con lui. Con queste Marie e soprattutto con la Madre del Signore possiamo adorarlo e ringraziarlo per questa sua presenza nella nostra vita. Noi ti ringraziamo perché ti manifesti alla tua Chiesa. Ti sei manifestato a tua madre Maria, a Maria di Magdala, all’altra Maria e poi a Pietro, ai Dodici; ti manifesti a noi, nella nostra vita, nella Chiesa, nelle esperienze che facciamo, nella preghiera, nei sacramenti. Ti chiediamo, o Signore, che siamo capaci di dire il nostro “sì” anche a questo tuo nuovo modo di presenza. Non è ancora la presenza della parusia, la presenza della gloria della libertà del nostro corpo, della libertà della gloria dei figli di Dio, ma è la tua presenza certa, che ci vivifica, che ci è sufficiente.

Ti ringraziamo, o Signore, per questo pane quotidiano della tua presenza, che ci dai nell’Eucaristia e in tutte le esperienze di Chiesa. Ti chiediamo, per l’intercessione di tua Madre, di aprire gli occhi a queste esperienze di vita risorta, di non intestardirci a voler qualcosa di diverso, di riconoscere con gioia che tu sei già con noi e in noi. Fa’, Signore, che nelle ambiguità delle nostre esperienze sappiamo mettere il dito e l’occhio là dove tu ti manifesti a noi nella tua verità. Trasformaci, Signore, in questa verità e fa’ che ti ricerchiamo con amore, con affetto, con semplicità di amicizia, con umiltà e con dedizione. Tu che vivi e regni risorto e glorioso per tutti i secoli dei secoli. Amen.

XIII. VECCHIO E NUOVO MODO DI VEDERE LE COSE Urs von Balthasar, in Mysterium Salutis, più volte citato, dice a un certo punto, a proposito della via al Padre per Gesù: “Tutto ciò che riguarda la risurrezione di Gesù, ciò che la risurrezione costituisce per lui, è senza analogie”. In una nota lo stesso von Balthasar cita autori recenti di tendenza sia protestante sia cattolica, i quali insistono tutti sullo stesso punto: “La risurrezione manca di ogni corrispondenza nella nostra storia”61. E ancora un autore cattolico, Kremer, dice che paragoni con altre risurrezioni dai morti “portano perciò fuori strada”62. Possiamo quindi pregare seguendo questa indicazione che ci vien data da tanti autori e teologi di fama. Noi siamo qui radunati, o Signore, davanti a te, con te, per tua grazia, perché tu ci hai chiamato qui, e desideriamo lasciarci invadere dalla novità della tua risurrezione. Noi sappiamo, Signore, che questo tuo mistero è senza analogie, non possiamo cioè avvicinarci a esso per paragoni, a partire dalle cose che conosciamo. Sei tu, Signore, che devi entrare in noi con la tua parola, con la tua verità, con la tua potenza, perché potremo sentirti direttamente solo se ne avremo fatto l’esperienza, non pretendendo di penetrarla a partire da ciò che sappiamo, da ciò che immaginiamo o da ciò che abbiamo già sperimentato, ma da ciò che tu, Signore, ci fai sperimentare ora, nella tua verità e nella fede. Donaci, Signore, di buttare via volentieri il vecchio vino e il vecchio recipiente, perché c’è un nuovo recipiente e un

nuovo vino che tu ci offri. Te lo chiediamo, o Signore Gesù Cristo, tu che vivi ora e per sempre, tu che nell’universo fai risplendere ogni giorno di più la tua risurrezione, fino al momento definitivo, nei secoli dei secoli. Amen. Ho pensato di proporvi qualche riflessione su alcuni aspetti della risurrezione del Signore partendo da 28,1-8, in un punto che non abbiamo ancora meditato: le donne al sepolcro. Congiungeremo la meditazione con un breve richiamo a quel misterioso versetto di cui abbiamo meditato solo una parte, cioè il velo del tempio spezzato in due (27,51-53). Matteo dice poi: “La terra tremò, le pietre si spezzarono, i monumenti si aprirono, molti corpi di santi sepolti risorsero e, usciti dai monumenti dopo la sua resurrezione, vennero nella santa città e apparvero a molti”. Chiediamo al Signore cosa vuol dirci con questo strano modo di parlare ispirato al suo evangelista; in un mistero che è senza analogie, egli ha cercato di esprimere, partendo dalla esperienza del Risorto che gli apostoli e la Chiesa primitiva hanno fatto, ciò che essi hanno sentito, con l’aiuto di qualche analogia. Vi propongo dunque di meditare su due punti che mi pare di poter leggere con voi in questi brani. Il primo è il decadere della visione chiusa del cosmo. Chiediamo al Signore che cosa ci porta la sua risurrezione, quale esperienza deve produrre in noi e come l’ha prodotta nella Chiesa primitiva. Il secondo è una nuova ricerca di Gesù. Darò poi alla fine qualche semplice indicazione su quella che negli esercizi solitamente si chiama “la riforma di vita” o i propositi, gli impegni che dagli esercizi portiamo con noi. Il decadere della visione “chiusa” del cosmo Cosa significa che la risurrezione di Gesù produce, nel fedele che la accoglie, il decadere della visione chiusa del cosmo? La risurrezione, abbiamo detto, è senza analogie, perché appartiene agli atti creativi del Padre: è l’opera creativa del Padre che va verso il compimento. Come non abbiamo analogie per la creazione perché, ricordando ciò che ci è stato insegnato, Dio fa dal nulla tutte le cose e noi non abbiamo alcuna esperienza di ciò, così anche la risurrezione è una novità assoluta nell’esperienza storica. Perciò gli autori citati giustamente dicono che non è da paragonarsi (e anzi un simile paragone potrebbe anche indurre in errore) con le risurrezioni operate

da Gesù durante la sua vita, anche se ci fanno intravedere qualcosa. La risurrezione di Gesù è nella linea degli atti creativi di Dio, cioè di quei gesti che hanno assoluta novità. In essa l’opera del Creatore giunge al suo compimento nel Cristo, in attesa di raggiungere la sua pienezza anche in ciascuno di noi. Nel cristiano che proclama nella fede che Cristo è risorto dai morti, che Cristo è Signore, che Cristo crocifisso vive, avviene, con ciò stesso, la rottura di una visione chiusa e pagana del mondo, nella quale tutti noi siamo nati e in realtà continuiamo a vivere. Malgrado gli sforzi che facciamo, non usciamo mai del tutto da una visione “ragionevole” del mondo, cui giunge ogni persona di esperienza, così come la filosofia nonché la scienza; una visione cui erano giunti anche i pagani che avevano una loro religiosità, un senso del divino molto alto, però lo vivevano in un mondo limitato, chiuso, nel quale in fondo nulla di nuovo succedeva. Questa visione non è meschina o banale, ha una sua grandezza, e noi abbiamo delle elevatezze di onestà intellettuale e morale proprio raggiunte in base a essa. La più celebre è lo stoicismo: l’uomo che nella sua saggezza si adatta al ritmo del mondo e, attraverso l’esercizio di un’ascetica rigorosa, si astiene dalle cose che sono indegne di lui, sopportando le sofferenze, i dolori, la morte, vivendo nobilmente questa realtà chiusa dell’esistenza, in quanto può. Tale realtà, che nello stoicismo ha prodotto un sistema di virtù e di valori costituenti l’adattamento a questa visione ciclica del mondo, anche nella scienza si è espressa con la fisica classica, con la speranza di poter determinare tutte le cose future attraverso le presenti. Gli studiosi ci dicono che l’ideale della fisica classica, così come si è sviluppata soprattutto fino al secolo scorso, si può esprimere con una frase detta non ricordo più da quale grande fisico, secondo il quale se noi, in fondo, potessimo conoscere in questo momento la situazione di tutte le molecole, di tutti gli atomi del mondo, avremmo in mano la situazione di ogni istante seguente, proprio perché è un “sistema chiuso”, di cui, una volta conosciute le forze che lo regolano, possiamo conoscere anche il proseguimento63. Di fronte a una simile visione c’è una saggezza che è quella di adattarsi, di entrare in questo ritmo; saggezza che ancora oggi ha un suo fascino. Per esempio, in un certo misticismo ecologico di giovani che vorrebbero

diventare vita nella natura con le cose, risuona ancora questa visuale, in parte di matrice stoica, epicurea e di tutte le filosofie chiuse, le quali trovano in fondo una nobiltà nell’adattarsi al ritmo del mondo e della natura. Questo ideale piace, perché ha una sua bellezza e una sua grandezza. Per noi non è facile accettare di uscire da questa visione; essa è talmente radicata nella nostra ragionevolezza che, anche se a parole accettiamo l’esistenza del “nuovo”, in realtà siamo sempre condotti ad agire come se tutto fosse coinvolto nel ritmo consueto. Preferiamo il vino vecchio perché ne conosciamo il sapore e fino a che punto possiamo berne: abbiamo imparato un certo rapporto di misura, per cui non ci fa scherzi, non ci riserva spiacevoli sorprese. Così, in un mondo sottomesso, anche se in maniera embrionale e inconscia, alla nostra ragionevolezza, noi ci possiamo adattare. Se riusciamo, come gli stoici, a inserire in questa visione anche la nostra sofferenza e la nostra morte, giungiamo a quella imperturbabilità, a quella serenità che ha in sé del valore certo. Soprattutto dinanzi agli occhi degli uomini ha una sua grandezza, perché ci permette di passare con eleganza in mezzo alle cose, di sfruttare al massimo le nostre forze anche psicologiche e morali, perché parte da un senso del distacco, dell’abbandono, quindi porta alle migliori realizzazioni umane. Non dobbiamo perciò per nulla disprezzare questa realtà, né giudicarla meschina o puerile, anche perché ci stiamo dentro e la stimiamo molto. Con la risurrezione di Gesù la novità di Dio, l’imprevedibile di Dio entra nella storia, attraverso la non conoscenza delle forze che uniscono atomi, molecole, corpi. Matteo dice qualcosa di questo genere, in un linguaggio immaginoso e apparentemente strano: “La terra si scosse, le rocce si spezzarono…” Tutte cose che chiudevano ermeticamente l’uomo nella sua esperienza, come una volta di pietra sotto la quale si è prigionieri ma in fondo anche sereni, perché si sa che niente potrà toglierci questa tranquillità raggiunta. Tutto questo viene spezzato in due, cioè aperto all’esperienza di qualcosa di nuovo e di imprevedibile. Basta però un bucherellino per far crollare tutto: un immenso pallone si sgonfia soltanto con la punta di uno spillo. Quindi non c’è bisogno che il Signore nella sua risurrezione faccia un segno cosmico che avvolga tutto l’universo, ma, incrinando questa apparentemente impenetrabile superficie, di cui era ricoperta l’esperienza umana, ci fa vedere che il nuovo

c’è, il nuovo si introduce in questa esperienza. Non so se qui si può stabilire un’analogia, una pura analogia, ma non priva di significato in quanto capace di farci riflettere. Oggi la scienza fisica, come mi sembra di capire da ciò che si dice o si scrive, ha anch’essa abbandonato questo concetto di prevedibilità: riconosce che non può capire quale sia il domani di un’interazione di forze che essa tenta oggi di definire; la scienza fisica ha scoperto l’impossibilità di definire la prevedibilità di un sistema. Sebbene questa sia una pura analogia, in quanto non ha niente a che vedere con la risurrezione, mostra però che la visione del mondo in cui tutto, a un certo punto, col progresso delle scienze, avrebbe potuto essere predisposto, è stata sconfessata dallo stesso progresso scientifico. La scienza più precisa e più rigorosa, che vorrebbe essere la fisica, è diventata la scienza delle ipotesi, dei modelli costruttivi che significano qualche cosa per la fantasia, ma che poi vanno continuamente modificati sulle modificazioni. Questo già ci fa vedere come la sicurezza stoica dell’uomo antico non era neppure fondata su una percezione reale della vita. Passando all’altra analogia, ci si accorge che, in fondo, questa sicurezza stoica dell’uomo antico non teneva conto del fatto che c’è un “continuo nuovo” nell’esperienza, dato dalla libertà, dalla imprevedibilità della reazione altrui, e questa è una novità continua con la quale non possiamo fare calcoli. Anzi, come ci spiega oggi la psicologia moderna, attraverso lo studio del profondo e della psicanalisi, c’è anche l’imprevedibilità delle nostre stesse emozioni che non possiamo prevedere a partire dalla conoscenza di noi che abbiamo al presente, conoscenza che è praticamente, se non teoricamente, impossibile. Quindi il fatto dell’introduzione di una novità, che il Risorto compie nel mondo, ha come prima conseguenza, anche se collaterale, di farci riflettere che la sicurezza di poter dominare gli eventi propri e altrui, sia fisici che morali, era in fondo fallace. L’uomo si illudeva di essere padrone della propria coscienza, della propria moralità, della propria virtù, della propria atarassia, ma in realtà non lo era. C’è un libro della Bibbia che sembrerebbe dar ragione alla concezione stoica della realtà e alla diffidenza innata che abbiamo verso la possibilità di un vero “nuovo” nel mondo, il libro dell’Ecclesiaste64. Sarebbe interessante leggerlo e vedere quali risonanze esso abbia in noi. In me ha sempre suscitato un grande entusiasmo, è il libro che ho amato maggiormente e mi accorgo

che, probabilmente, è proprio a causa di frasi che riflettevano questa concezione stoica della realtà, che il libro porta alle sue ultime conseguenze. L’Ecclesiaste mi pare rappresenti nella stessa tradizione ebraica, al di là della tradizione della Grecia classica, il punto più alto cui potrebbe arrivare l’esperienza umana del disinganno fatta virtù, che rimane alla fine insoddisfatta di sé. Quindi anche in questo senso è il libro più vicino al Nuovo Testamento, che grida all’esperienza di novità, senza saperla intuire o descrivere: “Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa; il sole sorge, il sole tramonta, si affretta verso il luogo da dove risorgerà”. È sempre stagnante, in fondo, la situazione: tutto sembra muoversi, ma più cambia, più è la stessa cosa. “Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana, gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna…” Ecco la descrizione della stagnazione del movimento: tutto si muove, eppure tutto è sempre uguale. “Ciò che è stato sarà, ciò che si è fatto si rifarà, non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: questa è una novità? Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto. Non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito” (Qo 1,4-11). Noi crediamo che le cose siano nuove perché ci siamo dimenticati del passato e così cordialmente i nostri posteri si dimenticheranno di noi, penseranno di trovare delle novità e tutto invece è uguale. Qui vedete appunto come da questa percezione viene quel senso di distacco, di moderazione, di tranquillità, che però nasconde una profonda amarezza: dunque niente mai cambierà, in me e negli altri? I tipi di rapporti saranno sempre quelli, così i caratteri nostri e altrui; le esperienze si ripeteranno e noi non impareremo niente? Dopo gli esercizi saremo esattamente come prima e come dopo quelli passati, perché leggendo i propositi di qualche anno fa diremo: ma guarda, questo proposito mi sembrava nuovo, invece l’avevo già fatto due o tre anni fa! Adesso con grande impegno l’ho rifatto, ma non è nuovo. Questo è l’uomo prima della risurrezione. Chiediamoci se crediamo davvero che Gesù è risorto, se crediamo veramente che c’è del “nuovo” nella nostra vita e per la nostra vita e mettiamoci in preghiera: Signore, se tu non ti mostri a me, ricado continuamente nella stagnazione del già visto, del già sperimentato, perché in fondo non riesco a convincermi che il nuovo davvero esiste. Applichiamo questa prima lezione che ci danno i Vangeli: le pietre

impenetrabili si sono aperte, c’è stata una risurrezione in quel mondo che teneva gli uomini prigionieri. Una “nuova” ricerca di Gesù Applichiamo tutto questo alla ricerca di Gesù, nella quale ci guidano due donne: Maria di Magdala e l’altra Maria, in 28,1-8. Abbiamo già lodato il loro affetto perché, “malgrado tutte le apparenze”, vanno avanti. Potrebbero stare a casa, ma c’è qualcosa che contro la “logica” umana le fa muovere: la “logica” del cuore. In questo atteggiamento affettuoso scopriamo però delle lacune. Le donne cercano il Signore “ed ecco un gran terremoto”: di nuovo un segno che la chiusura dell’esperienza umana è rotta. “Un angelo scende dal cielo come la folgore, con veste bianca”. Anche qui mi pare di vedere dei segni apocalittici che mostrano l’ingresso della novità di Dio, anche se è un segno semplicissimo; non è una miriade di angeli come quella della Natività, ma anche così, nella sua semplicità, esprime questa novità di Dio che viene a visitare una per una le situazioni umane con immediatezza, con amicizia. Le guardie capiscono che qualcosa di nuovo è successo e rimangono tramortite. Abbiamo già meditato sui diversi effetti della risurrezione di Gesù, che incoraggia o spaventa. Quando è vissuta davvero non lascia indifferenti, non lascia come prima, divide tra gli uomini; nell’ambiguità dell’esistenza la risurrezione passa come un aratro che butta la terra parte di qua e parte di là. “Ma l’angelo disse alle donne: non abbiate paura, voi!” Voi infatti siete dall’altra parte dell’aratro, non dovete aver paura, perché cercate Gesù il Crocifisso; in questo senso, avete intuito cosa dà significato alla storia del mondo. Però badate che “non è qui, è risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto”. Ci chiediamo cosa hanno fatto le donne fino a quel momento per meritare dall’angelo un’espressione positiva: “So che lo cercate”, ma anche una almeno leggermente negativa: “Non è qui”. C’è dunque qualcosa di sbagliato nella loro ricerca. L’elemento negativo è accentuato da Luca, quando dice: “Perché cercate un vivente tra i morti?” È la ricerca vecchia di Gesù o la nuova, la ricerca del Crocifisso dagli uomini oppure quella del Risorto? Vorrei ampliare la mia ricerca con voi, anche se è difficile, e probabilmente la esporrò in maniera un po’ confusa, più attraverso le

“emozioni” che attraverso le “spiegazioni”. La ricerca di Gesù alla maniera vecchia è il continuo ripetuto tentativo di ricerca di Gesù nel moralismo cristiano: una ricerca che ha il suo gusto di vino vecchio e quindi ci piace. Abbiamo imparato fin da bambini le cinque cose necessarie per fare una buona confessione: esame di coscienza, dolore dei peccati, proponimento di non commetterne più, confessione, soddisfazione o penitenza. Non le abbiamo forse intese troppo spesso e facilmente proprio come uno schema che appoggi la nostra ricerca del moralismo cristiano? Prima noi ci convertiamo, poi Dio ci assolve, ci perdona. In altre parole: Gesù è risorto, ma adesso bisogna che ci mettiamo d’impegno… In fondo, con questo “ma” esprimiamo tutta una mentalità. Non dico che questo sia sbagliato, è chiaro che nessuno vuole distruggere l’impegno che il Vangelo di Matteo propone, l’insistenza sulle opere, sulla misericordia, sulla conversione, mi sembra però di vederci continuamente il riflesso di una ricerca moralistica di Dio. In fondo ci interessa più il Crocifisso come manifestazione della potenza di Dio, che ci manda in estasi, che ci fa dimenticare noi stessi e tutto; il Crocifisso come aiuto per il nostro sforzo, come modello per incoraggiarci a portare le croci, a fare i sacrifici, come alleato e sostegno del nostro impegno, del nostro sforzo morale. Vedete però quale “eresia”, quale bestemmia si nasconde in questo modo di pensare o di parlare: c’è il mio sforzo morale e poi il Crocifisso che mi aiuta ad andare avanti; mi appoggio a lui per poter fare qualcosa di buono davanti a Dio. Se ci pensiamo bene, questa mentalità la troviamo spesso radicata in noi. Chi ha capito il Vangelo, chi è veramente convertito dalla morte e risurrezione del Signore non parla certo così. Chiediamoci se queste frasi che ci sfuggono non tradiscono proprio il nostro rimanere nell’antico mondo chiuso, in cui nulla cambia, in cui il Signore Crocifisso e Risorto rappresenta un di più, uno stimolo maggiore ai nostri sforzi, ma la preoccupazione centrale è costruire la nostra onestà. Esprimendo la stessa cosa in modo diverso, dicevo che siamo come ipnotizzati dallo schema delle cinque cose necessarie per fare una buona confessione, giungendo a fare di un processo pedagogico un ordine teologico: cioè prima io mi converto, poi Dio mi perdona. Questo è proprio capovolgere il Vangelo, è l’opposto di tutto ciò che la Scrittura, il Nuovo Testamento, san Paolo ci insegnano. Chiediamo quindi aiuto alle donne, di cui abbiamo rilevato questo difetto, senza spaventarci se ci scopriamo nel loro atteggiamento vicino al Sepolcro. Gesù dice anche a noi: quando ti trovi in questa situazione non sei lontano dal

Regno di Dio. Le donne cercano Gesù “alla maniera antica”, come se non fosse risorto, per compiere un atto buono, generoso, anche rischioso, ma l’angelo dice: “Non è qui! È risorto”. Vedete il luogo dove era posto, cioè vedete la novità avvenuta: qui non c’è più niente. Dio ha sconvolto le leggi dentro le quali eravate prigioniere, schiave degli elementi nel mondo, di cui anche la vostra religiosità era schiava. Ecco il nuovo che entra nel mondo! “In fretta, andate, dite ai discepoli: è risorto dai morti, vi precede in Galilea, lì lo vedrete”. Qui noterei soltanto una paroletta. Dice l’angelo: “Dite ai discepoli” e questa parola viene poi ripresa da Gesù al v. 10, in tono più bello: “Annunciate ai fratelli”. La nostra mentalità “vecchia” ci porterebbe a chiederci: annunciare ai fratelli? E le cinque cose necessarie per la confessione? Questi fratelli avranno il dolore dei peccati, saranno pentiti di ciò che hanno fatto, avranno il proposito di non commettere più queste cose, ma saranno ancora deboli, pieni di paura? Potremmo pensare che Gesù sapesse per scienza divina che gli apostoli avevano fatto l’esame di coscienza, avevano il dolore dei peccati, il proponimento… Tuttavia il Vangelo ci smentisce, perché i due discepoli che scappano da Gerusalemme e se ne vanno a Emmaus fanno forse un po’ di esame di coscienza, ma non hanno né il dolore né il proposito. Gesù invece anticipa il perdono a coloro che ancora non ne sono degni. Non sono i nostri atti che ci rendono degni del suo perdono, ma è Gesù che, perdonandoci, ci rende degni e capaci di vivere come suoi amici. L’iniziativa è di Gesù, è lui che dice: “Andate dai fratelli”. Troviamo una conferma di ciò in san Paolo (2Cor 5,19), il quale parlando del proprio ministero di riconciliazione dice: “È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe”. Quindi il Cristo risorto non dice: hai peccato, pentiti, ma piuttosto: non ti condanno, ti ho già perdonato. L’attività del Cristo risorto precede gli atti del pentimento ed è l’unica che li rende possibili. Queste parole: “Non imputando agli uomini le loro colpe” fanno eco a quelle di Giovanni nel racconto dell’adultera (Gv 8,10-11): parole che hanno creato probabilmente malintesi e difficoltà in parecchie comunità antiche e che perciò sono state escluse dai Vangeli. La vecchia maniera di cercare Gesù è riuscita a entrare in essi addirittura con le forbici: infatti in molti manoscritti non si trovano queste parole; l’episodio termina con Gesù che “rimasto solo

con la donna le dice: ‘donna dove sono, nessuno ti ha condannata?’ Ed essa risponde: ‘nessuno, Signore’”. Qui non si parla né del pentimento della donna, né di ciò che essa sia disposta a fare; non si sa se non peccherà più, eppure Gesù dice: “Non ti condanno”. Queste parole, che fanno eco a quelle di san Paolo, sono parse appunto tanto strane perché se Gesù non condanna, allora tutto è lecito. Quindi è meglio non mettere queste parole “pericolose” nei Vangeli. Possiamo ancora leggere un’ultima parola di san Paolo dove dice: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (1Cor 15,17). Rovesciando la frase: se siete nei vostri peccati, vuol dire che non accettate il Cristo risorto. Qui io leggo proprio quell’atteggiamento che noi coloriamo sotto forma di moralismo e anche di virtù, quando pensiamo: quando mi deciderò a pregare di più, a impegnarmi, allora potrò finalmente dire che ho fatto qualcosa, allora il Signore sarà veramente risorto per me. Cioè sarò io che farò risorgere il Signore, mentre Gesù è risorto per giustificarmi. Quindi non: quando mi deciderò a far meglio il Signore sarà risorto per me, ma: poiché il Signore è risorto per me, io posso affidarmi a lui con fiducia. Questa fiducia comporta prima di tutto dimenticanza di sé, non quel: ma adesso come farò? Questo “ma” è segno che non abbiamo ancora accettato il Cristo risorto, che siamo ancora alla ricerca di una prestazione morale nostra, gloriosa, come immagine bella di noi stessi da proiettare davanti a noi. Quando ci decideremo ad accettare che Cristo è veramente risorto per noi, questo “ma” cadrà da solo, come cadono tutti i “ma” di chi ha trovato il tesoro. Chi ha trovato il tesoro nel campo non pensa come farà a vendere; i mezzi non sono un problema. L’importante è il tesoro trovato; abbiamo il Cristo con noi, tutto il resto è secondario, non ha peso di fronte a questo evento fondamentale: il Cristo che nella risurrezione ci viene incontro. Evidentemente è possibile anche fraintendere tutto, poiché noi abbiamo il potere di intendere continuamente in maniera fuorviante le cose di Dio. Anche Paolo deve difendersi dall’accusa che con il suo Vangelo promuove il peccato, però non rinuncia a questa sua presentazione del messaggio cristiano, che abbiamo visto è nel Vangelo stesso. Non è soltanto una successiva interpretazione teologica paolina, è il cuore del Vangelo, è il Vangelo della salvezza di Dio per il peccatore, che non ha fatto niente per meritare questa salvezza, neppure un buon proposito, una speranza di miglioramento, un barlume di buona volontà.

L’“elezione” alla luce della resurrezione65 Veniamo all’ultima indicazione che può sembrare un po’ contraria: qualche parola sulla riforma degli esercizi. Sapete bene che posto ha negli Esercizi di sant’Ignazio il tema dell’elezione, della scelta e della riforma della vita. Chi ha fatto più volte gli esercizi sa cosa vuol dire mettersi di fronte a Dio nella scelta. Vorrei qui semplicemente suggerire in che modo, nella linea di ciò che abbiamo meditato sul Vangelo di Matteo, possiamo chiederci come vivere lo spirito della riforma, dell’elezione, delle scelte. Penso che possiamo semplicemente domandarci che cosa lo Spirito di Dio ci fa gustare in questo momento, che cosa ci dà disgusto. La nostra riforma, nell’ottica di ciò che abbiamo detto, non è ciò che noi ci proponiamo di fare per renderci graditi a Dio, ma è l’accoglienza di ciò che Dio, che ci ama, vuol farci sperimentare per il nostro bene. Quindi potremo tener conto di tutto ciò che in questi esercizi si è manifestato a noi come oggetto di preghiera che ci muove, come cosa che ci attrae interiormente, perché sono la risurrezione in noi, sono il Cristo che risorge, dandoci anche solo un minimo senso di tranquillità in una certa cosa, di pace in un’altra, di fiducia in un’altra ancora, di desiderio di qualche tipo di servizio: ecco la risurrezione che ci invade. Magari sarà un solo angelo, non miriadi di angeli, però uno solo è già qualcosa; prendiamolo per mano, lasciamoci condurre e allora potremo veramente capire a che cosa il Cristo ci porta. Paradossalmente, potremmo forse chiederci che cosa ci piace, che cosa desideriamo. È paradossale certo, ma il Signore ci porta a fare ciò che ci piace di più, che abbiamo voglia di fare. Se è bene, naturalmente, essere avviati a una disciplina forte, austera, rigorosa, che a un certo punto può diventare anche gusto, tranquillità, pace, in fondo tutto questo ha lo scopo di sviluppare in noi quella vita del Risorto che è fondamentale, cioè l’ama et fac quod vis di sant’Agostino66: fa’ ciò che desideri, ciò che ti sta a cuore, se ami. Questa è la libertà del Risorto, che evidentemente va intesa come la intendeva san Paolo, perché chi ha sperimentato il Risorto può giungere a desiderare di servire nascostamente i più poveri, di dividere la Croce del Signore. C’è una lettera di san Paolo della Croce, citato da Urs von Balthasar tra quelli che in modo più equilibrato hanno fatto la sintesi tra senso teologico della croce ed esperienza spirituale, che dice: “Soffro molto, ma ho un po’

paura che questa sofferenza mi sia tolta”67. Ecco l’uomo che fa ciò che gli piace, che è entrato nella gioia di Dio e quindi agisce liberamente. Chiediamo al Signore che introduca queste novità paradossali nella nostra vita o meglio, poiché le ha già introdotte, che ci apra gli occhi a riconoscere davanti a un tomba vuota, a un sepolcro aperto, cioè davanti a un mondo di cose ormai spezzate e aperte, l’intervento nuovo dello Spirito tra noi. Ti ringraziamo, Signore, perché continuamente ci rinnovi con il tuo Spirito. Fa’ che ci apriamo a questo vento misterioso che non sappiamo donde venga e dove vada, che non entra, cioè, nei nostri calcoli fisici, psicologici e pedagogici, ma è la tua forza in noi. Fa’, Signore, che ci accorgiamo, dinanzi a questa tua forza in noi, che non possiamo se non lasciar perdere la disperazione del nostro peccato, della nostra incapacità ad amare, della nostra incapacità a vivere la verità. Fa’, Signore, che accettiamo la novità della tua risurrezione sull’incorreggibilità del nostro peccato e che di fronte alla novità di questo tesoro trovato la dimentichiamo, l’abbandoniamo alla tua bontà e ci sentiamo avvolti dalla tua incondizionata offerta di perdono. Tu ci vuoi nuovi, Signore, e noi ci affidiamo a te perché trionfi in noi la tua verità. Tu che mandi lo Spirito su ciascuno di noi, ora e per sempre, nella storia, fino al trionfo definitivo della risurrezione e della vita nei secoli dei secoli. Amen.

XIV. “SONO CON VOI…” (MT 28,20) Leggiamo da Mt 28,16-20: Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi: alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.

Possiamo fare un istante di preghiera sulla parola di Gesù. Ti ringraziamo, Signore, perché tu sei qui con noi. Se noi siamo qui con te è perché i tuoi inviati hanno obbedito alla tua parola, hanno portato il battesimo, che è giunto fino a noi e ci ha chiamato qua. Ti ringraziamo, Signore, perché in forza di questa tua parola, noi siamo qui riuniti

nell’adorazione di te. Mostraci ora, Signore, questo tuo potere su tutta la terra, manda anche noi in tutte le parti del mondo. Fa’ che sentiamo che, ovunque vuoi mandarci, tu sei già là, che in qualunque situazione ci troviamo, tu sei con noi. Concedici, Signore, l’abbondanza del tuo Spirito per sentire questa tua presenza, che è presenza della tua gloria, che è stata, che è, che sarà nei secoli dei secoli. Amen. Alcune ipotesi interpretative Accenno ad alcune ipotesi interpretative riguardanti la scena finale di Matteo. La prima sostiene che questa, dal punto di vista del genere letterario, è una scena di intronizzazione, analoga a quella descritta nel Salmo 2: “Ecco il decreto del Signore: Tu sei mio Figlio, chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Quindi Gesù, intronizzato gloriosamente, il cui potere si estende sino ai confini della terra, manda gli apostoli. Un’altra ipotesi vede in questa scena un discorso divino, simile a quei “discorsi programmatici” che si trovano soprattutto nel Deuteronomio: “Obbedirai alla voce del Signore, metterai in pratica questi comandi che oggi ti do. Sarai felice quando obbedirai alla voce del Signore tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti sarai convertito al Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (30,8-10). Questa ipotesi sottolinea, nelle parole finali di Gesù, un’eco di quelle con cui Dio chiede l’osservanza della sua legge e la proclama solennemente. Una terza ipotesi vede in questa scena un rinnovamento dell’Alleanza tra Dio e gli uomini, che viene qui consolidata definitivamente con la formula “con voi sarò”. Nessuna di queste ipotesi riesce a prevalere sulle altre; ma queste da me indicate ci fanno vedere come la scena descritta dall’evangelista richiama molti momenti della Bibbia, in particolare Daniele (Dan 7,13-14), dove si parla della “visione dei regni”: “Ed ecco apparire sulle nubi dei cieli uno simile a un figlio d’uomo […] tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano […] il suo potere è eterno, non tramonta mai, il suo regno non sarà mai distrutto”. Certamente notiamo in questo brano molte assonanze, soprattutto

se prendiamo direttamente il testo greco. Questo ci mostra quanto è ricco il brano, quanto è riassuntivo di tante linee della Rivelazione biblica. In questa meditazione rifletterò ancora una volta insieme con voi soprattutto sulla parola di questa scena: “Ecco, io con voi sono”. Abbiamo iniziato gli esercizi meditando sulle altre parole e accennando solo all’importanza di questa, ma credo che potrebbe essere utile, alla fine, cercare di riassumere, alla luce di tutto il Vangelo di Matteo, il significato di questa parola. Chiediamo al Signore che ci aiuti a coglierne il senso profondo e che ci risponda con un’esperienza spirituale viva, fondata sulla parola della Scrittura. In queste meditazioni mi sono messo a leggere con voi il Vangelo di Matteo un po’ più attentamente. In passato ero sempre stato colpito da quello che mi pareva un fenomeno isolato, anche dal punto di vista letterario, cioè da quella identificazione di Gesù con i poveri, con l’affamato, l’assetato, l’ignudo, cui si riferiscono Matteo (25,40) e tutte le parabole che abbiamo visto nella seconda meditazione e come sfondo di tutto il nostro cammino. Già avevo mosso allora un’obiezione affermando che gli esegeti, i critici restano un po’ sbalorditi di fronte a questa parabola di Matteo perché si domandano dove si dica, in altri punti del Nuovo Testamento, che il Signore è in qualcuno. L’identificazione di Gesù con l’affamato, con l’ignudo, col carcerato sembra apparire solo in Matteo. Nel Nuovo Testamento c’è qualche altra identificazione, come negli Atti degli Apostoli, quando Gesù, apparendo a Paolo, dice: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4). Ma questa è una chiara identificazione di Gesù con la comunità, non di per sé con gruppi generici, tant’è vero che alcuni esegeti ritengono che Gesù qui parli solo dei poveri della comunità. Diverse situazioni in cui Gesù è presente Rileggendo il Vangelo di Matteo da questo punto di vista, mi sono accorto che effettivamente esistono molte di queste situazioni nelle quali il Signore si mostra presente. Allora ho cercato semplicemente di raccogliere, proponendole alla vostra riflessione, sette situazioni, o meglio sette detti di Gesù, tratti dal Vangelo di Matteo, dove appare in un modo o nell’altro il concetto che Gesù è con noi, tra noi, per noi. Li leggo non come si trovano in Matteo, ma secondo un ordine che mi sembra un po’ progressivo, procedendo

dall’interno all’esterno. In questo senso il primo testo è 10,11-20: Quando vi consegneranno nello loro mani, non vi preoccupate di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.

Qui, come vedete, non sono le identiche parole di 28,40, perché dice: “lo Spirito del Padre”, ma è chiaro da tutto il Vangelo che si tratta di una presenza mandata da Gesù, nella quale Gesù stesso, la forza di Dio che egli ci ha procurato, si fa presente ai suoi. Cerchiamo di cogliere il senso di questo versetto: “Lo Spirito del Padre vostro parla in voi”. Non siete voi i parlanti, ma è lo Spirito del Padre che parla in voi. Siamo al capitolo 10 nel “discorso della missione”, quindi in una situazione molto simile a quella del capitolo 28, quando Gesù manda in missione: “Andate a tutte le genti…”; infatti sono introdotte al v. 16 dalle parole “Ecco, io mando voi come pecore in mezzo ai lupi…”; quindi ricorda proprio da vicino “[…] andate ai pagani, io vi mando”. Siamo in situazione di missione, immediatamente descritta da Gesù come situazione di pericolo e di contestazione. Quindi non di successo: non andate a mietere la messe attesi con ansia, ma in un mondo ostile, in una situazione di gente che, o non vi desidera o, se vi desidera, è solo per annientarvi; di gente che, come indicano i versetti seguenti, vi mette in prigione, vi fa flagellare, vi porta di fronte ai tribunali; gente che, alla luce della meditazione sulla risurrezione, si difende dalla novità del Vangelo, cerca di respingerla perché ne ha paura. Questa situazione viene descritta come propria da Paolo, quando dice amaramente: “Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito, tutti mi hanno abbandonato, ma non se ne tenga conto contro di loro. Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza” (2Tm 4,16 ss.). La stessa situazione Gesù prevede per i suoi, però con ancora qualcosa in più: non soltanto dice, come Paolo, che il Signore vi sarà vicino – qui il termine usato è proprio giuridico, forense: è stato il mio “difensore”. Questo mi pare un termine di confronto per comprendere il senso della parola “Paraclito”, cioè Colui che è con voi nella contestazione, quando siete soli, smarriti, senza parole –, ma questa promessa di Gesù dice ancora di più: è in voi che parla. Quindi Gesù con ampiezza afferma: “Non preoccupatevi”; è la stessa parola che usa nelle esortazioni del cristiano alla fede: “Non preoccupatevi del domani, di ciò che berrete, di come vestirete… Il Padre

vostro sa tutte queste cose”. Qui dice: non preoccupatevi di come parlerete o di ciò che direte, se avrete un linguaggio aggressivo o remissivo, se sarete moderati oppure proclamerete il messaggio senza difendervi: Dio vi dirà come e anche che cosa dire. Abbiamo un’illustrazione di tutto ciò anche negli Atti degli Apostoli (capp. 22; 24; 26), in cui Paolo, nelle sue tre apologie, si difende in maniera diversissima, talora accusando, talora accettando, a volte con dolcezza verso chi gli parla, altre con asprezza: è lo Spirito che suscita la varietà dei modi di contrapporsi e di difendersi, non c’è bisogno di preoccuparsene prima. Questa esortazione è quindi legata a tutto il Vangelo: se Dio ci ha preso per mano, se ci è venuto incontro, tanto più sarà presente in questa situazione drammatica in cui un povero ebreo illetterato, in tribunale, magari tra gente di lingua diversa, non sa da che parte muoversi, sembra circuito da tutti. Tutte le volte che siamo di fronte al tribunale del mondo, che ci giudica, ci critica e cerca di porci in contraddizione, possiamo rifugiarci nella parola di Gesù: “Lo Spirito sarà con voi”. Tutte le volte che saremo al limite della paura, della tristezza, della desolazione, soli nella fede, incapaci a difenderla, in situazioni in cui la fede sembra compromessa e noi con essa, allora sentiremo la potenza di Dio. È ciò che Paolo ha affermato tante volte dicendo: “Ho sentito in me la morte che mi circondava, dentro e fuori, e questo è avvenuto perché la potenza di Dio trionfi”. Ricordate, per esempio, all’inizio della seconda lettera ai Corinti, quando egli richiama le prove che l’hanno colpito a causa della fede, tutti gli ostracismi e i pericoli, le situazioni di solitudine che hanno accompagnato questa prova: “Non vogliamo, infatti, che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia, ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, fino a farci dubitare anche della vita. Abbiamo ricevuto addirittura su di noi la sentenza di morte, per imparare a non riporre la fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti” (2Cor 1,8-10). Ecco la situazione dell’apostolo che il Signore lascia apparentemente travolgere dai flutti della contestazione, nella quale però Dio è presente. Un’altra situazione in cui troviamo Gesù, secondo 18,20, è nel discorso ecclesiale, dove si parla della vita della Chiesa all’interno della comunità: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Notate: non più “in” loro ma “in mezzo” a loro. Il versetto precedente (18,19) ci dà un esempio concreto di questo essere riuniti: “In verità vi dico ancora: se due di voi sulla terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio

che è nei cieli ve la concederà”. È chiaro, da questo esempio, che Gesù non parla di una qualunque riunione, di un essere insieme solo materiale, in qualunque modo, ma di un essere insieme nella fede. Questo essere insieme, in concreto, viene descritto con alcune caratteristiche che è interessante notare. Leggendo il v. 19, mi domando perché questa sottolineatura: “sulla terra”; forse perché è molto raro che sulla terra due si accordino, probabilmente succede solo in cielo. “Quando due si accorderanno”: il testo greco è molto bello, dice esattamente “quando cantano con la stessa voce”; quindi è l’accordo sinfonico del canto in comune, la melodia delle persone che sanno cantare insieme, dunque: quando c’è questa consonanza. “Su qualunque cosa”: anche qui l’espressione colpisce; non importa quale sia la cosa richiesta, più importante è la consonanza fra le persone, che è di grandissimo valore. Si tratta chiaramente di una situazione di fede: gente che si raduna con fiducia nel Padre; di consonanza: gente che cerca qualcosa insieme; di preghiera: gente che domanda. Dunque, la preghiera comunitaria nella fede è il luogo per eccellenza della presenza di Gesù; Gesù è presente ogni volta che la comunità si forma, ma questo accade quando c’è consonanza di preghiera nella fede. Come dicevo a proposito della preghiera comunitaria come preghiera tipica del cristiano “nello Spirito”, tutti ci accorgiamo quando c’è una certa “qualità” nella preghiera della comunità, quando cioè, a un certo momento, ciascuno ha dimenticato se stesso: ecco l’accordo di tutti nel chiedere la stessa cosa, quando tutti sono presi dal pensiero del Regno, allora il Regno viene, il Regno già si fa. Abbiamo qui descritta una comunità: gente che insieme cerca il Regno e nella preghiera e nella fede si accorda per cercarlo; e il Regno viene, perché Gesù è là; la Parusia viene anticipata, il Signore è già risorto in mezzo a loro. Notiamo anche la formula pregnante “Io sono là”, che ricorda la formula di Jahweh: “Io sono”. Questa seconda situazione di una presenza del Signore, come già dicevo, noi possiamo sperimentarla soprattutto quando la preghiera ci unisce veramente, e allora c’è “un non so che”, per cui ciascuno dice: come si stava bene insieme, come si pregava bene! È avvenuto qualcosa di nuovo, che non è la somma delle singole buone volontà, ma è lo Spirito che ci ha trasformato. La terza situazione, quella di accoglienza, si trova in 10,40-42. Siamo al termine del “discorso di missione” e Gesù presenta non la comunità che

accoglie qualcuno, ma qualcuno che è accolto nel villaggio missionario: Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua a uno di questi piccoli, perché mio discepolo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa.

Abbiamo qui una situazione di missione in cui la persona non viene respinta, ma accolta; se viene respinta, lo Spirito è in essa per parlare con coraggio. Se viene accolta, allora essa stessa è il Signore per gli altri cui porta la benedizione. Quindi Gesù è in noi tutte le volte che andiamo a un fratello con una parola evangelica nel cuore, e chi ci accoglie, accoglie il Signore. È un modo specialissimo del Signore di essere con i suoi missionari. Il termine “missionari” si può intendere in modo molto ampio: tutti i suoi che vanno a un altro portando la sua parola. Notate il crescendo, almeno così mi pare di poter leggere nei versetti 41 e 42. Il versetto 41 mi sembra una parola generica, che poi si specifica in quello successivo: “Chi accoglie un profeta come profeta ha la ricompensa del profeta”. Questo potrebbe anche essere un proverbio generale tratto dall’Antico Testamento; per esempio la vedova di Zarepta che ha accolto il profeta Elia e quella che ha accolto Eliseo hanno avuto la ricompensa di chi accoglie un profeta. Quindi chi accoglie le parole di Gesù, che viene a lui attraverso un altro fratello, partecipa anche lui di quella benedizione che accompagna chi porta la parola del Signore. “Chi accoglie un giusto avrà la ricompensa del giusto”, ma prosegue: “Chi disseterà uno (e qui ritorna quella formula: anche uno solo) di questi piccoli con un bicchiere d’acqua fresca, come mio discepolo […] non perderà la sua ricompensa”. Qui sembra che si vada in un decrescendo: prima un profeta, poi un giusto, finalmente un semplice, che non ha molto da dire, però viene con qualche parola del Signore, anche se non la sa dire molto bene. Anche l’infimo tra coloro che portano la parola del Signore al fratello, quindi anche ciascuno di noi che porta la parola in maniera molto embrionale, poco elaborata, ma con un minimo di buona volontà, è Gesù per il fratello ed è la presenza di Gesù in lui: tutto ciò che viene fatto nella sua accoglienza partecipa della benedizione del Signore. Quindi Gesù è in noi che ci sforziamo di fare qualcosa, di portare qualcuno agli esercizi, di dire una parola buona. In 18,5 notiamo la stessa parola, ma vista all’interno della comunità, dove non è più il discepolo che va in giro ed è accolto, ma è la comunità luogo di

accoglienza: “Chi accoglie anche uno solo di questi piccoli nel mio nome, accoglie me”. Qui penso che si faccia riferimento proprio alla comunità, perché siamo nel capitolo 18, dove il tema è appunto la vita interna della comunità. Quando la comunità è capace di accoglienza, cioè non soltanto accoglie chi viene dall’esterno, ma dà il giusto valore a ogni suo membro, cerca di non defraudare nessuno, di mettere ciascuno al suo posto, di trarre continuamente dal margine quelli che per forza nel giro comunitario vengono messi da parte e vanno a finire nei gorghi periferici del movimento, ebbene questa comunità, dice il Signore, accoglie me, se lo fa non semplicemente per mostrarsi capace e dinamica, ma in nome mio, in nome dell’amore che io voglio infondere in essa. Queste parole hanno il loro contrario: “Guai a chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me”, dove scandalizzare credo abbia lo stesso significato che gli si attribuisce nel Nuovo Testamento, che qui appare in contrasto con le parole “che credono in me”; cioè guai a chi rende loro difficile credere in me. Essi credono in me, però dal modo in cui sono accettati nella comunità, dal modo in cui si manifestano la Chiesa e i suoi ministri, il credere può diventare loro molto difficile, possono inciampare, perdere la fede. Di nuovo, senza volerlo, ritorniamo alla prima settimana degli Esercizi: siamo chiamati a fare comunità in questo modo, ma è facile che la comunità sia un ostacolo per la fede di qualcuno, perché è difficile che una comunità sia sempre così accogliente, così ampia, da non rendere opaco l’accesso al Signore. Il Signore soltanto può permetterci di vivere una simile vita comunitaria, noi non ne siamo capaci, dobbiamo riconoscerlo. Il Concilio Vaticano II l’ha fatto anche come Chiesa ufficiale, confessando nella Gaudium et Spes: “È colpa nostra se tanti non credono in Dio”68. Certamente questa parola di Gesù, terribile, ci porta a questa confessione umiliante: “Sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una macina al collo e fosse gettato negli abissi del mare. È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo”. Non esistono comunità perfette, non esisteranno mai; ma Gesù ci indica dove vuol essere presente, ci aiuta a riconoscere la nostra debolezza e ad ammettere che senza di lui non possiamo aprirgli le porte, nel nostro vivere insieme. Come quinta situazione, cito il passo di 25,40 dove l’identificazione

appare molte volte: “Quando ti abbiamo visto nudo, malato, in carcere… in verità vi dico, quanto avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me”. Ecco un altro modo di presenza di Gesù intorno a noi, in tutto il mondo, in tutto il nostro prossimo. Secondo la parabola di Matteo, Gesù è presente in ogni uomo in difficoltà che incontri; facendo qualcosa a lui, l’hai fatta a Gesù. Qui la visione si allarga dalla comunità a ogni forma di promozione. Vengono indicati gli esempi più evidenti e facili, come nella parabola del samaritano, dove è evidente il bisogno del ferito; qui si parla di affamati, nudi, dei bisogni più elementari, ma è chiaro che si intendono anche tutti gli altri casi dove c’è un bisogno, una necessità. Ho lasciato quasi per ultima la situazione più difficile, quella dove non ci viene richiesto soltanto di avere coraggio, di non omettere qualcosa, di darci da fare, ma di sopportare qualcosa. Nello stesso discorso comunitario è apparsa evidente la difficoltà del vivere insieme, di non far del male, di non essere di ostacolo a nessuno, mentre si creano continuamente delle avversità, perché ognuno si sente defraudato dagli altri. Perciò Gesù al termine di questo discorso, dopo tutti gli avvisi dati per vivere insieme in comunità, dice a Pietro, che gli chiede quante volte deve perdonare al fratello che pecca contro di lui: “Non ti dico fino a sette volte, ma settanta volte sette”. È interessante vedere come questo è in pratica l’ultimo precetto comunitario, perché in fondo la comunità è una comunità di mutuo perdono, di mutua riconciliazione, di mutua sopportazione amorosa, paziente; san Paolo dirà: “Portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di Cristo” (Gal 6,2). Anche per lui questo è un precetto riassuntivo: sopportatevi a vicenda e sarete capaci di tutto il resto. Si ricollega a questo una parabola (Mt 18,23-35) molto nota che qui voglio appena ricordare: il re che fa i conti con i servi. Un re ordina che sia venduto un servo che gli deve dei miliardi, ma questo lo supplica: “Signore abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Impietosito, il padrone gli condona il debito. Appena uscito, quel servo ne trova un altro che gli doveva cento denari (dai miliardi passiamo a trentamila lire) che gli rivolge la stessa supplica. Ma il servo non vuole ascoltarlo e lo fa gettare in carcere. Gli altri servi, addolorati, riferiscono al padrone, che lo chiama malvagio, perché non ha avuto pietà dell’altro come egli ne aveva ricevuta: “Così il Padre vostro farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore al vostro fratello”.

Qui il re si identifica col servo più debole e dice all’altro: non perdonando a lui, hai fatto un torto a me. Non c’è proprio una vera identificazione come nelle altre situazioni, ma anche qui c’è un mettersi del re al posto del debitore, cosicché il creditore, trattando con lui, in qualche maniera è come se trattasse con il re. È molto importante quest’ultima affermazione inserita nel discorso della comunità, perché mostra come Gesù ci ha perdonato un debito irreparabile, cioè l’incapacità di amare, e chiede che noi sappiamo fare lo stesso gli uni agli altri. Anche questo è un modo di presenza di Gesù, perché facendo gli uni agli altri ciò che lui ha fatto per noi, continuiamo la sua azione perdonante. Questa parola di Gesù è la legge fondamentale del vivere nella Chiesa: saperci perdonare senza limiti, perché senza limiti il Signore ci perdona. Senza questa volontà di perdono non c’è comunità. Se prendiamo il Vangelo come legge, siamo portati a chiederci come si può perdonare sempre, tutti e chiunque; allora non ci sarebbe più ordine né distinzione tra chi sta dentro e chi sta fuori. In realtà il Vangelo non dice esattamente questo, perché proprio poco prima esortava: “Se il fratello commette una colpa, ammoniscilo. Se ti ascolta l’avrai guadagnato, se no cerca testimoni, se no arriva all’assemblea, se no sia per te come pagano e pubblicano”. Gesù ammette che ci vuole un certo ordine, che a un certo momento, per il bene della comunità, bisogna anche prendere determinati provvedimenti, quindi ci possono essere situazioni incresciose, decisioni difficili da prendere. Sarebbe ingenuo interpretare la parabola finale come una ferrea legge; è lo Spirito che Gesù ci mette in cuore: dobbiamo fare del vivere insieme un continuo perdono. Torniamo all’ultima parola di Mt 28,20: “Io sarò con voi”, parallela all’Emmanuele di Mt 1,23: “Dio con voi”. “Sarò con voi”, con la formula di alleanza e di promessa che Jahweh ha fatto al suo popolo nell’Antico Testamento e di cui possiamo leggere qualche esplicitazione molto bella, per esempio in Isaia; sono i passi che maggiormente hanno ispirato il Nuovo Testamento, e sentiamo come spesso qui risuona la formula “Con te”. Ora così dice il Signore che ti ha creato, Giacobbe, che ti ha plasmato, Israele: non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno. Perché tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo; non temere, perché io sono con te, dall’Oriente farò venire la tua stirpe, dall’Occidente ti radunerò. Dirò al Settentrione: restituisci, e al Mezzogiorno: fa tornare i miei figli da lontano e le mie figlie dall’estremità della terra,

quelli che portano il mio nome e che per la mia gloria ho creato, formato ed anche compiuto (Is 43,1 ss.).

Dio forma la comunità di coloro che ama, che non può abbandonare, di cui non può dimenticarsi, perché ha dato a ciascuno il nome battesimale di salvezza, ai quali è sempre vicino perché si radunino nella comunità dei salvati. Gesù in mezzo a noi è la presenza di Dio che ci raduna, che fa di noi un popolo, che, attraverso l’azione di coloro che suscitano discepoli, raduna il popolo di Dio da tutte le estremità della terra, da tutte le genti, da tutte le situazioni umane, verso una città dove regni la giustizia, la verità dei rapporti umani, dell’amicizia vissuta, la capacità di conoscersi, di amarsi. Questo Regno ha al centro Gesù Signore, cui è stato dato ogni potere in cielo e in terra e che solo può fare queste cose. Preghiamo il Signore che tolga dal nostro cuore il timore anche per l’avvenire, perché egli è con noi. Più volte si torna a casa dagli esercizi con un po’ di angoscia e di ansietà; ma questo timore non è male, perché in fondo siamo vasi di argilla e il Signore non ci toglie questa fragilità; però ci ripete la parola: “non temere, Io sono con te”. Noi ti ringraziamo, Signore, perché tu sei con noi e sarai con noi. Sei con noi oggi, qui riuniti in questa tranquillità, in questo luogo in cui ci siamo riparati dal vento e dalla tempesta, da tutto ciò che di esterno ci può disturbare. Ti ringraziamo perché sei con noi nella nostra preghiera e nel nostro canto, sei stato con noi nel nostro sostenerci a vicenda, anche soltanto col silenzio, con il servizio discreto, con l’attenzione degli uni agli altri. Ti ringraziamo, Signore, perché sarai con noi domani, e dopo domani, e sempre: non ci sarà giorno in cui tu non sarai con noi. Concedici, Signore, di accettare da Te questa certezza che anche se non distrugge interamente le nostre paure, tuttavia ci cambia internamente il cuore. Ti ringraziamo, Signore, Dio Padre, che attraverso la morte e la resurrezione di Gesù ci doni lo Spirito che mette nel nostro cuore questa certezza, destinata a rimanere per tutti i secoli dei secoli. Amen. 1

Cfr. Hans Urs VON BALTHASAR, Mysterium Paschale, in Mysterium Salutis. Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia di salvezza, a cura di Johannes FEINER – Magnus LÖHRER, VI/2, L’evento Cristo, Brescia, Queriniana, 19732, pp. 171-412. 2 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Settimana”, pp. 1158.

3

Termine greco che, riferito alla persona di Gesù, esprime l’autorità o autorevolezza della sua parola, ma anche dei gesti che compie. 4 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Addizioni”, p. 1155. 5 Parusia: termine di origine greca, che significa “presenza”. Indica la venuta del Signore Gesù nella gloria alla fine dei tempi. 6 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Principio e Fondamento”, p. 1157. 7 Paul CHRISTIAN, Jesus und seine geringsten Brüder. Mt 25,31-46 redaktions-geschichtlich untersucht, [ErTS 12], Leipzig, St. Benno, 1975. 8 Johannes FRIEDRICH, Gott im Bruder? Eine methodenkritische Untersuchung von Redaktion, Überlieferung und Traditionen in Mt 25,31-46, Stuttgart, Calwer Verlag, 1977. 9 Madre TERESA DI CALCUTTA, all’anagrafe Anjeze Gonxhe Botaxhiu (1910-1997), religiosa albanese, fondatrice della congregazione delle suore Missionarie della carità, impegnate nella cura di persone in situazioni estreme di povertà, premio Nobel per la Pace nel 1979, canonizzata nel 2016. 10 Il docetismo è una dottrina cristologica dei primi secoli, la quale sosteneva che l’umanità e le sofferenze di Gesù Cristo fossero apparenti e non reali. 11 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Annotazioni”, p. 1155. 12 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voci “Colloquio” e “Ripetizione”, pp. 1155 e 1157. 13 Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, a cura di Giuseppe DE GENNARO, Roma, Città Nuova, 2013, p. 91. 14 Cfr. nota 1, p. 44. 15 Paul WATZLAWICK (1921-2007), filosofo e psicologo di origine austriaca, naturalizzato statunitense, esponente della scuola sistemica di Palo Alto. 16 È il secondo esercizio della prima settimana: [55-61]. [59]: “Considerare chi è Dio contro cui ho peccato, confrontando i suoi attributi con i contrari che sono in me: la sua sapienza con la mia ignoranza, la sua onnipotenza con la mia debolezza, la sua giustizia con la mia iniquità, la sua bontà con la mia malizia” 17 Nicholas RIEMAN, gesuita statunitense, fu dal 1972 al 1977 vice assistente mondiale delle Comunità di Vita Cristiana, movimento laicale di spiritualità ignaziana legato alla Compagnia di Gesù. 18 [96-97]. Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Regno”, p. 1157. 19 Léopold SABOURIN, Il Vangelo di Matteo: teologia ed esegesi, Roma, Edizioni Paoline, 1977. 20 Il nuovo rito della penitenza elaborato dalla Sacra congregazione per il culto divino fu promulgato da papa Paolo VI nel marzo del 1974. 21 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Addizioni”, p. 1155. 22 Il Diario spirituale è pubblicato in IGNAZIO DI LOYOLA, Gli scritti, Roma, ADP, 2007, pp. 395462. 23 Cfr. Giovanni MOIOLI, “Preghiera”, in Nuovo dizionario di teologia, a cura di Giuseppe BARBAGLIO – Severino DIANICH, Alba, Edizioni Paoline, 1977, pp. 1198-1213. 24 Adrienne VON SPEYR (1902-1967). Cfr. ID., Esperienza di preghiera, Milano, Centro Ambrosiano, 2013 (ed. or. 1965). 25 La Compagnia di Gesù è suddivisa in parti territoriali chiamate province. Al momento in cui Martini fece il noviziato, la provincia torinese comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Sardegna. 26 L’esercizio delle tre potenze corrisponde negli Esercizi spirituali al metodo ordinato della meditazione: “applicare la memoria, […] poi l’intelligenza […] e infine la volontà” (cfr. [50]). 27 Jean-Baptiste JANSSENS (1889-1964), gesuita belga, fu preposito generale della Compagnia di

Gesù dal 1946 alla sua morte. 28 Wlodimiro (Wlodzimierz) LEDÓCHOWSKI (1866-1942), gesuita polacco, fu preposito generale della Compagnia di Gesù dal 1915 alla sua morte. 29 François LIBERMANN (1802-1852), presbitero francese, fu colui che rifondò la Congregazione dello Spirito Santo e del Sacro Cuore di Maria. 30 Donatien MOLLAT (1904-1977), gesuita francese, grande esperto degli scritti di san Giovanni, è stato per molti anni professore di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, a Roma e a Gerusalemme. 31 PLOTINO (204-270), filosofo greco, padre del neoplatonismo. 32 Cfr. Hans Urs VON BALTHASAR, Mysterium Paschale cit., pp. 200-201. 33 Cfr. ibid., p. 204. 34 Gregorio NAZIANZENO (329-390), vescovo e teologo greco antico, riconosciuto come Dottore e Padre della Chiesa. 35 Il termine “scotismo” indica il pensiero filosofico e teologico di Giovanni DUNS SCOTO (12651308), sacerdote francescano scozzese, beatificato da Giovanni Paolo II il 20 novembre del 1993. Meditando sul mistero dell’incarnazione, Scoto sostenne che il Figlio di Dio si sarebbe fatto uomo anche se l’umanità non avesse peccato. 36 Francisco SUÁREZ (1548-1617), gesuita, teologo, filosofo e giurista spagnolo. 37 Hans Urs VON BALTHASAR, Mysterium Paschale cit., p. 171. 38 Hans Urs VON BALTHASAR, Mysterium Paschale cit., pp. 204-207. 39 Hans Urs VON BALTHASAR, Mysterium Paschale cit., pp. 228-232. 40 ISACCO DI NINIVE (?-700ca.), vescovo cristiano nestoriano della città della Mesopotamia. 41 BERNARDO DE FONTAINE (1090-1153), abate di Clairvaux, teologo cistercense, santo. 42 ANGELA DA FOLIGNO (1258-1309), terziaria francescana, mistica. È stata canonizzata nel 2013. 43 ROSA DA LIMA, al secolo Isabel Flores de Oliva (1586-1617), terziaria domenicana peruviana, santa. 44 Johann Joseph GORRES, Die Christliche Mystik, citato in Hans Urs VON BALTHASAR, Mysterium Paschale, cit., p. 231. 45 Teresa MARTIN (1873-1897), detta di Lisieux (perché morta nel Carmelo di Lisieux), o Teresa del Bambino Gesù e del Volto santo (dal nome che assunse al momento della professione religiosa), fu santa carmelitana. 46 Hans Urs VON BALTHASAR, Mysterium Paschale cit., pp. 232. 47 Ibid. 48 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Preamboli”, p. 1157. 49 FRANCESCO D’ASSISI (1182-1226), poeta e santo italiano. 50 Giuseppe BARBAGLIO, Il Vangelo di Matteo (traduzione e commento), in I Vangeli, Assisi, Cittadella, 1994. 51 Ibid., p. 417. 52 Jószef MINDSZENTY (1892-1975) è stato cardinale e arcivescovo cattolico ungherese. Trascorse otto anni tra carcere e arresti domiciliari. Probabilmente il riferimento è a ID., Memorie, Milano, Rusconi, 1975. 53 Martin LUTHER, LUTERO in italiano (1483-1546), monaco agostiniano e iniziatore della Riforma protestante. 54 Jehan CALVIN, CALVINO in italiano (1509-1564), umanista, riformatore e teologo francese, operò

a Basilea e a Ginevra. 55 Secondo la dottrina cattolica, la “pena del danno” consiste nella perdita della visione di Dio provocata dal peccato. Può essere temporanea, nel purgatorio, o definitiva, nell’inferno. 56 Ivo ANDRIĆ (1892-1975), scrittore e diplomatico serbo. 57 Il riferimento di Martini è a Ivo ANDRIĆ, La confessione, in Ivo Andrić. Premio Nobel per la Letteratura 1961, Milano, Fratelli Fabbri Editori, 1968, pp. 221-239 (la citazione è approssimativa, probabilmente riportata a memoria). 58 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Settimana”, p. 1158. 59 Adattata ai contenuti delle diverse settimane, la “grazia da chiedere” costituisce negli Esercizi spirituali uno dei preamboli per entrare nella preghiera. 60 Cfr. Hans Urs VON BALTHASAR, Il complesso antiromano. Come integrare il papato nella Chiesa universale, Brescia, Queriniana, 1974. 61 Hans Urs VON BALTHASAR, Il cammino verso il Padre, in Mysterium Salutis cit., p. 331 (nota 23). 62 Balthasar fa esplicito riferimento allo studio di Jakob KREMER, Das älteste Zeugnis von der Auferstehung Christi, Stuttgart, Verl. Kath. Bibelwerk, 1966, p. 46. 63 Si tratta di Pierre Simon DE LAPLACE (1749-1827), matematico, fisico e astronomo francese. Il principio è esposto in ID., Saggio filosofico sulle probabilità, Laterza, Bari, 1951 (ed. or. 1825). 64 “Ecclesiaste” è la versione latina del termine “Qoélet”: parola ebraica che significa “predicatore” e che intitola un libro della tradizione sapienziale della Bibbia. 65 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Elezione”, p. 1156. 66 Aurelio AGOSTINO, (354-430), filosofo e teologo, vescovo di Ippona, dottore della Chiesa: 67 PAOLO DELLA CROCE, al secolo Paolo Francesco DANEI (1694-1775), presbitero italiano, fondatore della Congregazione della passione di Gesù Cristo. 68 Cfr. la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes, n. 19.

CHE COSA DOBBIAMO FARE?

INTRODUZIONE Un gigante dell’azione Vogliamo vivere questi giorni di ritiro spirituale sullo sfondo della figura del beato cardinale Andrea Ferrari perché la Chiesa ambrosiana dedica un intero anno alla commemorazione del centenario del suo ingresso in diocesi1. Affidiamo quindi gli esercizi anche all’intercessione del beato; li affidiamo in particolare alla protezione della Vergine Maria da lui invocata: “Tu, fortitudo mea”; li affidiamo al cuore del Signore Gesù. Parto da alcune parole pronunciate, nel marzo del 1959, dall’allora arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini (poi papa Paolo VI) al Conservatorio Giuseppe Verdi, ricordando il quarantesimo di morte di Andrea Ferrari: Che cosa pensa colui che ha la tremenda sorte di succedere al cardinale Ferrari? Che cosa pensa di questo suo predecessore? – E continuava: – Che cosa strana dover raccogliere l’eredità di tanto uomo! Ecco venire al mio spirito, sempre, un senso non soltanto di stupore, ma di tremore: quello che lui ha operato, la sua stessa resistenza fisica, la capacità di sostenere tante e tante difficoltà2.

Potete così comprendere il tremore mio nell’accingermi a dettare un corso di esercizi che dovrebbe in qualche modo richiamarsi alle opere e alla figura di Ferrari; grava su di me la tremenda sorte di succedergli sulla cattedra di Ambrogio e insieme il difficile compito di ispirarmi al suo episcopato. Egli è stato un gigante dell’azione, un vescovo dall’agire indomito e instancabile, dal fare pastorale incessante, per decenni. E noi siamo colti da stupore di fronte alla inimitabilità della sua straordinaria resistenza alle fatiche e al lavoro, della sua capacità di sopportare dolorosissime prove e sofferenze. È proprio pregando e riflettendo su di lui che mi si è venuta configurando l’idea germinale per il nostro corso di esercizi. Mi sono detto: perché non prendere in considerazione il “fare”, l’agire del cristiano e del pastore?

Il Vangelo di Matteo Pensando poi a un libro biblico che potesse aiutarci nella riflessione, mi è venuto spontaneamente in mente il Vangelo secondo Matteo, tutto concentrato sul fare. Un Vangelo che riassume il suo messaggio nell’osservanza pratica, come leggiamo nell’ultimo versetto quando Gesù dà la consegna agli undici apostoli: “Insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (28,20); l’insistenza cade sul fare pratico. Tale insistenza è però preparata già nei capitoli precedenti: 25,31-46, nel quadro del giudizio finale che consisterà in un esame sulle azioni concrete: ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato. I giusti risponderanno al Signore: ma quando mai? Ed egli: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (v. 40); “In verità vi dico, ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (v. 45). Chiarissima la sottolineatura del fare: noi saremo giudicati sul fare, sull’aver fatto e sul non aver fatto; 7,24: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica” – la versione greca dice semplicemente “e le fa” – “è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi e la casa non cadde”. Il discepolo è colui che fa la parola; 7,26: al contrario, “chiunque ascolta queste mie parole e non le fa, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia”. Il contesto in cui Gesù dà questi insegnamenti è quello del primo grande discorso di Matteo, il discorso della montagna. Ed è anticipato appunto il criterio del giudizio finale: chi fa è saggio, chi non fa è stolto. Il ritratto del vero discepolo è presentato in precedenza, al v. 21: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio”. Del resto, questa insistenza del Vangelo di Matteo è consona alla sua mentalità tipicamente ebraica. Nella tradizione rabbinica è dal “fare” che si vede la qualità della persona, che si comprende il suo essere. Il titolo degli esercizi Puntando sul Vangelo di Matteo nel desiderio di penetrare il segreto, le

radici del “fare” del cardinal Ferrari, mi è balzato evidente il titolo degli esercizi: Che cosa dobbiamo fare? La domanda è tratta dal libro degli Atti degli Apostoli: subito dopo il discorso di Pietro alla folla, gli uomini di Gerusalemme “si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: ‘Che cosa dobbiamo fare, fratelli?’” (At 2,37). Naturalmente è una domanda che ha riscontro nello stesso Vangelo di Matteo, quando il giovane ricco la pone a Gesù: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?” (19,6). Ho scelto di usare il plurale, perché mi pare che l’interrogativo sintetizzi tante nostre domande, sia spirituali che pastorali. Che cosa dobbiamo fare per conservare la pace, la perseveranza, la serenità nelle prove? Che cosa dobbiamo fare nell’attuale situazione di Chiesa, situazione di fine secolo? Che cosa dobbiamo fare di fronte alle sfide pastorali della nostra società, che cosa dobbiamo fare nel presente smarrimento culturale, sociale, politico? Cercheremo insieme la risposta nelle pagine del Vangelo di Matteo e negli esempi e insegnamenti del cardinal Ferrari, e vi invito a mettervi da subito in preghiera chiedendo al Signore, all’inizio di queste giornate di ritiro, di indicare a ciascuno di noi che cosa deve fare per servirlo, per amarlo, per servire la Chiesa, per avere quel grado di felicità, di gioia, di pace interiore che il Signore gli ha riservato per il ministero. Signore Gesù, dimmi che cosa devo fare per diffondere in mezzo alla mia gente il tuo nome, la tua parola, la tua verità; che cosa devo fare per interpretare rettamente il tempo presente; che cosa devo fare per essere cristiano e prete; che cosa devo fare per salvarmi, per ottenere la vita eterna; che cosa dobbiamo fare per essere Chiesa degli apostoli, per mettere in pratica le indicazioni sinodali3; che cosa dobbiamo fare per vivere la fine del millennio in maniera da glorificare la tua venuta in mezzo a noi. Alcune osservazioni di metodo La prima osservazione è molto importante. Il nostro riflettere su Matteo alla luce della figura di Ferrari è già un fare, un dedicarsi, un buttarsi dentro coraggiosamente. Questo buttarsi dentro – che è già cominciato – vuol dire anche lasciarsi dietro tutto ciò che di buono e di meno buono ci ha accompagnato fin qui:

preoccupazioni, problemi, fastidi, ricordi, arrabbiature, delusioni. Lasciarle un po’ dietro di noi ed entrare in un vero silenzio del cuore, per fare momento per momento la volontà di Dio, con la certezza che quanto facciamo in questi giorni è il meglio che possiamo fare per noi, per la Chiesa, per la gente. È necessario disporre il cuore se vogliamo che in esso maturi davvero la domanda dei gerosolimitani agli apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?” Il buttarsi nel silenzio, nel raccoglimento è particolarmente utile in un corso di esercizi come il nostro, che prevede un numero straordinario di presenze. Altre indicazioni le darò cammin facendo. Prevedo di offrirvi al mattino una meditazione biblica sui cinque grandi discorsi di Matteo riletti dal punto di vista del “fare”; nel pomeriggio, ripenseremo ad alcuni aspetti del “nostro fare” di credenti e di pastori, ispirandoci sia ai discorsi matteani sia agli esempi del cardinal Ferrari. O Maria, tu sei la nostra fortezza di questi giorni nei quali saremo certamente disturbati anche dalle tentazioni del nemico che vorrebbe impedirci il frutto degli esercizi. Di te scrisse Ferrari in una delle ultime lettere alla diocesi: “Secondo le mie forze, sempre vi ho parlato di Maria. Voi lo sapete, e potrebbero dirlo tutte le chiese e gli oratori del territorio. In nessuna mi fu mai possibile di omettere un cenno intorno alla devozione verso la Vergine santissima”. Madre di Cristo, madre dei cristiani e madre dei sacerdoti, a te ci affidiamo e ti preghiamo di metterci nella contemplazione di quelle parole del tuo Figlio che tu consideravi e custodivi nel cuore insieme con i fatti del Signore. Donaci di partecipare al mistero del “fare” di Gesù, così da essere discepoli che non soltanto ascoltano la Parola, ma la fanno e portano frutto per la vita eterna.

I. IL FARE DEL CUORE (MT 5-7) Premesse Richiamo un brano del Discorso sui pastori, di sant’Agostino, che ci è consegnato oggi dall’Ufficio delle letture: “Ogni nostra speranza è posta in Cristo. È lui tutta la nostra salvezza e la nostra vera gloria”4.

Sì, Signore, ogni nostra speranza è in te. Tu sei la mia salvezza, la nostra salvezza, la nostra gloria; la salvezza della mia vita, della mia riuscita di uomo, di cristiano, di prete, di vescovo. Tu sei la salvezza e la gloria delle nostre comunità. Solo affidandoci a te, nostra salvezza e nostra vera gloria, osiamo iniziare il cammino degli esercizi. Per intercessione di Maria, del beato Ferrari che è stato un grandissimo pastore, di tutti i nostri santi e amici del cielo. Poi Agostino aggiunge una parola impegnativa: Ora noi che il Signore, per bontà sua e non per nostro merito, ha posto in questo ufficio – di cui dobbiamo rendere conto e che conto! – dobbiamo distinguere molto bene due cose: la prima cioè che siamo cristiani, la seconda che siamo posti a capo. Il fatto di essere cristiani riguarda noi stessi; l’essere posti a capo invece riguarda voi.

Dunque noi viviamo i giorni di ritiro anzitutto come cristiani, badando a noi stessi; in secondo luogo come responsabili, come pastori, sapendo che nel nostro ascendere in alto o nel bloccarci o nello scendere in basso, trasciniamo con noi tanti altri. Per il fatto di essere cristiani dobbiamo badare alla nostra utilità, in quanto siamo messi a capo dobbiamo preoccuparci della vostra.

La nostra utilità consiste nel pensare a noi, nel silenzio e nel raccoglimento, per verificare il rapporto che viviamo con il Signore. Insieme, però, tutto ciò che facciamo in questi giorni serve alle persone che ci sono affidate; con il nostro sacrificio, la nostra pazienza, con la perseveranza anche nei momenti duri di noia, di ripugnanza, di aridità, di desolazione, combattiamo per loro. Forse molti semplici cristiani giungono a Dio percorrendo una via più facile della nostra e camminando tanto più speditamente, quanto minore è il peso di responsabilità che portano sulle spalle. Noi invece dovremo rendere conto a Dio prima di tutto della nostra vita, come cristiani, ma poi dovremo rispondere in modo particolare dell’esercizio del nostro ministero, come pastori.

La percezione del nostro dover rendere conto a Dio di noi stessi e degli altri, era molto viva nel beato Ferrari che usava tale argomento per esortare il clero agli esercizi spirituali. Risulta infatti che l’Arcivescovo seguisse con estrema cura gli esercizi spirituali dei sacerdoti, così da richiamarli quando si accorgeva che non li facevano regolarmente ogni due anni. Già nel 1893, mentre era ancora vescovo di Como, illustrando l’indispensabilità degli esercizi per la santificazione dei preti, scriveva:

Ora la mia parola si rivolge esclusivamente a voi, venerabili confratelli. Anzi, sono per dirla a voi e a me medesimo, perché tutti ne abbiamo certissimamente bisogno. Dobbiamo ben guardarci dal trascurare noi stessi mentre abbiamo cura degli altri, tanto più essendo verissimo che non potremo aver cura degli altri se prima non l’avremo delle anime nostre5.

Vediamo qui un riflesso della pagina di Agostino, uno stimolo a vivere bene gli esercizi per amore degli altri, delle nostre comunità, a viverli come ricerca personale e come servizio ministeriale alla gente. Lasciamo le preoccupazioni e i fastidi, i problemi irrisolti e le fatiche, proprio nel desiderio di pacificarci e di fare chiarezza in noi a favore della crescita cristiana dei fratelli. Notavo, nell’Introduzione, che la caratteristica fondamentale di Ferrari, la più evidente, è la sua straordinaria capacità di lavoro, di azione, di “fare”. Anche l’ultima biografia, scritta da Angelo Majo e intitolata A.C. Ferrari uomo di Dio, uomo di tutti, descrive così i tratti della sua personalità: Fu uomo di azione e di profonda religiosità. Innanzi tutto uomo di azione. Di fatto egli non fu e non volle essere uomo di cultura, un intellettuale, né mai si atteggiò a esperto di problemi politico-sociali, ma fu uomo di azione, suscitatore di energie, geniale nel valorizzare anche le più modeste, tutte orientandole al bene. Forse anche per questo nativo modo d’essere seppe presto assimilare alcuni caratteri originali della gens ambrosiana, quali appunto l’operosità, lo spirito di iniziativa, la concretezza. Era persuaso che il fare è la verifica più vera del dire. Da qui un’operosità eccezionale che stupiva tutti6.

Ci domandiamo: che cos’è il “fare pastorale”? Quali sono le radici dell’agire, dell’operare, che permettono di non essere degli attivisti, bensì di svolgere vera attività? Lo vedremo in questi esercizi che hanno quale figura ispiratrice il beato Ferrari e il suo instancabile fare di pastore; lo vedremo con l’aiuto del Vangelo di Matteo che è il Vangelo dell’operosità del discepolo; terremo pure presente un documento tipico dell’agire pastorale, l’Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis7, in particolare negli accenni all’operosità del pastore e alle sue radici. Sempre a modo di premessa, voglio anzi leggere un passo dell’Esortazione, che in un certo senso ci descrive e ci fa capire chi siamo noi che ci accingiamo a fare gli esercizi. La formazione permanente costituisce un dovere [non solo per i presbiteri giovani, ma pure] per i presbiteri di mezza età. In realtà sono molteplici i rischi che possono correre, proprio in ragione dell’età, come ad esempio un attivismo esagerato, una certa routine nell’esercizio del ministero. Così il sacerdote è tentato di presumere di sé, come se la propria personale esperienza, ormai collaudata, non dovesse più confrontarsi con nulla e con nessuno. Non di rado il sacerdote adulto soffre di una specie di

stanchezza interiore pericolosa, segno di una delusione rassegnata di fronte alle difficoltà e agli insuccessi8.

Sono dunque quattro i rischi che noi corriamo: l’attivismo esagerato; il continuare tranquillamente in una routine; la presunzione; la stanchezza che porta al disgusto, alla rassegnazione, all’afflosciarsi. Noi rifletteremo su di essi a partire dal primo, cercando di distinguere l’attivismo dal vero fare pastorale, mentre raccomando a ciascuno di voi un breve esame di coscienza sulle domande: quali di questi quattro rischi mi minaccia? O forse ce n’è uno analogo che mi minaccia? Come vorrei che gli esercizi mi aiutassero a vincere i pericoli che incombono su di me? Si tratta, appunto, di rischi tipici dei presbiteri, soprattutto di mezza età, e dobbiamo considerarli seriamente, così da superarli. La preghiera di sant’Agostino, molto bella, ci invita a farlo: Signore Gesù, ogni nostra speranza è in te; tu sai che non posso vincere nessuno di questi pericoli, sai che sono o roso dall’attivismo, o bloccato dalla routine, o irrigidito nella presunzione, o fiaccato dalla stanchezza se tu, mia speranza, non vieni in mio aiuto, se tu, mia salvezza e mia gloria, non mi salvi con la tua potenza! Spesso il Signore ci lascia cadere in uno dei rischi per farci comprendere che è lui il nostro Salvatore e che siamo presbiteri solo per sua grazia. Lectio del discorso della montagna: Mt 5-7 Con gli atteggiamenti che ho suggerito, ci addentriamo in una lectio un po’ ardita e pretenziosa, perché vorremmo leggere in breve, dal punto di vista del fare, il più lungo discorso del Vangelo di Matteo e di tutti i Vangeli: il discorso della montagna. Che cosa è quel fare di cui è pieno il Vangelo matteano, come è descritto in questo famoso discorso? Non si tratta perciò di una lettura esegetica; intendo semplicemente introdurvi a leggere i capp. 5-7 interrogandoci sul fare che sarà oggetto del giudizio finale (cap. 25), sul fare che dobbiamo insegnare come mandato apostolico (28,20), sul fare che costruisce la casa sulla roccia (7,24). Da parte vostra, nel tempo della meditazione personale, rileggerete per intero il discorso della montagna fermandovi sull’uno o sull’altro

suggerimento che vi darò. Divido la lectio in tre parti: lo schema del discorso; il fare nel discorso; qual è la caratteristica di questo fare. Lo schema non è immediatamente evidente ed è dunque difficile elaborarne uno da poter ritenere quasi a memoria; gli esegeti hanno tentato diversi schemi e io stesso mi sono appassionato ora per l’uno e ora per l’altro, dimenticandoli poi tutti. Nel 1990, per esempio, ho trascorso alcuni giorni ad Assisi con i giovani preti, riflettendo sul discorso della montagna, e avevo presentato uno schema che mi pareva straordinario, molto bello: al centro il Padre nostro e dal centro partivano tutti gli altri elementi che si richiamavano a forma di chiasmo; ma mi sono accorto che era troppo complicato da ricordare9. Forse è meglio cominciare a mettere in memoria il discorso parallelo e molto più semplice di Luca, il cosiddetto discorso della pianura o del luogo pianeggiante. Ovviamente Matteo amava le colline della Galilea che salgono dolcemente dal lago, come le amano tutti coloro che le hanno percorse; Luca pensava invece agli spazi pianeggianti che si trovano ogni tanto sulle colline, ai pianori su cui Gesù si è seduto con i discepoli e con la gente. Il discorso in Luca è più breve (cfr. Lc 6,20-49) ed è il più antico. Esso comprende quattro parti: – le beatitudini e i guai (Lc 6,20-26); – il comandamento dell’amore, concentrato sul tema dell’amore ai nemici e che termina con le parole: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,27-36); – il conseguente divieto di giudicare (non giudicate e non sarete giudicati), comandamento espresso in varie forme (“Può un cieco guidare un altro cieco?”, “Non guardare la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello”), e l’invito al perdono (Lc 6,38-42); – il criterio dell’azione (dall’albero si riconoscono i frutti), del mettere in pratica ciò che si è ascoltato (Lc 6,43-49). Matteo riporta i temi di Luca, ma li allarga: conserva l’inizio e la fine, cioè le beatitudini e il criterio del fare, e amplia il centro del discorso. Mantiene le parti del non giudicare e del comandamento dell’amore, però invertendole. Tra i due blocchi che riprendono lo schema di Luca ne inserisce altri tre. Il primo è quello della giustizia più grande, con sei antitesi che sottolineano come la vera giustizia, ben superiore alla giustizia degli scribi e dei farisei, è la giustizia del Regno. Il secondo offre tre esempi – elemosina,

preghiera, digiuno – con cui si mostra che la giustizia va fatta davanti a Dio solo, nel nascondimento. Il terzo blocco o la terza sezione afferma che la vera giustizia è incomparabile a tutto il resto, che i beni del Regno sono l’unico criterio dell’agire. In questa sezione troviamo altri temi secondari e tuttavia legati al tema principale: avrete tesori nel cielo, non preferite mammona a Dio, non preoccupatevi né del mangiare né del bere perché vi basta il Regno, la giustizia perfetta. Riassumendo, le tre parti tipiche di Matteo sono: qual è la giustizia più grande e superiore a quella degli scribi e dei farisei? Qual è la giustizia più vera che si compie davanti a Dio solo? Qual è la giustizia da preferire a tutto il resto, la giustizia che ci toglie l’attaccamento al denaro e ogni preoccupazione vana della terra? Il testo comprende dunque sei parti: – le beatitudini, il sale della terra, la luce del mondo (5,3-16); – la giustizia più grande, le sei antitesi (5,17-48); – la giustizia davanti a Dio solo, con tre esempi (6,1-18); – la giustizia del Regno quale criterio unico delle scelte (6,19-34); – il non giudicare, l’avere fiducia nella preghiera, l’amore sintesi della legge (7,1-12); – il criterio dell’azione pratica per distinguere i discepoli da quelli che non lo sono (7,13-27). Sforziamoci di tenere in mente questo schema del discorso della montagna, perché è un discorso fondamentale per la vita del cristiano e del pastore, per quanto ci è chiesto di compiere nella nostra azione pastorale. Dopo aver proposto lo schema di Mt 5-7, ci domandiamo se davvero il discorso pone l’accento sul “fare”, sull’agire. Per rispondere, ci riferiamo alla parte finale, alla “regola d’oro” che si trova in 7,12: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa, infatti, è la Legge e i Profeti”. È la sintesi di ciò che si può dire sulla Legge e sui Profeti: fate come vorreste che gli altri facciano a voi. E l’evangelista specifica il fare per quattro volte, in modi espressivi, diversi. Ai vv. 13-14, con l’immagine delle porte e delle vie: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti sono quelli che entrano per essa. Quanto stretta, invece, è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi quelli che la trovano!”

L’immagine allude al fare pratico del discepolo: il discepolo o fa secondo l’andazzo comune e si perde, oppure fa e agisce secondo le indicazioni di Gesù – pur se sembrano penose, difficili, minoritarie, controcorrente – e si salva. Dal v. 15 al v. 20 ci viene presentata l’immagine dei falsi profeti: da che cosa riconoscerete i falsi profeti? Forse pesando le loro parole, confrontandole con l’ortodossia? Niente affatto; li riconoscerete dai frutti, dal loro modo di vivere e da quanto ne consegue: “Dai loro frutti li riconoscerete […] un albero buono non può produrre frutti cattivi”. Anche qui il principio determinante è il frutto, l’azione concreta, l’effetto che si ottiene. Nei vv. 21-23, si passa dalla forma simbolica, iconica, alla maniera diretta, descrivendo la figura del discepolo autentico: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Il fare la volontà del Padre è profezia, superiore agli esorcismi e ai miracoli: “Molti mi diranno in quel giorno: ‘Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome’ – nel tuo nome, rettamente, secondo l’ortodossia – ‘e compiuto molti miracoli nel tuo nome?’. Io però dichiarerò loro: ‘Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità’”. È dall’essere operatore di giustizia che si riconosce il discepolo. Una quarta volta è ripetuta l’enfasi sul fare con l’immagine già ricordata dell’uomo saggio che costruisce la casa sulla roccia. Chi è il saggio? Non colui che medita, che prega molto, che riflette, bensì colui che fa, “che ascolta le parole e le mette in pratica”. Viceversa, chi è lo stolto? “Colui che ascolta le parole e non le mette in pratica” e la sua casa cadrà, rovinandolo (vv. 24-27). Non c’è dubbio che il fare, il mettere in pratica gli esempi e gli insegnamenti di Gesù o il non fare, il non mettere in pratica, è per Matteo il criterio di giudizio sul discepolo. Che cosa significa il “fare” che costituisce il discepolo, secondo il discorso della montagna? Qual è il fare pratico simboleggiato dall’albero che dà buoni frutti, dall’entrare per la via stretta, dalla casa costruita sulla roccia? Occorre riprendere una per una le sei parti del discorso che abbiamo schematizzato. In 5,3-16 il “fare” indicato dalle beatitudini è il primo agire pratico indicato da Gesù. Se le consideriamo attentamente ci accorgiamo di essere di

fronte a un agire abbastanza speciale, perché Gesù sottolinea delle situazioni o degli atteggiamenti. Situazioni che, di per sé, sono indipendenti da noi, come quelle degli afflitti, dei perseguitati, degli insultati. Atteggiamenti che consistono nell’essere poveri in spirito, miti, affamati e assetati di giustizia, puri di cuore. E dunque un fare diverso da ciò che avremmo pensato, un fare del cuore, cioè anzitutto interiore. È vero che le beatitudini dei misericordiosi e degli operatori di pace si riferiscono a delle azioni che noi comunemente chiamiamo il fare, tuttavia dal contesto appare che non sono intese semplicemente come gesti singoli, bensì come modi di vivere costanti, come atteggiamenti costanti di perdono, di pacificazione, che non creano tensioni, disagi, litigi, tumulti, ma li placano. Saremo giudicati sul “fare del cuore”, sul modo di essere proprio di chi ha accolto il Regno, su un modo etico di vivere e di comportarsi, la cui forza scatenante è l’annuncio del Regno. Da tale forza fioriscono povertà, mitezza, umiltà, capacità di afflizione e di sopportazione della persecuzione. In 5,17-48 Gesù parla di una nuova giustizia, che non abolisce la Legge e i profeti, perché “chiunque trasgredirà uno solo di questi precetti sarà considerato minimo”. È la giustizia del Regno, che deve superare quella degli scribi e dei farisei e, in proposito, porta degli esempi. Sono le sei antitesi, i sei: “Ma io vi dico”. Se li consideriamo attentamente, ci accorgiamo che i sei esempi indicano un “fare”, un modo di vivere che punta su degli atteggiamenti che in qualche modo riprendono le beatitudini. Per esempio, la prima antitesi: “Fu detto agli antichi: ‘Non uccidere…’, ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio”, ricalca la beatitudine della mitezza, la esemplifica; non bisogna uccidere, ma nemmeno dare dei titoli offensivi al fratello. E nella stessa antitesi prima, al v. 24, si ritorna sulle beatitudini degli operatori di pace e dei misericordiosi: “Lascia il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello”. Al v. 28, la seconda antitesi: “Chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”, è un’esemplificazione di che cosa significa essere dei puri di cuore, dei limpidi che hanno lo sguardo rivolto a Dio solo. Anche la terza antitesi: “Chi ripudia la propria moglie la espone all’adulterio” (v. 31), esprime quella capacità di fedeltà, di purezza, di riconciliazione, tipica delle beatitudini. Perché il ripudio della moglie avviene

per due motivi: o il cuore è corso dietro a un’altra donna – e allora è venuta meno la purezza di cuore, non si è strappato quell’occhio che è stato occasione di scandalo – oppure c’è stata un’inimicizia invincibile – e quindi, non avendo avuto atteggiamenti di misericordia, di perdono, di pace, si è rimandata la donna. La quarta antitesi, vv. 33-37: “Non giurate né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa…”, invoca la sincerità, altra forma della purezza di cuore, che sa dire soltanto le cose libere davanti a Dio; è una forma di povertà di spirito per cui, essendo poveri, non si teme nulla e si è sciolti nel parlare. Atteggiamento che nasce da semplicità, da distacco dalle cose, da purità. La quinta antitesi esemplifica di nuovo la beatitudine della misericordia, dell’operatività di pace, della capacità di perdono: “Fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli l’altra…” (vv. 38-42). Ugualmente la sesta antitesi, l’ultima: “Fu detto: ‘Amerai il prossimo tuo come te stesso e odierai il tuo nemico’; ma io vi dico: amate i vostri nemici… Perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti…” (vv. 43-48). Qui c’è uno squarcio ulteriore di rivelazione del fare evangelico: è l’atteggiamento del misericordioso, di colui che sa sopportare le persecuzioni, che anzi prega per i persecutori, di colui che accetta il male restando in ogni caso operatore di pace, di perdono, di colui che non ha niente da perdere perché ha tutto il suo tesoro in Dio. È il fare evangelico che mostra la nostra figliolanza divina: dal momento che abbiamo accettato il Vangelo della paternità di Dio, ci comportiamo con la fiducia, la serenità, la pazienza, la certezza di beni più grandi che sono propri dei figli. Il fare su cui è giudicato il cristiano è dunque anzitutto un fare del cuore, un atteggiamento profondamente nuovo, segno e frutto del Regno di Dio, della proclamazione del Regno, della figliolanza del Padre rivelata da Gesù. Questo “fare” è già il Regno (ne parleremo ancora nella prossima meditazione), ed è questo fare che gli apostoli devono insegnare: “Insegnando a osservare ciò che vi ho comandato” (28,20). Da qui la conseguenza: un fare così si insegna solo essendo così. 6,1-18 è la terza parte del discorso e ha per tema: fare la giustizia davanti a Dio solo. Conosciamo i tre esempi dell’elemosina in segreto, della

preghiera in segreto e del digiuno in segreto. Non dobbiamo fare nulla per ostentazione: dobbiamo dare l’elemosina, pregare e digiunare di fronte al Padre. Un tema che riprende le beatitudini della purezza di cuore e della fame e sete di giustizia. Chi ha fame e sete di giustizia, la cerca in Dio solo; chi è puro di cuore guarda a Dio solo che scruta nel segreto, senza preoccuparsi degli uomini e affidandosi totalmente al suo Signore. Si tratta di un fare filiale, che viene espresso nel centro del discorso della montagna con il “Padre nostro” (vv. 9-12). La comunità cristiana è una comunità di figli e il suo fare pratico dell’elemosina, della preghiera, del digiuno è comandato dal principio della figliolanza, motivo per cui è discreto, umile, nascosto, non intrusivo, non vanaglorioso. In 6,19-34, quarta parte del discorso, è il fare di chi cerca il Regno come supremo valore, quale criterio unico delle scelte: “Non accumulate tesori sulla terra […] perché là dov’è il tuo tesoro è anche il tuo cuore […] Nessuno può servire a due padroni: non potete servire a Dio e a mammona. Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete”. Questo fare di chi cerca il Regno è tutto all’opposto dell’attivismo esasperato, affannoso, preoccupato: è un fare sostenuto dalla fiducia in Dio, perché non mangia se stesso, non si rode, nella certezza che se si cerca il Regno tutto il resto verrà dato in sovrappiù. In 7,1-12, quinta parte del discorso: non giudicare, abbi fiducia nella preghiera, l’amore è la sintesi della legge. Siamo di fronte alle disposizioni interiori del figlio umile che chiede il pane nella persuasione di ottenerlo dal Padre e per questo non dà al fratello la serpe del giudizio negativo, corrosivo o cinico. “Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello?” Sembrano parole impossibili a realizzarsi. È un fare che suppone un profondo cambiamento nell’intimo dell’essere, un’umiltà che non osa neppure giudicare. “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi” (v. 6). Un versetto misterioso, difficile, ma nella luce e nel contesto della nostra meditazione – dove si descrive il discepolo come uno che non giudica, che vive la sua esperienza di fronte a un mondo protervo, pieno di maldicenze e di accuse da parte di tutti verso tutti – mi pare abbastanza chiaro: il vero discepolo non ha affatto un senso deprimente di sé, perché possiede le cose sante, sa di possedere delle perle e quindi si guarda bene dal farle stritolare dai giudizi critici di persone incompetenti, da giudizi

profani. Non sottopone il suo tesoro, la sua vita evangelica al giudizio del mondo – simile al giudizio che dei porci possono dare su delle perle o dei cani sulle cose sante –; non è toccato dalle calunnie, dalle interpretazioni negative sulla sua esperienza cristiana, ci ride sopra, nella certezza che non esiste paragone tra la perla del Regno e il grugnire o l’abbaiare dell’opinione pubblica, del mondo. È un fare che delinea una personalità molto sicura di sé, chiaramente consapevole dell’ineffabile dono di Dio e, perciò, umile, arrendevole, paziente, non fomentatrice di astio, di odio, di invidia. Il Regno di Dio è il regno dei pacifici, dei poveri, degli umili, di coloro che hanno fame e sete di Dio. Infine 7,13-27, di cui tralascio il commento, perché abbiamo già considerato questa parte, leggendola come sintesi sul fare. Meditatio sul “fare” del discorso della montagna Vi suggerisco, in conclusione, due domande meditative sulle quali potrete riflettere nel silenzio e nella preghiera. Il “fare” pastorale, alla luce del discorso della montagna e tenendo presente 28,20 (“Insegnando a osservare le cose che vi ho comandato”), indica una pastorale che anzitutto è preoccupata di vivere e di far vivere l’atteggiamento profondo che abbiamo descritto. Ecco l’apostolato fondamentale, la missione della Chiesa; una missione che si qualifica non come potenza, come attivismo, come proselitismo, ma come diffusione del modo di vivere che Gesù ha vissuto e ha insegnato a vivere. Tale qualifica ha la sua radice, la sua forza nel battesimo (“Battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”: 28,19) e deve portare frutto in un’esistenza secondo le beatitudini. Che cosa è per me “fare” pastorale? La seconda domanda è più personale: che cosa determina il mio “fare” quotidiano? È per me determinante il fare delle mani, l’agire, il muovermi comunque? Il mio è il fare dell’affanno? Oppure è il fare del cuore, descritto stupendamente nel discorso della montagna? Chiediamo insieme al Padre, che non ce lo negherà, il pane del fare del cuore: O Padre, tu che nulla neghi ai tuoi figli, dammi il pane di questo fare e

non il sasso del mio agire incomposto ed eccitato. Dammi l’uovo che è la pace del Regno, il pegno della risurrezione e non il serpente dell’agitarsi interiormente, del tormentarsi, del lasciarci vincere dal pessimismo, dalla depressione. Tu che sei Padre, dammi il pane del Regno e l’uovo della vita risorta e gioiosa, la vita che ci mostra il tuo Figlio Gesù nostro Signore, primo esemplare vivente di ciò che egli stesso dice nel discorso della montagna; perché il suo dire è parlare di sé, luce, via, verità e vita.

II. LA SANTITÀ DEL DISCEPOLO (MT 5-7) Abbiamo detto che le meditazioni del mattino ci propongono ciascuna uno dei cinque grandi Discorsi di Matteo, e ci siamo già fermati sul discorso della montagna. Nel pomeriggio, invece, ci impegniamo nella considerazione dello stesso tema biblico a livello più personale. Ora, per esempio, rifletteremo sulla santità del discepolo in Mt 5-7. Mi sembra utile, a modo di introduzione, ricordare come la meditazione “Il fare del cuore” corrisponda alla prima parte del Principio e Fondamento negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che sottolinea il fine dell’uomo: “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, così, la propria anima” [23]. Di fatto il discorso della montagna delinea quel fine dell’uomo che è la giustizia del Regno, intesa appunto, nel linguaggio matteano, quale perfetta giustizia. Potremmo anche definirla come “umanità pienamente espressa”, cioè umanità completamente a posto nel rapporto con Dio, con sé e con gli altri, l’essere dalla parte di Dio secondo il suo piano di salvezza. E lo scopo, il fine proposto a ogni creatura umana, è la santità: un’esistenza autentica nel quadro realistico del peccato e della redenzione. Non a caso il discorso della montagna parla di nemici, di adulterio, di cuore impuro, di tutte le forme di divisioni operanti nel mondo; in esse e mediante esse l’uomo raggiunge la pienezza della sua verità in relazione a Dio e ai fratelli. L’ideale del discorso della montagna è un’umanità sviluppata nelle sue molteplici potenzialità che comprendono, nel quadro della morte e della risurrezione di Cristo, la vittoria sul peccato e la partecipazione alla vita del Risorto. Un’umanità felice, beata, perché ha trovato la perla preziosa; esistenza tipica di chi ha colmato il divario tra l’essere e il dover essere, divario che è la radice di ogni sforzo morale; qui si giunge a cogliere il dover

essere come realizzabile, sull’esempio di Gesù, con e in lui. Così va capito il vivere dell’uomo secondo il discorso della montagna. E se è presentato in questo modo, come l’esperienza felice di chi ha risolto il problema esistenziale, del proprio dover essere, è forse possibile non volere la felicità, la contentezza, la gioia, la pienezza? Tutta la morale di san Tommaso prende avvio da questo punto di partenza: gli uomini vogliono essere felici, dunque l’essenziale è trovare dov’è la vera felicità. Mt 5-7 insegna dov’è sulla terra la vera felicità, che è nello stesso tempo la gloria di Dio. Vorrei appunto approfondire tale ideale, avvicinarlo a noi attraverso tre domande: A chi ti rivolgi, Gesù, quando pronunci il discorso della montagna? Che cosa ci proponi, in concreto? Come queste cose vengono ripetute, in linguaggio moderno, dai nostri due riferimenti, il cardinal Ferrari e l’Esortazione Pastores dabo vobis? A chi si rivolge il discorso della montagna Signore, a chi e per chi parli con questo discorso? A chi si rivolge sia nella struttura originaria sia nella redazione di Matteo? Sappiamo che gli esegeti hanno discusso a lungo su chi fosse il destinatario del testo. Io pure ho oscillato tra diverse soluzioni, perché non è facile rispondere e perché la risposta può portare conseguenze di cui si ha magari paura. Alcune teorie minimaliste hanno dichiarato, per esempio, che il discorso esprime una morale, un’etica cosiddetta interinale, utile per il breve periodo che precede la catastrofe finale, l’ultimo sforzo che l’uomo deve compiere prima di un’escatologia imminente. Se ne spiegherebbero in tal modo le eccessive esigenze: di fronte all’imminenza della fine del mondo, vale la pena di vivere così. Altri autori ritengono – ho spesso inclinato per questa opinione – che si tratta di un’etica per i discepoli più che per la massa, di un’etica chiesta a chi sceglie radicalmente Gesù: i preti, i diaconi, le persone consacrate. Il v. 5,1 favorisce tale interpretazione: “Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola li ammaestrava…” E ci sono altri brani del discorso della montagna applicabili specificamente ai discepoli: “Beati i perseguitati per amore della giustizia… Beati voi quando vi insulteranno” (5,10-11). È chiaro che si pensa

anzitutto ai discepoli, a coloro di cui si dirà, nel discorso della missione: “Sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia…” (cfr. 10,1719). E anche l’affermazione: “Beati i poveri in spirito” (5,3) rimanda alle indicazioni di non portare “né oro né argento” (10,9-10), date ai discepoli. Ci sono dunque dei buoni motivi per sostenere che il discorso della montagna ha di mira anzitutto i discepoli, i consacrati, i presbiteri, i diaconi. Tuttavia non sono motivi sufficienti. La finale, per esempio, richiama la folla: “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento” (7,28). Le folle sono ben individuate ancor prima dell’inizio del discorso: “Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano. Vedendo le folle salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i discepoli” (4,25). Ricaviamo l’impressione che ci fossero le folle e i discepoli e che, se alcune parole appaiono direttamente rivolte ai discepoli, le folle le ascoltano, le sentono per loro; Gesù si ferma su situazioni che riguardano tutti (inimicizie, divorzio, impurità del cuore), sulle esperienze di vita della gente. L’interpretazione più logica, perciò, va nella linea di un discorso programmatico pronunciato da Gesù per il suo popolo. È interessante notare che, indicando le folle, Matteo menziona cinque luoghi di provenienza (dalla Galilea, dalla Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano), mentre nel testo parallelo di Luca sono ricordate anche Tiro e Sidone. Matteo non le nomina di proposito perché pagane: il discorso è rivolto all’Israele di Dio, al popolo che Gesù è venuto a radunare (dirà alla donna Cananea: “Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele”, 15,24), al popolo chiamato per primo a essere il popolo di Dio. È a questo popolo che Gesù presenta lo statuto del Regno; naturalmente anzitutto ai discepoli che saranno gli strumenti per la diffusione di tale messaggio, gli operai delle grandi masse per Israele (cfr. cap. 10); viene presentato ai discepoli ma per la gente, per la folla, a cui loro insegneranno a osservare ciò che Gesù ha comandato. È un discorso di santità per il popolo, nella missione temporale di Cristo, e diventerà, in 28,20, per tutti i popoli, fino all’estremità della terra. I discepoli, primi destinatari, dovranno vivere pienamente questo statuto per insegnarlo testimoniandolo. Così noi, successori degli apostoli e dei discepoli, chiamati a farlo vivere ai fedeli, alle comunità. Da qui la necessità di coglierlo in tutta la sua forza.

Che cosa propone concretamente il discorso della montagna Siamo forse al punto più delicato e importante della riflessione. Se il discorso è per tutti, non può essere un messaggio di eroismo elitario, che si vive sotto pressione, con uno sforzo straordinario. Al contrario è un messaggio di grazia, che è grazia e dà grazia. Lo dimentichiamo spesso quando sottolineiamo le esigenze etiche del discorso della montagna. Ritorniamo al versetto introduttivo, 4,23: “Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo”. Queste parole costituiscono un sommario dei capitoli seguenti, fino alla fine del cap. 9 che le ripete identicamente: “Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il Vangelo del Regno e curando ogni malattia e infermità” (v. 35). È chiaro che Matteo intende collegare 4,23, che precede il discorso della montagna, con 9,35, che conclude la sezione dei dieci miracoli. Se è così, possiamo dire che 4,23 contiene la sintesi di quanto verrà detto dopo, precisamente ai capp. 8 e 9 che raccontano i dieci miracoli (lebbroso, centurione, suocera di Pietro, tempesta sedata, indemoniati, paralitici, emorroissa, figlia del capo della sinagoga, i due ciechi, il muto), che mostrano Gesù mentre “cura ogni sorta di malattia e di infermità del popolo”. Ma dov’è allora che insegna “nelle loro sinagoghe e predica la buona novella del Regno”? Ovviamente nei capp. 5-7: il discorso della montagna è sintetizzato come insegnamento e predicazione del Regno. Che cosa significa? Significa che la buona novella è già l’insegnamento etico del discorso della montagna. Il discorso non è soltanto la condizione per entrare nel Regno, le esigenze etiche del Regno; è già annuncio del Regno, è già grazia e salvezza. E questo è fondamentale per la nostra predicazione morale. Tento di approfondire tale aspetto con una riflessione sugli imperativi del testo; imperativi impliciti nelle beatitudini (se vuoi essere felice, sii povero in spirito, sii puro di cuore…) ed espliciti nel resto del discorso: lascia il tuo dono presso l’altare, cava il tuo occhio quando ti dà scandalo ecc. Ci viene in aiuto il confronto con gli imperativi in Paolo che – notano gli esegeti – si collocano in una prospettiva diversa. È infatti usuale, per l’apostolo, la derivazione dell’imperativo dall’indicativo. “Giustificati dunque per la fede” (è l’indicativo) “noi siamo in pace con Dio… ci vantiamo nelle tribolazioni” (i verbi esprimono l’esortazione,

l’imperativo): le conseguenze etiche sono il frutto dell’annuncio e l’annuncio è la giustificazione per la fede (cfr. Rm 1 ss.). E in Rm 12,1, dopo aver annunciato nei primi undici capitoli la giustificazione gratuita per la fede nel sangue di Cristo, dà l’insegnamento morale: “Vi esorto, fratelli, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio”. Gli imperativi paolini conseguono al kérygma10 precedente. Ancora, in Col 3,1: “Se dunque siete risorti con Cristo” (indicativo) “cercate le cose di lassù”, “mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra” (imperativo). La visione paolina pone l’aspetto morale quale imperativo derivante dalla grazia che ha invaso l’uomo, lo ha reso figlio, lo ha colmato dello Spirito. Noi siamo abituati a questo schema: annuncio della salvezza, della misericordia, del Regno e, quindi, il dovere morale. In Matteo, invece, accade qualcosa di diverso. L’imperativo, che appare fin dal primo discorso di Gesù, è il contenuto stesso del messaggio, è già annuncio di grazia, di salvezza, è già Regno vissuto, quando è accolto. È fondamentale capire questo stile espressivo e noi lo vogliamo fare rispondendo meglio alla domanda: come mai l’imperativo matteano è grazia? È grazia perché nella prospettiva della potenza di Dio che viene e rovescia la potenza del peccato, l’uomo è caricato di energie nuove; come il Regno, in Gesù, ha operato i miracoli, così nell’uomo a cui è venuto il Regno, la potenza divina si rivela quale purità di cuore, misericordia, capacità di fare pace, mitezza, povertà di spirito. Vi porto un caso tipico: “Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il Regno di Dio” (12,28). Possiamo dire: se un uomo vive una purezza di cuore tale da non guardare un’altra donna, se un uomo è pacifico e misericordioso al punto di perdonare la propria moglie, allora il Regno di Dio è in lui, lo Spirito di Dio opera in lui. Se un uomo, in virtù dello Spirito, porge l’altra guancia a chi lo ha percosso, è giunto per lui e per voi il Regno, la forza di Dio si sta manifestando. Ampliando il concetto, l’imperativo di Matteo è grazia perché chi lo pratica mostra di essere già membro del popolo dell’alleanza, di aver accolto l’appello di Gesù che vuole radunare tutto il suo popolo sotto le sue ali; qui ha inizio la Chiesa in quanto popolo della benevolenza divina. L’imperativo è grazia perché porta a compimento la grazia dell’elezione del Primo Testamento, rivelando le intenzionalità profonde, le implicazioni ultime della Legge. Non si tratta di un’economia opposta, bensì dello scoppio, per così dire, dell’economia di Israele, giunta a compimento nei

comportamenti che rivelano la presenza dello Spirito. Tutto questo Matteo quasi lo suppone; egli parte dal vissuto, dalla pratica, dal fare, però da un fare che ha tali dimensioni, da un fare che annuncia, proclama, rende presente il Regno. Gesù stesso inizia questa proclamazione indicandone i segni nell’umanità rinnovata, nel modo di essere persone felici e realizzate; non in un mondo etereo o idilliaco, bensì in un mondo peccatore, un mondo dove ci sono impurità, lascivie, odi, guerre, dove c’è da sopportare inimicizie, dove ci sono ostentazioni, vanità, invidie, rivalità. Proprio in questo mondo è immessa la forza innovativa e redentrice del Regno. Dalle precedenti riflessioni possiamo trarre un breve corollario per la predicazione morale. Più volte noi ci appelliamo alla legge evangelica per sostenere gli imperativi morali, magari nel campo familiare o della sessualità. Diciamo: la legge del Vangelo è così e dobbiamo osservarla pur se è dura, non si può trasgredire, non si può andare contro i comandamenti del Signore. È un insegnamento in sé corretto, ma non è né paolino né matteano. Se fosse paolino dovrebbe partire dalla gioia dello Spirito: da essa, infatti, sgorga quella spontaneità dell’amore che trova questo modo di vivere più degno di un uomo redento, che partecipa con Cristo alla pienezza dell’umanità nuova. Allora il discorso sarebbe completo. Se fosse davvero matteano, proclamerebbe le esigenze morali quali vittoria di Cristo. Nel quadro del discorso della montagna, il divieto del divorzio, per esempio, va visto nell’ambito della grazia che rende puri di cuore, misericordiosi, operatori di pace. In realtà quello che noi diciamo rimane un insegnamento di limiti da non valicare (dura lex sed lex) e perciò non convince la gente. Occorre invece mostrare che l’ideale umano proposto da Gesù – e a cui la fragilità umana può ribellarsi – è più grande del suo contrario; non è semplicemente una chiusura alla felicità umana, è piuttosto un’indicazione che parte dalla ricchezza delle beatitudini, dalla loro forza e dal cuore trasformato che esse esprimono. Dalla nostra consueta predicazione morale, chi ascolta non riceve nessuna forza, anzi cerca le ragioni per sottrarsi, non avendo colto quella vita nuova che sola permette di rendere accettabile concretamente, cioè recepibile il messaggio. È dunque assai importante che il discorso morale sia davvero o paolino o matteano e non un estratto ridotto, semplificato dell’uno o dell’altro, che si

limita alla pura esposizione della legge concludendo: questo è il Vangelo. No, il Vangelo è molto di più, è la forza di Dio che, penetrando nella storia, cambia il cuore dell’uomo e gli apre sentieri di felicità e di libertà nella purezza di cuore, nella capacità di operare pace e di essere misericordioso, di vivere con scioltezza la sofferenza e il pianto; la forza di Dio è l’unica in grado di attraversare le oscurità dell’esistenza vincendole. La proposta cristiana non è astratta, non è elitaria; è per un popolo che piange, che soffre, per gente affaticata, oppressa, che si trova gli orizzonti chiusi e ha bisogno di spalancare le finestre del cuore. Ecco la santità cristiana del discorso della montagna. Come ritradurre il discorso in termini moderni Infine, mi sembra utile vedere, richiamando alcuni testi del beato Ferrari e della Pastores dabo vobis, come il discorso della montagna è esprimibile in linguaggio nostro. Cito quindi delle espressioni di Ferrari riguardanti la santità sacerdotale, cominciando da un suo discorso in cui asserisce l’assoluta necessità, per il pastore, di tale santità, così come l’abbiamo descritta: La nostra vita è per vocazione e per missione vita di perfezione e non è possibile fermare il passo a mezzo l’erta: o tenerci in alto al vertice della santità o precipitare nell’abisso della colpa. È perciò necessaria una vigilanza speciale e continua su noi stessi11.

Sono parole molto forti che potremmo tradurre, secondo la nostra riflessione: o il Vangelo viene colto in tutta la sua ricchezza oppure viene ridotto ad alcune norme di vita un po’ dure da osservare, con le quali ci scontriamo, anche, come uomini peccatori, fragili. In quest’ultimo caso rifiutiamo quella pienezza del Vangelo che sola è capace di condurci alla santità, in quanto la pienezza evangelica è un invito alla giustizia perfetta del Regno. In una Lettera al clero, il beato Ferrari spiega chiaramente il fine della santità sacerdotale: “Andiamo agli esercizi soprattutto per restaurare in noi l’immagine di Gesù Cristo nostro Signore, sacerdote e pastore eterno”12. Qual è l’immagine di Gesù Cristo? Quella che Gesù dà di sé nel discorso della montagna: mite, buono, misericordioso, capace di perdonare i nemici, pronto a dare la vita per loro. Gli esercizi intendono quindi riportarci al fine della santità, che è “restaurare in noi l’immagine di Cristo, sacerdote e pastore eterno”. “Andiamo agli esercizi per ripetere a Gesù il ‘sequar te

quocumque ieris’, con vero spirito di umiltà, di fede, di pietà e di carità, che sono le quattro pietre angolari dell’edifizio della santità sacerdotale”13. Non è Cristo un riferimento generico; dobbiamo imitarlo nel concreto attraverso gli atteggiamenti evangelici delle beatitudini. È il linguaggio con cui Ferrari sintetizza i temi fondamentali del discorso della montagna. E ancora diceva, in un documento con i vescovi lombardi del 1916: “La vita del sacerdote dev’essere l’esempio vivente di ciò che predica… Siamo strumenti nelle mani di Gesù Cristo e della Chiesa, ma strumenti razionali, che devono conformarsi allo Spirito di Cristo e della Chiesa”14. A partire dalla sua esperienza vissuta di santità, l’arcivescovo ripeteva in maniera semplice gli insegnamenti evangelici. Il n. 20 della Pastores dabo vobis mi ha colpito perché descrive la santità sacerdotale sottolineando i medesimi temi di Ferrari: la configurazione a Cristo sacerdote, l’essere strumenti vivi di Cristo eterno sacerdote. Ciò evidenzia come la dottrina cristiana, proposta nel Vangelo, sempre si ripropone arrivando fino a noi. Con il sacramento dell’Ordine i presbiteri si configurano a Cristo sacerdote come ministri del Capo, allo scopo di far crescere e edificare tutto il corpo che è la Chiesa, in qualità di cooperatori dell’ordine episcopale […]. I sacerdoti sono [rispetto ai fedeli, tutti chiamati alla santità] specialmente obbligati a tendere a questa perfezione, poiché essi – che hanno ricevuto una nuova consacrazione a Dio mediante l’ordinazione – vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di Cristo eterno Sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera, che ha reintegrato con divina efficacia l’intero genere umano.

Raccomando a ciascuno di voi la rilettura di questo numero 20 dell’Esortazione post-sinodale, nella convinzione che può aiutarvi nella meditazione silenziosa. Domande conclusive Una domanda pastorale: com’è la mia predicazione morale? È puramente moralistica, indicando correttamente i limiti dell’agire umano, anche se con qualche consapevolezza che l’indicarli non convince di natura sua, non è sufficiente, pur se scarica la mia coscienza? Oppure è una predicazione paolina, che proclama cioè le ricchezze dello Spirito divino diffuso nei nostri cuori, per fare poi comprendere come da tale pienezza di Spirito nascono i frutti “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza” di

Gal 5,22, che è un altro modo di esprimere il discorso della montagna? O è forse una predicazione morale tendente a essere matteana, che proclama le esigenze morali quale vittoria di Cristo nell’uomo nuovo, quindi in maniera convincente e attraente (che suscita nell’ascoltatore l’esclamazione: come sarebbe bello vivere così!)? Sovente la gente ritiene che l’insegnamento della Chiesa in certe materie è sorpassato, intristisce l’esistenza. Per questo occorre mostrare attraverso il collegamento con le beatitudini, con quei modi che permettono all’uomo una vita autentica, aperta, gioiosa, piena anche in un mondo oscuro e confuso, che la morale cristiana è attualissima e dona di vivere serenamente e nella libertà del cuore. La seconda domanda è più personale: come guardo oggi, in questo primo giorno di esercizi, la mia chiamata alla santità presbiterale? Vi guardo con paura e nel sospetto che mi chieda troppo? Vi guardo con sconforto, quasi con rassegnazione, perché la ritengo lontana da me? Oppure vi guardo con desiderio, persuaso che la chiamata alla santità è la grazia che il Signore adesso mi fa, è il dono con cui lo Spirito riempie il mio cuore, è la vittoria del Regno oggi in me?

III. IL “FARE” DELLA MISSIONE IN UN MONDO OSTILE (MT 10) Introduzione “Irradia, o Dio, negli animi nostri la luce pura e rasserenante della tua verità e fa’ che non ci lasciamo offuscare dalle tenebre della colpa noi che viviamo nella tua conoscenza e nel tuo amore”15. Noi ti chiediamo, o Padre, di irradiare negli animi nostri, in questi giorni, la luce pura e rasserenante della tua verità. Fa’, o Signore, che leggendo, meditando, lasciando penetrare in noi le pagine del Vangelo del tuo Figlio, sentiamo irradiare nel cuore quella luce della tua verità che purifica, acquieta l’esistenza, la rende vita filiale abbandonata a te. Fa’ che non ci offuschino le tenebre della colpa. Quali possono essere le tenebre della colpa? Negligenze, pigrizie, paura di buttarsi nella meditazione e nella preghiera personale silenziosa, forse anche senso di inadeguatezza, di lontananza da ciò che viene detto.

Tutti artifici di Satana per cercare di offuscarci, di impedire che la luce della verità evangelica riscaldi il nostro cuore. Donaci, Signore, di vivere nella tua conoscenza e nel tuo amore. Davvero la conoscenza che otteniamo del tuo Figlio, attraverso le pagine del Vangelo, è nutrimento dello spirito e fonte di amore. Donaci, o Padre, di nutrirci così, di leggere nelle parole del tuo Verbo il riflesso di te, un raggio della tua Trinità, una qualche partecipazione al mistero d’amore che regge il mondo e l’universo. Amen. Vogliamo meditare i testi biblici sapendo che dietro a essi c’è la presenza trinitaria: il Padre che ci invia il Figlio, il Figlio che ci rivela se stesso, lo Spirito che opera in noi. Entriamo quindi nella comunione profonda con Dio e tra noi che insieme ascoltiamo, preghiamo, adoriamo. Dobbiamo approfondire il secondo discorso di Gesù nel Vangelo di Matteo, il cosiddetto discorso di missione, che rappresenta un ampliamento del “fare del cuore”, e vedremo che molte pagine di esso sono dedicate al rapporto tra missione e ostilità del mondo. Procederò per successivi momenti: collocazione del discorso in relazione ai paralleli degli altri sinottici e nel suo schema globale; lectio del discorso nel proposito di cogliere la risposta alla domanda: qual è il “fare” della missione, raccomandato da Gesù?; meditatio sulle caratteristiche del “fare” della missione. Aiutaci, Gesù, a comprendere la forza e il peso, il pungolo delle tue parole per noi che ci accingiamo alla nuova evangelizzazione, perché essa non può certamente che rifarsi alla prima, alle disposizioni che tu hai dato ai Dodici. Struttura del discorso di missione Il discorso è composto da Matteo con molta cura ed è facile ritrovare sia in Marco che in Luca gli elementi, sparsi qua e là, da lui utilizzati e sviluppati. Per esempio, in Mc 3,13-19, leggiamo la chiamata dei Dodici e il loro elenco, posti da Matteo all’inizio del cap. 10. In Mc 6,7-13, ci sono le disposizioni di Gesù, assunte da Matteo con altro

materiale. In Lc 6,12-16, la chiamata e l’elenco dei Dodici; in 9,1-6 le disposizioni per la missione, che lo stesso Luca riprende in 10,1-16 narrando la missione dei settantadue. Matteo ha inglobato questi elementi – e anche altri, che non possiamo qui menzionare, ma sono citati a margine delle edizioni del Nuovo Testamento –, ha raccolto quanto pensava utile riportare sulle istruzioni di Gesù a proposito della missione, e ha redatto il cap. 10 per esprimere in quale modo il “fare del cuore” si irradia e diviene il “fare della missione”. In 5,13-16 Matteo aveva accennato al tema della missionarietà: Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? […] Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli.

Tale accenno viene ampliato nel cap. 10. Come per il discorso della montagna, non è facile tracciare uno schema, perché Gesù parla del tema della missione da diversi punti di vista. Possiamo comunque dividere il discorso in tre parti: la chiamata degli operai, soggetti della missione: 9,3510,4 (è meglio iniziare la lettura da 9,35 perché ci dà lo sfondo della chiamata); le indicazioni concrete per la missione: 10,5-39; alcune parole conclusive: 10,40-42. Lectio del discorso di missione La lectio parte dunque da 9,35, dove si riprende quasi alla lettera il v. 4,23 che precedeva il discorso della montagna: “Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il Vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità”. È una sintesi importante; infatti ciò che segue è la consegna da parte di Gesù della sua missione ai Dodici. Quanto Gesù ha fatto nei capp. 5-9 (sezione del discorso della montagna e dei dieci miracoli) viene ora affidato agli apostoli. Il v. 36, bellissimo, descrive lo sfondo emotivo della missione: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore”. Dalla compassione di Gesù nasce la missione e questa compassione, radice della missione, la comunica ad altri. Il v. 36 mi è

particolarmente caro perché mi ricorda il corso di esercizi spirituali che, nel 1978, ho tenuto a Paolo VI sul Vangelo di Matteo; era l’ultimo anno della vita del Pontefice e io partii proprio da quel versetto, dalla compassione di Gesù quale chiave interpretativa della missione. È il cuore di Cristo che ci ama e soffre per la nostra situazione di stanchezza, di sfinimento, di smarrimento. Segue una parola di Gesù, pure molto importante: “Allora disse ai suoi discepoli: La messe è molta, ma gli operai sono pochi!” (v. 37). Lo sfondo è escatologico, il termine “messe” indica il tempo finale, della raccolta. Gesù sente l’urgenza del tempo che avanza, mentre non si è pronti per la mietitura. Anche da questa urgenza nasce la missione. “Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe” (v. 38). Tutto ciò che verrà dopo è soltanto opera del padrone della messe: gli inviati sono semplicemente operai, responsabili della messe in seconda istanza. Il primo responsabile è il Padre, che ha mandato Gesù il quale invia gli apostoli. C’è qui una certa intuizione del mistero trinitario: il padre manda il Figlio, il Figlio invia i suoi nella grazia dello Spirito. In 10,1-4 sono presentati i nomi dei Dodici, quali soggetti della missione: a loro anzitutto si rivolge il discorso per la prima missione, però nei Dodici, secondo il linguaggio matteano, si intravede già la Chiesa, fondata sui Dodici che saranno poi inviati a tutto il mondo. Quindi le norme per la missione, se da una parte sono storicamente condizionate al tempo dell’invio dei Dodici, vanno lette per la missione di tutti i successori degli apostoli e dei discepoli. Qui i Dodici stanno per l’intero popolo di Dio che rappresentano. È la Chiesa a essere interpellata dal discorso di missione, pur se attraverso una mediazione storica e certi condizionamenti oggi in qualche maniera superati, ovviamente nella lettera, non nello spirito. La parte più ampia del discorso va da 10,5 a 10,39: “Questi Dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti…” (v. 5). Per l’utilità della vostra meditazione, distinguo la sezione in sei passi successivi, quali risposte ad altrettante domande: per chi è questa missione? Che cosa contiene? Come va compiuta? Quale frutto si spera? Con quale sorte sarà compiuta? Con quale animo bisogna andare in missione? Per chi è la missione? “Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani. Rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa di Israele” (vv. 5-6).

È una missione che riflette quella di Gesù: radunare Israele, portare a compimento le profezie e fare di Israele un solo popolo (ho accennato al condizionamento storico). Israele è il primo destinatario della missione ma, collegando questa parola con 28,19: “Andate e ammaestrate tutte le nazioni”, si chiarisce che il popolo ebraico è simbolo dell’umanità. Che cosa contiene? Il contenuto è espresso in maniera molto breve nei vv. 7-8: “Strada facendo, predicate che il Regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni”. La missione di Gesù, delineata nei capp. 5-7 per quanto riguarda la dottrina e nei capp. 8-9 per quanto riguarda la prassi, viene trasmessa agli apostoli chiamati a continuare e a moltiplicare l’opera, il “fare” di Gesù. Quindi la missione è un servizio concreto che cambia la situazione, cambia la gente, che incide nella vita dell’uomo; una predicazione puramente verbale non è nelle intenzioni di Gesù. Il discorso si presenta assai più ampio dal v. 8 in avanti, quasi che a Gesù interessasse soprattutto istruire sul “come” della missione: come, con quale frutto, con quale sorte, con quale animo. A mio avviso, questa parte più nuova applica il “fare del cuore” del Sermone della montagna all’agire missionario. L’indicazione sul come va compiuta la missione inizia al v. 8b, “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, e comprende anche i vv. 9-10: “Non procuratevi oro né argento né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio né due tuniche né sandali né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento” (“Beati i poveri in spirito… non accumulate tesori sulla terra”: 5,2; 6,19). La missione richiede povertà e gratuità, somma povertà e somma gratuità, condizioni che a una prima lettura ci tolgono il fiato. Inoltre deve essere piena di fiducia: Dio penserà a voi, la gente sarà strumento della provvidenza di Dio, non avete nulla di che preoccuparvi. È davvero il “fare del cuore” trasferito nella missione: se il Signore pensa agli uccelli del cielo che non seminano e non mietono, “non farà assai più per voi, gente di poca fede?” (6,26.30b). Il vostro modo di agire gratuito, umile, disinteressato, pacifico, mite, è già missione. Possiamo riconoscerci nelle norme di Gesù? La Chiesa, la sua missione, è riconoscibile da queste parole? Lasciamo che le domande arrivino al cuore e, magari, ci disturbino. Al v. 11 è sottolineata pure la correttezza, l’attenzione alla situazione: “In

qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se vi sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza”. Voi siete la città sul monte, tutti vi guardano e dovete quindi comportarvi correttamente, con dignità, con trasparenza, in modo da edificare. Quale frutto si spera? “Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne sarà degna, la vostra pace scenda sopra di essa; ma se non ne sarà degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi. In verità vi dico, nel giorno del giudizio il paese di Sodoma e Gomorra avrà una sorte più sopportabile di quella città” (vv. 12-15). Il frutto non è univoco, non è soltanto risposta favorevole, successo, plauso, battimani. Dipende dagli ascoltatori; quando la missione è accolta suscita pace, quando non è accolta, vi sarà giudizio. La missione è come il messaggio e il missionario riceve la medesima accoglienza del messaggio. Egli è operatore di pace – secondo il discorso della montagna – e da parte sua diffonde pace; è luce e va messa sul moggio, ma dalla luce ci si può anche nascondere, fuggire; il sale può portare salvezza oppure può far bruciare. Si tratta dunque di un messaggio che divide, che distingue i cuori e non ha necessariamente un’accoglienza soltanto positiva. Gesù intravede con limpidezza che il fare missione implica pure un contesto ostile, ribelle. Matteo sviluppa allora il tema della sorte: con quale sorte si compie la missione? Mi limito qui a richiamare qualche parola tipica dei vv 16-25: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (v. 16a); è un programma di contrasti, di sofferenze, di assalti, di resistenze, di tranelli, di insidie. “Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (v. 16b). Seguono le indicazioni più concrete sulle persecuzioni: “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe” (v. 17) ecc. Si verifica ciò che è stato detto nelle beatitudini: beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia, beati voi quando vi insulteranno per causa mia. La sorte del “fare del cuore” è la stessa dell’agire missionario, ma proprio qui si realizza la beatitudine, ci si affida completamente al Padre, si cerca il Regno di Dio e la sua giustizia e il resto verrà dato in sovrappiù: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in

voi” (vv. 19-20). Dunque, nella missione respinta, osteggiata, rifulge il “fare” del discepolo che diventa luce del mondo e sale della terra. Le metafore di 5,13-14 (sale e luce) risplendono nel momento del contrasto e della difficoltà. E Gesù conforta su questa sorte: “Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Belzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!” (10,24-25). La vostra sorte è la mia, la vostra missione è il prolungamento della mia. Dopo aver delineato il contesto di ostilità verso l’annuncio, in un’ultima serie di indicazioni (vv. 26-39) Gesù risponde alla domanda: con quale animo vivere tutto questo? “Non li temete poiché non c’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato […] Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (vv. 26-28). Di nuovo ci si richiama al discorso della montagna, all’abbandono alla provvidenza per sottolineare l’animo con cui il missionario deve affrontare le difficoltà bandendo ogni timore. Leggiamo ai vv. 29-31: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà in terra senza che il Padre vostro lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri” (cfr. 6,25-34). La totale fiducia in Dio diviene decisione assoluta di confessare il Signore, acquistando così una valenza cristologica e teologica. In 10,32-39 leggiamo: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (vv. 32-33). Gesù continua segnalando le tensioni portate dal suo messaggio e conclude, al v. 39: “Chi avrà trovato la propria vita la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia la troverà”. La missione è occasione di decisione esistenziale piena; con l’ostilità che incontra mostra ciò che c’è nel cuore dell’uomo, rivela se il cuore intende davvero affermare Gesù nella sua regalità, nella sua dignità di Figlio. È l’affermazione della radicale dedizione cristiana. Termina qui la parte di istruzioni che, partendo dal modo di comportarsi, si sono elevate a una riflessione sulla persecuzione e sul contrasto. Matteo ha preso degli elementi dai discorsi escatologici di Luca, da situazioni di

pericolo della comunità e li ha inclusi nella missione come momento esemplare. È soprattutto chi vive la missione colui che vive la persecuzione. La sorte della comunità cristiana è espressa specialmente come la sorte dei missionari. I vv. 40-42 potrebbero rispondere alla domanda: con quale ricompensa si predica la missione? La ricompensa è di essere come Gesù: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (v. 40). La ricompensa è di essere inseriti in quella missione che dal Padre va a Gesù e da Gesù a colui che egli invia e che riceve la mercede del discepolo. “E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa” (v. 42). Persino chi avrà dato un bicchiere d’acqua a un discepolo verrà ricompensato. Tutto sarà ricompensato – dichiara Gesù –: chi entrerà nel mistero della sua missione, parteciperà alla sua sorte. Meditatio: che cos’è il “fare della missione” Vi suggerisco qualche pensiero di meditatio rispondendo a: che cos’è questo “fare della missione”? Commentando versetto per versetto, abbiamo notato come si tratta di un “fare” che richiama il discorso della montagna e ne enuncia i frutti, l’irradiazione apostolica. È la prima riflessione che rimbalza evidente dalla rilettura del discorso di missione. Possiamo dire, in seconda battuta, che, negativamente, non è sottolineato nessuno dei problemi che ci preoccupano tanto: né l’organizzazione interna della missione (“Signore, quali sono gli strumenti, i tempi, le tappe di una catechesi?”) e nemmeno l’organizzazione esterna, cioè i rapporti tra i responsabili, tra responsabili e comunità, le divisioni di territori, le relazioni tra i missionari. Il discorso di Gesù vuole mostrare puramente lo splendore di un atteggiamento, quello delle beatitudini, quando viene messo a confronto con la gente, sia che la gente lo accolga sia che lo respinga. Soprattutto segnala gli aspetti di contrasto, fino al dare la vita (v. 39: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”). È la serietà della missione come il Signore la

espone, e in proposito noi desideriamo porci due interrogativi. Come sono interpellato dal “fare della missione”? La prima impressione può essere di paura, di distanza e dobbiamo lasciare a questa distanza di operare quale purificazione, umiliazione, stimolo. Tuttavia, se meditiamo con attenzione, troviamo nelle parole di Gesù un profondo incoraggiamento, quasi ci dicesse: coraggio, la missione è molto più vicina a te di quanto tu non creda, è anzitutto questione del tuo vero essere, del tuo essere autentico; è vicina alla tua mano, al tuo “fare” quotidiano, al tuo modo di agire e di comportarti. La missione sei tu, è la tua verità di uomo, la tua felicità di persona, è la tua riuscita. L’incoraggiamento aumenta in noi attraverso il secondo interrogativo: come viveva il cardinal Ferrari la missione? Se infatti Ferrari è stato proclamato beato, significa che la Chiesa riconosce in lui un modello esemplare di vita evangelica, che il suo modo di fare missione è stato un’incarnazione autentica degli insegnamenti di Gesù. Considerare nell’oggi il suo operare, il suo spendersi per la gente, vuol dire leggere questa missione e aiutarci ad attualizzare le pagine del cap. 10 di Matteo. Il cardinal Ferrari ha avuto, forse inconsapevolmente, ma con l’intuito dei santi e degli zelanti, la visione di quello che occorreva fare. Bisognava riprendere il contatto col popolo, bisognava andare emigrante, pellegrino in tutte le borgate della diocesi; bisognava quasi arare questo terreno, sempre fecondo, sempre buono, sempre pieno di promettenti piantagioni, ma che il tempo aveva un po’ indurito e quasi, in certa parte, isterilito. Ed egli lo arò, e cioè lo suscitò, fece appello a tutte le forze morali e spirituali che ancora il nostro popolo conserva16.

Così diceva l’arcivescovo Montini nella commemorazione che ho citato all’inizio dei nostri esercizi. L’instancabilità apostolica è la missione di Ferrari, il suo modo di vivere il discorso della montagna. Così facendo, donava la vita, donava se stesso e la gente lo capiva. Vi leggo pure una testimonianza del suo biografo don Giovanni Rossi, dove racconta l’ultima visita pastorale: “L’ultima visita pastorale la continuò fino al giorno in cui la voce gli si mozzò in gola, ma anche allora si spingeva tra il suo popolo, esprimendosi con i gesti più che con le parole, mentre le lacrime gli riempivano gli occhi”17. La missione era lui e la viveva con quella totale fiducia nella provvidenza, che è tanto sottolineata dal discorso della missione. “Dobbiamo avere fiducia in Dio che ci ama, cioè speranza ferma, forte. Dobbiamo pensare che ci ama, ci assiste, ci osserva. Dobbiamo indirizzare a Dio le nostre opere e nulla temere, purché gli si resti uniti”. Ancora: “È la

mano di Dio che sopra le nazioni ordisce le fila della ragnatela della vita e comanda senza ricevere comando alcuno, che fa servire alla sua volontà le vicende, i mutamenti, le rivoluzioni degli uomini; che tutto ordina, tutto dispone, tutto conduce con soave consiglio e con forza sovrana”. È la traduzione nella vita di Mt 10,29-31: “Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure neanche uno di essi cadrà a terra senza che il Padre lo voglia. Quanto a voi, perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati; non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!” Vi propongo, al termine di questa riflessione, di rileggere il discorso di missione o secondo le scansioni che ho indicato oppure rivolgendovi al Signore così: chi sei tu, Gesù, che ci istruisci? Allora il testo potrebbe farvi scoprire meglio la persona di Gesù. Perché è Gesù, l’inviato del Padre, che manda gli apostoli. Gesù che dice agli apostoli: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” è colui che dona con gratuità tutto ciò che riceve dal Padre; Gesù che insegna: “Non portate bastone né bisaccia”, è colui che non ha dove posare il capo; Gesù che afferma: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” è il primo che è venuto quale agnello in mezzo ai lupi dell’umanità per essere immolato; Gesù che esorta a essere prudenti come serpenti è colui che risponde in maniera saggia a chi lo interroga sul tributo da dare a Cesare; Gesù che invita a essere semplici come le colombe, è colui che grida con forza: “Guai a voi!”, dicendo a ciascuno il suo, senza timore; Gesù che ci esorta a non premeditare le parole davanti ai tribunali è colui che tace o che parla davanti ai tribunali, davanti a Pilato con sapienza e profondità; Gesù che parla di divisioni a seguito del messaggio, è colui che dice: “Uno di voi mi tradirà”; Gesù che dichiara: “Chi mi confesserà davanti ai tribunali, io lo confesserò davanti al Padre”, è colui che rende la sua buona testimonianza davanti a Pilato; Gesù che dichiara: “Un bicchiere d’acqua non resterà senza ricompensa”, è colui che premia la parola del ladro dicendo: “Oggi sarai con me in paradiso”. Di fatto, a me pare possibile rileggere Matteo 10 come autobiografia di Gesù: egli insegna ciò che fa, ciò che si esprime nella sua esistenza terrena; perché, ripeto, la missione è essere come lui, come lui mandato dal Padre; essere con la sua sorte, con le sue vicende e con il suo frutto, e quindi anche con la partecipazione alla sua gloria e alla sua gioia.

IV. COME VIVIAMO IL DISCORSO MISSIONARIO In questo incontro, ci confrontiamo con la pagina di Matteo 10 esaminandoci un po’ a lungo su come ciascuno di noi vive il discorso missionario. Donaci, Signore, il coraggio di esaminarci con verità, riconoscendo che siamo molto lontani dall’ideale che tu proponi, che ci sentiamo coinvolti e insieme sconvolti dalle tue parole; donaci di vivere con serenità e con pace il cammino che tu ci metti davanti, perché desideriamo compierlo fidandoci di te che ci hai chiamato e ci chiami. Per facilitare l’ingresso nel tema, cerchiamo di capire meglio in quale modo viveva la missione Ferrari e come viene presentata dalla Pastores dabo vobis. Come visse il Beato Ferrari il discorso di missione Non sono particolarmente competente sulla vita di questo arcivescovo e mi limito dunque a richiamare tre passi del cap. 10 di Mattero utili a illuminare la sua esperienza. 9,38: “Pregate il padrone della messe che mandi operai nella sua messe”. Viene espressa la coscienza del ministero: noi siamo mandati dal Padre che possiede la messe e ce l’affida. E in 10,1 è Gesù che, a nome del padrone della messe, chiama i Dodici dando loro il potere di scacciare gli spiriti e di guarire ogni sorta di malattia. Il cardinal Ferrari aveva un fortissimo senso del ministero, del suo aver ricevuto un potere apostolico, al punto da farne il sostegno di tutta la sua incessante attività. Egli individuava nell’Apostolicum ministerium, cioè nel ministero episcopale, la funzione prima e originante della Chiesa, perché esso, nell’esercizio dei suoi poteri, trasmette all’umanità quei doni soprannaturali di salvezza che il Padre le ha destinato in Cristo e costituisce nell’unità ecclesiale tutti coloro che li ricevono, realizzando nella Chiesa sia la continuazione della missione salvifica del Figlio sia la funzione societaria e necessaria dell’autorità18.

Il Ponzini fa pure riferimento ai suoi scritti: Negli scritti pastorali il Ferrari dà molto spazio alla sua esperienza interiore di vescovo. Inoltre l’angolo visuale da cui coglie il mistero della Chiesa e parla delle componenti di essa, è sempre quello

del ministero episcopale e quindi quello della continuazione della missione apostolica, per cui tra l’altro anche sacerdoti e laici sono definiti per la loro relazione col ministero episcopale19.

Sarebbe interessante avere il tempo per approfondire tale tema. È facile capire come sono definiti i sacerdoti che, costituendo l’unico presbiterio, partecipano dell’unico mandato del vescovo, nel quale esso si esprime in pienezza; ma che cosa intende Ferrari per partecipazione dei laici al ministero episcopale? Certamente considera nel laicato il ministero più specificamente costruttivo della comunità (è la sua concezione di Azione Cattolica), tuttavia non ho da darvi una risposta sicura. Continua Ponzini: “Tutto il corpo della Chiesa, quindi, in questa visione partecipa della missione di Cristo e diventa Chiesa-missione, acquistando una particolare dinamicità apostolica”. Il ministero orientato al mondo, all’uscire fuori dalle nostre case, a far cogliere l’amore salvifico e discendente di Gesù redentore che ci visita, Ferrari “l’ha vissuto nel momento emblematico della visita pastorale”20. Leggo una certa affinità tra il modo itinerante in cui è concepito il ministero in Mt 10 – andare in giro liberando, portando in ogni casa il saluto, la pace, la presenza del Signore – e le visite pastorali di Ferrari, per lui importantissime e di cui sottolineava il valore teologico. Riflettendo infatti sulle pagine che i biografi dedicano alla visita pastorale, mi sono accorto come gli stessi argomenti che io introduco nel presentarla ai decanati, siano riportati dall’arcivescovo alla loro origine teologica. Annunciando la sua prima visita a Milano, nel 1895, egli scrisse: Gesù venne e si disse il buon pastore; ma la sua visita pastorale e visibile non volle che terminasse con la vita sua mortale, perché prima di salire glorioso al cielo disse agli apostoli suoi, sul fondamento dei quali stabilì l’opera grande e non peritura della sua redenzione: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi. Ogni potere mi fu dato in cielo e in terra; andate, dunque, e insegnate e predicate”. Ecco come vive tuttora e vivrà il Principe dei pastori, e il vescovo delle anime vostre; vive cioè nei vescovi, che succedono agli Apostoli e per i vescovi continua sempre la visita sua al popolo che ha redento. Quindi, che cosa è mai la visita del vescovo se non la continuazione, l’estensione della visita di Gesù Cristo? e se il vescovo rappresenta la persona stessa del Redentore divino che visita il suo popolo, non è forse la visita pastorale l’ufficio principale del vescovo?21

In una lettera del 1910, stesa per le feste centenarie di san Carlo, dal titolo Tra il sinodo e la visita pastorale, chiede ai fedeli di vedere nel vescovo che viene il Signore che viene, di interpretare la visita alla luce della fede: Quando mi prostrerò a baciare il Crocifisso, dal sangue che esce da quelle piaghe santissime, riconoscerò il prezzo, il valore delle anime vostre, per le quali dovrò essere pronto a dare la stessa mia

vita22.

Di nuovo un collegamento a una parola evangelica ricordata nella precedente meditazione: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (10,39). Un secondo aspetto del ministero di Ferrari è bene illustrato nel discorso di missione: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (10,16). Egli ebbe molto chiara la coscienza che il ministero è oltraggiato, pericoloso, sconfessato, contrastato, ingiuriato. Vari anni fui vicino ai miei veneratissimi vescovi di Parma e avevo dovuto persuadermi che l’episcopato è un vero aerumnarum abyssus; ma appena vescovo lo sentii ancora di più […]. Dice il Crisostomo che chi non è vescovo e vuol parlare di travagli dell’episcopato è come colui che vuol parlare di guerra stando però fuori del campo di battaglia. Chi è sul campo e combatte, può ben dire che cosa è la guerra; così chi è vescovo, solo lui, può dire delle pene e dei travagli del vescovo23.

Aerumnarum abyssus, un abisso di guai, un mare di sofferenze, di amarezze che egli ha dovuto sopportare e che sono parte del ministero apostolico così come lo descrive Mt 10. Mi sono domandato, senza tuttavia trovare la risposta, come mai Matteo – a differenza di Marco e Luca che dedicano pochi versetti alle istruzioni per la missione – abbia voluto prolungare il discorso sul tema della missione contestata. Nella vita del Ferrari abbiamo una risposta concreta, perché nel suo ministero risuonano le indicazioni di Gesù: sarete pecore in mezzo ai lupi, guardatevi dagli uomini, vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di ciò che dovrete dire, non temete. Ma che cosa intendeva concretamente con aerumnarum abyssus? Prove esterne e interne di ogni tipo. Anzitutto il suo è stato un agire pastorale molto contestato e si ha l’impressione che tutto gli andasse storto. Contestato da sacerdoti famosi e ascoltati a Roma e in tutta Italia, di cui conosceva i nomi. Contestato all’interno del presbiterio; dovette difendere più volte lo stesso metodo delle visite pastorali dalle accuse di far perdere troppo tempo. E, in tanta sofferenza, si domandava: sono nel giusto o sto seguendo una via sbagliata? In secondo luogo, appare dai suoi scritti e dalle sue parole la percezione di una società ostile, in qualche maniera più ostile di oggi: laicismo, socialismo, massoneria che lo attaccavano; basta pensare alle proibizioni delle processioni, alle limitazioni del suo ministero, alle freddezze delle

autorità. Sentiva che era in atto una congiura per impedire alla Chiesa di esprimersi pubblicamente e se ne amareggiava. Attorno a lui la cristianità era divisa, gli uni erano contro gli altri: rosminiani contro neotomisti, conciliaristi contro intransigentisti, modernisti contro antimodernisti. Ferrari cercava la via. Noi oggi sappiamo che era giusta la sua via, ma sono trascorsi cento anni da allora! Leggendo i documenti dell’epoca, ci si accorge che il cardinale si barcamenava, guardava di qua e di là, si sforzava di raddrizzare il tiro, perché è difficilissimo agire in circostanze tumultuose, quando ciascuno grida di aver ragione e tutti vorrebbero il vescovo dalla loro parte. Un altro motivo dell’aerumnarum abyssus è costituito dal fatto che Ferrari, pur di temperamento apparentemente forte, robusto, in realtà era sensibilissimo. Uno dei momenti culminanti delle sue prove esterne e insieme interne fu il sospetto della non fedeltà al papa, sospetto che gli procurò una ferita dolorosissima. Delle prove interne non ci è possibile dire molto, ma quanto ho citato ci permette di intuire che forse valeva anche per lui la parola di san Paolo: foris tribulationes, intus timores (2Cor 7,5), fuori tribolazioni, contestazioni, e dentro timori, ansietà. Credo che questo definisca il suo rapporto col discorso missionario: è un uomo che ha vissuto come pecora in mezzo ai lupi, quindi al posto giusto evangelicamente, e che ha avuto una coscienza profonda delle avversità del ministero. Il Signore gli ha dato la grazia di leggerle quali avvento del Regno; è nel modo missionario di Mt 10 che il Regno viene. Non viene malgrado le contestazioni, bensì in esse. Per questo Ferrari aveva la gioia di dire: sono al posto giusto, il Signore mi conforta, ciò che vivo non è solo la conseguenza dei miei errori, della mia poca preparazione – tutte cose che certamente sentiva confrontandosi con un mondo estremamente complesso e sofisticato –, è il modo di essere fedele al Vangelo di Gesù. L’ultimo aspetto del suo ministero che viene illuminato dal discorso di missione è il dare la vita: “Chi avrà trovato la sua vita, la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà” (10,39). Riprendo ancora una volta questo versetto, peraltro fondamentale, per confrontarlo con qualche brano dell’arcivescovo, per esempio nella prima Lettera al clero e al popolo di Milano, scritta da Como nel 1894: Sarò tra voi, per quei giorni che Dio mi concederà di vivere quaggiù, come una madre che al seno si stringe i figli suoi; sarò tra voi, ma per amarvi teneramente e con la brama ardente di dare a voi non

solo l’Evangelo di Dio, ma anche la mia vita […]. Potrebbe parlare altrimenti il vescovo che sa di essere fatto più per morire che per vivere? […]. Verrò dunque e, se Dio mi aiuta, faticherò perché abbiate la grazia di Dio. Combatterò per la vostra gloria, veglierò per la vostra quiete, mi sacrificherò per la vostra salute, morirò per la vostra vita24.

Tre volte appare il tema della morte in questa lettera che preannunzia il suo ministero; è il tema che il Signore gli diede poi da vivere tanto dolorosamente nell’ultima malattia, quando diceva di sentirsi confortato dalle preghiere dei fedeli che lo avevano già aiutato a superare momenti terribili. Scrive: Quale sollievo procurarono all’anima mia le vostre preghiere, specialmente a conservarmi la pazienza serena e la rassegnazione alla divina volontà. Come avrei potuto sperare tanto, se le vostre orazioni non mi avessero ottenuto dal Signore una grazia così grande25!

Un’altra parola ci fa entrare nell’angoscia del suo donare la vita: Se Dio non ci sostenesse nell’ora dell’angoscia, noi non saremmo capaci di sopportarla. Come diceva l’apostolo Paolo: “Sopra misura, sopra le forze siamo stati gravati”. Ma colui che consola gli umili, consola noi26.

È bello pensare a questa grazia che ha ricevuto dal Signore, la grazia della perseveranza: ha sperimentato la ripugnanza, l’orrore, il disgusto di fronte alla malattia grave, all’estenuazione delle sue possibilità di parlare, di esprimersi, di fronte al soffocamento progressivo che lo attanagliava. Ha provato la resistenza, la ribellione della carne, e quindi anche tutta la forza della grazia. Egli ci è intercessore per quella grazia straordinaria, umanamente insperabile, che ci è donata solo dalla misericordia del Crocifisso risorto. Il discorso di missione e la “Pastores dabo vobis” È difficile orizzontarsi nell’Esortazione apostolica Pastores dabo vobis perché è davvero un pozzo senza fondo. Al n. 12 risuona la tematica di Mt 10,1: Il presbitero, in forza della consacrazione che riceve con il sacramento dell’Ordine, è mandato dal Padre, per mezzo di Gesù Cristo, al quale come Capo e Pastore del suo popolo è configurato in modo speciale, per vivere e operare nella forza dello Spirito Santo a servizio della Chiesa e per la salvezza del mondo.

Da questa formula teologica molto sintetica deriva la relazionalità del

prete: Si può così comprendere la connotazione essenzialmente relazionale dell’identità del presbitero. Mediante il sacerdozio che scaturisce dalle profondità dell’ineffabile mistero di Dio, ossia dall’amore del Padre, dalla grazia di Gesù Cristo e dal dono dell’unità dello Spirito Santo, il presbitero è inserito sacramentalmente nella comunione con il vescovo e con gli altri presbiteri, per servire il popolo di Dio che è la Chiesa e attirare tutti a Cristo.

Si tratta di una formula densa che ben richiama alcuni aspetti di Mt 10. Anche il n. 25 è sulla coscienza del ministero: È essenziale per la vita spirituale, che si sviluppa attraverso l’esercizio del ministero, che il sacerdote rinnovi continuamente e approfondisca sempre più la coscienza di essere ministro di Gesù Cristo.

Quindi espone questo tema della coscienza del ministero, in relazione a Gesù e come strumento del Signore; descrive ciò che gli apostoli sono chiamati a fare in Mt 10 per diffondere l’opera di Gesù e preparare la sua venuta nei cuori. Al n. 73 sono espressi i contenuti dei due primi grandi discorsi di Matteo, il “fare del cuore” e il “fare della missione”, con la sottolineatura di come il Vangelo vada vissuto per essere capito: La verità è da farsi! Così ci ammonisce san Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi”. I sacerdoti sono chiamati a “fare la verità” del loro essere, ossia a vivere “nella carità” la loro identità e il loro ministero nella Chiesa e per la Chiesa.

Come io vivo il discorso missionario? Ho pensato di segnalarvi alcuni passi di Mt 10 che ci aiutano a esaminarci; per concludere poi con una riflessione più globale, una sorta di lamentazione con il Signore: perché, Signore, vuoi che ci confrontiamo con un discorso che ci confonde e ci turba? Un ottimo esame di coscienza può essere fatto sui vv. 8b-9: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone”. Al di là dei condizionamenti storici di questa prima missione e quindi delle contingenze del discorso, rimane fondamentale l’insegnamento della gratuità e della libertà, del disinteresse. Grazie a Dio nel nostro clero c’è sostanzialmente un vero disinteresse, una dedizione non professionale, ma

totale al ministero. Un serio disinteresse per l’accumulo personale è pure evidente: gioia di stare in mezzo alla gente, attenzione ai poveri. Dobbiamo tuttavia guardarci dai difetti contrari a tale disinteresse, dobbiamo vigilare in particolare col crescere degli anni. È più facile essere disinteressati da giovani; avanzando in età e magari al sopraggiungere di qualche acciacco, di qualche malattia, ci si preoccupa di sé, del futuro. Talora, con gli anni aumentano le cose che ci sono care, i libri che abbiamo intorno a noi, i mobili: un maggior numero di mobili può diminuire la mobilità (come spostarmi se nel nuovo alloggio non ci sarà posto per tutte le mie cose?). È allora bello rileggere le parole di Gesù: né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali. Il pericolo dell’accumulo tocca i presbiteri e anche i religiosi; ricordo che in noviziato ci presentavano la figura cosiddetta del “padre dei sette colli”, cioè di colui che per trasferirsi da una casa all’altra ha bisogno di un autotreno. Come a dire che si tratta di una tendenza innata in tutti noi. Le memorie sono care e utili, però non devono intaccare quello che è stato il gesto generoso del dono di sé, la libertà e la mobilità quali valori evangelici, non funzionali. V. 16: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi”. È un invito a combattere il difetto di lamentarci sui tempi che corrono, quasi che Gesù non abbia mandato i suoi come pecore in mezzo ai lupi, quasi che le circostanze difficili della Chiesa oggi siano una cosa nuova. No, è la realtà del ministero che implica le contrarietà e Gesù ha voluto avvisare i suoi fin dall’inizio. Anzi, è questo il segno del Regno, è il modo con cui il Regno viene, è l’opera dello Spirito Santo. L’illusione che si farà meglio quando i tempi saranno migliori, è vana, perché i tempi sono sempre stati così, pur se con diversità di tipo contingente. Il ministero è, per natura, contestato e va vissuto in ambiente ostile; non a caso è nutrito dalla grazia ed è segno della potenza del Regno di Dio. Vv. 19-20: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre che parla in voi”. Qual è il difetto opposto a tale affermazione? L’ansia eccessiva per il ministero stesso. Gesù esorta: non preoccupatevi neppure delle situazioni più delicate, là dove occorre misurare le parole, gli strumenti, i silenzi, le risposte; non preoccupatevi! Gli strumenti e i mezzi per la pastorale sono necessari, ma il Signore non

vuole che cadiamo nell’ansia, tanto contraria al discorso della montagna e al discorso della missione. Egli ci chiede di vivere sempre e comunque con l’animo semplice e libero, e questo è miracolo suo, è lo Spirito del Padre che si manifesta appunto nel nostro abbandonarci a Dio anche in mancanza di strumenti o in condizioni di incertezza pratica. V. 31: “Non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri”. Il difetto contrario a quanto espresso in questo versetto, simile a quello notato a proposito del v. 16, è una sorta di pessimismo epocale, per cui si giudica che tutto va male intorno a noi, nella Chiesa e nella società. Magari va davvero male tutto, però il notarlo non deve diventare il programma ordinario, da mettere in computer (il programma che chiamerei “L”, lamentazione). I passeri del cielo, affidati al Padre, non sono paurosi e preoccupati; se noi lo siamo, significa che non viviamo la venuta del Regno, che il Regno non è ancora scoppiato in noi. L’ultima osservazione la ricavo dai vv. 40-42: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come un giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua ricompensa”. Mi colpisce che anche i gesti più piccoli siano vissuti con gratitudine. C’è in noi il difetto di non gratitudine? Allora siamo invitati a imparare il ringraziamento, a vedere il bene che avviene nella gente e in noi, il bene che il Signore fa in noi, che gli altri fanno a noi. È la gratitudine riconoscente con cui san Paolo comincia tutte le sue lettere tranne una; egli aveva radicato nel cuore un senso vivissimo di gratitudine, che è appunto segno di Vangelo vissuto, di occhi aperti al mistero del Regno. Mi piace citare ancora un brano della lettera-testamento di Ferrari mentre era morente, ricchissima di ringraziamenti: Dio vi rimeriti, venerabili fratelli e figli carissimi, delle prove di affetto che mi avete sempre dato nei ventisei anni che ho vissuto in mezzo a voi, ma in modo particolare per la grande carità che mi avete usato in questi ultimi giorni. Vi ringrazio della vostra manifestazione di fede […]. Io vi ho guardati, vi ho benedetti [parla di coloro che erano andati a visitarlo], e nei vostri sguardi leggevo la parola che solo può dirsi tra i figli ed il padre. Questo spettacolo […] mi rallegrava nel pensiero che poteva derivarne gloria al Signore ed un po’ di bene alle anime27.

Ferrari aveva compreso che una delle parole evangeliche fondamentali è il senso della gratitudine, collegato al senso della gioia, della serenità

interiore, alla capacità di vedere il bene intorno a noi e il bene che ci viene fatto. E io ringrazio volentieri o vedo sempre ciò che la gente non fa e raramente ciò che fa? Un discorso onesto con Gesù sul discorso missionario Vorrei concludere con un discorso globale, sincero, rivolto al Signore. Mi sono infatti ritrovato, dopo la meditazione precedente, con una domanda bruciante nel cuore: ma adesso, che cosa facciamo del discorso missionario? Ho immaginato di chiederlo a Gesù e di ascoltare la sua risposta, per cui vi conduco attraverso il mio dialogo. Signore, le tue parole ai discepoli ci tolgono il fiato. Tanta distanza dai nostri schemi, dai nostri apparati, dai nostri bilanci, dalle nostre complicazioni. Dove siamo rispetto a ciò che tu volevi da noi? Lo sappiamo bene, Signore, che non tutto il discorso va preso alla lettera. Tu stesso hai affermato che il mandato missionario era per Israele, e quindi per quel primo annuncio che precedeva la tua venuta nei villaggi. Tu stesso hai detto prima della tua passione – lo riferisce l’evangelista Luca –: “Quando vi ho mandato senza borsa né bisaccia, non vi è mancato nulla; ma ora chi non ha una borsa la prenda, e così una bisaccia: chi ce l’ha, la porti con sé”. Dunque, hai previsto tempi diversi per la missione: tempi senza bisaccia, tempi con la bisaccia, tempi senza bastone, tempi con il bastone. Ma rimane pur vero che le regole generali del discorso sono quelle che sono e noi ce ne sentiamo tanto, tanto distanti. Non siete così lontani almeno dalle ostilità che io ho previsto per la mia missione. C’è chi non vi accoglie, c’è chi non dà ascolto alle vostre parole, c’è chi vi consegna ai tribunali e vi perseguita, come è accaduto ampiamente nei paesi dell’Est. Non siete dunque tanto lontani dal mio discorso e lo dimostra la storia della Chiesa presente. Sì, va bene. Il fatto che ci sia resistenza e persecuzione mi conforta, quasi conferma il motto episcopale che ho scelto – Pro veritate adversa diligere –; tuttavia, per essere sincero, temo che in tanti casi noi siamo respinti non perché vicini a te, bensì proprio perché lontani da quella gratuità, da quella semplicità, da quella povertà, da quella schiettezza, che tu proclami nel

discorso missionario e vivi nella tua vita. Il nostro timore, che ci tormenta, è di essere respinti non perché siamo tuoi, ma perché non lo siamo; il fiuto della gente sincera, credente e ancora più quello della gente un po’ lontana e che tuttavia avrebbe desiderio di autenticità, non ci riconosce come tuoi. È qualcosa che ci tormenta e ci fa molto soffrire. È un tormento buono, purificante, necessario. Per questo ho voluto che fossero scritte quelle pagine evangeliche e che vi rimanessero per sempre quale pungolo e stimolo. Va bene, il discorso è un pungolo, ma alla fine che cosa vuoi? Che siamo pungolati e basta? Che cosa intendi dirci? Vuoi forse che abbandoniamo tutto ciò che abbiamo messo in piedi? Tutto ciò che i nostri padri hanno costruito? Vuoi che ricominciamo da zero? In fondo, sarebbe più semplice. Certo, dovremmo abbandonare tante sicurezze, ma pure tanti fastidi, tante preoccupazioni, tante sovrastrutture che ci pesano, tanti pesi che avvertiamo un po’ estranei a ciò per cui ti abbiamo seguito, Signore! Tu lo sai bene, non siamo noi che abbiamo creato tutte queste strutture. Non abbiamo fatto altro che portare avanti quello che abbiamo trovato. Non abbiamo fatto altro che sviluppare quelle premesse pastorali e strutturali che ci sono state tramandate da secoli. In fondo, Signore, tu lo sai come è pesante avere a che fare con strati archeologici su cui camminare sempre con tremore, perché si trova qualche strato più profondo, con chissà quali tesori da preservare; è duro avere a che fare con tanti monumenti storici, con le nostre chiese artistiche, con abitudini codificate in leggi canoniche e civili. È pesante dover trovare i soldi per tutto questo; è pesante dover pagare i dipendenti, le assicurazioni, i restauri, provvedere alle nuove chiese… Fortunati i tuoi apostoli che andavano senza sacco né bisaccia! Avevano molti meno pensieri di noi e potevano dedicarsi davvero all’evangelizzazione. A noi sembra, Gesù, di essere spesso dei manager, dei funzionari, dei capireparto e, talora – come diceva il cardinale Schuster28 – dei facchini. (Il Signore è provocato fortemente dalle mie parole, si sente messo in questione). Vi capisco perfettamente. E già il cardinal Ferrari trovava che tutto ciò era assai pesante, che costava mettere insieme da una parte l’ansia

missionaria e dall’altra le fatiche della gestione di infinite faccende. Lo avvertiva come un tormento, un “aerumnarum abyssus”. Proprio per questo il mio discorso non vuole essere una preoccupazione aggiunta, un altro fardello, non vuol essere motivo di colpevolizzarvi senza frutto. Se no cade subito in contraddizione con le mie parole sulla montagna: “Non affannatevi… Dio ha cura di voi”. Allora, Gesù, che senso hanno le tue parole oggi? Cosa vuol dire il tuo discorso dopo venti secoli di storia della Chiesa? Dopo che in Occidente la Chiesa è entrata talmente nella vita civile, sociale, artistica, da essere connessa con mille legami alle tradizioni storiche e culturali della gente? Vi richiamo continuamente le mie parole perché è sommamente importante per voi non buttare a mare tutto e ricominciare da capo (sarebbe troppo facile e rinnegherebbe una storia di santità e di dedizione), bensì avere un criterio per distinguere l’essenziale dall’accessorio, la scorza dalla sostanza. Siete chiamati al discernimento, non allo sbaraccamento. E il segno che il Regno di Dio è qui si ha quando un pastore del vostro mondo occidentale, senza rinnegare le tradizioni nate da tanti sacrifici, vive in mezzo alle incombenze quotidiane col cuore semplice e unificato, trattando alcune cose con la forza della mano destra e molte altre con il dito mignolo della mano sinistra. Questa pace nelle complicazioni, questa tranquillità nella molteplicità degli affanni quotidiani, questa serenità interiore che fa distinguere ciò per cui prendersela davvero da ciò che va tollerato o sopportato è il miracolo dello Spirito Santo, il segno che il Regno è venuto anche nel tuo piccolo mondo, il segno che la gente di un’epoca complicata come la tua attende da te. Certo, è buono il segno offerto dagli eremiti e dai penitenti che camminano scalzi e si servono dell’autostop per spirito di povertà. Però la gente vuole capire come servire Dio col cuore in pace in mezzo alle vicende confuse di ogni giorno, in mezzo a problemi di lavoro, di famiglia, di salute. Tutto appare così terribilmente complicato, e chi vive una vita troppo semplice indica il fine, ma non dà istruzione sulla vita. A te è chiesto di aiutare la gente a comprendere come vivere da figli di Dio, con spirito filiale e fiducioso, in mezzo alle contraddizioni della nostra società.Per questo ho permesso che anche le condizioni del ministero si

complicassero un poco e si creasse quel salutare senso di distanza rispetto a Mt 10 che non devi esorcizzare, bensì coltivare per essere sempre capace di trovare la pagliuzza d’oro dell’essenziale in mezzo al pagliaio di cose che un giorno verranno bruciate. Sii testimone dell’essenziale, stùdiati di essere colui che ogni giorno discerne l’essenziale senza disprezzare l’accessorio e il contingente, ma facendolo servire all’essenziale del Vangelo. Sarà questo il segno che il mio Spirito sta operando in te l’avvento del mio Regno! Termina qui il mio dialogo con Gesù. Voi potrete riprenderlo, allargarlo. Si tratta di un tema importante, su cui ho riflettuto durante il lungo cammino del Sinodo chiedendomi: qual è la Chiesa degli apostoli di Atti 2, la Chiesa di Matteo 10 che vogliamo costruire col Sinodo? Vi invito ad approfondire la domanda, perché dovremo averla presente nella traduzione pratica delle indicazioni del Sinodo diocesano. Penso infatti che il Sinodo vada letto in questa luce, così che non rischi di costituire un peso in più e di caricarci di fardelli insopportabili, come facevano quegli scribi e farisei rimproverati da Gesù in Matteo 23. Sia, invece, la nostra regola la parola del Signore: “Il mio giogo è soave e il mio carico leggero” (11,30).

V. IL “FARE” DEL DISCERNIMENTO (MT 13) Un discorso in parabole Dopo il “fare” del cuore e il “fare” della missione, Matteo, nel cap. 13, ci presenta un discorso in parabole e, alla domanda: che cosa dobbiamo fare per essere salvati?, risponde così: impara a discernere, cerca di capire, di andare a fondo. “Avete capito tutte queste cose?”, chiede Gesù in 13,51. E ripete oggi a noi: avete capito i tempi, i momenti, le situazioni in cui sta scoppiando ora il Regno di Dio? Avete capito come viene? Avete capito che il Regno viene adesso? Sapete distinguerlo da ciò che non è il Regno? Ecco il “fare” del discernimento proposto dal densissimo e ricchissimo cap. 13. Ogni volta che lo riaccosto, mi accorgo che le parabole sono davvero dei mashal – per usare il vocabolo ebraico –, cioè degli enigmi29. Alcuni anni fa ho tenuto un intero corso di esercizi sul tema: Perché Gesù parlava in parabole30, ma ritrovandomi a riflettere con voi avverto di nuovo che il discorso è ostico, arduo. Come mai, Signore, hai parlato in parabole e non con un linguaggio diretto e immediato? Come mai hai detto queste e non altre parabole? Perché le hai spiegate soltanto ai discepoli? Che cosa ti impediva di parlare “apertamente” alle folle? Che cosa c’è dietro al tuo comportamento? Oltre alla fatica di cogliere le intenzioni originarie di Gesù, bisogna pure considerare che le parabole hanno duemila anni. Prima di entrare nel Vangelo, sono probabilmente passate per una tradizione orale di mashal separati, poi per una collezione forse scritta; infine Matteo le ha assunte nella sua redazione. In seguito hanno avuto una lunghissima storia ermeneutica, sono state ripensate e rilette alla luce di situazioni di discernimento sempre nuove. Si tratta perciò di una storia operativa (traduco così l’espressione tedesca Wirkungsgeschichte), per cui il testo è visto sia nel suo significato originario o nel modo in cui lo esprime l’evangelista, sia nella sua operatività all’interno della Chiesa, della tradizione fino ai nostri giorni. Storia formidabile e ancora in corso, perché noi stessi rileggiamo eventi inediti e difficili da capire, applicando loro il discernimento delle parabole, comprendendole meglio e sentendone la forza attuale, l’incisività, il valore dirompente per il tempo in

cui viviamo. Vorrei offrirvi qualcosa di piccolo, un granello di senapa, cercando di spiegare il cap. 13 nel suo insieme – non parabola per parabola – e domandandomi: che cos’è il “fare” del discernimento a cui Matteo ci invita? E qual è l’intenzione di Gesù per il nostro discernimento? Successivamente, invece, cercheremo di applicare questo tema a qualche situazione concreta che ci tocca da vicino. Mi rendo conto che il discorso non è per nulla facile e sfugge a ogni tentativo di imprigionarlo sotto definizioni precise. Per questo ho pensato di far precedere la lectio da una domanda preliminare che può aiutarci. Nei Discorsi precedenti, sui quali abbiamo già riflettuto, ci sono delle anticipazioni sulla necessità del discernimento? A me pare di sì e vi porto degli esempi, tratti dal Vangelo di Matteo. 6,24: “Nessuno può servire a due padroni”; occorre scegliere tra l’uno e l’altro. 7,6: “Non date le cose sante ai cani”; ci vuole giudizio, capacità di discernere le situazioni. 7,15: “Guardatevi dai falsi profeti”; sappiate capire, distinguere tra chi viene in veste di pecora e il frutto cattivo che produce. 7,23: “Non vi ho mai conosciuti, allontanatevi da me voi, operatori di iniquità”, dove si vede la presenza del male anche in coloro che sembravano seguire Gesù. L’espressione “operatori di iniquità” la ritroviamo in 13,4. 7,24-27: sempre nel discorso della montagna, Gesù distingue colui che ascolta e fa da colui che ascolta e non fa. Tutti richiami che evidenziano come nel mondo c’è una divisione, come la Parola può produrre pace oppure giudizio di condanna, che sottolineano l’importanza del saper discernere. Simili accenni li troviamo anche nel discorso di missione: 10,16: “Vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Siate dunque prudenti come serpenti”; guardatevi intorno, osservate bene che cosa c’è attorno a voi. 10,17: “Guardatevi dagli uomini”, e al v. 35: “Sono infatti venuto a separare… e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”; anche in casa ci sono inimicizie. Fin dall’inizio Gesù invita, dunque, a capire il mistero del Regno distinguendolo dalle contraffazioni, a non lasciarsi ingannare dallo spirito mondano. Più forti le anticipazioni nei capp. 11 e 12, dove assistiamo in

pratica, attraverso diversi racconti, alla difficoltà di discernere il mistero di Gesù e alle divisioni che esso causa. 11,2 ss.: Giovanni Battista fa fatica a discernere se Gesù è veramente il Messia atteso. E, ai vv. 16 ss. Gesù esclama: “Ma a chi paragonerò questa generazione?” Non capisce, interpreta al contrario i segni che le vengono dati (vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto), confonde i segni di gioia con quelli del dolore, perché non ha criterio, non ha discernimento. 11,20: anche le città del lago non sanno comprendere i miracoli avvenuti. 11,25: è il passo più importante per entrare nella riflessione sul cap. 13: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”. Coloro che presumono di sapere non comprendono, mentre coloro che si lasciano rivelare il mistero capiscono, pur se piccoli. Il discernere non è semplicemente un aguzzare l’ingegno, bensì accettare la mente di Dio, la sua intelligenza, la rivelazione del Padre: “Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (vv. 26-27). Proseguendo la lettura di questi capp. 11 e 12, vi accorgerete come preludono alla riflessione sistematica e globale riassunta nel cap. 13. Vorrei evitarvi, infatti, un errore di parzialità, dovuto al fatto che, scegliendo di commentare i Discorsi è giocoforza trascurare un poco le pericopi intermedie che, in realtà, illuminano e collegano le azioni di Gesù con le sue parole. Lectio di Mt 13 “Quel giorno Gesù uscì di casa e si sedette in riva al mare. Si cominciò a raccogliere attorno a lui tanta folla che dovette salire su una barca e là porsi a sedere, mentre tutta la folla rimaneva sulla spiaggia” (vv. 1-2). Vengono già presentati dei simboli importanti: mare, barca, folla. E sarebbe interessante soffermarci su di essi, come ha fatto la riflessione orante della Chiesa, fondata sulla penetrazione rabbinica del significato di questi simboli. A me preme però considerare il v. 3: “Egli parlò loro di molte cose in parabole”, perché sottolinea un’intenzione specifica della redazione matteana.

Il parallelo di Marco recita: “Di nuovo si mise a insegnare lungo il mare” (Mc 4,1). Come si spiega la differenza? Perché Matteo, che è sempre molto attento all’uso dei vocaboli, con l’espressione “parlò in parabole” (in greco elálesen en paraboláis) vuole sottolineare che non siamo più di fronte agli insegnamenti o ai comandi del discorso della montagna e del discorso di missione. Non è l’insegnamento di 5,2: “Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo” (edídasken); di 7,28-29: “Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento (didaché). Egli infatti insegnava (didáskon) loro come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Questo insegnamento del Regno ha come contenuto il “fare” del cuore. Non è il comando, non sono i precetti di 10,5: “Questi Dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti (paranghéilas)”; oppure di 11,1, dove, con un vocabolo greco diverso, il significato è lo stesso: “Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni (diatásson)” (la traduzione “istruzioni” è del resto imprecisa, perché il verbo diatásso significa dare indicazioni normative). Dunque, al cap. 13,3, l’evangelista cambia di proposito il vocabolo impiegandone uno che, di per sé, è molto vago: “Parlò loro di molte cose in parabole”. Il verbo laléo viene continuamente ripetuto nel capitolo: “I discepoli gli chiedono: Perché parli in parabole?” (v. 10); “Per questo parlo loro in parabole” (v. 13); “Tutte queste cose Gesù disse (in greco elálesen) alla folla in parabole” (v. 34); e, ai vv. 24.31: “Un’altra parabola espose (parétheken) loro”. Con “parlava in parabole” Matteo intende designare il linguaggio della rivelazione del mistero del Regno. Il discorso, cioè, andando al di là dell’insegnamento o del precetto, introduce, mediante enigmi, nel mistero recondito di Dio, nascosto dall’eternità, che viene ora illuminato attraverso progressivi svelamenti, di cui le parabole sono parte. Gesù verifica la promessa di 11,25: “Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli”. Un versetto che va messo in relazione stretta con 13,11, che è forse la parola-chiave del capitolo: “A voi è stato dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (è dato ai piccoli, non ai sapienti). Quale prova del fatto che per Matteo quello in parabole è un discorso di rivelazione sui misteri del Regno, rileggo per intero il v. 34 e poi il v. 35, che

concludono la prima parte di Mt 13: “Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: ‘Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo’”. Rispetto a Mc 4,32-34, “Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola […] Senza parabole non parlava loro…”, Matteo aggiunge di suo il v. 35: “Perché si adempisse…” Il brano del profeta, che viene citato, è in realtà il Salmo 78, al v. 2, il lungo salmo sulla storia di Israele, che recita testualmente: “Aprirò la mia bocca in parabole” – si trattava di sentenze ritmate, non necessariamente di enigmi! – “rievocherò gli arcani dei tempi antichi”, cioè le origini di Israele. L’evangelista muta quindi il testo greco del salmo usando due parole (“cose nascoste” e “dall’origine del mondo”) che danno la spiegazione del discorso in parabole: le parabole rivelano i misteri di Dio nascosti fin dalle origini. Vorrei osservare come tale linguaggio, assunto qui da Matteo, si diversifica anche dalla versione greca dei Settanta31, mentre invece lo ritroviamo in san Paolo: Parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito” (1Cor 2,7-10a).

Matteo afferma: le parabole rivelano – e per questo possiamo parlare di linguaggio apocalittico – il mistero che riguarda il Figlio di Dio crocifisso a coloro che le accolgono, che si lasciano penetrare da tale rivelazione. Ho così cercato di esprimere, forse in forma un po’ faticosa, la ricchezza contenuta nel cap. 13. I versetti introduttivi ci mettono nelle giuste condizioni di ascolto, ci aiutano a comprendere gli orientamenti pratici per giudicare l’epoca che viviamo e l’emergere in essa del mistero eterno nascosto in Dio. Il discorso si sviluppa in sette parabole, che possiamo distinguere schematicamente in due parti: - quattro parabole per il popolo (seminatore, zizzania, grano di senapa, lievito), che corrispondono, pur se con qualche diversità, a quelle di Marco. Le leggiamo nei vv. 3-35, e terminano, come ho già accennato, con la citazione del Sal 78,2;

- tre parabole per i discepoli (tesoro, perla, rete), a partire dal v. 36: “Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: ‘Spiegaci la parabola della zizzania nel campo’”. Dunque la scena cambia luogo e la seconda parte del discorso va fino al v. 53: “Terminate queste parabole, Gesù partì di là”. La stessa composizione del capitolo mostra che siamo di fronte a una divisione dei cuori: chi capisce e chi non capisce; chi ascolta superficialmente e chi, invece, si avvicina a Gesù accettandone il messaggio e seguendolo. Per comprendere il messaggio occorre quindi entrare in intimità con Gesù, per capire le parabole è necessario riceverle come rivelazione attuale che il Figlio dà del Padre e del suo mistero. Nella meditatio, per meglio approfondire il discorso, proporrò un altro modo di riflessione, distinguendo le parabole secondo due tipi e secondo alcuni temi. Riprendo le singole parabole. Discorso al popolo (13,3-35): vv. 3-9: la parabola del seminatore. Il punto nodale è evidente (anche se poi assume una ricchezza di significati molto ampia, dato il suo valore simbolico): il Regno dei cieli si afferma malgrado ogni resistenza e il frutto da aspettare, malgrado tutto, è grande. “Malgrado” denota la situazione di ambivalenza, di opposizione, di divisione in cui il Regno dei cieli si sviluppa. v. 10-17: teoria delle parabole. Chi ha trovato in Dio il senso della sua vita, vivrà della sovrabbondanza di tale senso; chi rifiuta di trovarlo, resterà vuoto (v. 12). vv. 18-23: spiegazione del seminatore. È in primo piano la sorte dell’annuncio più che il risultato. vv. 24-30: parabola della zizzania. Il Regno di Dio è circondato e assalito dal male e dal maligno. Non c’è una comunità pura! Tuttavia il Regno si affermerà. C’è speranza per la Chiesa di oggi, che è anch’essa mescolanza di bene e di male. vv. 31-33: parabole del grano di senapa e del lievito. Malgrado la piccolezza del grano di senapa e l’inapparenza del Regno, il Regno di Dio viene infallibilmente. vv. 34-35: prima conclusione. Le parabole previste dai “profeti”. Il significato dei termini presenti nelle prime quattro parabole si allargherà a dismisura a confronto con la cristologia, con la stessa missione di Gesù, con la sua morte e risurrezione; ed esse lo fanno presentire.

Discorso ai discepoli (13,36-52): vv. 36-43: spiegazione della zizzania. La situazione della comunità nel divenire escatologico e il comportamento conseguente: il male che c’è nel mondo non pervertirà la comunità. vv. 44-46: parabole del tesoro e della perla. Il valore sovraeminente e trasformante del Regno, che porta a “vendere tutto”. vv. 47-50: parabola della rete. Ritorna il tema della divisione finale dei tempi, la quale stimola alla decisione fin da ora e senza spaventarci per la mescolanza di pesci buoni e cattivi. vv. 51-52: il padrone di casa. Antico Testamento e Gesù, o il tesoro che è Gesù sempre attualizzato. “Avete capito?” (v. 51). Ecco il fuoco, l’irascibile della parabola, cioè il suo voler essere risposta a circostanze del tempo di Gesù e del tempo delle comunità. Meditatio: perché Gesù ha parlato in parabole? Nel processo della meditatio, ci dedichiamo a riflettere ulteriormente per rispondere alla domanda: perché Gesù parlava in parabole? Che cosa voleva dirci? In quale modo esse ci aiutano a capire? Ritengo allora utile distinguerle in due tipi o generi: le tre parabole spiegate – seminatore, zizzania e rete – hanno un significato primario, toccano il cuore del discorso e dell’intenzione di Gesù, e le chiamiamo parabole della separazione o divisione; le quattro non spiegate – senapa, lievito, tesoro, perla – chiariscono il senso principale, offrono un altro aspetto del mistero del Regno, collegato però al precedente, e le chiamiamo parabole della sorpresa o dello stupore. Le parabole della separazione sono caratterizzate dall’avere uguale struttura: in tutte c’è una divisione. In quella del seminatore, divisione di terreni (terreni cattivi e terreno buono) oppure di semi (semi abortiti in tre modi diversi e seme riuscito in tre modi diversi). E dunque fondata su una dualità, ci introduce nella dualità della vita, che esiste anche nel farsi storico del Regno. La dualità o la separazione ritorna nella parabola della zizzania: il buon grano è contrapposto alla zizzania. Non è più il seme ad avere due sorti o a incontrare terreni diversi, ma il seme stesso è diverso (buono o cattivo). Di nuovo, la parabola dei pesci sottolinea una dualità: buoni e cattivi nella medesima rete, che saranno poi divisi, così come zizzania e buon grano

verranno divisi alla fine. Ci chiediamo: se hanno in comune la dualità, quali temi affrontano propriamente? Credo ne affrontino due. Il primo tema: il Regno di Dio è realtà contrastata, conculcata, ambivalente nei risultati e chi aspetta uno sviluppo regolare, omogeneo, rettilineo, trionfale, si sbaglia. Questa era la grande attesa, ed è ancora la nostra: perché il Regno non trionfa? Semplicemente perché la Parola, la predicazione, la missione, la vita secondo il discorso della montagna, non è necessariamente efficace. Le parabole stigmatizzano la falsa aspettativa del Regno, la falsa manifestazione della potenza di Dio. Dio non distrugge il male; il Regno, nel suo farsi, è ancora all’ombra del male. L’uomo vorrebbe solo il bene, considera il male come fattore disturbante. Eppure, il Regno di Dio è accettazione di quell’ombra misteriosa che è il peccato, la resistenza, la fuga dalla Parola, l’indifferenza, la negligenza, la pigrizia; anzi vi entra dentro, e dobbiamo sempre disilluderci dal pensare che l’avvento del Signore spazzi via il male e immediatamente crei l’era della giustizia. Le parabole, in quanto ci fanno penetrare nel mistero del male, sono davvero difficili da comprendere. Il secondo tema: il Regno di Dio è realtà invincibile, pur entrando nel mistero del male. Chi, nella fede, crede a questa vittoria, è già nel Regno. Un Regno che dà frutto straordinario (100, 60, 30 per uno); un Regno nel quale, alla fine, il grano buono sarà separato dalla zizzania, salvato e posto nel granaio della vita eterna, nel quale i pesci buoni verranno distinti dai cattivi. Ecco la vittoria, la redenzione compiuta da Gesù: egli sa trarre il bene dal male, opera il bene passando dentro il male; è il mistero della passione e della croce. Ma come mai tutte queste cose devono essere dette in parabole? Come mai sono accessibili, nel loro significato, soltanto a chi si è deciso per il Regno? Come mai Gesù, in Mt 13,10-17, dichiara di parlare in parabole perché “pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono”? Azzardo una risposta: perché nessuno di noi è realmente pronto ad accogliere l’aspetto umile del Regno, nessuno di noi è disposto ad accettare la debolezza di Gesù di fronte al male, il suo apparente soccombere. Non siamo pronti, non siamo disposti, intravedendo nella sconfitta del Signore la nostra. In proposito, ricordo un interessante libro di Sergio Quinzio, intitolato La sconfitta di Dio32, dove l’autore porta tutti gli argomenti per mostrare che

Dio è stato sconfitto nella sua rivelazione, dall’Antico al Nuovo Testamento. E giunge a chiedersi, quasi al limite del paradosso: che Dio è, allora? Ma è la verità di Dio che si è manifestata così; che un Dio debole e sconfitto sia il Dio del Regno è il mistero della morte e risurrezione di Gesù, che sarà comunque negato anche da chi, a parole, si dichiara “cristiano”. Sono convinto che, nei fatti, nei sentimenti e nelle reazioni spontanee, il mistero del Dio umiliato, perdente, non cesserà di bruciare la nostra carne, i nostri sogni, il nostro contesto di valori. Noi siamo come le folle che rifiutano il mistero; Gesù è colui che, sempre amabilmente, sotto il velo della parabola, continua a riproporcelo. Persino la nostra morte ci apparirà come il supremo fallimento di Dio per noi, dal punto di vista umano: tu, o Dio, lasci morire me che tanto ti ho amato, che ti ho seguito! In quel momento dovremo ricordare il mistero delle parabole, che preannuncia quello della debolezza, della morte di Gesù e, insieme, prelude alla sua risurrezione e alla sua vittoria. Riassumendo: Gesù parla in parabole perché il loro significato è difficile da accettare; solo i discepoli lo accolgono perché hanno dato piena fiducia al Signore. E le parabole della separazione o divisione mettono in luce il carattere umile e nascosto del vero messianismo, il mistero della debolezza di Dio, che esplode sulla croce e che noi intuiamo avere qualche correlazione con il mistero stesso intimo di Dio, la Trinità. Qui possono nascere domande particolarmente profonde, teologiche, mistiche: come mai il Figlio dell’Altissimo si è rivelato nella debolezza della carne? Come mai la croce e quindi la debolezza del Figlio è rivelazione della Trinità? E che cosa dice tale rivelazione del rapporto di Gesù con il Padre? Riascoltiamo le parole di 11,27b: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. La rivelazione va dalle parabole alla croce e alla risurrezione. Le parabole della separazione o divisione vengono affinate nel loro senso dalle quattro parabole della sorpresa o dello stupore: senapa, lievito, tesoro, perla (le prime due riportate anche nella redazione di Marco, le altre due solo da Matteo). Esse tematizzano il contrasto sorprendente, inatteso, tra la piccolezza del granello di senapa e la grandezza dell’albero, tra l’inapparenza, la povertà, quasi la sporcizia del lievito e il suo effetto prodigioso nella pasta, tra il lavoro umile del contadino che suda sulla terra e il risultato straordinario della scoperta di un tesoro, tra la routine quotidiana del commerciante che si

impegna faticosamente e la fortuna insperata di trovare la perla più preziosa di tutte. Chi si dedica al Regno, chi accoglie questa realtà, piccola e apparentemente insignificante (nascosta tra le pieghe di una storia inesorabile che mira al successo e al potere), quale messaggio di Gesù, vedrà eventi mirabili, avvertirà che la propria vita è come l’albero, feconda per sé e per altri, sentirà che la propria esistenza, semplice come lievito, nutrirà molti e che, al posto della fatica, un tesoro gli riempirà le mani, che le piccole fedeltà di ogni giorno costituiscono una perla di valore insperato. È il contrasto tra la piccolezza e l’inapparenza della predicazione di Gesù e ciò che può sperare colui che vi crede; il contrasto nella storia tra i sacrifici, il nascondimento, la pazienza, la perseveranza richiesta ai credenti e alla comunità e il centuplo che si sperimenta. Anche qui il linguaggio parabolico non si limita a indicare il mistero; piuttosto lo annuncia, lo esprime, lo propone, e chi lo accetta è già seme che cresce, lievito che monta, già scopre il tesoro e trova la perla. Giustamente è stato affermato che il tema del cap. 13 va sintetizzato in questo modo: il discorso del Regno mette di fronte a una decisione, è esso stesso strumento di divisione degli spiriti, è discernimento nel senso della spada predetta a Maria, che mostra le intenzioni di molti cuori. Non è un’istruzione sul come discernere domani; è un discernimento che si fa. Chi lo fa può discernere perché l’ha fatto, si è posto dalla parte di Gesù, ha capito e respinto quanto è contrario a Gesù, è entrato nel suo mistero di cui ha accettato l’umiliazione e la croce, ha sperato nella risurrezione. In altre parole, ha in mano la chiave di ogni discernimento. Le parabole matteane immettono in quel primo ed essenziale discernimento che consiste nel distinguere ciò che è Regno di Dio e ciò che non lo è; nel distinguere tra ciò che è decidersi qui e ora per il Regno e ciò che, invece, è illudersi di seguire Gesù (magari perché se ne sono ripetute le parole e si sono compiuti i miracoli). In questo senso le parabole servono per l’orientamento di una comunità che si trova di fronte a un processo di decisione e di divisione, e sono il principio e la fonte di qualunque altro discernimento nella Chiesa. Matteo suggerisce come il “fare del cuore”, divenuto “fare della missione”, si specifica nel “fare del discernimento”, che è anzitutto decidersi per il Signore e contro tutto quello che, in noi e intorno a noi, ostacola il

mistero di Dio, perché la proclamazione del Regno – fatta con i contenuti di Matteo 5-7 e le modalità di Matteo 10 – sta portando divisione sia tra comunità e mondo che non accetta sia all’interno stesso della comunità (divisione sui metodi missionari, sul vero significato da dare alla dottrina sul Regno ecc.). Senza discernimento, la missione rischia di essere fraintesa, di essere un progettismo, perché non si coglie il carattere ambivalente e divisorio che essa introduce nella storia; il discorso della montagna rischia di essere astratto, teorico, una sorta di dottrina morale che non si sa da dove discenda. È il lasciarsi trafiggere dalla spada, come Maria, che induce il discernimento e permette di intuire il mistero della Parola. Ho cercato di esprimere, del cap. 13, il senso globale, evitando l’esegesi delle singole parabole, proprio nel desiderio di comprendere quel discernimento che siamo invitati a compiere continuamente nelle nostre comunità. Voi potrete rileggerlo nella visione cristologica già suggerita, domandando: chi sei tu, Signore, che parli così? Quale mistero della tua vita mi vuoi rivelare? Quali caratteristiche della mia comunità intendi illuminare con le tue parole?

VI. IL DISCERNIMENTO PRATICO ALLA LUCE DI MT 13 Premessa Matteo non offre semplicemente delle regole astratte per il discernimento, regole cioè da poter tenere in tasca e applicare prescindendo dal proprio coinvolgimento nel Vangelo del Regno. Anzi, in questo cap. 13 vuole metterci in guardia da un ascoltare che non accoglie la Parola dentro. Solo accogliendola con tutto il cuore e facendola, la si comprende e si ricevono luci per il discernimento dei cammini della Parola e del Regno del mondo. La regola concreta dunque è quella di chi si coinvolge fino a dare la vita per il Signore, perché allora ha il dono di capire che cosa è il Regno e che cosa non lo è, a cominciare da se stesso. La pretesa di discernere dal di fuori è molto rischiosa, induce a presunzione, a giudizi affrettati, a ideologie e a settarismi, ed è fonte di inimicizie e tensioni nella Chiesa.

Sottolineo l’importanza di questa premessa dal momento che siamo sempre tentati di trasformare il discernimento in un giudizio che dall’esterno diamo sugli altri; il vero giudizio sul Regno nasce dal mio pagare di persona. E Matteo continua a ripetere la necessità di quel “fare” pratico, di quel “fare” la Parola, su cui vogliamo riflettere nei nostri esercizi. Propongo qualche riflessione su questa linea attraverso due domande: come la Chiesa ha riletto Matteo 13 per i suoi discernimenti nel corso della storia? Come il Ferrari ha vissuto i discernimenti pratici? In un terzo momento considereremo alcuni aspetti del nostro discernimento. La rilettura di Mt 13 nella storia della Chiesa Ho precedentemente accennato al fatto che il capitolo sulla storia operativa e sull’ermeneutica delle parabole del Regno è lunghissimo. Dovrei richiamare la ricchissima esegesi patristica in proposito, che non è solo esegesi del passato, bensì continua attualizzazione e rilettura del presente alla luce delle parabole. Il tempo non me lo consente e mi accontento di qualche accenno generico, rispondendo di primo acchito, appunto alla domanda: che cosa ha ricavato la Chiesa, attraverso i secoli, dalla riflessione su Mt 13? Anzitutto consolazione e conforto, per tener duro anche quando la predicazione non viene accolta e per riconoscere che il seme è buono, pur se il terreno è impreparato, impermeabile. Fin dall’inizio la Chiesa – e appare pure nelle spiegazioni allegoriche della redazione matteana – si interroga sul poco frutto che dà la Parola e trae conforto dalle parabole che invitano ad avere coraggio perché a un certo punto il seme troverà sicuramente un terreno accogliente e capace di frutti. Noi pensiamo ai luoghi in cui l’annuncio comporta molta fatica; pensiamo a Giovanni Mazzucconi33 mandato a evangelizzare gli indigeni della Papua Nuova Guinea che lo osteggiavano, lo rifiutavano, ma le sue lettere testimoniano entusiasmo e quasi gioia di buttarsi nei pericoli, di vivere nella sua carne la sorte del seme schiacciato. Pensiamo al racconto dei martiri canadesi34 che si trovarono di fronte all’assoluta refrattarietà di alcune tribù indiane rispetto al Vangelo, pensiamo al loro rischio di perdere la fiducia della gente e di essere torturati. Tutti questi missionari sono stati confortati dalle parole di Gesù e, dopo la loro morte, il

seme ha portato frutto. Il Regno è già nel gesto del seminatore e nella consolazione che vive. Analoga al conforto, la perseveranza si ha là dove è più palese l’influsso della parabola del lievito nascosto nella pasta. La Chiesa l’ha attinta e l’attinge ancora nell’apostolato in mezzo ai musulmani. Quanti religiosi, religiose, quanti preti spendono la vita in terre d’Oriente lavorando in ospedali, in istituzioni educative e caritative, credendo all’importanza di una presenza nascosta e apparentemente senza frutto di conversioni e magari sentendosi dire: “Sei buono, ti ringrazio, peccato però che andrai all’inferno perché non sei musulmano!” Ma i missionari, le missionarie sanno che il lievito a poco a poco fermenterà la pasta e per questo perseverano. Il Regno dov’è? Il Regno di Dio è la stessa perseveranza serena del lievito, che accompagna l’intera esistenza, che accetta di non vedere risultati, nella certezza che un giorno la pasta crescerà. La chiarezza è una terza linea di rilettura di Mt 13 da parte della Chiesa nella sua storia. La Chiesa ha sempre avuto e ha bisogno di riacquistare chiarezza allorché si accorge che non diventerà mai una comunità di puri, pur desiderandolo. Essa deve riconoscere come i tentativi rigidi di comunità di puri portano fatalmente al settarismo e sono il contrario della parabola della zizzania e del buon grano, il contrario della parabola dei pesci. Il vestito della Chiesa è macchiato, il campo è pieno di zizzania, nella rete sono tanti i pesci cattivi che non servono a nulla, ma non c’è da turbarsi. Ricordiamo Agostino che, nella sua comunità di Ippona, aveva persone che non frequentavano i sacramenti, altre che li frequentavano senza convinzione, altre ancora che non mettevano in pratica gli insegnamenti della Parola. Tuttavia, meditando sulla parabola della zizzania, egli giunge alla chiarezza di attendere, di pazientare, perché Dio è somma longanimità. È questa la via giusta della Chiesa, il Regno. La tentazione di creare una comunità di eletti, di separati dal resto della comunità, disprezzandola come perduta, è purtroppo sempre presente. Rileggo alcune parole tratte dal Discorso sui pastori di Agostino: “I difetti delle pecore sono largamente diffusi. Pochissime le pecore sane e prosperose. Sono rare cioè quelle ben salde nel cibo della verità, che usufruiscono con vantaggio dei pascoli donati da Dio”35. Probabilmente era assai duro per Agostino scrivere così, dal momento che di pascoli ne offriva

in maniera straordinaria; eppure egli interpretava tale situazione come Regno di Dio, cioè come salvezza già presente e, in essa, si impegnava nell’esercizio del ministero. Dunque, le parabole di Matteo chiariscono alla Chiesa ciò che deve fare: da una parte vivere l’anelito di presentarsi al Signore quale sposa santa e immacolata, dall’altra faticare portando il peso di essere, nel proprio cammino, una comunità non perfetta, non pura, piena di scandali e di operatori di iniquità, come conclude la parabola della zizzania. Nella sana tradizione della Chiesa, la ricerca di comunità pure non scade nel settarismo, bensì sfocia nel costituirsi della vita consacrata, che si pone però a servizio, non in antitesi, della santità di tutto il popolo cristiano. Lo ha affermato il Vaticano II e vi ha insistito il recente Sinodo universale dei vescovi. La nascita, nella storia della Chiesa, di comunità che cercano la santità nella comunione umile con l’intero popolo di Dio è un riflesso, un’esegesi pratica del cap. 13 di Matteo. Dalle parabole la Chiesa ricava soprattutto certezza. La certezza che, nonostante tutto, il Regno è qui, a dispetto delle oscurità, delle tentazioni, delle prove, delle persecuzioni, delle stanchezze. L’Abbé Pierre, nel suo ultimo libro dal titolo Testamento, si chiede: che cosa rimane in me alla fine della vita? E risponde: alcune semplici certezze: “Nonostante tutto l’Eterno è Amore; nonostante tutto noi siamo amati; nonostante tutto, noi siamo liberi. Ah! se riuscissi a comunicare queste tre certezze!”36. È un modo concreto per esprimere che il Regno è qui, malgrado le tante miserie e povertà che l’Abbé Pierre ha conosciuto; che Dio è Amore, malgrado le sofferenze e gli orrori della vita; che l’uomo è amato ed è libero. Possiamo dire, concludendo, che il cap. 13 è il “manuale” della perseveranza della Chiesa; esso spiega perché la Chiesa può continuamente e coraggiosamente riproporre, senza vergogna, il messaggio di Gesù anche in un mondo attraversato e sconvolto dal maligno. I discernimenti del Beato Ferrari Come Ferrari ha vissuto i discernimenti pratici nel male del suo tempo? Osserviamo subito che egli ebbe occasioni frequenti per compierli. Abbiamo accennato al fatto che ciascuno dei tanti gruppi voleva il vescovo dalla

propria parte. Ferrari capiva alcune ragioni dei conciliatori, vedeva che gli intransigenti, accusando gli eccessi dei conciliatori, avevano delle buone e rette intenzioni, ma sentiva di non dover appoggiare né gli uni né gli altri. Ugualmente accadeva per i neotomisti e per i rosminiani, per quanti desideravano aprirsi al moderno e per quanti erano pessimisti su ogni aspetto del mondo moderno e lo rifiutavano. Ogni gruppo riteneva di fare il discernimento giusto – ecco il problema –, di essere fedele alla santa verità di Dio per il bene della Chiesa. Domandiamo al Ferrari – che ha ormai la conoscenza attuale del mistero –: perché sbagliavano questi gruppi, dando poi adito a divisioni e contrapposizioni? A un primo livello sbagliavano per motivi culturali, per mancanza di un’autentica conversione intellettuale. Era gente incapace di pensare criticamente e senza pregiudizi, non aveva raggiunto la libertà, l’equilibrio della mente. Si trattava quindi di un vero problema culturale: i gruppi erano schiavi delle opinioni ricevute, magari riformulate in maniera precisa e attraente, senza che fossero però state sottoposte a una accurata revisione critica, oggettiva. Per questo, a distanza di settanta o ottant’anni, a noi sembrano controversie inutili, questioni di lana caprina, per cui non valeva affatto la pena di battagliare. In secondo luogo, sbagliavano per una serie di motivi riferiti, più in profondità, a un livello religioso ed evangelico, ossia per la mancanza di una piena e totale conversione evangelica, di una scelta primaria del Signore. La scelta, piuttosto, era di un Signore che sostiene ciò che io, per la mia tradizione e mentalità, considero giusto. Infine, sbagliavano per motivi morali, intendendo il termine non nel senso più usuale, bensì come offuscamento, turbamento, accecamento dovuto al proprio interesse, al proprio partito, alla propria cricca (idola tribus, idola fori, idola theatri37), dunque interesse mentale, non necessariamente economico. In parte sono impedimenti culturali, in parte abitudini affettive con scelte interiori sbagliate e non chiaramente avvertite. Il discernimento è pure accorgersi delle propensioni affettive inconsce che sono in noi. Come si regolava Ferrari? Non essendo un intellettuale, non seppe forse esprimere sempre chiaramente le ragioni profonde dei suoi discernimenti. La sua formazione neotomista non era sufficiente per una critica dei fondamenti del pensare di quel tempo. I suoi erano quindi autentici discernimenti pratici di chi è umile, di chi si

tiene lontano da interessi propri, da partiti presi, di chi non vuol guadagnarci né teme di perdere qualcosa, e giudica allora, volta per volta, rimettendosi al Signore secondo la coscienza illuminata dal Vangelo. Ferrari vedeva giusto perché viveva Mt 13, viveva la certezza che il Regno è qui, che va cercato anche nell’umiltà delle sue manifestazioni, nella confusione delle opinioni, sentendo dove soffia lo Spirito, dove il Signore sta muovendo il cammino della Chiesa. Ovviamente ha dovuto soffrire molto, perché non sempre era facile trovare la strada della volontà di Dio. Il discernimento pratico, magari non giustificabile a priori, è quello dei santi. La Chiesa ha certamente bisogno di persone intellettuali in grado di difendere dagli errori e di chiarire il perché delle scelte dei santi. Però tali scelte sono per lo più evangeliche, hanno cioè l’immediatezza, la forza e la persuasione che vengono da una coscienza retta e formata sulla Parola. Quali sono stati i giudizi di Ferrari sulla sua epoca? Partecipava al linguaggio usuale ecclesiastico del secolo scorso; un linguaggio ordinariamente molto negativo su tutte le espressioni della modernità. Se leggete le encicliche papali dell’Ottocento, vi accorgerete dell’insistenza sulla presenza diffusa del male. E Ferrari operava in questa linea, come appare dai suoi scritti. Voi vedete come l’odierna empietà minaccia nullameno, massime in questa nostra cara patria, l’esterminio del nome cristiano; e noi non possiamo dissimularcerlo, ché purtroppo è vero, né possiamo scordarci della materia e della causa di tante sciagure, senza farci colpevoli di trascurare la difesa della fede cristiana…38. Oggi vediamo quello che mai non videro i nostri maggiori dopo che Dio misericordioso fece a loro il prezioso dono della fede. Nulla si risparmiò né si risparmia per abbattere l’opera di N. S. Gesù Cristo, e presso di noi si giunse a tal punto, né peranco si indietreggiò, “da dover temere per questa nostra Italia la perdita della fede”. Qui, dove è il centro della cattolica unità e la sede del pastore e del maestro universale della Chiesa, qui più che in altro luogo si svolge il piano delle sette massoniche, che si proposero di scalzare dalle fondamenta il cattolicesimo, mirando specialmente a scristianizzare la famiglia e la scuola39.

Per il Ferrari i nemici mortali della fede erano la massoneria, il socialismo, il laicismo, che cercavano a ogni costo di strappare la religione dal cuore della gente semplice, di consumare l’ultimo atto della grande apostasia, ed era perciò pronto a reagire con tutte le forze. Ancora: Le grandi officine, quando non siano sorvegliate a dovere, come sono un grande pericolo per l’onestà dei costumi, così non lo sono meno per la fede […] Voi padri e madri del popolo, che non potete e non dovete crescere i vostri figli agli studi superiori, li collocate spesso in età giovanetta nelle officine. Or bene, non agognate a guadagni che non vi sono necessari. Se voi lavorate i campi, non discostate dall’agricoltura i vostri figli; sarà un pericolo di meno per la loro fede40.

Ferrari sa che la città è insidiosa, e continua: Io so bene che i pericoli di perdere la fede […] sono molto più gravi in città di quanto non lo siano in campagna. Per questo, come sempre quando compio la sacra Visita Pastorale, raccomando qui di nuovo agli abitanti della campagna di non lasciarsi prendere dalla smania di venire ad abitare la città […] Anche in campagna non mancano speciali pericoli di perdere la fede. L’emigrazione temporanea in paesi protestanti, gli sforzi che qua e là vanno facendo le false religioni; le sette socialiste che si dan l’aria di lasciare che in religione ciascuno faccia a modo suo, per trarre più facilmente e più fatalmente in inganno, sono questi i pericoli che minacciano più frequentemente la fede delle popolazioni di campagna41.

Lo sguardo del cardinal Ferrari era giusto, il suo discernimento era nello spirito e nella lettera delle parabole: Satana è all’opera per seminare zizzania e rovinare il raccolto. Ha usato la chiave interpretativa del suo tempo, e moduli espressivi che talora appaiono persino monotoni e ripetitivi, ma ha evitato il rischio del settarismo che poteva provenirne, quel settarismo o integralismo che divide i buoni dai cattivi, noi dagli altri. Ha capito con il suo fiuto spirituale che la divisione era nei cuori, toccava la fede. Oggi – anche se le cose vanno forse peggio di allora – il nostro linguaggio è diverso, è il linguaggio del Vaticano II che ci ha invitato a scrutare i segni dei tempi, a riconoscere il valore delle realtà terrestri. Perciò siamo chiamati a un discernimento quotidiano, assai più difficile di quanto lo fosse il gettare un sospetto globale sulla società, come ai tempi di Ferrari. È più difficile leggere i segni dei tempi cercando di vedere anche quelli positivi del Regno; è più difficile riconoscere il significato di ciò che sta crescendo (la tecnica, la città, tutto quanto si costruisce). Il nostro discernimento non può più essere fatto con categorie troppo semplici, ma deve ritornare alla finezza interpretativa propria del Nuovo Testamento, di Mt 13, dove vengono dati dei principi che servono per immergersi nelle situazioni più faticose e complesse del Regno, senza timore e senza lasciarci ipnotizzare dal male che è in noi e attorno a noi. Alcuni aspetti del nostro discernimento In una terza battuta, accenno ad alcuni aspetti del nostro discernimento, partendo dalle situazioni di oggi e indicando gli strumenti e i sussidi che ci sono offerti per tradurre in termini moderni il discorso in parabole. Il quinquennio 1989-1994 costituisce una prima situazione. Celebriamo in questi giorni il V anniversario della caduta del muro di Berlino, un fatto di

storia sul quale è stato assolutamente necessario operare dei discernimenti. Con la caduta di uno dei due blocchi, molte cose sono cambiate rispetto a quelle che hanno sostenuto l’immaginario ecclesiastico negli ultimi cento anni, in particolare dall’ultima guerra a oggi; la fine del comunismo è la fine di un immaginario che sorreggeva tutti i giudizi. Ora ci sono richiesti discernimenti più profondi e la Chiesa, come nel passato ha riletto, attraverso i grandi padri, le parabole del Regno, così le rilegge nel presente attraverso le encicliche. La Centesimus Annus è un formidabile sussidio per rivedere, in filigrana, gli eventi del 1989. Giovanni Paolo II, dopo aver parlato dell’“inaspettata e promettente portata degli avvenimenti degli ultimi anni”, dice: “Il loro culmine certo sono stati gli avvenimenti del 1989 nei paesi dell’Europa centrale e orientale, ma essi abbracciano un arco di tempo e un orizzonte geografico più ampi”42. E poi li descrive. Ma è interessante notare che lo scenario delineato dal papa – il sorgere fiducioso dello spirito democratico – è già mutato rispetto al 1991; basta pensare alle ultime elezioni negli Stati Uniti, in Austria, alla situazione italiana, a quella tedesca e dei paesi dell’est. Tuttavia Giovanni Paolo II ha ragione di considerare il 1989 e la caduta del comunismo quale evento epocale e a esaminarne le condizioni, le caratteristiche e gli insegnamenti. Sempre nella Centesimus Annus, nella parte dal titolo “Verso le cose nuove di oggi”, si prende coscienza di come è cambiato a partire dalla Rerum Novarum (datata il 15 maggio 1891) il problema operaio e il quadro sociale43. Il nostro secolo, che sta per concludersi, abbisogna anch’esso di rilettura e di discernimento, per capire ciò che davvero si sta muovendo verso la realizzazione del Regno di Dio, che non è (avvertono le parabole) il successo universale della Chiesa visibile, bensì il venire del Regno pur nel nascondimento e nella prova. In questo lavoro alla luce del prossimo millennio, ci può aiutare l’enciclica Redemptor Hominis44 – straordinaria per il tono della lettura interpretativa. Quando, attraverso l’esperienza della famiglia umana, in continuo aumento a ritmo accelerato, penetriamo nel mistero di Gesù Cristo, comprendiamo con maggior chiarezza che, alla base di tutte queste vie lungo le quali, conforme alla saggezza del Pontefice Paolo VI (cfr. Enc. Ecclesiam suam, 1964), deve proseguire la Chiesa dei nostri tempi, c’è un’unica via: è la via sperimentata da secoli ed è, insieme, la via del futuro. Cristo Signore ha indicato questa via, soprattutto quando – come insegna il Concilio – “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo” (Gaudium et Spes, 91). La Chiesa ravvisa, dunque, il suo compito fondamentale nel far sì che una tale unione possa

continuamente attuarsi e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa irradia. Sullo sfondo dei sempre crescenti processi della storia, che nella nostra epoca sembrano fruttificare in modo particolare nell’ambito di vari sistemi […] Gesù Cristo diventa, in certo modo, nuovamente presente, malgrado tutte le apparenti sue assenze, malgrado tutte le limitazioni della presenza e dell’attività istituzionale della Chiesa45.

Notiamo la differenza di linguaggio e di lettura sul mondo contemporaneo tra Giovanni Paolo II e il cardinal Ferrari. Più vicino a noi è il sussidio del nostro Sinodo diocesano e ciò che emergerà quale impegno prioritario nella realtà attuale46. Dovremo mostrare che pure in un mondo tecnicizzato e in parte secolarizzato è possibile costruire comunità cristiane popolari (non semplicemente elitarie o di piccoli gruppi) che vivono la gioia del Vangelo, comunità simili alla Chiesa degli apostoli. E dovremo farlo ritessendo con infinita pazienza il tessuto di base delle comunità ed evitando di spaventarci per la zizzania, le erbacce, i terreni cattivi: il seme è buono e il terreno buono non manca. Non è questione tanto di regole e di strumenti: anzitutto occorre l’atteggiamento di serenità, di pace, di sicurezza interiore, di certezza nella vittoria del Vangelo, atteggiamento espresso nelle parabole del Regno. Ricordiamoci dell’importantissima parola che si legge nella Christifideles Laici: “Urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni”47. La certezza nella vittoria del Vangelo è insidiata, a ogni passo, dal demonio che semina pessimismo, sfiducia, rassegnazione e sconforto in mezzo a noi. La nostra battaglia consiste proprio nel riconoscere le insidie del nemico e nello smascherarle come non evangeliche e antievangeliche; smascherarle in tanti giudizi correnti, in tante persuasioni apparentemente ovvie ma, di fatto, perniciose e distruttrici. E qui ci viene in aiuto anche l’ultimo documento dei vescovi lombardi, La fede in Lombardia (settembre 1994). Per combattere la battaglia e per discernere, è necessaria la collaborazione di tutto il popolo di Dio: sacerdoti e diaconi permanenti, laici e consacrati. Camminare insieme è la scelta giusta, la scelta che ci mette in grado di affrontare la sfida del prossimo millennio.

Conclusione: che cosa dobbiamo fare? Richiamo l’animo del nostro discernimento con un testo classico: l’Imitazione di Cristo48, perché traduce direttamente, in linguaggio ascetico, l’intuizione matteana del “fare” del cuore, del “fare” della vita, del “fare” del discernimento. Commentando un versetto dell’evangelista Giovanni “Chi segue me non cammina nelle tenebre” (Gv 8,12), l’autore scrive: Queste sono parole di Cristo, con le quali egli ci esorta a imitare la sua vita e i suoi costumi, se vogliamo essere illuminati veracemente e che ogni cecità sia rimossa dal cuore […] Se v’è chi voglia pienamente e saporosamente intendere le parole di Cristo, fa bisogno che egli si studi di conformarvi la propria vita49.

E ancora: Il sapere senza il timor di Dio, che vale? […] Se io sapessi tutte le cose del mondo e poi non fossi nella carità, che mi gioverebbe dinanzi a Dio, il quale m’ha da giudicare secondo le opere?50 […] In verità, quando sarà il giorno del Giudizio, noi non saremo domandati di quello che abbiamo letto, ma di quel che s’è fatto51.

Il discernimento si opera nel fare e comincia fin da questo momento in cui non ci limitiamo semplicemente ad ascoltare ma “facciamo” gli esercizi; è già un gesto di adesione totale e piena a Cristo Gesù.

VII. FARE LA CHIESA (MT 18) Indicando uno dei punti più importanti del nostro discernimento pastorale, ho richiamato il n. 34 della Christifideles Laici: “Urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e nazioni”. Il papa allude ai paesi e nazioni dove “si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette” (ibid.). Si tratta delle nostre comunità e Giovanni Paolo II, nel discorso pronunciato per i vescovi lombardi in occasione dell’ultima visita ad limina52, ha ricordato che dobbiamo operare “soprattutto il passaggio da una

fede di consuetudine, pur apprezzabile, a una fede che sia scelta personale, illuminata, convinta, testimoniante. È tale fede, celebrata e partecipata nella liturgia e nella carità, che nutre e fortifica la comunità dei discepoli e li edifica come Chiesa missionaria e profetica”53. Quali saranno queste comunità in cui ci si forma a una fede adulta e si rifà il tessuto comunitario in vista di rifare il tessuto sociale? Per i nostri esercizi, la domanda suona così: ci sono, nelle parole di Gesù in Matteo, delle indicazioni per fare una comunità secondo il Vangelo, cioè capace di vivere la gioia della fede in un mondo ostile? È, infatti, questo il nostro mondo, e lo era anche la realtà entro la quale si collocavano le comunità di Matteo. Ho scelto dunque di meditare il cap. 18, il quarto dei cinque grandi discorsi, perché risponde bene al “come fare Chiesa?” Probabilmente il termine “Chiesa” è preferibile a “comunità”. Ci si chiede infatti, talvolta, che cosa si intenda di preciso per “comunità”; del resto nell’unico versetto in cui, in Mt 18, compare il termine greco ekklesía, lo troviamo tradotto con “assemblea” (v. 17). Uso dunque l’espressione “far Chiesa” o “fare la Chiesa” – biblicamente più esatta – per indicare, come in tutti i documenti magisteriali, sia la Chiesa di Cristo nella sua universalità, sia la Chiesa diocesana, sia le porzioni, le comunità minori della Chiesa locale. Premessa Premetto subito che a fare la Chiesa è anzitutto l’Eucaristia. Mt 18 è scritto da una comunità e per una comunità che ha il suo centro nell’Eucaristia, in Gesù presente nel segno della sua dedizione suprema per noi, presente come sacrificio e come cibo. È Cristo che fa la Chiesa, e la Chiesa è quell’iniziativa del Padre che, nel Figlio e mediante il dinamismo dello Spirito Santo invocato nell’epiclesi, opera l’azione salvifica attraverso il sacrificio di Gesù divenuto nutrimento dei fedeli. Non dimenticando mai tale presupposto e che tutto vi fa riferimento implicito, noi considereremo il discorso nella sua struttura verbale, come ci è stato tramandato, nel momento della lectio e nel momento della meditatio. Avrete notato che non passo mai al terzo gradino della lectio divina, cioè la contemplatio, perché questa è la vostra parte, la più importante degli esercizi. Il mio lavoro consiste semplicemente nell’avviarvi a essa, alla

preghiera personale contemplativa, che è la sostanza, il succo, il pilastro dei giorni di ritiro, insieme all’Eucaristia, alla liturgia delle ore, alla confessione. Anche noi qui facciamo comunità, siamo comunità orante, comunità che si pente e si converte, e ne viviamo l’esperienza nel colloquio con il Signore. Lectio del discorso ecclesiastico Leggendo le due pagine del cap. 18 del cosiddetto discorso ecclesiastico, ci accorgiamo subito che non è composto con la stessa cura dedicata dall’evangelista al discorso della montagna. È piuttosto una raccolta di detti sparsi di Gesù, che hanno qualche attinenza con lo stare insieme dei discepoli; quindi un discorso ecclesiastico, però embrionale. Volendo conoscere meglio l’ordine e la struttura delle primitive comunità cristiane, bisognerebbe consultare il cap. 1 degli Atti, la Lettera di Paolo ai Romani e la seconda lettera ai Corinti. Tuttavia Mt 18 è interessante perché ci permette di cogliere, attraverso alcune parole di Gesù che poi hanno fruttificato nella riflessione e con la predicazione degli apostoli, gli elementi minimi che fanno la Chiesa, i primi germi, a cui il Signore ha richiamato in diverse circostanze. Ed è importante in quanto mostra come la Chiesa è una realtà molto semplice, concreta, che ha a che fare con la quotidianità. Così Gesù l’ha vista e l’ha proposta. Ma nello stesso tempo è una realtà misteriosa e questi detti, apparentemente pragmatici, ne fanno intuire – e lo vedremo – l’aspetto misterico. Sono molti gli episodi, in particolare dal cap. 14 in avanti, che prefigurano la comunità. Ne ricordo tre. Mt 16,18 è fondamentale, e in esso leggiamo la prima menzione del termine ekklesίa: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del Regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. C’è qui un riferimento immediato al cap. 18 che presuppone la proclamazione di Gesù a Pietro e la sua intenzione di edificare una Chiesa che non verrà meno, in cui le realtà della terra avranno il loro riscontro nei cieli, un valore definitivo, di eternità, sacro. Mt 14,13-21; 15,32-39: la duplice moltiplicazione dei pani simboleggia la Chiesa. Gesù e i discepoli hanno una precisa funzione; e la gente viene

nutrita in un banchetto comune che crea fraternità (l’Eucaristia, centro della Chiesa). Probabilmente l’evangelista ha situato gli episodi a questo punto e non altrove, proprio per prepararci al cap. 18. La fine del discorso è chiaramente in 18,35, dunque alla fine dell’attuale cap. 18 (sappiamo che la divisione in capitoli e versetti è assai posteriore rispetto alla redazione matteana), dal momento che in 19,1 leggiamo la formula consueta: “Terminati questi discorsi, Gesù partì dalla Galilea”. Formula che conclude il discorso della montagna: “Quando ebbe finito questi discorsi…” (7,28), il discorso di missione: “Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni… partì di là” (11,1), il discorso in parabole: “Terminate queste parabole, partì di là” (13,53). Più difficile è definirne l’inizio e in genere gli esegeti, fondandosi appunto sulla divisione dei capitoli, propendono per 18,1: “In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù”. In realtà se ne potrebbe dubitare e io preferirei, per esempio, farlo cominciare a 17,24: “Venuti a Cafarnao, si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio”. Perché, dopo l’episodio degli esattori, tutto va avanti senza interruzione e il v. 1 si pone semplicemente come legame alle parole precedenti. Acconsentendo alla mia preferenza, il discorso comincerebbe e finirebbe col riferimento a Pietro, perché è una domanda di Pietro a suscitare l’ultima risposta di Gesù e la parabola del servo spietato (cfr. vv. 21-35). Sarebbe tra l’altro più evidente il rapporto tra il cap. 16 e i capp. 17-18: un accenno a Pietro, la proclamazione della sua missione (cap. 16), quindi la ripresa del rapporto di Gesù con Pietro (cap. 17) e poi i detti di Gesù sulla comunità che terminano con la domanda di Pietro (18,31). Mi sembra che il discorso acquisterebbe maggiore unità. In ogni caso, lo commento attenendomi alla tradizione esegetica e richiamando magari, quando occorre, la mia proposta. Non c’è uno schema preciso e non si riesce a vedere uno sviluppo logico dei detti di Gesù, per cui li riprendo uno dopo l’altro. I vv. 1-4 descrivono un litigio dei discepoli su chi è il più grande, un litigio di ambizione: la comunità è il luogo dove ci sono anche ambizioni e litigi. Il v. 5 rileva un atteggiamento importante della comunità, l’accoglienza dei piccoli, collegato strettamente con il v. 4: “Chiunque diventerà piccolo come questo bambino sarà il più grande nel Regno dei cieli”.

I vv. 6-11 presentano il terzo tema: l’abominio contro lo scandalo dato ai piccoli della comunità. Vengono ribadite le esigenze del Vangelo del cap. 5, quando Gesù parlava della necessità di strappare l’occhio o il braccio per non peccare. I vv. 12-14, con la parabola della pecora smarrita, ritornano sui versetti precedenti, sul comportamento verso i piccoli. La parabola conclude: “Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli”. La sesta parte del discorso, che più propriamente si può chiamare “regola comunitaria”, è presentata nei vv 15-17. Assistiamo a una vera procedura, quasi giuridica, per il recupero alla comunità di chi si era perduto. La parabola dei vv. 12-14 insisteva sull’importanza di ritrovare chi si è smarrito, e ora viene spiegato come recuperare il perduto. Il v. 18 appartiene ancora alla sesta parte del discorso, ed è molto significativo perché enuncia il principio generale di corrispondenza tra comunità terrena e comunità celeste; quanto fa la comunità ha valore soltanto se tocca l’eternità. È la parola rivolta a Pietro e qui ripetuta e applicata alla comunità, con le sue strutture, che si intende già come realtà sacra. Ricordo l’invocazione del “Padre nostro”: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Ma qual è il luogo sulla terra dove si compie la volontà di Dio come nei cieli, dove le cose che avvengono a nome della comunità hanno ripercussione nei cieli? È la Chiesa. C’è forse un altro accenno alla sacralità della comunità. Al v. 10, Gesù ha detto: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. C’è corrispondenza tra i piccoli e gli angeli cosiddetti della faccia, coloro che servono da vicino Dio. L’assemblea del cielo, composta dagli angeli che lodano il Signore e che lo servono, ha un suo anticipo e una sua corrispondenza nell’assemblea della terra; la liturgia del cielo corrisponde alla liturgia della Chiesa terrena. Un’altra corrispondenza tra cielo e terra è esposta nella settima perìcope, vv. 19-20: “Se due di voi sopra la terra si accordano per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Il richiamo è a Mt 1,23, all’Emmanuele, il Dio con noi. “Io sono in mezzo a loro” è pure un preludio della parola finale di Matteo: “Sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli” (28,20).

La coscienza della comunità è elevata a livelli altissimi: in essa c’è Gesù quale garanzia, pegno, realizzazione della presenza di Dio, della Trinità. Nei vv. 21-22 ritorna la figura di Pietro che chiede precisazioni sul perdono al fratello. Forse è una chiosa, un approfondimento dei vv. 15-16 (come ricuperare un fratello) e dei vv. 12-14: perché ricercare gli smarriti? Quanto deve essere lunga la pazienza comunitaria? La risposta di Gesù è lapidaria: “Fino a settanta volte sette”. E, nei vv. 23-35, Gesù amplia il discorso con una parabola, la perìcope più lunga del capitolo, quella del servo spietato, che nuovamente mette in relazione terra e cielo: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (v. 35). Ciò che accade nella comunità, in bene o in male, ha ripercussione in cielo. Dunque, sono nove le perìcopi e diventano dieci se vogliamo far rientrare nel discorso il brano di Matteo 17,24-27: il pagamento della tassa per il tempio. L’episodio mostra la stretta relazione tra i due: Pietro agisce a nome di Gesù, Gesù afferma che coloro che stanno con Pietro sono i figli, sono quelli che non devono pagare il tributo. Meditatio: il messaggio di Mt 18 Possiamo comprendere il messaggio del discorso ecclesiastico, in sé e per noi, ponendoci degli interrogativi che ciascuno dovrà approfondire quale introduzione alla preghiera e alla contemplazione. Da che cosa è fatta la comunità, secondo le parole di Gesù? Da quali atteggiamenti è costituita la Chiesa che vive la gioia del Vangelo in circostanze ostili e difficili? Il primo atteggiamento costruttivo che fa comunità, in opposizione a quello distruttivo dell’ambizione, è la piccolezza del cuore, l’essere piccoli, senza pretese e senza gonfiature, senza presunzioni. È la conversione alla semplicità evangelica e, in proposito, il commento più bello a 18,1-4: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (v. 3), lo troviamo negli scritti di Teresa di Gesù Bambino, raccolti in Storia di un’anima54. Il secondo atteggiamento è l’accoglienza: una comunità che accoglie e cura i membri più insignificanti con pazienza, premura e affetto (vv. 5-10), che si preoccupa di non scandalizzare e, in positivo, di edificare, di aiutare i

più deboli e fragili nella fede. È molto importante ricordarsi che la Chiesa non dà solo attenzione ai migliori, bensì anche a quanti non hanno rilevanza, non hanno voce, sono deboli. Il terzo è la cura, da parte della comunità, di chi è smarrito (vv. 12-14): “Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”. La Chiesa accoglie con gioia, con letizia chi si è perduto, anziché criticarlo e rimproverarlo. In Luca è scritto: “Vi sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). La misericordia è tipica della comunità evangelica. Tuttavia, tale atteggiamento, che è il contrario dell’irrigidimento, ha un altro aspetto: la correzione fraterna (vv. 15-18), che ha una sua serietà molto precisa. Il recupero non equivale a un abbraccio che dimentica tutto; piuttosto è un’attenzione a far compiere un cammino di riabilitazione, un cammino serio di ripresa, per rispetto della persona stessa. Non bisogna nascondersi i difetti e i peccati dei membri della comunità, ma aiutarli amorevolmente a vincerli, a uscirne, a riprendere un’esistenza onesta e limpida. L’insistenza sulla serietà della correzione fraterna viene espressa da Gesù quando dice: “Ciò che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo” (v. 18). Qui vedo il germe di una disciplina penitenziale, una disciplina di riconciliazione, quindi del sacramento della confessione che ci dona la gioia di Dio perché ci ricostituisce interiormente mettendoci sulla strada nella quale la giustizia divina diventa nostra. Il quinto atteggiamento che fa la Chiesa, è la preghiera comune, di cui si parla brevemente e insieme con forza nei vv. 19-20. Questa preghiera comune infonde nella comunità la certezza di essere in contatto col Padre, di venire ascoltata. Il v. 20: “Io sono in mezzo a loro” afferma che la comunità è del Signore risorto, perché l’“Io sono” è proprio della manifestazione divina di Gesù, il Verbo del Padre, il Crocifisso risorto, che è in mezzo alla comunità orante. Da qui la ricchezza e l’importanza del fare la liturgia. L’atteggiamento espresso più a lungo è il perdono delle offese: dobbiamo continuamente perdonarci, capirci, accettarci, e allora la comunità cresce con il mutuo perdono. Essa non è composta di perfetti, e anzi è luogo di perdono, settanta volte sette. Gesù lo ribadisce con la parabola, assai incisiva, del servo

spietato (vv. 21-35). Quando la comunità non perdona, non onora Dio, Colui che perdona a noi il grande debito e ci pone nella condizione necessaria e gioiosa di perdonare i piccoli debiti che abbiamo gli uni verso gli altri. Volendo infine tenere presente l’episodio di Pietro e della tassa del tempio (17,24-27), notiamo un altro elemento che fa la comunità, cioè il rapporto fiducioso con Pietro; Pietro, di fatto, parla e tratta a nome di Gesù. Chi fa la comunità? Cioè, chi sono i soggetti umani che fanno la Chiesa? I soggetti nominati in Mt 18 sono molti, celesti e terrestri. Soggetti celesti. Primariamente è il Padre che fa la Chiesa (18,10.14.19.35); è lui che nel cielo dà valore a ciò che si fa sulla terra, è lui che gli angeli dei piccoli contemplano sempre, che non vuole la perdita nemmeno di un piccolo, che concederà ciò che viene chiesto, che non perdonerà se noi non perdoneremo di cuore al nostro fratello. Insieme al Padre, c’è Gesù posto al centro della comunità, che attraverso le parole e l’azione è sempre presente e, come Risorto, suscita continuamente gli atteggiamenti positivi della Chiesa. E Gesù risorto è presente nello Spirito. In sostanza la Trinità fa la Chiesa. Soggetti terreni. Gli agenti terreni menzionati nel cap. 18 hanno diversi nomi e li distinguiamo in costruttori e distruttori della comunità. I costruttori vengono chiamati: Figli (17,25-26), coloro che hanno lo spirito filiale. Discepoli (18,1), coloro che, avendo accettato l’insegnamento di Gesù, intendono seguirlo. Piccoli (18,2.5.6.10.14), dall’animo semplice, che credono nel Regno e hanno affidato la loro vita al Padre in Gesù. Fratelli (18,5), pur se hanno commesso una colpa. La Chiesa è una comunità di fratelli, di fratelli anche peccatori. La dizione sarà ripresa in Mt 23,8-10: “Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbi’, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo”. Tutti fratelli, tutti figli, tutti piccoli: il vero maestro della comunità è Cristo. E, in 23,11-12: “Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato”. È un altro modo per insegnare che la comunità è composta di gente semplice, senza pretese.

Ci sono inoltre due forze che sostengono, trainano la comunità. I vv. 1820.22.35 parlano anzitutto di oranti, di coloro che pregano sul serio nel nome di Gesù e sono riuniti nel suo nome (pensiamo alle comunità contemplative, alle claustrali); poi di perdonanti che, attraverso il perdono delle offese o con il sacramento della Riconciliazione – nel quale i ministri ordinati si fanno mediatori del perdono divino –, costruiscono la Chiesa. Occorre aggiungere la figura di Pietro, espressamente nominato tra i soggetti umani positivi (17,24 ss.; 18,21). Pietro contribuisce, in più, al processo comunitario grazie a un’opera di discernimento utile a capire che cosa si deve fare nella Chiesa. I distruttori sono anch’essi soggetti della comunità, ma ovviamente non portano quella efficacia e quella gioia che permettono di lavorare in un mondo ostile. Vengono chiamati: Ambiziosi e, in 18,1, sono proprio i discepoli. Perciò nella comunità esistono ambizioni, rivalità, tensioni, corse ai primi posti. Le divisioni percorrono la storia della Chiesa, che spesso è storia di lotte e di poteri; Gesù l’ha previsto per educarci al contrario. Le sue esortazioni comunitarie nascono dall’aver registrato, nelle persone a cui si rivolgeva, ambizione e desiderio di primati. È davvero sconcertante leggere, nella storia secolare della Chiesa, quanto abbia giocato l’ambizione. Per esempio, mi colpisce che addirittura ai tempi delle persecuzioni c’erano nelle diocesi, anche a Roma, forti contrapposizioni per l’elezione a vescovo; pure nei momenti terribili, non veniva meno la voglia del potere. Dobbiamo prenderne atto, come ha fatto Gesù che non rifugge dal costituire una Chiesa in cui sa che sorgeranno problemi del genere. Egli la configura quale luogo dove va continuamente rimesso in circolo, nella lotta, lo spirito di umiltà. E le nostre stesse comunità di oggi non sarebbero come quelle del Vangelo se non sorgessero in esse divisioni e rivalità. Scandalosi è un altro nome dei distruttori. Non esiste una comunità senza scandali, espressi in 18,6-7. Pur deprecandoli e cercando di rimuoverli, non potremo mai impedire del tutto che avvengano, dal momento che Gesù li ha registrati nella sua comunità. Quindi la comunità è attorniata e anche penetrata dalla tentazione e dal male; essa passa attraverso il male del mondo e il suo compito è di purificarlo e di purificarsi, precisamente nel contatto doloroso con esso.

Smarriti: oltre agli ambiziosi e agli scandalosi, ci sono appunto gli smarriti (18,12): la pecora che si smarrisce non deve suscitare pessimismo; la sua perdita è invece occasione di ricerca, di affetto, di attesa e di gioia allorché viene ritrovata. I colpevoli sono un’altra categoria di persone che non costruiscono la Chiesa: “Se il tuo fratello commette una colpa…” (vv. 15 ss.). Si tratta di colpe nella comunità, e nelle quali si insiste: “Se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone; se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea”. La Chiesa è fatta pure di colpevoli e di colpevoli che non si ravvedono né alla prima né alla seconda ammonizione; per essi talora è necessario il distacco. La comunità ne soffre, naturalmente, è travagliata e Gesù ci tiene a darcene un quadro realistico, non idilliaco, un quadro pragmatico in cui si riflette sia la sapienza del Signore sia le esperienze delle primitive assemblee; è l’esperienza vissuta dalla comunità di Matteo ed era urgente richiamare le parole di Gesù per infondere coraggio, conforto, per assicurare: guardate che non siamo fuori strada, è normale che avvengano queste cose. Vorrei citare, sul tema della comunità ecclesiale, dei brani di Madeleine Delbrêl, una donna la cui vita – in un ambiente ateo della periferia di Parigi – è stata ricca di concentrazione e insieme di operosità; il fare, per lei, era il continuo lavoro di assistente sociale che la impegnava giorno e notte, eppure è stata un’anima profondamente contemplativa. Sappiamo del grande amore che nutriva verso il ministero dei preti, verso la Chiesa, verso i preti operai e rimase famosa la sua visita a Roma – viaggiò di notte in treno, nell’andata e nel ritorno, vegliando in orazione – semplicemente per recarsi alla tomba di Pietro, dove rimase tutto il giorno a pregare, in ginocchio, nel desiderio di affidare al Signore la Chiesa, il sacerdozio ordinato, i tanti problemi dei preti. In un recente volume sono stati pubblicati alcuni suoi scritti e ho scelto qualche parola sulla Chiesa e sul sacerdozio. La Chiesa è santa per Cristo che la sposa. Ma essa è e sarà sempre una società di peccatori. La Chiesa santa veicola Gesù Cristo; la Chiesa società di peccatori mi trascina nel dinamismo della sua vita. Non posso dire né “essa” né “io”, ma soltanto “Noi”; Gesù insieme con i poveri peccatori. Questo “noi” è la Chiesa […]. Ora, con la Chiesa e come la Chiesa, noi, a causa del mondo, siamo in stato di emergenza. Tutto ciò che facesse di noi delle persone ripiegate nell’introspezione, dei problematici cronici, ci impedirebbe di far fronte a tale emergenza. Invece, mentre si cammina, si può pensare, ci si può raccogliere, si può riflettere. Noi siamo sempre indotti nella tentazione di dimenticare questa condizione della Chiesa, questo stato di emergenza, e di trasformare le soste della nostra vita in immobilismo o in chiacchiere. Le stesse parole del Signore e l’interpretazione che egli ne dà, possiamo

sclerotizzarle, dimenticando che sono spirito e vita55.

Le difficoltà delle nostre comunità ci obbligano a ripetere: le parole di Gesù sono spirito e vita per me. Scrivendo gli auguri per l’ordinazione presbiterale di un giovane che conosceva, Madeleine dice: Desidero per lui che realizzi nella sua vita ciò che noi stessi vorremmo trovare in lui: innanzi tutto ciò che il sacerdote ci può donare, il Cristo della Messa e dei Sacramenti; e se pensiamo per prima cosa a questo, è perché ciò è molto di più del sacerdote stesso, fosse pure un santo e un genio. Poi, ciò che desideriamo è che sia di Gesù Cristo […], che parli a Dio e di Dio. Parli a Dio per noi e per il mondo dal quale sale a Dio un silenzio così tragico. Parli di Dio e di “Colui che egli ha mandato, Gesù Cristo” il quale vuole essere riconosciuto, conosciuto, fatto conoscere per mezzo di uomini che parlano e non si possono far tacere. Infine, desideriamo che sia un uomo rimasto uomo […] e che creda alla gioia, il che non si riduce a dar prova di ottimismo. Ci sembra che la gioia cristiana, quella che il Signore chiama la “mia gioia”, consista nel credere concretamente – per fede – che noi sempre e dovunque abbiamo tutto ciò che è necessario per essere felici. Crederlo quando riconosciamo che per noi le cose vanno per il meglio; crederlo quando sperimentiamo che per noi vanno male. Credere che “nulla al mondo può rapirci questa gioia”56.

Come il cardinale Ferrari faceva Chiesa? Non voglio dilungarmi, ma è chiaro da tutta la sua vita che Ferrari faceva Chiesa donando se stesso, mettendosi nel cuore di Cristo che si dona nell’Eucaristia. “Sarò tra voi, per quei giorni che Dio mi concederà di vivere quaggiù, come una madre che al seno si stringe i figli suoi; sarò tra voi, ma per amarvi teneramente e con la brama ardente di dare a voi non solo l’Evangelo di Dio, ma anche la mia vita”57. Il desiderio di costruire la comunità mediante il dono della vita appare in altri documenti: “Sarà sempre grave il sacrificio di chi si sobbarca alla croce episcopale; ma imposta questa croce dal Vicario di Cristo, si diffonde nell’animo del vescovo un non so che di irresistibilmente affettuoso, che lo sospinge ad andare dove Dio lo ha mandato. È quasi un divino impulso che trasporta il vescovo al suo gregge, ne vada pure anche la vita”58. Mi sembra un bel commento a Mt 18,12 ss.: la forza di Cristo spinge il vescovo fin sulle montagne per cercare la pecora perduta. Ancora, riferendosi alla visita fatta alla Madonna del Santuario di Pompei: “Una grazia speciale la chiesi anch’io e spero che l’avrò ottenuta; quella cioè di dedicare e di spendere per voi, per il vostro bene tutte le mie povere forze e la vita stessa”59. Questa intenzione profonda con cui faceva la Chiesa spiega le sue attività, il suo correre, il suo muoversi, soprattutto la Visita pastorale. Scrive don

Giovanni Rossi, che è stato segretario del cardinale Ferrari dal 1909 al 1921: L’Arcivescovado di Milano non era un palazzo adatto a una comoda abitazione e a una larga ospitalità. Anticamente esso serviva agli Arcivescovi, di solito patrizi milanesi, solo per solenni ricevimenti. Quasi tutti abitavano nei loro palazzi nobiliari. Molti dicevano al cardinale: “Eminenza, come è brutto il suo Arcivescovado! Non ha nemmeno un giardino”. Rispondeva: “Giardino? Non v’è nessuno che ne abbia uno bello e grande come il mio”. “E dov’è?”. “È la mia Diocesi”. La Visita Pastorale fu la sua passione60.

Un altro aspetto molto importante del suo fare Chiesa è l’amore al papa. Lo testimonia ancora don Giovanni Rossi in un capitolo dello stesso libro: “Sovente mi diceva: ‘Prima di essere arcivescovo di Milano, io sono prete romano, il cardinale di Sant’Anastasia’”61. Da qui traeva la riflessione sulla devozione al papa, che ben corrisponde alla presenza di Pietro in Mt 18, la quale determina il modo di essere della Chiesa e il suo farsi quotidiano anche attraverso il discernimento.

VIII. LA COMUNITÀ CHE VINCE IL MALE CON IL BENE Correzione fraterna, perdono, ricerca dei lontani Proseguiamo la meditazione sul “fare della comunità” fermandoci in particolare sull’aspetto redentivo. La Chiesa, che è la prima redenta, serve infatti il mondo, di cui è parte, redimendolo e vogliamo impegnarci nel tentativo di penetrare in questo mistero così come ce lo ha presentato il Signore nel Vangelo. Per introdurci al tema, ritengo opportuno anzitutto rispondere a due domande che completano la riflessione su Mt 18: quali le somiglianze tra la comunità la cui immagine affiora nel discorso ecclesiastico o comunitario e le nostre? quali, invece, le differenze o distanze? Molte le somiglianze, pur a distanza di duemila anni: nelle nostre comunità ci sono persone deboli, smarrite, litiganti, bisognose di riconciliazione e di correzione fraterna, pretenziose e refrattarie a farsi piccole; e ci sono tante persone umili, che servono nella gioia, capaci di farsi piccole, che pregano, si sacrificano nascostamente, che perdonano. Dunque la sostanza non è cambiata; la Chiesa è sempre attraversata da entrambe queste forze del male e del bene, segnata dalla lotta, che non consiste semplicemente nel contrapporre il bene al male, bensì nel trarre dal

male il bene, nel vincere il male con il bene. È, possiamo dire, la caratteristica, la gloria divina della comunità cristiana. In tal senso c’è continuità tra il passato e il presente: il Signore ha vegliato sulla sua Chiesa; Satana, d’altro canto, non ha dormito. Certamente vanno registrate delle differenze e ne indico tre in negativo, in difetto, almeno rispetto alle richieste di Gesù che pure sono rivolte – notiamolo bene! – a una comunità reale, cioè debole, fragile, un po’ divisa e affaticata, non a una Chiesa ideale. La prima differenza sta nel fatto che noi non prendiamo sul serio e, di conseguenza, pratichiamo poco la correzione fraterna che, invece, è al centro di questo discorso: “Se un tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo tra te e lui solo” (18,15a). È urgente la coscienza che siamo di fronte al primo valore evangelico, da non perdere nei casi di diversità di vedute, di tensioni, di colpe. Parlo di coscienza, non di pratica che sarà stata difficile nelle stesse comunità apostoliche. Tale coscienza, a mio avviso, è troppo scarsa, la correzione fraterna non è in onore; quando si ha qualcosa contro un fratello, si preferisce o dirne male alle spalle oppure denunciarlo ai superiori o addirittura litigare rompendo la comunicazione: tutti modi di non correzione evangelica. Confesso che spesso mi stupisco e mi inquieto nell’accorgermi che vengono saltati i gradini proposti da Gesù. Perché non entriamo in colloquio con la persona interessata? Certamente è faticoso, ma nulla ci può dispensare dalla legge di Mt 18,15 ss., dal dovere cioè di cercare prima di ammonire “tra te e lui solo”, dovere che comporta molta sincerità e molta umiltà. È più facile lamentarsi con altri che trattare direttamente. Questo è un atteggiamento antievangelico. Credo che in proposito tutti i componenti delle nostre comunità dovrebbero ricordarsi che il primo dei gradini va sempre compiuto: “Ammonisci il fratello tra te e lui solo. Se ti ascolterà, avrai guadagnato il fratello”, il tuo intervento sarà allora segno del Regno di Dio. Continua: “Se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano o un pubblicano” (18,15-17). Notiamo la saggezza della gradualità. Se noi facciamo poco conto del primo modo di correzione fraterna, troncando il rapporto con l’altro, il Regno non viene. Il rapporto all’interno della comunità non dev’essere di litigio, di accusa,

di vendetta; ma neppure soltanto di approvazione e di lode. Penso che uno dei motivi per cui è arduo praticare la correzione è il sapere che, nel rivolgerci personalmente a chi ha sbagliato, ci lasciamo facilmente dominare dall’ira, da un sottile desiderio di punizione (lo stesso che possiamo esprimere col mutismo, con la distanza, con la freddezza). Preghiamo dunque il Signore di donarci la coscienza di come sia fondamentale il precetto di Mt 18,15, perché se la Chiesa non dà l’esempio, non vive la semplicità evangelica, ma vive le complicazioni gerarchiche del potere, non è in grado di aiutare su questo punto la società. È vero che Gesù ammette il ricorso ad altri gradini, però procede con estrema delicatezza e lo stesso accedere alla gerarchia è possibile soltanto se si sono esperite le forme del colloquio fraterno e dei testimoni. La carità fraterna non si mostra quando tutto va bene, si è sempre d’accordo, non ci si urta; il vero cammino della comunità cristiana inizia proprio nel momento in cui emergono diversità di vedute, di opinioni, di prese di posizione, perché allora ci troviamo nella condizione di attestare la capacità di sciogliere i nodi dei rapporti immediati, la coscienza di essere fratelli e sorelle, figli dell’unico Padre. La seconda differenza o distanza è richiamata dai vv. 21-22: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me? fino a sette volte?” Gesù risponde: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”. Questa persuasione di dover perdonare sempre (490 volte!) è poco presente, direi anzi molto carente nelle comunità, che risolvono i problemi allontanando le persone, distanziandole. Mi riferisco agli atteggiamenti dei laici rispetto ai collaboratori, dei laici tra loro, dei laici verso i sacerdoti, dei sacerdoti stessi. Non si conosce la riconciliazione. È la dannosa mentalità mondana penetrata in noi, mentalità mondana che porta, per esempio, alla moltiplicazione dei divorzi i quali esprimono appunto la persuasione di una società dove, se un rapporto è rotto, lo è per sempre, dove non esiste riconciliazione. Ma la Chiesa, chiamata a risanare la società, ha il compito di testimoniare, di far recepire che è possibile perdonare, sopportare, pazientare. Perdonare fino a settanta volte sette significa avere molta pazienza, sopportare molto, dare fiducia, accettare situazioni un po’ pesanti. Se le comunità, per prime, non sanno perdonare, dichiarano con ciò stesso di non

essere in linea con l’Evangelo della riconciliazione. Proviamo a chiederci: nelle nostre strutture organizzative mettiamo come valore primario il rapporto fraterno e la riconciliazione? In caso affermativo, la struttura, che ha poi anche una sua economia ed efficienza, funzionerà bene; in caso contrario non avremo frutti evangelici. La terza differenza, anch’essa grave, la ricavo dal confronto con 18,1214, l’episodio dell’uomo che smarrisce una delle novantanove pecore e va a cercarla. E se ne smarrisse novantanove? Il problema ovviamente cambia dimensioni. Uno dei pesi maggiori della Chiesa è costituito dal fatto che sono troppe le persone smarrite e tale fenomeno di allontanamento sbilancia le comunità. Ai tempi di Matteo ciò non accadeva, ma già quando il cristianesimo divenne religione di Stato (l’epoca di Costantino e ancor più di Ambrogio) era presente il pericolo che nella Chiesa si entrava con grande facilità e con altrettanta facilità si usciva. Il fenomeno si è ingigantito per le conversioni delle masse, quindi ha gravato e grava tuttora sulla cristianità non solo occidentale, ma pure di altri Paesi. Nelle stesse regioni di nuove comunità, lo scontro sul divorzio e sulla bigamia produce l’allontanamento di tanti. Proprio per questo l’Enciclica Redemptoris Missio62 riflette sul tema della missione ai lontani e insieme del recupero; la nuova evangelizzazione è un tentativo di dedicarsi agli smarriti. Che cosa possiamo fare allora? È chiaro che trattandosi di un numero elevato di persone, il prete non può rincorrerle tutte. Il problema riguarda ogni laico e la Chiesa chiama ogni credente laico a farsi apostolo nel suo ambiente, a favorire momenti di riconciliazione, di nuova intesa tra la comunità e coloro che l’hanno abbandonata. Ciascuno deve sentirsi quell’uomo che va a cercare la pecora smarrita, perché il pastore non è in grado di accollarsi tutta la responsabilità. Il prete si occupa dei vicini affinché i vicini si dedichino ai lontani e siano per loro manifestazione del Regno. Non sempre si riuscirà a ricondurre materialmente gli smarriti alla Chiesa, tuttavia è sufficiente suscitare la nostalgia del Vangelo, la sete dell’eternità, l’amore ai valori impersonati da Gesù. La seconda riflessione è puramente presuntiva, dal momento che il Signore può riservarci la sorpresa di ritorni di massa. Comunque, guardando alla situazione attuale, salvo cambi epocali, è assai difficile aspettarceli. Ritorna per noi la parola di Matteo (v. 18,14): “Il Padre celeste non vuole che

si perda nessuno”; occupati di uno solo, ciascuno è oggetto di ricerca. Con l’ansia generica di far ritornare tutti gli allontanati, si finisce col battere l’aria. L’attenzione va data a uno per uno, e sono convinto che, nelle metropoli come Milano, sono tanti gli uomini, tante le donne che singolarmente e quotidianamente varcano la frontiera dall’indifferenza o dalla non credenza verso la fede. Se nel cambio di frontiera trovano un amico che li aiuti, ne traggono un beneficio immenso. Viceversa, ci sono tante persone che passano la frontiera dalla fede ormai un po’ inerte verso l’indifferenza e la non credenza; tale passaggio non avverrebbe se incontrassero qualcuno che li avvicina con amore, con umiltà, facendosi compagno di viaggio. Dunque l’ipotesi “dell’uno solo” è sempre valida; è il singolo che ha valore, che dobbiamo accogliere, è il singolo per cui rallegrarci e avere gioia e, se l’avremo per il singolo, potremo averla anche per gruppi e forse per grandi masse. Il nostro essere dispersi oggi come lievito nella pasta, tra zizzania e buon grano, fa sì che ogni stelo di grano debba preoccuparsi della zizzania che ha accanto, nel desiderio che diventi buona, a cominciare ovviamente dalla zizzania che c’è in noi. Così, vivendo intensamente il Regno, noi lo facciamo e lo irradiamo. Dopo le risonanze suscitate dal discorso matteano, vi indico due riferimenti alla parrocchia, luogo dove si realizza quanto abbiamo detto. Il primo è la Christifideles Laici63, n. 26; il secondo è l’intervento pronunciato dal papa per i vescovi lombardi, il 2 febbraio 1991, intitolato Formati a una fede adulta. Entrambi sottolineano infatti la centralità della parrocchia quale ambito della nuova evangelizzazione. Ora ci soffermiamo sull’aspetto redentivo della Chiesa, espresso nel tema della riconciliazione del peccatore, del perdono, della pecora smarrita. Rifletteremo anzitutto sul male; quindi sulla legge della croce; infine sulla comunità che deve vincere il male del suo tempo con il bene. Il male La Chiesa ha la missione di collaborare alla redenzione del mondo operata da Gesù. Partendo dalla figura del cardinale Ferrari che aveva molto acuto il senso dei mali dell’epoca moderna, e quasi nel desiderio di cogliere e di capire la sua sofferenza, ci domandiamo: Qual è il male del nostro tempo?

Non parliamo di buoni e di cattivi, operando subito una distinzione tra chi lo è e chi non lo è, ma di male, di qualcosa in cui tutti siamo sommersi e che tutti tocca, che tutti minaccia e di cui tutti siamo in certo modo partecipi e conniventi. Sappiamo infatti che le creature umane sono deboli (anche se possono essere molte le persone buone secondo l’intenzione), cadono in errori e gli errori si sommano. È inesorabile constatare che il male c’è e tale constatazione si colloca a un triplice livello: c’è il male singolo, c’è quello collettivo e c’è quello globale che affligge le radici del cammino dell’uomo, radici che si esprimono in particolare nella cultura. Il male singolo sono le singole trasgressioni, peccati, delitti che avvengono ogni giorno: omicidi, furti, estorsioni, infedeltà, adultèri, crudeltà, droga, aborti, violenze, menzogne, tradimenti, rotture di patti, inimicizie, inganni, invidie. Tutte le brutture che riempiono le cronache nere dei giornali, ma penetrano specialmente nelle famiglie, le scompaginano, le fanno piangere, generano vendette, rimorsi, disperazioni, suicidi, fughe dalla vita, e sono spesso connesse con disturbi anche della psiche. Insomma, l’insieme di azioni antievangeliche che alienano la persona dalla sua autenticità, dalla sua realizzazione, rendendola triste e infelice. Non vogliamo colpevolizzare nessuno, ma non possiamo sottacere che, nonostante le buone intenzioni, le deviazioni, le debolezze, gli errori sono davvero molti e quindi la quantità dei mali è senza fine. Il male collettivo rappresenta un secondo passaggio: le deviazioni singole generano situazioni corrotte, e tali situazioni inducono a ulteriori peccati sia di individui sia di gruppi. Ecco come il problema del male cresce nella storia: le ingiustizie si sommano e, attraverso le vendette che suscitano, danno luogo a correnti di odio; gli interessi loschi si associano per guadagnare di più e nascono le varie forme di associazioni a delinquere; la voglia di potere mette insieme quelli che lo bramano, e si hanno tutte le prevaricazioni della politica. I mali cioè non solo sono singoli, legati a trasgressioni singole, ma diventano torrenti, fiumi di fango, di corruzione, di odio. Le espressioni più drammatiche del male collettivo sono le guerre, quali condensati di violenza istituzionalizzata e quindi potentissima. Oltre alle guerre, tutte le cosiddette strutture di peccato che, mediante l’ingiustizia o la creazione di legami di connivenza o di zone di omertà, quasi costringono la gente a prevaricare, per cui chi vive in certi ambienti non sa davvero come evitare le violazioni della legge o della morale.

Questi sono appunto i mali collettivi, somma di mali individuali divenuti istituzioni perverse, che vincolano le libertà della persona, conglomerati di orgoglio, di potere ingiusto, che premono sulla gente semplice. Basta pensare ai meccanismi di Tangentopoli, alle reti del commercio e della distribuzione della droga, in parte a quelle del traffico di armi, ai fenomeni mafiosi o di camorra o ’ndràngheta, tutte situazioni sociali in cui il peccato sembra vincere e imporsi quasi di necessità. Intendo questo parlando del male del mondo; da esso io posso, in un certo senso, essere riparato, privilegiato, però molti uomini e molte donne ci sono dentro, si trovano in condizioni di tale alienazione, povertà, sfruttamento, omertà, da non sapere più come vivere onestamente e magari neppure si accorgono di fare compromessi di coscienza. Il male globale, o culturale (per il suo modo di esprimersi) consiste nelle forme di peccato collettivo che giungono a giustificarsi e a legittimarsi con teorie che le fanno apparire addirittura utili o necessarie. Di questo tipo sottolineo i nazionalismi esasperati, alla radice delle guerre e delle violenze; l’antisemitismo; le diverse forme di razzismo; i pregiudizi con cui le nazioni ricche si trincerano dietro i propri privilegi; tutte le giustificazioni teoriche del male, dell’arbitrio, del permissivismo morale, che estenuano il valore della ragione o deridono la fede. Tutte forme di male ancora più gravi delle precedenti, perché conferiscono al male un atteggiamento rispettabile, attraente, talora persino colto. Sono le ideologie che hanno imperversato in Europa negli ultimi due secoli, in particolare in Italia, creando impunità morale e civile per trasgressioni enormi, lesive della persona umana in quanto tale. I mali culturali si collegano spesso a intuizioni giuste, vere, a intuizioni derivate talora dallo stesso Vangelo, però impazzite e ridotte a ideologia. Non a caso la gente ne subisce l’attrazione e il fascino. Senza queste ideologie non si spiegherebbero gli orrori compiuti dall’uomo moderno nei campi di concentramento e di sterminio, con la tortura sistematizzata. Le stesse carneficine cruente che si perpetrano in alcune regioni del mondo, sono generate da impazzimenti collettivi le cui radici vanno ricercate in dottrine correnti. Ho cercato di indicare quel complesso di malvagità che chiamiamo “male del mondo”, peccato del mondo. È chiaro che il male non è mai in forma pura, perché ci sono tanti aspetti di bene, aspetti positivi, significativi, perché ci sono forme di progresso e di verità. Tuttavia il male aggredisce le realtà

buone, tenta di incancrenirle, le rode dall’interno per rovesciarle. È la storia umana, la storia di ogni tempo e di ogni epoca. La legge della croce Come opporsi al male? Meglio, che cosa pensa Dio del male? La risposta è data dalla rivelazione incredibile del Nuovo Testamento, una risposta che spesso costituisce la pietra di inciampo della fede: Dio conosce il male, ne valuta fino in fondo il marcio, lo detesta e, proprio per questo, lo ha già avvolto nella sua misericordia redentrice e rinnovatrice che annuncia, nel Figlio fatto uomo, a tutti coloro che vogliono uscire dalla “generazione malvagia e perversa” e ritrovare la via autentica. Certo, Dio ha il potere di annientare il male annientando tutti i malvagi, soluzione che noi vorremmo e la cui non realizzazione porta a dire nella preghiera: perché, Signore, non distruggi i cattivi? Tuttavia preferisce non rimuovere il male con un gesto di potenza che schiaccerebbe la libertà dell’uomo, bensì entrare in esso con la carne del suo Figlio, in Gesù, proclamando il perdono e il ritorno e subendo su di sé le conseguenze del male per redimerlo nella propria carne crocifissa. È la misteriosa legge della croce, il principio secondo cui il male non viene eliminato, ma trasformato in bene sull’esempio e per la forza della morte di Cristo. Tale legge si trova in Gesù come la “causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,9), e poi passa nelle sue membra come in coloro che ricevono da lui la salvezza nel battesimo e, attraverso la cooperazione attiva, si lasciano assimilare e conformare a Gesù nella sua vita e nella sua morte per vincere con Gesù il male nella loro carne. Così Cristo si pone nel mondo quale singolare principio di rigenerazione e di redenzione, testimonia la venuta del Regno che vince con il perdono e la misericordia. Quanti accettano di far parte del suo cammino di rigenerazione, devono entrare nel male del mondo per trarne il bene della fede, della speranza, della carità, dell’amore dei nemici, della costruzione del Corpo di Cristo che è la Chiesa. Ritorniamo al discorso della montagna: beati i misericordiosi, beati i perseguitati per amore della giustizia, beati quando diranno male di voi per causa mia, porgete l’altra guancia a chi vi percuote perché, se amate soltanto quelli che vi amano, non avete alcun merito.

Penetrare nel male e lasciarsene penetrare come Gesù, per vincerlo, è mistero talmente profondo da comprendere, da accogliere e da vivere, che rende necessario impiegare tutta la nostra vita. Ogni volta che ci sorprendiamo a dire: “perché così, perché non in un modo diverso?”, dobbiamo dedicarci a una lunga e ripetuta contemplazione del Crocifisso, dobbiamo ammettere di non aver ancora assimilato l’agire di Dio nel mondo peccatore (di cui ciascuno è parte, talora solidale nell’omertà, nella pigrizia, nella negligenza), di non credere davvero che Dio mi libera e mi chiama a vincere in e con lui il male con il bene mediante il perdono, la pazienza, la misericordia. La legge della croce è dunque fondamentale, formidabile. Ha un’efficacia sovrana nel regno dello spirito ed è applicabile a tutte le vicende umane; è il mistero del Regno di Dio, il mistero delle parabole, la legge del Vangelo. Però, come scrive san Paolo (1Cor 1,18-31; 2,10-16), non è una legge accettabile dalla semplice intelligenza umana naturale, non la si può dimostrare prescindendo da Cristo. L’intelligenza umana naturale la rifiuta, non riesce a coglierla fino a quando non si è decisa per la fede. La croce è fruttuosa e opera la redenzione anzitutto in chi l’accoglie, e allora purifica a poco a poco ciò che lo circonda. Nessuno può comprendere questa legge se non la vede in Gesù, in coloro che la vivono, e poi se non la esperimenta in sé. Nella lettera ai Filippesi, Paolo afferma che molti sono i nemici della croce di Cristo (Fil 3,18), alludendo non soltanto a quanti, dal di fuori, non capiscono le parabole (“A loro non è dato”: Mt 13,10; “A quelli di fuori” non è dato: Mc 4,11), ma pure alla comunità dove tanti di noi, nei momenti di svogliatezza, di fatica, di demotivazione, si ribellano. Ma i peggiori nemici della croce di Cristo sono coloro che hanno sviluppato contro di essa una filosofia, un’ideologia, le grandi ideologie moderne che soggiogano le masse ponendo, come principio, il problema dell’efficienza e della potenza; vincere cioè il male con la forza, con la vendetta, con la rivendicazione. Queste ideologie sono molto lontane dalla croce di Gesù che vince il male con il bene, offrendo se stesso fino al dono della vita. L’aspetto redentivo del ministero Riflettiamo allora sulla funzione redentiva della comunità, chiamata a collaborare con Gesù nel vincere il male del suo tempo con il bene, anzitutto

in sé (in tutte le forme di degrado presentate da Mt 18 e che occorre continuamente vincere con la correzione fraterna, con il perdono, con la ricerca di chi si è allontanato), e poi intorno a sé, con i diversi modi di irradiazione propri della vita evangelica. C’è dunque un aspetto redentivo del ministero ecclesiale diretto al di fuori. Non basta che i discepoli vincano in sé il male con il bene della grazia, del perdono, della misericordia, della mortificazione, del passaggio dalla morte alla vita, perché la Chiesa esiste anche per il mondo, la Chiesa è per attuare la signoria di Dio non soltanto all’interno di sé, ma in tutta la società umana. La Chiesa è già inizio ed è strumento del Regno e deve operare non con la forza che distrugge i cattivi, bensì con la forza del bene che, entrando nel male del mondo anche quando si sfoga rabbiosamente e ciecamente, lo redime, lo purifica, lo avvolge di misericordia e di perdono, genera un’esistenza nuova. Come l’alienazione dei singoli e i peccati individuali, collettivi e culturali sono distruttivi della società, così l’amore che si sacrifica, la carità cristiana, la dedizione talora incompresa, riconciliano l’uomo con il suo vero essere, nella sua realtà di persona, e disfano il male iniziato dai peccati collettivi e consolidato dalle ideologie. Sto parlando di una lotta costruttiva nella quale la Chiesa è impegnata per smontare il male del singolo, e, attraverso la sua azione, per contrapporsi al male collettivo e globale. Si tratta di un lavoro continuo, di battaglia permanente, mai finita, perché la forza del male si rigenera e si accumula sempre. Ed è assai difficile valutare i risultati di tale conflittualità (abbiamo migliorato rispetto a venti o a trenta anni fa?), dal momento che non è un cammino lineare, in cui la Chiesa, come realtà educativa, diffonde a poco a poco la sua dottrina che viene accolta da scolaresche in aumento. La lotta è molto seria; le comunità si ricostituiscono nel bene e aggrediscono il male nell’Eucaristia e nel sacramento della Riconciliazione, sapendo però chiaramente che il male di nuovo minaccia, corrode, corrompe. Da una parte dobbiamo quindi rifare il tessuto delle comunità, lacerato da deviazioni interne, secondo l’insegnamento di Mt 18; dall’altra occorre agire per riprendere a tessere le fila di una società umana più vivibile (sarebbe già molto!), combattendo senza tregua le trasgressioni singole, i mali collettivi e il peccato coagulato nelle ideologie. Questa è l’azione che semina nel mondo germi di autenticità, l’azione che la Chiesa esercita con la forza del Vangelo, con la predicazione, con il

perdono, con l’amore ai nemici, con l’irradiamento della città sul monte, della lampada sul candelabro, con le beatitudini, quindi pure con la sofferenza, accogliendo in sé le conseguenze negative del mistero del male, assumendole nella propria carne. E l’azione redentiva e ricostruttiva del tessuto sociale tende a mostrare, attraverso i singoli, le realtà associate di Chiesa e le istituzioni ecclesiastiche, come sia possibile vivere più onestamente nella società, come sia possibile vivere nella giustizia e nella fraternità, rinunciando alla violenza, alla vendetta, alle ripicche; tende a mostrare come sono fuorvianti le ideologie negative e che la fede promuove anche il vero progresso civile. Naturalmente, questa azione propositiva delle comunità cristiane è contrastata, contraddetta, rimessa sempre in questione, ma è proprio così che la comunità vive e si santifica. La situazione conflittuale, di fatto, è la condizione del cristiano immerso nel male del mondo, che ne ha preso coscienza e ha accettato con Gesù di vincerlo nella propria esperienza quotidiana. Il cardinale Ferrari aveva compreso la posta in gioco e il suo ministero ha aiutato la Chiesa a rendersi conto dello “stato di emergenza” in cui si trova – secondo l’espressione di Madeleine Delbrêl –, del suo essere “in agonia fino alla fine del mondo” – come diceva Blaise Pascal64 –, in stato di lotta. Prendere coscienza di ciò, con le armi della fede, della speranza, delle beatitudini, del frutto dello Spirito (“amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”: Gal 5,22), è il compito che il sacerdote deve vivere in sé e promuovere, sostenere, riproporre instancabilmente agli altri. Allora la vita cristiana, la vita dei discepoli di Gesù appare bella, forte, coraggiosa, degna di dedizione. A questo siamo chiamati, in una profonda comunione di spirito e vogliamo pregare reciprocamente affinché tale comunione si accresca tra noi.

IX. IL GIUDIZIO SUL “FARE” (MT 24-25) Il giudizio sul “fare” Siamo così giunti al quinto e ultimo grande discorso di Gesù, quello escatologico che, nell’Evangelo secondo Matteo, comprende i capp. 24 e 25. Sono le pagine da cui ci sentiamo maggiormente distanti e anche le più

difficili da spiegare alla gente. Quando la liturgia le presenta nelle prime settimane d’Avvento del rito ambrosiano e nelle ultime del tempo per annum del rito romano, ci troviamo infatti sempre un po’ imbarazzati a preparare le omelie. Una delle ragioni di questa distanza, di questa difficoltà, è che in fondo abbiamo paura della morte. Il discorso escatologico parla della fine del tempo, della fine delle esperienze umane e, malgrado la fatica e la pesantezza dei giorni che costituiscono la trama dell’esistenza, noi siamo molto attaccati al “fare” quotidiano, alla vita terrena. Del resto, ho avuto modo di notare la stessa fatica nel recepire la mia Lettera pastorale sul tema del vigilare, dal titolo Sto alla porta65. Il vigilare è stato subito colto nelle sue affermazioni temporali – vigilare sulla politica, sulla retta amministrazione della cosa pubblica, sulla comunicazione –, ma non nella parte più propriamente teologica riguardante l’attesa della venuta del Signore e le realtà future. Perciò ritengo utile la nostra meditazione anche per relativizzare e porre nel giusto orizzonte tutte le esperienze quotidiane e il “fare” del Regno, nell’orizzonte che solo rischiara davvero ciò che siamo e ciò che facciamo. Naturalmente non è immediato tradurre in linguaggio attuale i simboli usati da Gesù, tipici dell’apocalittica della sua epoca. Tuttavia, delle realtà fuori del tempo non si può parlare se non simbolicamente. E occorre dire che pagine come queste richiedono una vera e propria ascesi della mente; possiamo, per esempio, tenere presente quella compiuta dal beato Andrea Ferrari quando, negli ultimi anni della vita, ha vissuto un lungo confronto con l’Eterno. Scrive in proposito don Giovanni Rossi, nel capitolo Il martirio del libro già citato: Gli ultimi tre anni di vita del cardinal Ferrari furono consumati in un’intensità di lavoro e in una passione di anima, di cuore, di corpo così straziante, che chiunque legga i documenti di quel triennio non può che piegarsi dinnanzi a lui, per salutarlo un santo. E io, che quei mesi e quei giorni li ho vissuti accompagnandolo sul suo calvario, scrivo queste pagine con l’angoscia di allora […]. Più ancora che nei lunghi itinerari fatti vicino a lui, in quegli ultimi anni della sua vita, io compresi che la santità è la perfetta adesione alla volontà di Dio66.

Ferrari si è sentito confrontato con il giudizio e con la morte avvertendola a poco a poco nel suo corpo e, in tale confronto, ha pienamente aderito alla volontà del Signore. Chiediamogli di intercedere per noi, di aiutarci a penetrare almeno un poco in quelle realtà ultime da lui contemplate mediante il martirio progressivo della sua carne.

Verso la fine del cap. 25, il re giudice, dopo aver separato le genti in due categorie e averle poste alla sua destra e alla sua sinistra, dice alle une: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (v. 40); e alle altre: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (v. 45). Si tratta dunque di un giudizio sul “fare”; il fare o il non fare, viene sottoposto a un giudizio ultimo. In questa luce noi consideriamo i due capitoli del discorso. Va detto subito che il discorso escatologico è il più ampio dei cinque Discorsi matteani ed è presente in tutti i sinottici; è quello, cioè, che ha il maggior numero di riferimenti e di paralleli in Luca e in Marco. Ne ricaviamo la persuasione che erano argomenti di grande rilevanza nel clima di allora, in un clima di attesa della fine del mondo, di palingenesi, di continue domande sul dove e sul come sarebbe avvenuta, su quali potevano essere i segni premonitori. Oggi, invece, tali argomenti sono lontani dalla cultura laica, anche se alcune sette che si definiscono appunto “escatologiche” cercano di diffonderli. Proprio a motivo del fatto che la comune cultura è distante da questi temi, noi dobbiamo recuperare la dimensione del vigilare, estremamente importante per una vita cristiana autentica. Lectio del discorso escatologico Quale introduzione alla lectio, ci chiediamo, come per gli altri Discorsi, se Matteo ha anticipato il tema dei capp. 24-25. Certamente alcuni dati sono nuovi, emergono per la prima volta, quasi a sorpresa. Qualcuno però l’abbiamo già trovato addirittura nella dizione materiale. Un esempio interessante è la citazione letterale di 10,22 in 24,9b.13: “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome; ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (10,22); “Sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome” (24,9b), ma “chi persevererà sino alla fine sarà salvato” (24,13). Nel discorso escatologico l’orizzonte si è allargato – “tutti i popoli” –, tuttavia la frase è la stessa e indica lo stretto collegamento dei due capitoli. Altre anticipazioni le vedremo meglio nel corso della meditazione, soprattutto rispetto al discorso della montagna che viene ripreso e portato alle ultime conseguenze. Dividiamo i capitoli in cinque parti. La scena iniziale ci mette di fronte al Tempio di Gerusalemme: “Mentre

Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Gesù disse loro: ‘Vedete tutte queste cose? In verità vi dico, non resterà pietra su pietra che non venga diroccata’. Sedutosi poi sul monte degli Ulivi, i suoi discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: ‘Dicci quando accadranno queste cose, e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo’” (24,1-3). Il discorso prende quindi l’avvio dall’affermazione di Gesù e dalla domanda dei discepoli sul tempo della sua venuta. I vv. 4-28 descrivono gli eventi del tempo che va sino alla venuta del Figlio dell’uomo. Anzitutto, eventi di guerre e di catastrofi: “Sentirete parlare di guerre e di catastrofi… Si solleverà popolo contro popolo, vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi…” (vv. 4-8). Eventi di persecuzione, anticipati, in qualche modo, nel discorso missionario di Mt 10. “Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome… Sorgeranno molti falsi profeti; per il dilagare dell’iniquità, l’amore di tanti si raffredderà. Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato…” (vv. 9-14). Infine, ci sarà la grande tribolazione di Gerusalemme, “quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà…” (vv. 15-25). L’attenzione si concentra in particolare sulla città santa che è il cuore di questa sezione del discorso. Poiché la fine di Gerusalemme è stata la fine di un mondo mentale, culturale, religioso, la fine della Gerusalemme storica ebraica divenne simbolo della fine di tutta la storia. Perciò i due elementi sono intrecciati. Dopo l’elencazione dei guai e delle sofferenze che presentano i mali morali, collettivi, strutturali della storia, si dice che sarà manifestata la venuta del Figlio dell’uomo (vv. 30-31) “con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli”. Il Figlio dell’uomo viene a compiere il disegno di radunare il popolo di Dio; il messaggio lanciato da Gesù a Israele si fa universale. La fine del mondo coincide con il fine: quello cioè dell’unità di tutti gli uomini e le donne della terra. La quarta parte comprende una serie di esortazioni alla vigilanza, espresse con tre immagini nei vv. 32-44: – l’albero del fico: “Dal fico imparate la parabola…” (vv. 32-36); – l’icona dei tempi di Noè: “Come ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo…” (vv. 37-42); – l’immagine del ladro che viene: “Se il padrone di casa sapesse in quale

ora della notte viene il ladro, veglierebbe…” (vv. 43-44). Seguono le parabole sugli atteggiamenti rispetto alla venuta del Signore, che leggiamo dal cap. 24,45 al cap. 25,46. Si tratta di quattro esemplificazioni duali (atteggiamenti positivi e negativi), dove però l’accento cade sulla messa in guardia dall’atteggiamento di chi non si cura affatto di questa venuta, di chi non se ne dà pensiero, proprio di chi non vive il “fare” del Regno e mette così in pericolo la sua esistenza, la vera riuscita della sua vita. Esse sono: – la parabola del maggiordomo fedele e di quello malvagio (24,45-51); – la parabola delle dieci vergini, alcune sagge e altre stolte (25,1-13); – la parabola dei talenti, di coloro che li trafficano e di coloro che hanno timore di trafficarli e li nascondono (25,14-30); – infine, la parabola del giudizio finale su chi ha praticato e su chi non ha praticato le opere di misericordia (25,31-46). Quattro maniere diverse per esprimere il concetto di vigilanza quasi in crescendo, sino all’ultima scena del giudizio escatologico. Non mi dilungo sulla lectio, ma mi preme raccomandarvi di rileggere e di pensare attentamente a questi due capitoli che racchiudono molte perle e anche tanta ricchezza di esortazioni pratiche. Meditatio: il messaggio di Mt 24-25 Per il momento della meditatio vi propongo due tipi di riflessione: una sull’escatologia universale e una sull’escatologia individuale. Sull’escatologia universale. Che cosa dice il discorso di Mt 24-25 alla nostra mentalità corrente laica e lontana da questi temi? Credo di poter esprimere un triplice messaggio. C’è un giudizio sul “fare” del mondo nel tempo, su ciò che chiamiamo la storia, che non è affidato né ai filosofi né agli storici, né ai sociologi né ai politici, nemmeno alla coscienza personale. Il mondo è giudicato da qualcosa che è altro dal mondo; qualcosa che non è accettato dall’animo laicista, presente anche in ciascuno di noi, perché la volontà del mondo è di essere autoreferenziale, e magari di autocondannarsi dicendo: nulla ha senso, il mondo è un’assurdità. Ripugna l’idea che ci sia un giudizio sul mondo che viene da fuori. Siamo quindi davanti a una parola molto forte, di scossa di fede: il “fare” del mondo non è giudicato dall’interno della storia, bensì dall’esterno e

dall’alto. Intuiamo qui l’opposizione diretta a quella mondanità che diventa intramondanità (tutto si svolge nell’ambito delle relazioni e dei giudizi che diamo per motivi interni a noi o alle nostre volontà). Osserviamo tuttavia che se da una parte il mondo si ribella a un giudizio esterno, dall’altra parte anela a un giudizio diverso perché, in fondo, non sa se vale la pena di fare quanto fa, non sa dire se ciò che fa è davvero meglio del contrario. È uno dei grandi temi dell’enciclica Veritatis Splendor67: la morale ha bisogno di un riferimento, non è soltanto autoreferenziale. Un riferimento che, di per sé, è intrinseco all’uomo dal momento che l’umanità è costituita dalla relazione profonda che ha con Dio. Se l’uomo non è in grado di riconoscere la paternità divina e la relazionalità con Dio, si smarrisce e non può conoscere se ciò che fa ha valore. Lo smarrimento dell’umanità attuale (di conseguenza la stessa arbitrarietà della morale) ha in questo la sua radice; non avendo altri criteri, prende a criterio il successo, l’utile, l’immediato, il piacere, tutti aspetti misurabili dell’esperienza. Nei capp. 24-25 di Matteo, Gesù afferma che c’è un giudizio sul “fare” del mondo, che infonde pace perché offre un riferimento. La seconda parola, liberante, ma di nuovo difficile da accettare, è che il “fare” del mondo ha una fine. Il mondo che l’uomo costruisce tanto affannosamente non ha uno sviluppo indefinito, ha un termine che non è semplicemente biologico, dovuto al fatto che tra miliardi di anni il sole non riscalderà più la terra. È un termine posto, voluto da Dio, è il ritorno del Signore, la rivelazione del Regno che già sta operando e che manifesterà il senso vero del mondo. Non dobbiamo percorrere un cammino indefinito di progresso o di regresso, bensì raggiungere una certa età. Il “fare” del mondo non è destinato a girare per sempre su se stesso, a esaurirsi in sé, ma ha un punto di riferimento, espresso temporalmente e che tuttavia ha un significato più profondo: la fine. Per noi è certamente faticoso esprimere tale realtà con simboli che non siano spaziali o temporali; era più facile quando i simboli apocalittici venivano recepiti, come nei giorni in cui Gesù pronunciava il suo discorso. Il terzo aspetto del messaggio lo colgo soprattutto nel v. 30 del cap. 24: “Vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria”. La fine del “fare” del mondo è di natura gioiosa. Non è una catastrofe che polverizza il nostro fare; è, invece, il compimento della speranza. E se il “fare” è stato impostato bene, ci rallegreremo molto e

saremo colmi di letizia vedendo quel Figlio dell’uomo che abbiamo cercato nell’umiltà. Allora il nostro “fare” sarà elevato a pienezza. Dunque, è anche un messaggio di gioia, di respiro, di sollievo: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo”, perché è il vostro tempo, è ciò per cui avete impegnato la vostra vita (Lc 21,28). Sull’escatologia individuale. Vorrei ora riflettere più da vicino sul messaggio delle quattro parabole, che meglio ci interpellano come singoli, come persone, e hanno perciò un legame più stretto con l’escatologia individuale. A mio avviso le parabole – i due maggiordomi, le cinque vergini e le altre cinque, i tre trafficatori dei talenti più uno, le pecore e i capri – riguardano tutte le categorie già toccate dai precedenti Discorsi di Matteo e si possono giustamente leggere come una ripresa e una conclusione dei capp. 5-7, 10 e 18. La parabola dei due maggiordomi concerne soprattutto i responsabili delle comunità, gli apostoli, i pastori e si riferisce al cap. 18. Quella delle dieci vergini riguarda invece i cristiani in genere, e fa riferimento al discorso della montagna (Mt 5-7). La parabola dei talenti andrebbe letta alla luce del cap. 10: sono i missionari che devono trafficarli, rendere fruttuoso il talento del Regno anche per altri. Infine, l’immagine delle pecore, dei capri, della divisione del mondo tocca tutti gli uomini, tutta l’umanità. Abbiamo appunto una ripresa dei tre grandi Discorsi e poi una sintesi globale. Mt 24,45-51 racconta la parabola dei due servi. Uno fidato e prudente, pronto per il ritorno del padrone, che dà il cibo a tempo opportuno e riceve l’amministrazione dei beni; l’altro malvagio, non pronto al ritorno del padrone, che viene giocato dall’illusione che il tempo non abbia fine e utilizza dunque per se stesso e per i suoi comodi i beni destinati alla comunità: si ubriaca, percuote i compagni non rispettando i più piccoli, non considerando la loro dignità, prevarica, ed è chiamato “ipocrita”, qualifica negativa data da Gesù ai responsabili, in particolare scribi e farisei, che non hanno aperto le porte del Regno dei cieli agli altri. A me pare che l’incarico di distribuire il cibo a tempo dovuto corrisponda a 28,20: “Insegnate a osservare tutto ciò che vi ho comandato”, che è poi il compito dei pastori a cui è rivolto il discorso del cap. 18. Possiamo rileggere così la domanda: come hai vissuto il tuo compito di curare la comunità nell’assenza del padrone, come sei stato vigilante, come ti

sei preparato al suo ritorno, rispettando, valorizzando i carismi della gente, ascoltando e promuovendo i laici, dando loro il cibo messo a tua disposizione dal padrone? Gli hai presentato una comunità ordinata, maturata nella fede, cresciuta nella capacità di collaborazione? La parabola delle vergini, in 25,1-13, riprende invece il discorso della montagna ai capp. 5-7, e vale per tutti i fedeli. Sottolineo che l’accento è sulle vergini stolte: “Cinque erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le lampade, ma non presero con sé olio… Le stolte dissero alle sagge…” Anche l’opposizione finale del discorso della montagna cade sulla differenza tra saggio e stolto: saggio è colui che ascolta le parole e le mette in pratica; stolto è colui che non le ascolta e non le mette in pratica. Ancora è interessante notare qualche altro riferimento preciso a Mt 7. Per esempio, quando le stolte, davanti alla porta chiusa, dicono: “Signore, Signore, aprici!” viene in mente il v. 21: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli”. E quando il padrone risponde alle vergini stolte: “In verità vi dico: non vi conosco”, risentiamo la parola di Gesù in 7,21: “Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”. Questa parabola è un’esortazione, una provocazione, anzi: entrate per la porta stretta, non fate come gli stolti che preferiscono la porta larga e facile e poi finiscono in perdizione (cfr. 7,13). Concretamente, l’olio è il fare la giustizia del Regno, il compiere le opere del Regno. Nel pensiero di Matteo, non è la fede o la speranza o la carità, ma il vivere le beatitudini e il discorso della montagna senza stancarsi. Siamo invitati ad attendere il Signore che tarda con un impegno sempre rinnovato, che non demorde. La fedeltà ai contenuti di Mt 5-7 è l’olio della lampada per il quale Gesù ci dirà: ti conosco, ti apro la porta, ti faccio entrare. La parabola dei talenti, in 25,14-19, possiamo riferirla più specificamente alla missione presentata nel cap. 10. I talenti da trafficare non sono semplicemente quelli naturali – come a volte si ritiene –, bensì i talenti del discorso della montagna, se lo si pratica facendoli fruttare anche per altri mediante la missione, l’evangelizzazione. I primi due uomini, che hanno ricevuto uno dieci e l’altro cinque talenti, sono persone sagge: fanno fruttare il tesoro delle esortazioni di Gesù e irradiano quindi le beatitudini. Il terzo uomo, invece, è stolto, giudicato non dalle intenzioni, ma dai fatti: non ha messo in pratica le parole ascoltate; è come il terreno arido o sassoso che non

permette al seme di dare frutto; è come una luce che non illumina. Il giudizio sui popoli, in 25,31-46, riguarda tutte le precedenti categorie e l’umanità intera. Riporta tutto al principio sintetico del discorso della montagna: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti” (7,12). Come a dire: che cosa volete che gli uomini facciano a voi e che voi dovete fare agli altri? Le opere di carità, le opere di misericordia e, infatti, nel giudizio, vengono esemplificate sei opere: dare il pane a chi ha fame; dare da bere a chi ha sete; ospitare il forestiero; vestire l’ignudo; visitare l’ammalato; andare a trovare il carcerato. Il giudizio è sul “fare” della carità, sintesi appunto del discorso della montagna: l’albero buono si riconosce dai frutti buoni (cfr. 7,17-20), e i frutti buoni consistono nel fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. La novità, non però totale, di Mt 25,31-46 sta nel fatto che le opere, questo “fare” del Regno che porta alla carità, è considerato rivolto ai fratelli di Gesù, dunque a lui. Non è del tutto nuova la cosa perché anticipata in 12,50: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, è per me fratello, sorella e madre”. Si tratta comunque di un’ultima conclusione che assume dignità cristologica; il discorso della montagna diventa, nel giudizio finale, il rapporto con Cristo. La carità, la misericordia, la pazienza e il perdono verso il prossimo sono relazione al Padre, che si fa relazione fraterna, scoprendo in tutti il volto di Gesù Figlio del Padre. Viene così suggellata la rivelazione trinitaria che parte da Mt 5-7. Riflettendo più da vicino sulla descrizione del giudizio, ci accorgiamo tuttavia in maniera drammatica della possibilità della perdizione: “Se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna” (25,46). Chi non entra nel “fare” del cuore, chi non entra nella giustizia del Regno, almeno nel senso laico e generale di 7,12 (quello che vorresti fosse fatto a te, fallo ad altri), non avrà vita autentica e perderà la sua esistenza per sempre. Perciò il discorso della montagna, sintetizzato in 7,12, è parola di vita o di morte, di senso e di non senso dell’esistenza: non è un’offerta in più di Gesù, bensì riguarda il senso stesso della vita umana. Nessuno può sfuggire a questa domanda di significato nella quale si colloca la ragione della redenzione: il Padre che ama l’uomo e manda il Figlio, il Figlio che ci chiama fratelli e ci fa una cosa sola con lui. Da tale regola generale laica prende avvio, e nello stesso tempo a essa

confluisce, tutto il valore del vivere umano. La stessa prospettiva di un errore tragico nell’impostare la vita, con conseguenze disastrose, è espressa dalle parabole precedenti. Per esempio, al termine della parabola dei talenti leggiamo: “Arriverà il padrone quando il servo (fannullone) non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano e là sarà pianto e stridore di denti” (24,30-31). E, in forma più personale, alla fine della parabola delle vergini, è detto: “Non vi conosco” (25,12), non siete miei, avete sbagliato nella relazione con me che sono il Signore e il Creatore. Quindi, la possibilità concreta di una scorretta impostazione della propria vita indica la serietà, la gravità, l’urgenza dell’invito di Gesù: “Entrate per la porta stretta” (7,13), “osservate ciò che vi ho comandato e insegnate a farlo” (28,20) per avere una vita felice e sfuggire al fallimento che vi minaccia. Questa è la verità sull’uomo. Gesù parla a noi per ricordarci il caso serio dell’esistenza, parla a noi nella speranza di trovarci pronti ad accogliere la durezza del suo discorso non nella paura, ma nella gioia di impegnarci per la realizzazione del Regno e delle beatitudini, in modo da comunicare agli altri anzitutto l’aspetto positivo del giudizio. Il “fare” del cuore, il “fare” della carità, il “fare” della missione, non è un di più, un optional, una proposta tra le altre; è l’esistenza umana rivelata in pienezza dal Figlio di Dio fatto uomo. E noi adoriamo profondamente Cristo Gesù offrendogli noi stessi, i nostri propositi, quel “fare” che forse ci è stato suggerito meditando sulle pagine di Matteo, in modo da esprimerlo in qualche gesto simbolico che indichi la nostra volontà di essere tutti del Signore e di voler essere riconosciuti da lui nell’ultimo giorno. Conclusione: passione e risurrezione di Gesù I giorni dei nostri esercizi sono giunti al termine e purtroppo non abbiamo meditato i capp. 26-28 di Matteo, che raccontano la passione e la risurrezione di Gesù. D’altra parte, essi sono indispensabili per comprendere tutto il resto del Vangelo. Desidero perciò sottolineare due punti che vi saranno utili per una riflessione personale e prolungata. Gesù nella passione compie perfettamente in sé la giustizia del Regno, secondo quanto aveva detto a Giovanni Battista che non voleva battezzarlo

nel Giordano: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia” (3,15). Gesù compie la giustizia del Regno, vive le beatitudini fino alla misericordia e al perdono dei nemici. Nella passione egli è la lucerna sul candelabro, che irradia la bontà di Dio sugli uomini, manifesta l’amore del Padre che non fa distinzione tra buoni e cattivi. Gesù è quindi presente in ogni parola del discorso della montagna, che si verifica in pienezza nella sua passione. Anche gli altri insegnamenti dell’Evangelo di Matteo trovano nella passione il loro compimento essenziale, reale, ontologico. Per questo la passione è un’occasione per rileggere tutte le parole di Gesù e vederle realizzate nella sua persona oltraggiata e crocifissa: lui è il Regno, la giustizia del Regno, colui che vince il male con il bene. Ciò che vive è la sintesi singolare di tutta la storia dell’umanità: il male dei singoli, il male collettivo, il male globale, si addensano su Gesù, scoppiano al massimo nella loro opposizione al Figlio di Dio il quale, con la sua mitezza, il suo perdono e l’offerta della vita, li vince. La croce, con quanto ha comportato prima, è davvero il culmine della vita terrena di Gesù. Nel meditare la risurrezione, occorre invece considerarla come la premessa necessaria per la conservazione, la validità di tutte le parole pronunciate da Gesù. Perché sono state conservate e hanno valore? Per il fatto che il Crocifisso è risorto. Le beatitudini, il perdono dei nemici, il porgere l’altra guancia a chi ci percuote, il pregare nel nascondimento, di fronte al Padre ecc., hanno senso perché Gesù è risorto. Se non fosse risorto, non sarebbero stati scritti i vangeli e le parole di Gesù di Nazareth non avrebbero creato comunità, suscitato il movimento cristiano. Il Risorto – e lo ripeto – è la premessa e il fondamento della verità di tutto quanto Gesù ha detto. Ne viene che ogni esecuzione, ogni “fare” della giustizia del Regno, è annuncio, affermazione del Risorto che continua a essere tra noi nella forza dello Spirito. Vi auguro di tenere sempre vivi nella mente i tre capitoli finali di Matteo, che danno la chiave di tutto e sono la ragione per cui tutto è stato tramandato nei secoli; e tutto acquista realtà attuale nell’Eucaristia, dove Gesù che ha dato la vita per noi, il Risorto, è presente come colui che si dona e nutre il suo popolo. Lo nutre, appunto, con la passione e risurrezione e con la

riproclamazione della validità delle sue parole, dei suoi insegnamenti, del suo esempio che illumina il nostro cammino e la storia dell’umanità. 1

Andrea Carlo FERRARI (1850-1921), beato, fu arcivescovo di Milano dal 1894 al momento della morte. 2 Al termine della commemorazione tenuta da mons. Enrico Galbiati, il card. Montini tenne un discorso, ora ripubblicato in Giovanni Battista MONTINI, Discorsi e scritti milanesi (1954-1963), vol. II, Brescia-Roma, Istituto Paolo VI-Studium, 1997, pp. 2642-2643. 3 Il cardinale predicò questo corso di esercizi mentre ancora continuavano i lavori del 47° Sinodo della Chiesa Milanese, iniziati il 4 novembre del 1993 e che si sarebbero conclusi con una solenne celebrazione il 1º febbraio 1995, memoria liturgica del beato Andrea Carlo Ferrari. 4 È l’inizio del Discorso sui pastori: AGOSTINO, Discorsi 46,1, in ID., Opere di Sant’Agostino, edizione latino-italiana a cura dell’Augustinianum di Roma, direttore Agostino Trapé, Roma, Città Nuova, vol. XXIX; questa citazione e le seguenti si trovano alle pp. 795-797. 5 Andrea Carlo FERRARI, Lettera circolare alla Diocesi di Como. Il Seminario, gli Esercizi spirituali del clero, Como, Tipografia Cavalleri e Bazzi, 1893, p. 13. 6 Angelo MAJO, A.C. Ferrari uomo di Dio, uomo di tutti, Milano, Nuove Edizioni Duomo, 1994, p. 23. 7 Pastores dabo vobis è l’esortazione apostolica promulgata da Giovanni Paolo II il 25 marzo 1992, a conclusione dell’assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi del 1990, sul tema della formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali. 8 Ibid., n. 77. 9 Martini partecipò a un pellegrinaggio ad Assisi con circa 150 preti dell’ISMI (primo quinquennio di ordinazione presbiterale), nei giorni 19-22 marzo 1990: le meditazioni di quei giorni sono in Carlo Maria MARTINI, Il Vangelo alle sorgenti. Meditando ad Assisi il Discorso della Montagna, Milano, Ancora, 1990. 10 Cfr. nota 8, p. 35. 11 “L’Arcivescovo e i Vescovi della Prov. Eccl. Lombarda al Clero e al Popolo delle loro diocesi benedizione e pace”, in Rivista Diocesana Milanese, 8 luglio 1916, p. 215. 12 “Una parola sui ‘Ritiri Spirituali’”, in Rivista Diocesana Milanese, aprile 1911, p. 165. 13 Ibid. 14 L’Arcivescovo e i Vescovi della Prov. Eccl. Lombarda cit., p. 214. 15 È una preghiera tratta dal Breviario Ambrosiano. 16 Cfr. Giovanni Battista MONTINI, Discorsi e scritti milanesi (1954-1963) cit., p. 2642. 17 Giovanni ROSSI, Il cardinal Ferrari, Assisi, Cittadella, 1987, p. 98. [*] 18 Giuseppe PONZINI, Il cardinale A.C. Ferrari a Milano 1894-1921, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1981, p. 127. [*] 19 Ibid. 20 Ibid., pp. 127-128. 21 Annunzio della Sacra Visita Pastorale alla Arcidiocesi di Milano, Milano, Boniardi-Pogliani, p. 2. 22 “Tra il Sinodo e la Visita pastorale, nel corso delle Feste Centenarie di San Carlo”, in Rivista Diocesana Milanese, maggio 1910, supplemento, p. 183.

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“Da venticinque anni…!”, in Rivista Diocesana Milanese, 11 luglio 1915, p. 280. Andrea Carlo FERRARI, Lettera pastorale al clero ed al popolo della Archidiocesi di Milano, Como, Tipografia Vescovile dell’Oratorio, 1894, pp. 17-18. 25 “Lettera pastorale di S. E. il Card. Arcivescovo alla sua dilettissima Diocesi”, in Rivista Diocesana Milanese, 10 dicembre 1920, pp. 444-445. 26 Ibid., p. 445. 27 Ibid., p. 444. 28 Alfredo Ildefonso SCHUSTER (1880-1954), beato, monaco benedettino, dal 1918 abate del monastero di San Paolo fuori le mura, poi cardinale e arcivescovo di Milano, dal 1929 al momento della morte. 29 Mashal è un termine ebraico, che indica una breve parabola, che veicola un messaggio morale o religioso. 30 Carlo Maria MARTINI, Perché Gesù parlava in parabole?, Bologna, EDB, 1985. 31 Si tratta della versione della Bibbia in lingua greca, che, secondo la lettera di Aristea a Filocrate (testo della metà del II secolo a.C.), sarebbe stata tradotta direttamente dall’ebraico da 72 saggi ad Alessandria d’Egitto. 32 Sergio QUINZIO, La sconfitta di Dio, Milano, Adelphi Edizioni, 1992. [*] 33 Giovanni MAZZUCCONI (1826-1855), beato, sacerdote dell’Istituto Milanese per le Missioni Estere e martire nell’isola di Woodlark in Oceania. 34 I santi martiri canadesi sono un gruppo di missionari gesuiti, di origine francese, uccisi nel territorio dell’odierno Canada tra il 1642 e il 1649. 35 AGOSTINO, Discorsi 46,1, in ID., Opere di Sant’Agostino cit. 36 ABBÉ PIERRE, Testamento, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1994. Henri Antoine GROUÉS (1912-2007) detto Abbé Pierre, fu un presbitero cattolico francese, partigiano, fondatore nel 1949 dei Compagnons d’Emmaus, organizzazione per i poveri e i rifugiati che si è diffusa in tutta Europa. 37 Secondo Francesco BACONE (1561-1626), filosofo inglese, gli idola sono diverse forme di pregiudizi che condizionano l’oggettiva concezione della realtà. 38 Andrea Carlo FERRARI, Lettera pastorale al clero ed al popolo della diocesi di Como, Guastalla, Pecorini, 1891, p. 16. 39 ID., Lettera pastorale al clero ed al popolo della Archidiocesi di Milano cit., p. 8. Il virgolettato è di Ferrari, citazione dall’Enciclica di Leone XIII Dall’alto, ASS, XXIII (1890-91), p. 193. 40 ID., Lettera Pastorale alla Diocesi di Milano per la Quaresima 1898. Conserviamo la fede, Milano, Febbraio 1898, p. 20. 41 Ibid., pp. 20-21. 42 GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, 1991, III, n. 22. [*] 43 Cfr. ibid., II, nn. 12-21. [*] 44 Redemptor Hominis è la prima enciclica scritta dal papa Giovanni Paolo II, pubblicata il 4 marzo 1979. 45 GIOVANNI PAOLO II, Redemptor Hominis, 1979, III, n. 13. [*] 46 Cfr. nota 3, p. 340. 47 GIOVANNI PAOLO II, Christifideles Laici, 1988, 3, n. 34. La Christifideles Laici è l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, firmata il 30 dicembre 1988, come frutto del Sinodo dei vescovi del 1987, sul tema “vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo”. 48 L’Imitazione di Cristo è un testo di spiritualità medioevale, scritto da autore sconosciuto, 24

probabilmente in ambito monastico, attorno ai secoli XIII-XIV. 49 L’Imitazione di Cristo, libro I, cap. I, nn. 1-2. [*] 50 Ibid., cap. II, n. 1. [*] 51 Ibid., cap. III, n. 5. [*] 52 La visita ad limina indica l’incontro che ogni cinque anni i vescovi di tutto il mondo hanno con il papa. 53 Giovanni Paolo II, Formati a una fede adulta, 2.2.1991, n. 5. 54 TERESA DI LISIEUX, Storia di un’anima, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2002. 55 Madeleine DELBRÊL, Indivisibile amore, Casale Monferrato, Piemme 1994, pp. 137-139. [*] 56 Ibid., pp. 146-148. [*] 57 Andrea Carlo FERRARI, Lettera pastorale al clero ed al popolo della Archidiocesi di Milano cit., pp. 17-18. 58 ID., “Traslazione della salma di S. E. Mons. Luigi Nicora”, in Rivista Diocesana Milanese, 12 dicembre 1912, p. 626. 59 ID., Lettera del Cardinale Arcivescovo di Milano alla sua Diocesi dopo la visita Ad limina Apostolorum. Marzo 1896, Milano, Boniardi-Pogliani, 1896, p. 16. 60 Giovanni ROSSI, Il cardinal Ferrari cit., p. 97. [*] 61 Ibid., p. 83. 62 L’enciclica Redemptoris Missio, pubblicata da Giovanni Paolo II il 7 dicembre 1990, tratta della missionarietà e della sua importanza anche nel mondo d’oggi. 63 Cfr. nota 47, p. 420. 64 Blaise PASCAL (1623-1662), filosofo e scienziato francese. 65 Sto alla porta è la lettera sul tema del vigilare che il cardinale Martini scrisse per il biennio pastorale 1992-1994. 66 Giovanni ROSSI, Il cardinal Ferrari cit., p. 228. [*] 67 Veritatis Splendor è il titolo dell’enciclica di Giovanni Paolo II e promulgata il 6 agosto 1993, sul ruolo della Chiesa nell’insegnamento morale.

QUARTA PARTE IL VANGELO DI LUCA

PREMESSA

Il primo dei due testi qui riportati, Gli Esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Luca, è la trascrizione di un corso di esercizi spirituali che Carlo Maria Martini diede nel 1976 a un gruppo di Gesuiti italiani, assistenti delle Comunità di Vita Cristiana (CVX), movimento laicale animato dalla spiritualità ignaziana e legato alla Compagnia di Gesù. Pubblicato a Roma dalle Edizioni Comunità di Vita Cristiana nello stesso anno, ebbe poi diverse riedizioni. L’edizione più recente, che adottiamo, è quella curata nel 2007 dalle Edizioni ADP. L’evangelizzatore in san Luca invece è il corso che il nuovo arcivescovo diede nell’agosto del 1980, cioè pochi mesi dopo la sua nomina, a un gruppo di preti milanesi. Con questo corso, egli inaugurò un’esperienza che poi divenne frequente durante il suo ministero episcopale. Pubblicato nel dicembre 1980 dall’Editrice Ancora di Milano, vide anch’esso diverse riedizioni; riportiamo l’ultima rinnovata, uscita nel 2000. Come spiegato nella nota tecnica introduttiva, omettiamo le cinque omelie tenute da Martini durante quel corso, che nel libro sono trascritte insieme in appendice.

GLI ESERCIZI IGNAZIANI ALLA LUCE DEL VANGELO DI LUCA

INTRODUZIONE Signore Gesù, eccoci alla tua presenza questa sera, per iniziare insieme questo corso di esercizi: ciascuno di noi ha lasciato dietro di sé tante diverse situazioni; esse forse in questo momento ci preoccupano e stiamo pensando a esse… Ti raccomandiamo, Signore Gesù, le persone, tutte le cose, le situazioni, i problemi, che abbiamo lasciato nel luogo da cui proveniamo. Pensaci tu, o Signore, mentre noi in questi giorni pensiamo a te. Mentre noi siamo in adorazione e lode della tua gloria, tu, o Signore, farai per noi ciò che noi avremmo dovuto fare. Vedi, o Signore, la diversità dei pensieri e delle disposizioni con cui ciascuno di noi si presenta a questo ritiro. Tu, o Signore, illumina ciascuno nel modo più giusto; tu, o Signore, che hai il “tocco” giusto per ciascuno, fa che ognuno si lasci toccare da te così come gli è necessario e utile in questo momento della sua vita, dello sviluppo della sua fede, delle sue tentazioni, sofferenze, dubbi e difficoltà. Concedi a me, Signore, di saper dare quel poco che posso e a ciascuno di saper prendere da te quel molto che tu stesso dai. Vergine Maria, portatrice della Parola, insegnaci a riceverla nel silenzio e a conservarla nel cuore. Amen. Vorrei enunciare prima di tutto su quali temi mi fermerò questa sera: in primo luogo sullo scopo degli esercizi, sul perché ci troviamo qui; poi, sulle difficoltà di un ritiro, sul come disporsi e sulla materia che io vorrei proporvi. Lo scopo degli esercizi lo conosciamo: è renderci disponibili alle mozioni dello Spirito, in vista di una scelta; di una scelta che sia conforme alla volontà di Dio. È una ricerca, cioè, della volontà di Dio nella nostra vita, in ordine a una decisione da prendere. Questa decisione può essere di diverso tipo: può riguardare la scelta dello stato (e allora è il caso tipico a cui si riferisce sant’Ignazio1), o può essere la scelta di un tipo di lavoro apostolico. Può essere, penso, anche una situazione di crisi, nella quale ci troviamo e

che ha un carattere di apparente ambivalenza, per cui, di fronte a diverse possibilità, a una molteplicità di stimoli, siamo attratti da diversi modi di agire tra i quali non ci è facile discernere. Così andiamo avanti un po’ alla cieca, pur sentendo nello stesso tempo il bisogno di chiederci: la via che seguo nella mia preghiera, nel mio apostolato, nel mio modo di parlare, nella mia povertà, nel mio modo di esercitare la professione, di essere in questa Chiesa oggi, è veramente quella di Dio, quella di Gesù Cristo, quella del Vangelo? E siccome moltissimi sono oggi, in particolare nella Chiesa italiana, gli stimoli, i modi di vivere la vita di fede, ecco che ne deriva la necessità di fare delle scelte. Si tratta di scelte anche non clamorose, ma determinanti per il nostro stile personale di vita di preghiera, di vita morale, di rapporto con gli altri, di modo di vedere lo sviluppo della nostra vita, di capirlo, di dargli un senso. Credo che tutto questo appartenga agli esercizi, in quanto vogliono renderci disponibili alle mozioni dello Spirito in ordine alla scelta fra le molteplici possibilità, fra i modi diversi di vivere la vita di cristiano nel mondo di oggi. E in quanto vogliamo che queste scelte siano conformi alla volontà di Dio su di noi. Da quanto ho detto finora, emerge la difficoltà non soltanto per voi di fare questo lavoro, ma anche per me di dare un ritiro a un gruppo composito come questo. Mi sono quindi chiesto come poter trovare un denominatore comune che in qualche maniera potesse aiutare tutti e la prima risposta è stata che esiste una analogia nelle vie spirituali per cui, se uno descrive e propone una certa via spirituale, essa potrà essere analogamente applicata a chi si trova in situazioni in qualche maniera diverse, ma che riproducono un po’ lo stesso cammino. Credo che questo sia vero, perché indubbiamente in ogni via spirituale c’è il momento della penitenza, il momento della sofferenza, della croce, della resurrezione e quindi tutti questi aspetti analogamente si riflettono in tutte le diversissime situazioni di vita spirituale in cui ci troviamo, dai principianti ai contemplativi. Tuttavia credo che anche così facendo non si è ancora tenuto conto della estrema varietà di situazioni dialogiche di ciascuno di noi di fronte a Dio. Che cosa è adesso ciascuno di noi di fronte a lui, di fronte al problema della fede, del Vangelo? Tutto questo non si può definire molto facilmente con denominatori comuni. Per questo sant’Ignazio amava dare gli esercizi a una persona singola, per trovare appunto con essa in quale momento spirituale fosse, e quindi per comprendere in quale maniera venisse rivolta a essa la

chiamata del Signore. Perciò ritengo che colui che dà gli esercizi a un gruppo non omogeneo debba rendersene conto e tenere presente che si trova davanti a una freschezza infinita di esperienze spirituali, di prove, di contraddizioni che lo inducono a dare con discrezione, attraverso la materia di meditazione, soprattutto un sostegno, un supporto alla preghiera di ciascuno, senza che sia possibile fare di più. Sarebbe già molto se potessi, con gli spunti di preghiera che vi proporrò, dare una cornice a quello che è il quadro della preghiera che ciascuno farà secondo le vie che il Signore vorrà chiarirgli; dare un sostegno, uno stimolo alla riflessione, anche se alcuni pensieri potranno servire e altri no. Ma evidentemente, in questa cornice, il quadro spirituale ciascuno deve giocarselo da sé; per cui mi sembra di poter definire così il mio compito: cercare di dare un’atmosfera e un sostegno a quello che è il lavoro di ciascuno: questo mi pare molto chiaro, almeno per gli esercizi dati a gruppi come questo, in cui i singoli possono lavorare personalmente. Un’altra difficoltà a cui non ho trovato una soluzione precisa l’ho sentita alcuni giorni fa, sempre pensando a questo ritiro; si tratta di una domanda che mi sono fatto più volte: “Qual è il rapporto tra la mia esperienza personale, il momento della mia ricerca di Dio, e gli esercizi che sto dando?” È chiaro che le risposte possono variare fra due estremi. La prima è che non ci sia alcun rapporto, cioè che io trado fideliter materiam2, come dice sant’Ignazio, do fedelmente la materia senza stabilire alcun rapporto con ciò che io sento e vivo; una materia che quindi posso aver preparato dieci o quindici anni fa, o che ora leggo e propongo indipendentemente dalla mia ricerca in questo momento. Si darebbero così gli esercizi in modo quanto mai impersonale. Questo mi riesce piuttosto difficile, perché vedo che sempre, anche senza volerlo, quando uno parla con gli altri, è stimolato da cose, impressioni, pensieri, che ha fatto nei mesi, nell’anno precedente. Non so quindi come concretamente sia possibile una spersonalizzazione, che pure non è del tutto indesiderabile. Naturalmente l’opposto è la pura comunicazione dell’esperienza propria: allora chi predica, chi dà gli esercizi, comunica la sua esperienza, come lui sta vivendo la spiritualità; e lo comunica in maniera diretta, partecipata, attraverso il ritmo di alcune meditazioni. Evidentemente, tra questi due estremi, cioè tra l’impersonalismo e la pura comunicazione della propria esperienza, c’è un mezzo che è difficile da definire, ma che io vorrei almeno tentare di seguire. Mi riferisco perciò a un

testo, proprio per evitare di essere troppo personale e insieme per non ripetere cose già dette, e, sulla base di questo testo, esporrò riflessioni attinenti alla via degli esercizi: il testo dà oggettività, l’esposizione invece una risonanza personale. Se il testo, come nel nostro caso, è un testo biblico l’oggettività è assicurata e ciascuno quindi può dire: non mi viene detto o imposto ciò che una persona vive adesso, che può non essere interessante per me o addirittura del tutto fuori della mia esperienza, ma mi viene dato un testo che, pur nella risonanza personale, è assolutamente oggettivabile. Come testo ho pensato di prendere il Vangelo di Luca, e quindi mi atterrò a esso. Mi sono ancora posto il problema di come avverrà la sutura tra Vangelo e elementi ignaziani: cercheremo insieme giorno per giorno di farlo in comune e ciascuno lo farà anche per se stesso. Non posso evidentemente promettere miracoli per far saltare fuori dal Vangelo di Luca il testo di sant’Ignazio, ma comunque, con la nostra comune esperienza, cercheremo di leggere un po’ questo Vangelo alla luce della via degli Esercizi. Questo dunque per quanto riguarda le difficoltà in cui si trova chi dà un corso di esercizi. La terza riflessione di tipo introduttivo che volevo proporvi è il come disporsi agli esercizi, soprattutto in quanto esperienza di preghiera. Ho riflettuto un po’ su questo e ho pensato che avremmo potuto fare le meditazioni in cappella, cominciandole io stesso con una preghiera per disporre a quello “stato di preghiera” che è l’anima degli esercizi, l’aria in cui essi respirano. Come preghiera d’inizio mi è venuta questa che vi propongo, perché ciascuno di voi vi reagisca in maniera personale: suggerirei di provare questa sera e domani mattina ed eventualmente tutta la mattinata (anche se contemporaneamente agli spunti che vi indicherò) a precisare il proprio stato presente di preghiera; che cioè ognuno si chieda: “Qual è il mio ‘stato attuale di preghiera’, nella situazione in cui sono adesso?” Questa frase “trovare il proprio stato di preghiera” l’ho presa, alcuni giorni fa, da un volume di lettere del venerabile Libermann3, che è il fondatore della Congregazione dello Spirito Santo, e nel quale ho trovato dei tesori di sapienza spirituale. Tra l’altro mi ha colpito una lettera, nella quale egli parla di una persona che aveva doni spirituali ma che insieme era molto contestata, criticata, forse anche per una reale imprudenza. Egli l’ha fatta venire a sé e le ha detto: “Le farò fare un ritiro e cercherò di aiutarla”. E spiega in questa lettera come ha fatto a aiutarla, a discernere in questa persona quello che forse era

imprudenza, emotività, e ciò che era invece dono di Dio. Scrive dunque: “Per prima cosa ho cercato di metterla nel suo stato di preghiera, perché mi sono accorto che quando era nel suo stato di preghiera, allora sorgevano in lei pensieri e doni autentici, mentre, quando ne usciva, allora emergevano imprudenze, entusiasmi esagerati o altre manifestazioni che la facevano deviare”. La lettera mi è parsa un capolavoro di saggezza, e allora mi sono detto: perché non suggerire proprio questo esercizio e cioè di trovare davanti a Dio, di chiedere al Signore che ci faccia sentire, intimamente, qual è il nostro presente “stato di preghiera”, al quale in questo momento si aggancia la Parola di Dio che ci viene data? Ma come trovare il proprio stato di preghiera? Suggerisco qualche indicazione che mi è venuta in mente. Per prima cosa desidero indicare come non trovarlo, cioè in che cosa non consiste il nostro stato di preghiera. Mi pare che prima di tutto non consista in nessuno stato indotto artificialmente, anche se buono: io posso aver letto recentemente un libro di una mistica che mi ha entusiasmato e allora mi sento pieno di slancio… Ecco, questo è un qualche cosa che non è ancora parte della mia esperienza e mi posso illudere che partendo da esso io possa andare avanti. Ci sono stati d’animo indotti in noi artificialmente, venuti dalle letture che abbiamo fatto e che ci sono piaciute molto, dalle persone autorevoli che abbiamo ascoltato, dal pensiero di un altro, ma che non sono divenuti o non sono ancora il nostro stato di preghiera. Credo allora che sia molto opportuno, proprio negli esercizi, lasciarli un po’ svanire, a costo di una certa aridità, di restare momentaneamente senza pensieri. Ricordo di aver sentito uno che diceva che mai nessuno dovrebbe mettersi in un ritiro da solo, senza avere un qualche libro, un qualche autore che lo aiuti. Ecco, io direi che è sempre il contrario: cerchiamo cioè di lasciare da parte sia le cose positive sia anche gli elementi negativi indotti non da noi, ma da proposte che non sono ancora autenticamente nostre. Cerchiamo di entrare nell’intimo di noi, là dove il Signore ci parla, e diciamo anche solo una parola, forse molto semplice e non letterariamente elaborata, ma che è nostra, tutta nostra. Ecco, quindi, lo stato di preghiera non consiste in nessuno stato indotto artificialmente. Non consiste neanche nel volerlo cercare con sforzo, ma piuttosto nel lasciarcisi mettere da Dio, riconoscendo che in fondo siamo incapaci anche di questo, che siamo cioè così poco autentici da essere incapaci, senza la grazia

di Dio, di trovare la nostra autenticità spirituale. Ecco perché spesso viviamo di nervosismi accumulati, di impressioni, di sostegni fallaci, oppure di sostegni temporanei; si tratta invece di trovare quella parola o quelle parole che Dio dice in me, adesso: questa è la preghiera che è mia, anche se semplicissima, anche se povera. Se dovessi definire positivamente, come per accenni pedagogici, in che cosa consiste questo stato di preghiera, direi tre cose, forse un po’ paradossali, ma che possono farci riflettere. Esso consiste: in una posizione del corpo; in una invocazione riassuntiva del mio desiderio (e queste due cose devono stare insieme); in una serie di passi o di scene bibliche. Si tratta di tre modi per arrivare a uno stato di preghiera, anche se non sono lo stato di preghiera in se stesso. Una posizione del corpo: mi sembra che varrebbe la pena di tentare, nel silenzio, nel raccoglimento, nell’attenzione, di trovare quale posizione corporea di preghiera noi siamo spontaneamente, in questo momento, portati ad assumere. C’è la posizione dell’offerta, c’è la posizione dell’invocazione, c’è la posizione della lode, c’è la posizione dell’adorazione, c’è la posizione del timore. Credo che, lasciando sciogliere il nostro corpo, lasciando che il linguaggio del corpo si esprima, giungiamo probabilmente a una qualche posizione che sia interpretativa del nostro desiderio profondo, e che quindi ci aiuti ad accompagnare ciò che in noi si sta svolgendo, perché questa preghiera noi non l’abbiamo già dentro di noi, ma dobbiamo ancora trovarla: Dio la compie, Dio ce la fa trovare. Un secondo mezzo consiste in una invocazione riassuntiva del mio desiderio, in una risposta alla domanda con cui Gesù esordisce nel Vangelo di Giovanni (cfr. Gv 1,38): “Che cosa cercate?” Ecco, che cosa chiedo? Se io faccio silenzio in me stesso, quale invocazione di preghiera mi affiora dentro e, adagio, si fa parola? Oppure potrebbe essere la preghiera a Gesù: “Gesù, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!”; o ancora: “Signore, ti ringrazio perché mi accetti nella mia povertà”; “Signore dammi luce in questa situazione incresciosa e difficile”; “Signore non ce la faccio”; “Signore aiuta la mia fede”. Credo che esistano delle preghiere semplici, che noi a un certo punto ripetiamo, appunto nel ritmo della preghiera orientale, praticata anche da Gesù, sentendo che esprimono ciò che in questo momento siamo… ciò che lo Spirito Santo sta ora chiedendo in noi. Il terzo modo, infine, che posso suggerire è quello di domandarsi: “In questo momento, se io dovessi esprimere qual è la scena biblica, evangelica,

che mi dice di più, che esprime meglio me stesso, quale è la parola o le parole evangeliche che sceglierei per dire a un altro, in fraternità, ciò che mi sta a cuore?” E così, attraverso questo modo potremmo aiutarci a trovare o a suscitare nella coscienza questo stato presente di preghiera, che è la nostra povera autenticità attuale di fronte alla parola di Dio. E partendo da questa, lavorare poi perché la scintilla della parola si faccia manifesta e la potenza della parola intervenga su quella verità di noi stessi, che è appunto l’espressione semplice, umile, di ciò che veramente noi siamo e non di ciò che pensiamo di essere di fronte agli altri. Queste tre osservazioni riguardano i modi. La quarta, come ho detto, riguarda la materia, che appunto penso debba essere il Vangelo di Luca, in una lettura che tenga conto dell’itinerario che Luca propone al suo Teofilo4 per aiutarlo a destreggiarsi in mezzo alle molteplici interpretazioni della vita, della Chiesa e della storia nel suo tempo; e ciò al fine di comunicargli una linea, che, in definitiva, è quella stessa degli Esercizi, perché è la linea del significato della penitenza, della persona di Gesù, della sequela di Gesù, della croce e della risurrezione, nella vita dell’uomo. Ecco quindi qual è più o meno il cammino che Teofilo deve percorrere per giungere a capire il Signore.

I. IL KÉRYGMA5 LUCANO Signore Gesù, vedi quanto è difficile esprimere tra noi ciò che veramente pensiamo; quanto la nostra capacità di farci comprendere è limitata. Ti chiediamo, o Signore, col dono del tuo Spirito di rinnovare dall’interno la nostra autenticità. Donaci, o Signore, la verità degli uni verso gli altri, fa’ che siamo di fronte a Te ciò che siamo e donaci anche di esserlo umilmente di fronte agli altri, nella penitenza, nell’umile riconoscimento delle nostre debolezze, nella pubblica confessione della nostra povertà. Fa’, o Signore, che accogliendoci gli uni gli altri possiamo essere accolti da Te e ci sentiamo trasformati dalla potenza del tuo Spirito, che ti chiediamo di darci per intercessione di Maria questa sera, in questa notte, in questi giorni, Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. Ascoltiamo ciò che dice sant’Ignazio:

L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la propria anima; le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo, affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato. Da qui segue che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutino a conseguire il fine per cui è stato creato e tanto deve liberarsene quanto glielo impediscano. Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito) in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga che quella breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo solo ciò che più ci porta al fine per cui siamo stati creati6 [23].

Dopo una breve pausa di silenzio, rivolgiamo di nuovo la nostra preghiera al Signore: Dio, Padre nostro, tu hai chiamato alla conoscenza del mistero di salvezza sant’Ignazio. Tu gli hai dato di vedere il rapporto di tutte le cose con “Te” prima di tutto. Concedi anche a noi, che cerchiamo il nostro posto nella Chiesa di oggi, la grazia di conoscere il tuo disegno di salvezza e di accettarlo e di trovare in esso il nostro posto. Te lo chiediamo, o Padre, per Cristo nostro Signore. Amen. La meditazione che vorrei proporvi oggi è sul kérygma così come ce lo presenta san Luca, soprattutto nella seconda parte della sua opera, cioè negli Atti degli Apostoli. Seguendo infatti l’itinerario spirituale di Teofilo, dobbiamo tener presente che questo itinerario si svolge unitariamente nel libro del Vangelo e negli Atti degli Apostoli. Luca suppone come sfondo dell’itinerario spirituale di Teofilo la conoscenza del kérygma; quando infatti nella sua prefazione dice che, attraverso la meditazione delle cose da lui scritte, Teofilo potrà riconoscere la solidità degli insegnamenti che ha ricevuto, suppone che Teofilo già conosca questi insegnamenti, abbia questa struttura di fondo, che è appunto il kérygma. E Luca si propone di mostrare la solidità, la concretezza di queste parole, di cui Teofilo ha ricevuto la catechesi. Ci si potrebbe domandare cosa significa far vedere la solidità delle parole ricevute. Mi sembra che ciò non riguardi tanto la verità storica di queste parole del kérygma che Teofilo ha già ricevute e accettate; sono ciò a cui ci si può appoggiare. Da un punto di vista specifico, cioè, sono solide. Mi pare si potrebbe portare questo paragone: così come è solida una casa in cui tutto è ben collegato, tutte le cose si tengono l’una con l’altra e Luca si preoccupa quindi di mostrare come il kérygma si inserisce nel quadro universale del disegno divino e come, attraverso il kérygma, è veramente Dio che è inserito nella storia. La storia che stiamo

vivendo noi, che abbiamo accettato il kérygma, si illumina a questa considerazione, come momento del disegno universale di Dio sull’umanità, e quindi acquista un significato, un senso profondo: Dio non è estraneo alla storia che stiamo vivendo, ma attraverso il kérygma ci raggiunge, ci tocca e dà un significato anche alle tribolazioni che stiamo attraversando. Questo concetto è abbastanza caro a Luca: Paolo negli Atti (14,22) è presentato come colui che passa nelle comunità dicendo che, attraverso molte tribolazioni, bisogna entrare nel regno di Dio. Ora queste tribolazioni, illuminate dal kérygma, si mostrano parte del disegno divino: è questo un concetto molto caro a Luca. Per esprimerlo chiaramente, mi voglio richiamare al brano di una lettera che ho ricevuto proprio ieri da una religiosa che attraversa una prova molto difficile, perché l’opera sociale e caritativa a cui si era dedicata con tutta la pienezza e con rischio della vita, è stata distrutta, e allora le sono sorti vari problemi: “Dio, che tanto ho amato come Creatore, adesso mi sembra un intruso nella nostra storia umana. Che significato hanno le contraddizioni, le ambiguità di questa storia umana, come c’entra Dio in esse?” Ecco il problema a cui Luca vuole dare una risposta: Dio non è estraneo a questa storia, anche se questa storia che stiamo vivendo apparentemente è carica di ambiguità, di stranezze, di cose che non riusciamo bene a sistemare; la parola del kérygma ci permette di accettarla, di vedere come tutto questo è parte di un disegno divino. Come vedete siamo su una linea analoga, anche se non identica, con il quadro fondamentale dell’opera divina del Principio e Fondamento di sant’Ignazio. Ecco quindi ciò che vorrei proporvi in questa meditazione: prima un breve richiamo alla parte che il kérygma ha nell’opera di Luca; poi qualche spunto di riflessione su alcuni aspetti del kérygma stesso, così come Luca ce lo presenta. Sono cinque aspetti, che toccherò brevemente per invitarvi a riflettere su di essi. Infine un’ultima considerazione, che già abbiamo anticipato: qual è il rapporto tra questo kérygma lucano e il Principio e Fondamento degli Esercizi. Luca, dunque, riporta il kérygma, come è ben noto, principalmente nei grandi discorsi missionari degli Atti, nei capp. 2, 3, 10, 13, e poi anche nei discorsi ai pagani, più brevemente nel cap. 14, più a lungo nel cap. 17; questi sono i brani che ciascuno potrà rileggersi. Luca inoltre riporta il kérygma anche nelle brevi introduzioni battesimali, che egli dà a proposito dei convertiti; dunque in genere dopo i discorsi, ma anche altrove. I temi fondamentali dei discorsi missionari sono ben noti: Dio, la storia della salvezza, Cristo risorto, la conversione. I temi delle introduzioni

battesimali prolungano il kérygma con i temi della vita della Chiesa, la vita di comunità, i sacramenti, la preghiera. Quindi abbiamo più o meno il quadro completo del kérygma lucano: l’azione di Dio nella storia, nel Cristo morto e risorto, che diventa per noi appello alla conversione, invito alla professione battesimale, che ci dà il dono dello Spirito, la remissione dei peccati e ci fa vivere in una comunità di scambio di beni e di preghiera. Posto questo quadro generale, mi sono sforzato ieri sera di rileggere queste enunciazioni kerygmatiche e di riflettervi, sentendo che cosa dicevano a me. Vi invito quindi, se volete, a farlo anche voi, questa mattina e quest’oggi. In questa mia rilettura ho cercato di tener presenti tre cose: mi sono domandato che cosa mi dicono queste parole alla luce dell’esperienza globale di Teofilo, che noi cerchiamo di fare nostra; quindi come si collocano nel quadro di tutta l’opera lucana (Vangelo di Luca, Atti); poi che cosa mi dicono alla luce dell’esperienza di Ignazio, e quindi alla luce della via ignaziana degli Esercizi. E, terza domanda: che cosa mi dicono alla luce della mia esperienza spirituale, della mia vita di fede. Penso che, tenendo come sfondo queste tre domande in un clima di preghiera, ciascuno può leggere ora questi brani del kérygma, e farli oggetto di adorazione, contemplazione, lode, preghiera di penitenza, di confessione, di intercessione. Io suggerisco qualche riflessione che è venuta a me e che ho notato in cinque punti: – la prima l’ho chiamata “questo”, dall’aggettivo che ricorre “questo è”, per esempio in At 2,16. La traduzione CEI non lo dà, purtroppo, e dice: “accade invece”, cioè sta accadendo ora. In greco, più chiaramente è: “ciò che accade”, “questo che accade”. Quindi una riflessione sul “questo”, colui che è stato respinto dal mondo e glorificato da Dio; – una seconda sul “soggetto” del kérygma: Dio, il Dio della creazione; – la terza: il centro del kérygma è il “respinto glorificato”, colui che è stato respinto dal mondo e glorificato da Dio; – la quarta: il “dono”; questo respinto glorificato dà il dono, dà la promessa; – la quinta: con questo dono si ha la remissione dei peccati. Sono questi i punti sui quali propongo qualche riflessione. Dunque, prima di tutto, “questo è” (At 2,16). Come parte il kérygma? Parte dall’esperienza di un presente, in questo caso chiarissima. C’è un fenomeno carismatico, la gente si stupisce, il fenomeno è ambiguo, ha diverse interpretazioni, però è tangibile, c’è un qualche cosa che va spiegato, e il kérygma dice: questo che

voi state sperimentando è ciò che Dio ha promesso, è azione di Dio. Cioè il kérygma parte – con piena evidenza in alcuni casi, con minore in altri – da una esperienza del presente. L’esperienza dello storpio guarito nel capitolo terzo degli Atti (3,16): la fede nel nome di Gesù “questo che voi vedete e conoscete, lo ha rimesso in piedi; quindi vi sto spiegando ‘questo’, che avete davanti, che voi vedete e udite”. Ancora in At 2,33 ritroviamo l’appello all’esperienza presente: “Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire”. Lo ha effuso, ed è questo che voi potete vedere e udire… E negli altri capitoli: in At 10,34-36 l’esperienza che Pietro sta vivendo e di cui enuncia gradualmente il senso è la chiamata universale di Dio; Pietro comincia dicendo: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto”, e allora “qui, a partire da qui” annuncio la parola: Dio ha mandato la sua parola di pace, Gesù Cristo, annunciando a tutti la salvezza. E così pure in At 14 nella guarigione del paralitico di Listra, nel cap. 17 per la situazione religiosa presente ad Atene, e in At 13 dove è il kérygma stesso che diventa presenza e Paolo annuncia la promessa che è per noi, adesso. Ecco quindi come dobbiamo metterci di fronte al kérygma lucano: come davanti a qualcosa che in questo momento è parte della nostra esperienza, ci tocca nel presente e spiega ciò che stiamo vivendo adesso nella Chiesa, nella comunità, nella stagione presente della nostra anima, qualunque essa sia: autunno, inverno, primavera, estate; questo momento è “questo nostro stato”, come dirà Paolo in 2Cor 5, questo è il “momento favorevole”, questo è il tempo della salvezza. Il kérygma è la parola che nel presente ci sta interpellando a nome di Dio, per dirci il senso di ciò che stiamo soffrendo o il senso di ciò per cui ci stiamo rallegrando e che ci fa esultare nel presente. Un secondo aspetto del kérygma lucano: questo nostro presente è parte di un disegno universale, di cui l’attore, l’agente permanente e fondamentale è Dio. Leggendo il kérygma, voi noterete come Dio è il centro di tutto, il soggetto di tutto: Dio ha fatto, Dio ha dato questo dono in Cristo, Dio lo ha resuscitato. In questo momento della nostra riflessione ci dobbiamo mettere, quindi, di fronte alla persona che è il punto di riferimento di tutta la nostra vita e di tutto ciò che noi operiamo; e possiamo riflettere, in adorazione, in riverenza, sul Dio che ci presenta questo kérygma lucano, che è il Dio della creazione, il Dio che ha fatto il cielo e la terra e tutte le cose che sono in esso

(cfr. At 14,15 e 17,24). Il tema di Dio Creatore è sempre sullo sfondo: niente di ciò che viviamo è fuori della sua azione; il Dio, quindi, la cui presenza è universale e necessaria, da cui non si può prescindere per ogni atteggiamento verso le cose che sono sotto il cielo; e, ancora, si tratta del Dio dei padri: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il che significa il Dio che nelle vicende mutevoli della storia è fedele, il Dio la cui fedeltà ci raggiunge attraverso generazioni, il Dio di sant’Ignazio, il Dio di coloro che ci hanno istruito nella fede; quel Dio che, essendo fedele per le generazioni, non abbandona la situazione presente della Chiesa, ma è vicino a essa, ora; è quindi quel Dio che richiede fiducia, perché è un Dio fedele, che non ci abbandona e che ci chiede, anche nell’oscurità del presente, una completa fiducia. Su questo punto così importante penso sia bene insistere: Dio ci chiede una fiducia incondizionata, senza limiti, una fiducia che non è dovuta al fatto che vediamo, più o meno, qua e là come poterci salvare, come riuscire a cavarcela, ma una fiducia che resta tale anche di fronte alla morte, di fronte cioè a tutto ciò che può venire a mancare. È fiducia totale. Questa fiducia totale si basa sul fatto centrale della storia, ed è il terzo punto che ho indicato: il respinto glorificato. È questo l’evento centrale della salvezza, che viene insistentemente presentato qui, non semplicemente come la morte e la resurrezione di Gesù, ma come la glorificazione, da parte di Dio, di Colui che il mondo ha respinto, di Colui che gli uomini hanno ripudiato. Ecco l’evento centrale della salvezza, il lieto annunzio: Dio che glorifica, Dio che salva; e salva proprio Colui che la storia sembra aver schiacciato. Quindi noi siamo qui veramente di fronte al cuore del mistero: troppo facile a dirsi a parole, ma di cui mai potremo percepire completamente le risonanze, le conseguenze; credo che sia a partire da qui che nasce l’intuizione di sant’Ignazio di portare la nostra scelta a realizzarsi di fronte a un Signore respinto, disprezzato, umiliato. In altre parole Dio interviene nella storia attraverso un rovesciamento delle apparenze. La Madonna lo dice nel suo Magnificat (1,46-55) e così interpreta l’azione di Dio nella storia: un Dio che rovescia i potenti dai troni ed esalta gli umili, quindi un Dio che sceglie i deboli, sceglie – diremmo oggi – gli emarginati, i peccatori. Come ha rovesciato la storia risuscitando il Cristo disprezzato e agisce nella storia rovesciando le apparenze, così rimanda i ricchi a mani vuote e accoglie i poveri e li sfama. Nel Vangelo delle Beatitudini ritroviamo il kérygma lucano: “Beati voi poveri, guai a voi ricchi” (6,20-26). E questa azione sconvolgente di Dio nella storia, di cui

siamo testimoni, adesso deve far sì che la nostra vita – se è vita di fede – sia testimonianza, perché sperimentiamo in noi stessi, nella nostra carne, come Dio ci rovescia e accoglie la nostra povertà e respinge la nostra sufficienza. Questo dono che nel Cristo si è operato come salvezza per tutti, ci viene comunicato – ed è l’altro punto del kérygma che sottolineo – come Spirito. Il kérygma dà grande importanza alla diffusione, alla effusione dello Spirito; Spirito che è legato alla promessa, cioè è colui che ci manifesta la fedeltà di Dio nel presente: il Dio dei Padri, della fede, della Chiesa, di sant’Ignazio, dei nostri santi, ci è dato, oggi ancora, come dono dello Spirito. Come presenta il kérygma questo dono dello Spirito? Esso è il cuore della salvezza realizzata in noi, è una nuova vitalità che ci viene dall’interno. Se prendiamo il nome “spirito” nella Scrittura vediamo che esso è ciò per cui Adamo vive, qualcosa che dall’interno dà la vita alla materia e che, in virtù della passione e resurrezione di Cristo Gesù, ci viene ora comunicato come il dono presente della salvezza, il rovesciamento delle situazioni della storia. Infine il kérygma unisce strettamente con lo Spirito un altro aspetto della presenza di Dio nella storia, la remissione dei peccati: troverete molte espressioni (sarebbe interessante esaminarle una per una, controllarle, pesarle) nelle quali Luca insiste su questa remissione dei peccati come dono per eccellenza. Uno dei testi da cui si potrebbe partire sarebbe la finale di Luca: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso” (24,46-47). Qui sono strettamente legati questi temi: la promessa del Padre, la conversione, la remissione dei peccati. Come possiamo intendere questa remissione dei peccati? Credo che per intenderla meglio, per meditarci sopra, dovremmo appunto non semplicemente pensare al peccato come a un debito oggettivo, che è là, come a qualcosa che va messo a posto, e che viene rimesso, condonato. Mi pare che l’idea sottostante sia più larga: il termine greco usato da Luca vuol dire “liberare dai peccati” anche come peso, darci respiro. La stessa parola è usata anche nel passo fondamentale del suo Vangelo (4,18-19): “Lo Spirito del Signore è sopra di me […] e mi ha mandato per proclamare ai prigionieri la liberazione […] per rimettere in libertà gli oppressi”: questa parola significa, quindi, liberare, togliere un peso, sciogliere dalle catene, e

possiamo allora intravvedere il kérygma come l’annuncio che questo peso, il peccato, come situazione pesante della vita, ci viene tolto. Per situazione presente intendo la nostra incapacità a reagire alle situazioni della vita con fede, speranza e carità, o al contrario il nostro reagire alle situazioni della vita con amarezza, disgusto, tristezza, meschinità. Ecco il peso del nostro peccato: incapacità a vivere nell’amore, nella riverenza, nel servizio, il nostro essere soggiogati e aggiogati al carro della frustrazione, della meschinità, della tristezza, della inautenticità, della poca lealtà con cui viviamo le situazioni comunitarie e apostoliche. Tutto questo è il peso, e quindi meditando su questi testi io inviterei fin d’ora, iniziando la parte penitenziale degli esercizi, a domandare che cosa mi è di peso nella mia vita comunitaria, nella mia relazione con i fratelli, nella mia incapacità a entrare in rapporto veramente trasparente e autentico, nelle situazioni tediose, talora asfissianti, della vita, negli insuccessi, nelle difficoltà apostoliche oppure nelle presunzioni dell’apostolato, che mi impediscono il vero ascolto degli altri: tutto questo è il peso da cui (ecco la parola del kérygma!) soltanto il dono dello Spirito, che ci dà nuova vitalità interiore, ci può purificare. Quindi il kérygma non è “diventare buoni”, ma “cercare lo Spirito”, “fidarsi di Dio”, che come Padre fedele viene fino a noi e, come ha glorificato il respinto, così può dare anche a noi forza di salvezza; questa potenza di Dio che rovescia la storia è qui, per noi. Ecco gli atteggiamenti che mi sembra possiamo cominciare a far risuonare in noi nelle preghiere, per metterci davanti all’autenticità dell’azione di Dio. L’ultima considerazione che si può fare è il domandarsi qual è il rapporto tra questa proposta lucana del kérygma e il Fondamento ignaziano. Come vedete, ci sono molte analogie, ma anche molte differenze, perché il Fondamento è una premessa a una scelta, abbastanza concreta (che è quella dello stato e delle scelte connesse), e quindi sottolinea la necessità della disponibilità. Il kérygma lucano ci dà, invece, il quadro globale in cui questo atteggiamento di disponibilità, se vuole essere un quadro autentico, è quello del Dio che nella storia ci raggiunge e – come ha glorificato il Cristo respinto – così a me, che accetto l’umiliazione del Cristo, propone la vivificazione interiore per una vita nello Spirito che sia partecipazione alle scelte del Signore. È di fronte a questo Dio, che è capace di sconvolgere la mia vita e portarmi non solo a riconoscere la mia povertà, ma anche a compiere – rinnovato – la sua volontà, che dobbiamo metterci in adorazione, in lode e riconoscenza, in queste riflessioni che vi propongo di fare oggi.

Prendiamoci ancora qualche minuto per concludere con una preghiera: Dio dei nostri Padri, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Dio di sant’Ignazio, dei nostri santi, guarda noi che cerchiamo di comprendere la tua opera: donaci uno sguardo illuminato di fede, perché possiamo, in umiltà, in tranquillità, contemplare il tuo disegno di salvezza, e accoglierlo come “parola” di remissione dei peccati in questo momento della vita nostra, del nostro paese, della Chiesa, del mondo. In questo momento di luce e di oscurità, fa che questa parola di vita, questa parola trasformante, sia accolta da noi con animo umile. Te lo chiediamo per Cristo, nostro Signore.

II. IL KÉRYGMA A METÀ (LA RICERCA DELL’ID QUOD VOLO) Nella quarta addizione degli Esercizi7, sant’Ignazio raccomanda sempre di determinare, di far scaturire sempre meglio l’id quod volo8 del ritiro, ciò che sta al fondo dei miei desideri. E siccome è il Signore che lo fa scaturire dentro di noi, cominciamo questa riflessione con la preghiera del desiderio, tramite il Salmo 62 (63): O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua. Così nel santuario ti ho cercato, o Signore, per contemplare la tua potenza e la tua gloria. Poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la tua lode. A te si stringe l’anima mia e la forza della tua destra mi sostiene.

Ci sostenga, o Padre, la forza della tua destra, perché emerga da noi ciò che tu stai in noi operando, in questo momento della Chiesa e della nostra vita personale. Te lo chiediamo, o Padre, con la certezza di essere ascoltati, nel nome di Gesù Cristo nostro Signore. Amen. La meditazione che propongo potrebbe avere come titolo, in riferimento alla meditazione precedente, “Il kérygma a metà” e come sottotitolo “Dove Luca vuole portare Teofilo”, cioè l’id quod volo di Luca per Teofilo. Sono questi due aspetti che vi invito a considerare tra i moltissimi che si potrebbero

meditare sull’episodio di Emmaus (24,13-35). L’episodio è ricchissimo e Luca vi ha profuso i tesori della sua arte descrittiva, della sua psicologia e della sua teologia: un episodio sintetico, riassuntivo, nel quale il rischio è di perdersi nei particolari. Io mi limiterò quindi a invitarvi a leggerlo e poi a lasciare che l’episodio contemplato influisca su ciascuno di voi, in relazione a questa domanda: “Che cosa voglio, quale desiderio mi fa nascere il Signore, come cosa sommamente desiderabile in questo momento della vita e della vita della Chiesa, in questa situazione particolare del mio apostolato, in questa svolta dei nostri tempi, che ciascuno di noi sta vivendo, nella singolarità della propria esperienza, ma anche nel ribollimento di quella che è l’esperienza generale, l’agonia, le doglie del parto del mondo di oggi?” Mi limiterò, come ho detto, a sottolineare in questo episodio alcuni aspetti che mi hanno colpito rileggendolo quest’oggi alla luce di queste considerazioni. In particolare: i due discepoli che se ne vanno verso Emmaus; Gesù, e il suo modo di avvicinarsi; il kérygma a metà che questi due proclamano; il kérygma propriamente detto, che viene annunciato da parte di Gesù come reazione a questo kérygma a metà; la fraternità ritrovata; e infine dove Luca vuole portare Teofilo, dove vuole portare noi e quindi, in definitiva, dove mi vuole portare il Signore. Qualche brevissima notazione su ciascuno di questi punti. Questi due, che se ne vanno verso un villaggio distante sessanta stadi da Gerusalemme, che forse anche noi abbiamo percorso a piedi e che quindi possiamo richiamare alla memoria come in una composizione di luogo9, chi sono? Luca dice chiaramente che sono due del gruppo, due di loro, quindi due di quelli che hanno sentito le parole della Maddalena, di Giovanni, di Maria, di Giacomo, che non vi hanno dato peso, e che quindi se ne partono la mattina della Pasqua. Sono dunque due del gruppo dei discepoli, due “supercoltivati”, potremmo dire: sono stati sottoposti anch’essi a quella formazione straordinaria che Gesù ha dato ai suoi, nel suo Vangelo; hanno udito direttamente, o sentito riecheggiare indirettamente, le parole delle beatitudini, le parabole della misericordia, gli inviti di Gesù sulla rinuncia a tutto, sul dare la propria vita, sullo scandalo della croce; quindi non è mancata loro l’istruzione. Eppure che cosa fanno? Mi ha colpito, rileggendo nel testo greco, questa mattina, il v. 15, la frase tradotta nel testo della CEI con “mentre discorrevano e discutevano insieme”: non so perché finora io avevo sempre in mente che questi due conversavano; la parola greca è invece molto più forte: “litigavano”, “discutevano animatamente” (e qualcosa di questa

sfumatura sta nel secondo verbo). Non sono dunque soltanto due uomini un po’ delusi, ma sono due uomini feriti; feriti nelle loro speranze, bruciati nella loro pelle, perché avevano impegnato qualcosa di sé, e quindi si sentono frustrati da qualcosa, da qualcuno; in qualche maniera potrebbero avercela anche con Gesù, forse pensano: “ci ha ingannati”. Non è semplicemente gente che commenta un avvenimento triste, ma sono due che sembrano accusarsi a vicenda del perché le cose siano andate così: di chi è la colpa? E di fatto, come dice il v. 17, quando Gesù li interroga, sono “col volto triste”; si potrebbe dire “con la faccia nera”, con la faccia nera di chi ha constatato la rovina delle cose su cui aveva messo fiducia. E io mi immagino una situazione simile a quella che si riproduce talora fra di noi, nelle nostre comunità, quando si ricerca la colpa del perché le cose vanno male, del perché va male la Chiesa in Italia, perché va male questo o quello… Colpa degli uni, colpa degli altri, colpa di chi tira di qua, di chi tira di là: noi viviamo una situazione simile, quando appunto la discussione raggiunge quei toni in cui ci sentiamo veramente feriti nell’intimo, nelle nostre speranze, traditi da qualcuno che ha agito in maniera contraria al nostro modo di vedere le cose e che ha portato la divisione tra noi. Mi ha anche colpito, proprio per concretare questi discorsi che facciamo tra noi, una serie di domande che questa mattina mi sono state fatte da qualcuno di voi come contributo a questa riflessione: domande che mostrano come in tanti di noi, in tutti noi, siano presenti queste preoccupazioni, queste domande, anche soltanto al semplice livello di sofferenza, umile, accettata, ma che chiede una risposta. “Se – leggo in queste domande – il soggetto del kérygma è Dio, Padre Onnipotente, perché la stragrande maggioranza della gente non lo ha neppure sentito annunciare o lo rifiuta? Perché la mia trasmissione è debole, poco convinta e denuncia una sensazione d’inutilità? Come accettare questo fallimento, come fare per essere strumento valido per raggiungere molti?” E qui pensavo che, se ci confrontiamo con i grandi rivoluzionari che raggiungono le masse e che dominano i continenti, non possiamo non chiederci: “Dio può accettare di essere sempre un seme sotto la terra? Non è colpa nostra? Dove sbagliamo?” Ecco, queste le domande che, in tono più sommesso o più alto, più delicato o più aspro, possono essere state oggetto della conversazione dei due di Emmaus, e che si prolungano nelle nostre conversazioni in comunità, negli incontri di clero, nei colloqui tra i vescovi e così ovunque nella Chiesa. Ecco allora i due che cerchiamo di fotografare e di far rivivere nella

nostra esperienza. Gesù: che cosa fa Gesù? Molto semplicemente si avvicina e, per prima cosa, si mette al loro passo fisico: si mette a comunicare con loro. Io colgo qui un certo comportamento, a nostro modo di vedere, coraggioso di Gesù: non è sempre facile mettersi in mezzo quando due persone discutono, ci si sente estranei. Gesù con pazienza si mette loro vicino, anche se crea imbarazzo in essi, che sembrano appunto non gradire troppo questa presenza, perché parlano di cose che scuotono fortemente la loro emotività. Ma Gesù, con coraggio, piano piano, si fa strada e pone una domanda che riceve all’inizio una risposta piuttosto scortese: “Ma come? Chi sei? Da dove vieni? Vieni dal mondo della luna?” E Gesù, senza spaventarsi di questa prima scontrosità, che deriva dall’emotività dalla quale i due sono presi, travolti, fa una seconda domanda che innocentemente scioglie questa prima diffidenza: “Ditemi di che si tratta”. Notiamo qui come Gesù procede delicatamente; talora noi siamo invece tentati di soffocare immediatamente in noi stessi o negli altri queste emotività, l’espressione di sentimenti reali profondi; e invece Gesù invita a esprimersi, invita a oggettivare questi sentimenti, queste emozioni, anche se gravi: Gesù non reprime, ma scioglie. Ed ecco allora che i due danno a Gesù il kérygma. Sì, è curioso: quello che rispondono è un kérygma! Dicono le parole simili a quelle con cui negli Atti viene proclamata parte del kérygma: “Gesù di Nazareth, profeta potente in opere e parole davanti a Dio e davanti agli uomini, ci ha incantati. Ma i sacerdoti l’hanno tradito, l’hanno condannato a morte, l’hanno sospeso a un palo”. È il modo in cui il kérygma si annuncia, ma è un kérygma a metà: quelli che essi annunciano sono i “fatti salvifici” e sono quelli che anche noi proclamiamo (“Patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto”), ma non sono visti nel loro sbocco salvifico, sono privi della loro qualità, della loro interpretazione finale. Sono fatti drammatici che essi hanno vissuto, e di fronte ai quali sono rimasti sconvolti, e dei quali non è possibile dire: “Non è stata poi una così grave sconfitta; in fondo Gesù ha detto alcune cose buone, qualche seme rimarrà!” No! No! Sono fatti gravissimi, si tratta di una sconfitta decisiva, di una cosa che non doveva avvenire. L’esperienza drammaticamente vissuta da queste persone è la realtà che forma la metà del kérygma: è questa realtà, presa nella sua pura oggettività, ma non resa trasparente dai fatti della resurrezione e della glorificazione, è una realtà che fa blocco, che impedisce di capire il senso della storia, che

chiude nella tristezza: la faccia nera. Come spesso succede, il lasciarsi bloccare dall’insuccesso presente, il cullarsi amaramente nella considerazione del lato negativo, chiude gli occhi davanti a quegli elementi che pure stanno a indicare che forse le cose non sono proprio così: è vero che le donne sono andate al sepolcro e hanno detto… ma tutto questo non parla, perché il blocco dell’avvenimento negativo ha creato un’emozione talmente violenta, di delusione, di amarezza, che non c’è spazio per l’infiltrarsi dell’interpretazione completa dei fatti; anzi le possibili interpretazioni positive lasciano scettici. Contro questo scetticismo, ecco il kérygma di Gesù, kérygma che viene completato e proposto quasi in un impeto d’ira, proprio perché Gesù si trova di fronte alla pazza deformazione del kérygma, al gusto della morte come tale, all’amarezza assaporata. Non capita forse anche a noi, o almeno a persone che noi conosciamo, di vedere questo appiattirsi nell’amarezza, questo gustarla, e quindi il rifiuto di riflettere sulle possibilità di una diversa interpretazione? Non succede forse anche nella Chiesa, appunto in certi momenti, in certe persone, questo ripiegarsi in un’amarezza che non accetta interpretazioni diverse, se non negative, di tutto ciò che si sta vivendo o soffrendo? Questo conduce allora a sofferenze che si subiscono malamente, a una convivenza difficilissima o impossibile tra la fede in Dio e l’accettazione di fatti apparentemente inaccettabili. Il kérygma, dunque, che Gesù propone è una violenta reazione a questa mistificazione della morte, della croce, di lui stesso, dell’insuccesso. Questo pensiero mi colpisce, mi ritorna con insistenza perché recentemente ho vissuto per alcuni giorni in una comunità di handicappati, di invalidi, ed era molto forte in loro il rifiuto di quella predicazione della sofferenza e della croce che avevano ricevuto per anni e anni negli istituti religiosi in cui erano stati; persone appunto con ogni forma di invalidità che perciò avevano acquisito una ripugnanza per lo stesso segno, oltre che per la parola, della croce. E ciò perché la sofferenza era stata presentata loro quasi come un elemento salvifico in sé, lasciandoli nella sua negatività a crogiolarsi nell’amarezza della loro condizione di impotenza. Quando, poi, hanno cominciato a vedere che le cose possono essere diverse, che li si può aiutare, che quindi anch’essi possono lavorare, produrre, possono avere degli affetti, possono esprimere delle emozioni, che prima, per decenni, erano state represse sotto questo segno della sofferenza, allora è emersa tutta una critica al tema della croce, della sofferenza, che mi pare raggiungere la situazione

qui descritta del kérygma a metà, del kérygma che non si esprime, ma che è piuttosto un momento di arresto, di accettazione passiva, di rassegnazione, di amarezza, accettati magari per sacrificio, ma non valorizzati: un kérygma a metà, che quindi non è mai evangelo, non è mai messaggio di salvezza. Perciò Gesù inveisce: “Stolti e tardi di cuore nel credere nel Dio dei padri, nel Dio della fedeltà, incapaci a fidarvi della promessa, dell’azione di Dio, sempre bisognosi di misurare le cose soltanto col vostro metro, secondo il quale Gesù doveva liberare Israele non così ma come voi ve lo aspettavate. Egli non ha fatto così e dunque le cose sono andate male! E non poteva essere diverso il disegno di Dio? Più grande del vostro? Perché non vi fidate del suo disegno?” Ecco ciò che mi sembra Gesù dica loro e dica a noi. Ed è qui che si aggancia tutta la catechesi di Luca per far vedere la continuità del disegno di Dio, che è organico e abbraccia tutta la storia, ma richiede una illimitata fiducia, un cuore pronto ad abbandonarsi. Questa prontezza ad abbandonarsi è la cosa più difficile per noi, ed è impossibile senza lo Spirito, e tutte le volte che ci rifugiamo sulle nostre forze per metterci nella situazione giusta, ricadiamo in queste interpretazioni umane dei disegni di Dio, che poi ci portano necessariamente a una constatazione di amarezza e di fallimento; e ci sentiamo sgomenti di fronte a questa constatazione dove emerge chiaramente tutta la nostra poca fede e l’impotenza nostra nel prendere in mano la storia, le situazioni, se non con un atto di fiducia che solo lui può farci compiere. Ed è per donarci questa fiducia che Gesù allora enuncia il kérygma completo e dice: “Ma è proprio questo evento che voi avete vissuto, proprio questo che voi non riuscivate a capire, che è parte del disegno di Dio! E quindi non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? Non era questo, che a voi appare come un non essere, proprio il dover essere di Dio, un momento del suo mistero per la gloria del Signore, quindi per la gloria della Chiesa?” E qui vediamo come questa predica di verità, di liberazione, si attua in un’atmosfera gradualmente ritrovata: Luca non ci dice che queste persone abbiano subito creduto, abbracciato il Signore; ci dice che per prima cosa hanno perso quella loro aggressività, si sono fatti ospitali, tanto da chiedergli di rimanere con loro, per la notte; e poi lo hanno invitato a tavola e lo hanno messo a capotavola, perché si sono accorti che c’era ormai uno scambio di affettività tra loro e lui, che permetteva questa familiarità, questa considerazione; e allora gradualmente gli occhi si aprono, le Scritture si aprono. Notiamo la presenza del verbo “aprire” in questa finale ai vv. 31 e

32: “Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” e “ci spiegava le Scritture”. E tutto questo appunto in un ambiente di fraternità, di emozioni ormai svaporate non perché represse, ma perché oggettivamente riconosciute, illuminate, e soprattutto perché riscaldate dalla presenza del Signore. Ed eccoci all’ultimo punto che volevo sottolineare: dove Luca vuole portare Teofilo e noi? Non ci vuole portare a una sistemazione intellettuale della sofferenza presente della Chiesa nel quadro del disegno di Dio, ma ci vuole portare a riscaldare il cuore. Perché certamente ciascuno di noi, di fronte agli interrogativi che ho richiamato prima, può dare delle risposte già adesso, risposte teoriche e magari convincenti per gli altri: ma ciò che non possiamo fare, ciò che manca, è riscaldarci il cuore, cioè entrare in questa visuale con cuore pienamente trasformato, con la gioiosa certezza che Dio è qui, ora. È questo che ci manca tanto, cioè che il cuore ci bruci nell’agonia, nella sofferenza di non vedere, ma ci bruci anche per una certezza, per il Vangelo che ascoltiamo, per l’esperienza di pienezza di Spirito che facciamo. Ecco, mi pare così definito l’id quod volo di Luca, il suo punto di arrivo: che il cuore ci bruci dentro nella considerazione della presenza di Dio nella situazione attuale della mia vita, così come nella Chiesa, e nella apertura a quelle vie di servizio che oggi mi vengono manifestate. Tutto questo è il dono dello Spirito, non viene da noi e non c’è nessuna convinzione reciproca che ci può portare a questo; solo riconoscendo umilmente di essere stolti e tardi a credere, possiamo giungere a dire a Dio: “Signore brucia il nostro cuore con la pienezza della tua manifestazione, perché possiamo sapere che cosa vuoi adesso da noi, nella tua Chiesa”. Come conclusione vi propongo dunque una meditazione sull’id quod volo: che cosa profondamente desidero, che cosa Dio mi fa profondamente desiderare in questo momento della mia preghiera, in questo momento della mia vita? Che cosa mi fa desiderare per me e per gli altri? Se volete, potete anche chiedervi: che cosa temo, che cosa non mi va, quali sono le cose a cui non vorrei pensare, perché mi paiono sbagliate, mi paiono inconcepibili? E dobbiamo metterci in questa riflessione con disponibilità all’azione di Dio, e soprattutto vivere nella preghiera, nella fede, questa situazione di desiderio, di timore, di ricerca, tentando di specificarla in una invocazione nostra, per farne oggetto eventualmente della nostra preghiera ulteriore, della nostra comunicazione di fede, della nostra scelta, della volontà di respingere alcuni modi di pensare o di agire per accettarne degli altri. Possiamo concludere rileggendo qualche parola del salmo del desiderio:

O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua. Così nel santuario ti ho cercato… – e ti vado cercando ora Signore in questa situazione presente della mia vita – […] per contemplare la tua potenza e la tua gloria. Poiché la tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la tua lode. A te si stringe l’anima mia e la forza della tua destra mi sostiene (Salmo 62,2-4.9).

Concludiamo infine questa meditazione pregando insieme con qualche invocazione che suggerisco, per questa richiesta di conoscere nella nostra vita la volontà di Dio: Insegnaci o Signore a conoscere la tua volontà. Mostraci o Signore la tua vita. Illumina o Padre il nostro sentiero. Mostraci il tuo cammino nella Chiesa. Vergine Maria guidaci per la strada della verità. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

III. UN DIO CHE CI CERCA Entriamo nella via penitenziale del kérygma lucano, che ha il suo riscontro nelle meditazioni della prima settimana degli Esercizi. Una via che conduce alla conclusione: Dio è amore misericordioso. Sant’Ignazio, nel secondo esercizio sui peccati, dice: “Terminare con un colloquio sulla misericordia, riflettendo e ringraziando Dio perché mi ha dato vita finora, e proponendo con la sua grazia di correggermi per l’avvenire” [61]. Ho letto questo brano degli Esercizi, perché vorrei suggerirvi di iniziare le meditazioni che si riferiscono alla penitenza, con la considerazione della misericordia di Dio. Può sembrare così che cominciamo dal fondo, cioè dal punto dove si conclude la meditazione di sant’Ignazio, ma penso che è possibile anche fare questo. Dopo avere considerato Dio che ci salva nel kérygma, perché glorifica Gesù respinto dagli uomini e ci fa giungere l’annuncio della conversione e della penitenza, domandiamoci: chi è questo Dio che ci fa giungere l’invito di conversione? È il Dio misericordioso.

Voglio prendere come punto di riferimento per questa contemplazione una frase di Madre Speranza10, che forse alcuni di voi conoscono, e che mi ha colpito; dice così: Bisogna far sì che gli uomini conoscano Dio non come un padre offeso per le ingratitudini dei suoi figli, ma come un padre buono che studia con tutti i mezzi la maniera di confortarli, aiutarli e farli felici, e che li segue e li cerca con amore instancabile, come se non potesse essere felice senza di loro11.

Riflettendo su queste parole – “li segue, li cerca con amore instancabile” – vengono in mente subito le tre parabole del cap. 15 di Luca, sulla ricerca delle tre cose perdute: la pecora perduta, la moneta perduta, il figlio perduto. E vi propongo quindi questa meditazione come introduzione alla riflessione penitenziale, tenendo presenti due cose: che Dio, come misericordia, ci insegue; e che se noi siamo qui a fare questa meditazione, è perché Dio ci ha cercati, ci ha inseguiti, perché siamo stati e siamo oggetto della sua attenzione misericordiosa. Quindi meditando sulla sua misericordia, meditiamo su di noi, che siamo attualmente da lui ricercati con ansia e con intensità per quanto di noi è perduto e smarrito, per quanto di noi è penetrato nelle fessure del pavimento e non riceve la luce. È in questa visuale che vi suggerisco di meditare su questo capitolo di Luca. Da parte mia voglio limitarmi a proporre di queste tre parabole soltanto alcuni temi ricorrenti, senza perdermi in tutti i possibili approfondimenti degli aspetti psicologici – soprattutto nella terza parabola, quella del figlio perduto – che come sapete sono senza fine, proprio perché Luca anche qui ha profuso i tesori della sua psicologia religiosa riflettendo l’animo e la preoccupazione profonda di Gesù di comunicarci il pensiero e la verità di Dio sugli uomini. I temi più ricorrenti che vorrei sottolineare possono essere i seguenti: l’opinione corrente su Dio, da cui parte l’insegnamento di Gesù; la perdita: chi si perde?; la ricerca; l’accoglienza; chi è l’oggetto di questa ricerca. Come conclusione una domanda finale: come questo insegnamento si inquadra nell’itinerario spirituale di sant’Ignazio e nostro? Prima di tutto l’opinione corrente su Dio, da cui partono queste parabole. È quella espressa, o almeno soggiacente, ai primi due versetti: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’”. Quale è l’opinione corrente di Dio che è dietro a questo modo di reagire? È quella di un Dio custode dell’ordine e della legge, custode della giustizia, tale, quindi,

che non è degno di lui correr dietro a chi si mette fuori della legge e della giustizia, a persone poco interessanti che si discostano da questa via regale; Dio è colui che manda avanti il suo popolo, la sua opera, con decisione, con determinazione, non quello che si mette a correre dietro, di qua e di là, all’uno o all’altro che vanno male; Dio è colui al quale importa supremamente l’osservanza e dispiace supremamente la trasgressione. Evidentemente questo la Bibbia ce lo dice in tante sue affermazioni e appunto da ciò deriva una immagine, proprio come diceva Madre Speranza, di Dio Padre offeso per le ingratitudini, turbato, preoccupato, e che rimane un Dio da placare a causa di questa ingratitudine che gli viene usata. Non possiamo ritenere di questa concezione tutti gli elementi validi, ma la parabola ci indica come da essi può sorgere una mentalità deformata, che è proprio quella che Gesù vuole stigmatizzare. Penso che, a questo punto, è molto opportuna nella preghiera una domanda per noi: “Signore, qual è l’immagine che io ho di te, rispetto al mondo, rispetto alla Chiesa e anche rispetto a me stesso? Come ti sento, o Signore e Padre verso di me: come colui che io offendo, colui a cui debbo obbedire, colui i cui comandi posso trasgredire, oppure colui che mi cerca, colui che mi insegue, colui che non può stare senza di me?” Guardate che anche da questo genere di mentalità nascono poi certe concezioni sulle quali più volte corre il rischio di naufragare l’anima cristiana: in particolare il tema dell’inferno, il tema della punizione del peccato. Sarebbe troppo facile mettere da parte completamente questa realtà, come fanno alcuni, e dire che non esiste, che non c’è. Ma d’altra parte vediamo che se essa non è calibrata perfettamente nella visuale di Dio che ci insegue con amore e fa di tutto perché non ne restiamo fuori, dando a ogni uomo, anche se misteriosamente, tutte le possibilità di salvezza, ma è invece presentata come una minaccia di condanna permanente, incombente su ogni azione umana, allora il tema della punizione può diventare fonte di alienazione religiosa, di timori e di incontrollate amarezze verso Dio. E non è raro trovare, soprattutto nelle religiosità più sensibili, questi inconsci, o subconsci, movimenti di amarezza verso Dio, che convivono con una vita di fede tenace, austera, ma che, a un esame più profondo, si rivelano come elementi di una visione non bene integrata, non evangelica, del cristianesimo, non sentito come una buona notizia, ma vissuto come costrizione, come spinta allo sforzo, come volontà di superamento. Evidentemente il tema del “dopo” della nostra vita non è facile ed è estremamente delicato; ma proprio per questo occorre “metterlo a

fuoco” bene, con l’aiuto del Vangelo, al di là di tutte le sistemazioni troppo facili, gli estremismi di ogni tipo. Chiediamo quindi al Signore umilmente che ci dia una vera e limpida e intima conoscenza di lui, perché questa conoscenza ci manca, e comunque questa conoscenza fa sempre nuove scoperte, ha sempre nuove possibilità di esprimersi più veracemente. Chi è dunque quel Dio che Gesù descrive qui? È, potremmo dire con un’espressione che potrebbe sembrare quasi blasfema, eccessiva, un Dio che ha perso la testa, che corre dietro alle persone poco interessanti, che fa delle cose un po’ strane. E se l’espressione ci può sembrare eccessiva, pensiamo a ciò che dice sant’Ignazio: “Preferisco di essere stimato stupido e pazzo per Cristo, che per primo fu ritenuto tale” [167]. Gesù infatti non ha agito come agisce un grande sovrano, che si preoccupa fondamentalmente di portare avanti la sua opera e lascia che chi non lo segue si perda, ma si è comportato come una persona che sembra lasciare da parte le cose importanti, per correre dietro a questo o a quello, che si sono dispersi. La sua è una visuale paradossale, incredibilmente umana, cioè incredibilmente capace di appassionarsi per l’uno o per l’altro: è su questa linea che potrebbero muoversi le nostre riflessioni su queste tre parabole. Secondo pensiero: la perdita. È la parola ricorrente in queste tre parabole: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (v. 6); e la donna: “Ho ritrovato la dracma che avevo perduto” (v. 9); e il padre conclude: “Questo fratello tuo era perduto ed è stato ritrovato” (v. 32). Qui vorrei sottolineare un aspetto che mi colpisce: che cosa è perduto quantitativamente? In fondo non molto: una sola pecora su cento, una dracma su dieci, un figlio su due. Può sembrare strano, anche perché l’inizio del capitolo diceva: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori”; “tutti”. Per cui ci saremmo potuti aspettare che la parabola si svolgesse in questo modo: un pastore ha perso il suo gregge e lo va a cercare; oppure, come è successo, tutte le asine di Saul sono state perdute, e allora si va a cercarle (1Sam 9). Invece qui mi pare che volutamente la parabola affermi che si tratta soltanto di una parte, talora addirittura di una parte minima: basta uno, ecco ciò su cui la parabola insiste, basta uno che si perde. Dio qui appare non tanto come colui che cura comunemente il suo popolo, ma come colui che addirittura si preoccupa di uno che si è sbandato; sembra non interessargli il gregge, quanto gli interessa una pecora del gregge. Questo spiega la strana

affermazione della parabola, che sembra forzare un po’ la realtà quando dice che il pastore lascia le novantanove pecore nel deserto: di solito i pastori sono in due o tre, quindi uno se ne va e lascia l’altro a guardia del gregge; questo invece non viene detto nel racconto, che quindi crea una certa impressione di paradosso. Lasciare le pecore nel deserto non è molto sicuro; ma c’è appunto questa idea che si impone: neppure una deve perdersi, anche una ha per il pastore un grandissimo valore. E il contrasto appare bene nel novantanove contro una, così come appare nelle nove contro una delle dracme della donna. Un po’ meno lo si vede nella parabola dei due figli, ma c’è anche qui: se noi pensiamo a ciò che succede umanamente, quando, in un caso del genere si arriva a dire: “Almeno uno me ne è rimasto; un figlio mi consola, di questo mi rallegro, l’altro… non sono riuscito a fermarlo”. Invece no: questo figlio che è rimasto non basta al Padre; è l’altro che lo preoccupa. C’è quindi questa sottolineatura che ciò che è perduto è sì un singolo, ma un singolo basta perché Dio vada, per così dire, fuori di sé, prima nella ricerca, poi per la gioia. Terza riflessione: a questa perdita succede una ricerca. Abbiamo già visto come la ricerca del pastore è sottolineata: lascia le novantanove pecore nel deserto e si mette a camminare verso quella perduta, finché non la trova. È una ricerca continua, attenta, del pastore che grida, che ascolta per le vallate, che guarda dall’alto, che scende nei cespugli. Nello stesso modo si comporta la donna che accende la lucerna, che si mette a spazzare; normalmente per una moneta si guarda un po’ per terra, e basta; qui invece c’è un rito completo che viene compiuto e che mostra l’interesse eccezionale, quasi una preoccupazione nella donna. Nel padre, infine, non c’è il tema della ricerca in questo senso, ma essa viene rappresentata (v. 20) da quel correre di questo vecchio padre che si commuove, si precipita, quasi un po’ goffamente, e “casca” sul collo del figlio per baciarlo. Credo che potremmo contemplare appunto questa ricerca, e poi dire a noi stessi, nella fede: “Ecco che cosa è Dio per me, ecco come Dio mi cerca adesso, ecco come io sono oggetto dell’attenzione, della chiamata, del viaggio del Signore per le valli, per i cespugli, per i canaloni del deserto, per chiamarmi; del Signore che spazza la casa, che cerca nelle fessure per vedere dove sta anche soltanto qualcosa di me, e che non è visibile se non illuminato dalla sua lampada; ecco il Signore che mi corre incontro e mi previene prima ancora che io possa dirgli qualcosa, fargli segno, chiamarlo”. A questa ricerca segue l’accoglienza. L’accoglienza che nei tre casi è

sotto lo stesso segno, perché veramente queste tre parabole sono parallele, anche nel loro linguaggio – “rallegratevi!” – c’è un invito e c’è un rallegrarsi in comune. Il pastore chiama gli amici, i vicini, e dice loro: rallegratevi, perché ho trovato la mia pecora perduta. C’è anche un tocco di esagerazione, di umorismo, che appare specialmente nella donna che chiama le vicine, che le invita a far festa, e si suppone anche che offra qualche cosa, che si faccia una piccola celebrazione. Tutto ciò sottolinea la partecipazione intensa con cui questa ricerca è avvenuta e quindi l’esultanza che accompagna il ritrovamento. E questo, con un certo crescendo, appare soprattutto nella terza parabola, dove c’è una riabilitazione completa, c’è un banchetto solenne, si ammazza il vitello grasso, quello preparato per le grandi occasioni, che sarebbero venute, forse, per la prossima Pasqua; invece no: subito si tirano fuori le cose più belle, si fa musica. Quindi siamo proprio di fronte all’insistenza di Gesù che ci dice: “Ma voi non sapete quanto Dio si rallegra di voi”. È quanto ci ricorda la frase di Madre Speranza: “Li segue, li cerca, con amore instancabile, come se non potesse essere felice senza di loro”. Noi dovremmo nella riflessione gustare questa realtà di Dio, che è il Dio che in questo momento ci tiene presso di sé e che sta cercando instancabilmente quella parte di noi che ancora non è illuminata dalla sua verità, che ancora resiste in qualche maniera alla sua azione riabilitante; perché questa accoglienza, è chiaro nella terza parabola, non è soltanto un’accoglienza, allegra, gioiosa, ma è una vera riabilitazione: questo figlio rivestito dell’abito bello, dell’anello al dito, è rimesso al centro della festa, costituito re della giornata. Come contrappunto di questa accoglienza, possiamo meditare anche la figura di chi non sa accogliere: all’inizio della parabola ci sono i farisei e gli scribi che non capiscono questo atteggiamento “dispersivo” del Signore, che perde il tempo con persone poco interessanti; e, alla fine, vi è l’atteggiamento del figlio maggiore, che è sconvolto interiormente da questo turbare l’ordine delle cose: perché Dio, perché questo padre, non si preoccupa di più del buon andamento dell’azienda, delle cose, invece di preoccuparsi di una persona che ha disperso i suoi averi, e che domani li potrebbe disperdere di nuovo? Poiché in definitiva non si sa bene con quali intenzioni sia tornato, e in fondo non è stato ancora messo alla prova ed è un rischio grosso l’accoglierlo in casa in quella maniera, perché non sperimentarlo prima, perché riabilitarlo subito? Tutti pensieri che ci vengono in mente e che mostrano chi siamo noi e come ci è difficile capire la straordinaria ricchezza della potenza, della

misericordia, della carità di Dio verso di noi; la sua capacità di darci fiducia, di riabilitarci, di metterci in mano, quasi inconsciamente, le sue cose più preziose, senza prima averci sottoposto a uno scrutinio rigoroso. Infine possiamo ancora riflettere su chi è oggetto di questa attenzione, di questa ricerca; l’abbiamo già anticipato in parte: sono pubblicani, gente con cui non vale la pena di perdere tempo, perché sono – per l’opinione corrente – già ormai fissati nella loro situazione, non ne possono uscire fuori, non sono persone da cui ci si può aspettare molto, perché il loro mestiere li costringe a un certo modo di fare; dunque peccatori, peccatori pubblici, cioè persone fissate anch’esse nella loro maniera di agire. Noi vediamo riprodursi questo atteggiamento tutte le volte che critichiamo gli altri o siamo criticati noi stessi, quando diciamo o ci si dice che è una perdita di tempo interessarsi di persone, di situazioni, di cui non vale la pena occuparsi. Perché “raddrizzare le gambe ai cani”? Perché occuparsi di certe situazioni? Gesù la pensa diversamente: non soltanto è importante perdere tempo con essi, ma anche con uno solo di essi. E allora nella preghiera ringraziamo il Signore che è disposto a perdere tempo con noi, con uno solo di noi, e che lo ha di fatto già perso con noi: infatti se siamo qui è perché il Signore ci ha dato spazio e ci dà spazio. E non dimentichiamoci che Dio si occupa di tutti, anche delle persone che a noi non interessano, forse non peccatori o pubblicani, ma persone a cui non diamo importanza, perché non ci sembrano interessanti per il disegno della Chiesa, per il suo avvenire; ma Gesù è disposto a interessarsi di ciascuno di essi. Non so se posso raccontare una semplice esperienza che mi ha colpito nel giorno di sant’Ignazio: il 31 luglio di quest’anno sono stato alla Chiesa del Gesù per la celebrazione che si tiene appunto in quella occasione e ho dovuto distribuire moltissime comunioni; voi capite che a un certo punto ci si stanca, soprattutto a ripetere sempre la stessa frase, e allora mi è venuta questa riflessione mentre guardavo queste persone una per una. Alcune – diciamo così – sono simpatiche, sono attraenti, altre meno, come quelle persone che frequentano le chiese, che fan perdere tempo ai confessori, di fronte alle quali la prima sensazione è di una certa ripugnanza, di un certo giudizio forse negativo: persone il cui aspetto fisico, il cui modo di presentarsi non interessa; e allora mi è venuto da pensare in quel momento: “Ecco che il Signore si sta occupando adesso di questa persona soltanto; paradossalmente io direi: io in quella bocca non c’entrerei, cioè la mia prima reazione sarebbe

negativa; invece il Signore queste persone le prende una per una come se esistesse essa sola; e il suo corpo, morto e risorto, è dato per questa persona”. Allora ho visto come può essere interessante, bello, dare la comunione a molti, a centinaia, contemplando questa dedizione del Signore a ciascuno, senza paura di perdere tempo. Anche noi siamo uno di questi: il Signore si occupa benevolmente di me, mi sta chiamando. Rimane l’ultimo pensiero: come l’insegnamento di queste parabole si inquadra nell’itinerario di Teofilo. Sono partito dal cap. 15 perché appunto questo capitolo rappresenta una delle componenti fondamentali del messaggio di Luca a Teofilo, quello espresso in Lc 5,31-32, là dove Gesù, rispondendo a coloro che lo rimproverano perché mangia coi peccatori dopo la chiamata di Levi, dice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Tutto il messaggio lucano suppone questa chiamata dei peccatori alla penitenza; e in tanto può essere inteso questo messaggio in quanto noi ci sentiamo chiamati da Gesù alla penitenza. Questa chiamata alla penitenza è la stessa con la quale viene proposto il programma per ciò che segue la resurrezione di Gesù: “Così sta scritto: […] e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (24,47). E Paolo alla fine della sua vita, così come Luca ce la descrive, nel discorso di fronte ad Agrippa, riassume ciò che egli ha fatto con le stesse parole: “Prima a quelli di Damasco, poi a quelli di Gerusalemme e in tutta la regione della Giudea e infine ai pagani, predicavo di convertirsi e di rivolgersi a Dio, compiendo opere di vera conversione” (At 26,20). Dunque, fondamentale per l’itinerario di Teofilo è il capire la centralità del messaggio di conversione e di penitenza: abbiamo visto che esso è parte del kérygma. Ora, per farlo proprio, è necessario capire che questa conversione, questa penitenza, parte dall’iniziativa di Dio che ci cerca, dalla riabilitazione divina di me; non è quindi tanto un nostro cammino di penitenza, piuttosto essa ha origine dall’accettazione del fatto che Dio ci sta cercando. Lasciamoci dunque cercare, lasciamoci liberare, lasciamoci riabilitare da Dio. E questa conclusione potrebbe essere appunto il colloquio finale di questa meditazione, che potremo forse esprimere ora brevemente, dopo un momento di silenzio, con una preghiera. Noi ti ringraziamo, o Signore, perché nel tuo Vangelo ti manifesti a noi

come misericordia che ci cerca, cerca tutti gli uomini, anche quelli di cui noi siamo preoccupati e cerchiamo con affanno. Tu li stai cercando ancora più di noi, molto più di noi, sia per mezzo nostro, sia per mezzo di tutta la tua Provvidenza a noi sconosciuta ma operante. Ti ringraziamo, Padre, perché stai cercando e cerchi ciascuno di noi; ci vuoi continuamente rifare, riabilitare, reintegrare in una coscienza pura, in una autenticità limpida di Vangelo, in una serenità di accettazione del tuo disegno, in una fraternità trasparente nelle nostre comunità, in un superamento di tutte le nostre invidie, egoismi, meschinità, amarezze. Fa’, o Signore, che ci lasciamo cercare da te fin nel fondo di noi stessi, che non facciamo resistenza alla ricerca, che ci apriamo alla lampada con la quale tu scruti le fessure del nostro pavimento per ritrovare quel qualcosa di noi che ancora deve essere valorizzato. Fa’, o Padre, che ci lasciamo valorizzare dalla ricerca del tuo Figlio, che non gli opponiamo una concezione meschina e angusta di noi stessi, ma ci lasciamo reintegrare nella nostra pienezza, quella che Tu, nel tuo disegno divino, hai preordinato per ciascuno di noi, in Cristo Gesù nostro Signore. Amen.

IV. LA VIA DELLA PENITENZA Chiediamo al Signore di strappare in noi un grido di ammirazione per la sua misericordia. Vedi, Signore, forse per parecchi di noi spesso queste meditazioni sulla via della penitenza sono faticose; ci sembrano poco autentiche, ci sembra difficile trovare il nostro posto in esse. Donaci, o Signore, la pienezza del tuo Spirito, perché le viviamo in semplicità e autenticità, e i sentimenti che sgorgano in noi, come questo grido di ammirazione, siano sentimenti veri, infusi da te, non sforzati dalla nostra psicologia. Siano dono della tua grazia. Ti chiediamo insistentemente, o Padre, questo dono per Cristo tuo Figlio nostro Signore. Amen. Riflettiamo dunque insieme su alcuni punti che si riferiscono alla via della penitenza. Ce la poniamo davanti come sentimento che il Signore deve suscitare in noi e non come qualcosa cui pretendiamo di arrivare con il nostro

sforzo artificiale: abbandoniamoci quindi alla misericordia del Signore, che ci cerca e vuole suscitare in noi lo spirito di penitenza. Ho pensato a tre episodi di Luca, che nella sua intenzione servono per far percorrere a Teofilo questa via della penitenza, per insegnargli cosa è questa remissione dei peccati. Il primo episodio è la chiamata dei primi discepoli (5,1-11), il secondo la guarigione del paralitico (5,17-26) e il terzo episodio è la donna peccatrice perdonata (7,36-50). Meditiamo dunque su questi tre episodi, tenendo presente la difficoltà per noi di percorrere la via penitenziale, soprattutto qui in comune; è difficile a me proporla a voi per l’estrema diversità di esperienze, cui già accennavo all’inizio: ciascuno infatti è in un particolare punto nella storia della propria vita e quindi il momento penitenziale è diversissimo per ognuno di noi. È difficile, soprattutto, per la delicatezza dei sentimenti che vanno espressi, e non compromessi, o addirittura artificialmente costruiti; forse abbiamo un po’ tutti provato questa difficoltà. Del resto, leggendo le note spirituali di san Giovanni Berchmans12, si vede come anche lui, nella prima settimana, si trovava a disagio; può darsi che, se fosse vissuto più a lungo, trent’anni dopo, avrebbe fatto una esperienza più profonda di questa prima settimana; o forse aveva già raggiunto le più alte vette della contemplazione e non sentiva più questi temi. Quanto a noi, mi sembra che possiamo crescere nell’esperienza della via penitenziale, e anzi mi pare che ciò sia assolutamente necessario, se vogliamo capire il Vangelo. Ne troviamo conferma in 7,35. Si tratta di una parabola di Gesù che precede immediatamente l’episodio della donna perdonata: “Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli”. Questa parola, letta nel contesto in cui Gesù, amico dei peccatori, è accusato come tale, ha questo senso: chi sono i figli della Sapienza di Dio, cioè coloro che riconoscono la sapienza del Vangelo, che rendono gloria a Dio nella Verità? Coloro che si riconoscono peccatori, che accettano il giudizio di Dio che il Vangelo dà su di loro, e che si sentono giustificati gratuitamente dalla grazia. È vero che questa giustificazione avviene al momento del nostro battesimo, tuttavia noi continuiamo a rivivere l’esperienza battesimale in quanto diventiamo gradualmente figli di Dio, e quindi abbandoniamo gradualmente le opere delle tenebre, e viviamo giorno per giorno questa accettazione di Dio che continuamente ci riabilita. Ecco quindi l’importanza di metterci in questo

clima penitenziale e di viverci anche durante tutto l’anno, pur se, evidentemente, con accentuazioni diverse: dobbiamo essere figli della sapienza, capaci di dare giustizia a Dio, e quindi ci mettiamo fra i peccatori di cui Gesù è amico, non per un camuffamento di noi stessi, facendoci diversi da ciò che siamo, ma nel riconoscimento della nostra reale peccaminosità, della nostra tendenza continua a deviare. È per questo che soltanto la luce del Vangelo ci può porre nella giusta situazione davanti a Dio per quanto riguarda questa via della penitenza. Prendo dunque i tre episodi e ne do un breve commento, limitandomi a sottolineare quegli aspetti che più si riferiscono alla nostra meditazione. Come intitolare il primo episodio, per quanto ci riguarda? Propongo questo titolo, un po’ lungo, ma che vorrebbe essere esplicativo del punto che ci interessa: “La potenza di Gesù fa risaltare la peccaminosità di Pietro e lo mette nella giusta posizione per diventare apostolo”. Leggiamo brevemente l’episodio (cfr. 5,1-11): la folla preme su Gesù; gli saltano addosso e quasi lo cacciano in acqua, perché tutti vogliono avvicinarsi a lui; Gesù sta in piedi presso il lago; spinto come è dalla folla, si guarda intorno e ha un’idea di come ovviare a questa situazione penosa dell’essere schiacciato dalla gente, di non potere neanche parlare con agio; vede due barconi da pesca che stanno non distanti attraccati presso la riva; i loro padroni, i pescatori, sono scesi e stanno pulendo le reti sulla spiaggia; Gesù allora sale su una di queste barche, fa cenno a Simone di portare la barca in mezzo al lago e di calare le reti; Simone gli risponde che già hanno lavorato per tutta la notte nel momento propizio della pesca e non hanno preso niente, ma… “sulla tua parola getterò le reti”. Contempliamo nella nostra meditazione questa parola di Simone: è un atto di fiducia motivato, è vero – e Luca lo fa capire – dalla fama di Gesù, ma forse non ancora pienamente chiaro; se Simone fosse stato un calcolatore e avesse detto: “Voglio prima avere tutte le ragioni ideologiche e filosofiche per fidarmi di quest’uomo”, forse non avrebbe fatto questo gesto, e avrebbe perduto la sua vita, perché è questo momento di fiducia che decide tutto il resto, questo primo buttarsi, rischiando il ridicolo. Perché, in fondo, era un po’ ridicola quell’azione del dire alla gente “torniamo in mare” e quindi di esporsi di fronte agli altri come uno che aveva creduto a un ciarlatano, se non ne fosse uscito niente fuori; una favola che si sarebbe raccontata la sera nelle osterie, ridendo di questo strano pescatore che aveva creduto di fare pesca in

pieno giorno, ed era tornato con le reti vuote. Quindi Simone è al momento decisivo: o ascoltare l’impulso interno e buttarsi, sfidando il ridicolo e obbligando anche gli altri a farlo, oppure essere prudente e rifiutarsi, scusandosi con un “siamo stanchi, andremo questa sera”, e quindi rientrare nella normalità. La normalità che lo avrebbe perduto, perché la sua vita sarebbe stata diversa. Contempliamo davanti al Signore questa fiducia di Pietro, chiedendo che essa ci sia infusa là, soprattutto, dove dobbiamo affrontare una situazione un po’ nuova, che ci può esporre al fiasco, alla critica, quando dobbiamo uscire in campo aperto, fare una cosa un po’ diversa, che se non va bene ci lascerà poi un po’ bruciati. Simone, dunque, ha fiducia nella parola e getta le reti, che subito si riempiono di una grande moltitudine di pesci tanto da spezzarsi. E allora comincia l’entusiasmo e l’esaltazione: devono fare segni con le braccia, gridare, agitando le mani a quelli rimasti sulla riva, perché vengano ad aiutare con l’altra barca; vengono e riempiono l’una e l’altra, tanto che stanno per affondare. Simon Pietro potrebbe essere al colmo della sua esaltazione e dire: “Io sì che ho capito, sono io l’unico che ha capito che era il Messia; io sono stato all’altezza della situazione, la mia fiducia mi ha salvato, mi ha fatto grande”; invece ecco che quest’uomo, che ha scelto la via della fiducia, viene preso dalla verità di Dio e, di fronte a ciò che sta succedendo, esce in quel grido di ammirazione, analogo a quello di cui parla sant’Ignazio: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. La potenza di Gesù gli ha fatto sentire la sua peccaminosità. Dice: sono “un peccatore”, non si riferisce espressamente all’uno o all’altro peccato, ma piuttosto alla sua condizione di peccatore, che egli riconosce; la riconosce non perché ha fatto un esame di coscienza minuzioso, ma perché è stato posto di fronte a una straordinaria manifestazione della misericordia di Dio; per gli altri pescatori questa grande pesca è il colmo delle speranze, una pesca da mangiarsi tutto il pesce da vendere fuori, da ricavarci denaro per lungo tempo, per fare una grande festa per tutti, ma di fronte a questo traboccare della bontà del Signore che si manifesta in Gesù, Pietro sente la propria meschinità, la propria condizione peccaminosa. Forse sente che, immediatamente prima, per poco non rifiutava quell’atto di fiducia, per poco non si tirava indietro, perché la sua meschinità, il suo senso del calcolo e della stanchezza, la sua paura del ridicolo stavano già per

afferrarlo; e di fronte alla straordinaria e umanissima manifestazione di gratuità di Gesù egli si sente per quello che è. Possiamo riflettere un momento nella nostra meditazione, mettendoci vicino a Pietro, facendoci istruire da lui: che cosa può strapparci il giusto grido di ammirazione penitenziale? Potrei precisarlo in due modi: ciò che Gesù ha fatto per me, e quindi la considerazione della misericordia di Dio verso di me (la “contemplatio ad amorem”13 di quanto Dio ha fatto per me) e ciò che ha intenzione di fare di me e con me; e credo che, per allargare questo secondo pensiero, dobbiamo pensare che ciò che Dio intende fare di me non riguarda soltanto me, ma è per la costruzione della sua Chiesa. Ed eccomi dunque colto nella mia consapevolezza, nella mia meschinità, e non soltanto nel mio rapporto individuale (ciò che lui ha fatto per me e ciò che io non ho fatto per lui), ma anche in tutte le mie responsabilità comunitarie (ciò che Gesù voleva fare attraverso di me per una comunità di comprensione, di carità e di fratellanza e ciò che invece nelle mie responsabilità verso gli altri è mancato di carità, di dedizione, di comprensione, e ha impedito la costruzione, attraverso i frutti dello Spirito, del corpo del Signore). Penso che, oltre che nel rapporto personale con Gesù, nelle nostre responsabilità comunitarie possiamo con più verità fare questa esclamazione di ammirazione: “Ma guarda quanto Dio voleva fare e quanto poco io, noi – possiamo qui giungere a una penitenza comune – quanto poco noi abbiamo fatto nelle nostre comunità, nella nostra vita insieme”. Credo quindi che dobbiamo approfondire questa nostra meschinità, carenza, inadempienza, personale e comunitaria, in una sfera molto vasta, superando quelli che sono, appunto, i peccati formali, definiti dalla morale, e metterci di fronte alle responsabilità reali, agli atteggiamenti, a tutte le forme di carenza di cui forse non siamo hic et nunc colpevoli per un atto preciso, ma che costituiscono la nostra peccaminosità, la nostra forza di devianza continua. Qual è la conseguenza immediata di questa esclamazione ammirativa, che viene appunto definita nel v. 9 come “grande stupore”, un’esclamazione di ammirazione che prende non soltanto Pietro, ma tutti quelli che sono con lui? È che Pietro, così duramente, così emotivamente costituito nella sua verità, viene ora da Cristo, in questa sua povertà, accettato, riabilitato e abilitato alla missione. È infatti Pietro, che ha esclamato la sua indegnità, che si sente dire: “non temere”; e questo “non temere” mi sembra che si possa spiegare non nel

senso di un “ma no, non è vero, tu hai tante qualità”, bensì nel senso di un “non temere, perché io sono con te e sarai costituito, per bontà e misericordia divina, in quella funzione nella quale io ora ti ho costituito figurativamente, facendoti capace di pescare una immensa quantità di pesci; cioè quella mia potenza di fronte alla quale tu ti sei umiliato poco fa, è quella stessa che ora, in un ambito più grande, ancora più misericordiosamente, è capace di agire e di operare cose incredibili”. E possiamo notare nel testo al v. 10 quel “da ora”, perché questa “ora”, questo “nunc”, indica quel momento escatologico come realizzato nel presente in cui la potenza di Dio si dimostra. Ora che ha trovato un uomo preparato, ora che Pietro ha capito qualcosa di Dio e di sé, si scatena su di lui la potenza del Regno ed egli diventa l’uomo del regno di Dio. Qualche indicazione ora per la riflessione, sulla stessa linea ma approfondendo alcuni altri aspetti, sull’altro episodio del cap. 5, la guarigione del paralitico (vv. 17-26). Questo episodio è utile per una meditazione penitenziale, perché qui esplicitamente Gesù parla di un perdono dei peccati. Potremo quindi intitolare l’episodio: “Gesù perdona e risana”. Consideriamo soltanto qualche momento caratteristico dell’episodio partendo dal v. 16, dove, in contrasto con la grande quantità di gente che veniva da Gesù per farsi guarire, si dice che Gesù stava in disparte, in luoghi solitari, a pregare. Quindi Gesù di per sé non amava troppo questa attività fra la gente e allora si ritirava; è soltanto la parola di misericordia, l’occasione misericordiosa, che lo spinge. In questo brano, inoltre, noi vediamo anche la successione con cui Gesù compie la sua attività misericordiosa e comprendiamo ciò che gli sta più a cuore in questa attività; infatti Gesù si presenta in questa scena non come colui che propone immediatamente la guarigione, ma come colui che, con nostra sorpresa, propone prima di tutto il perdono. Notiamo il v. 17: Gesù stava insegnando e con lui c’erano farisei e dottori della legge, venuti da tutti i villaggi della Galilea, della Giudea e anche da Gerusalemme. Quindi Gesù è in una situazione difficile, perché è molto osservato ed è dunque già in pericolo: ciò che sta per compiere non gli costerà soltanto un atto di bontà, ma da questo momento Gesù comincia a segnare l’accettazione della sua condanna; infatti le parole che Gesù dirà in pubblico, e il perdono

che egli darà, gli costeranno molto, perché lo esporranno a quella critica che si concluderà soltanto con la sua scomparsa, con la sua soppressione. Notiamo quello che Gesù loda nelle persone che gli presentano il paralitico, cioè la fede: “Gesù, veduta la loro fede…”; come queste persone hanno mostrato la loro fede? L’hanno mostrata con l’ingegnosità, aggirando l’ostacolo della gente accalcata presso la porta, e l’hanno mostrata anche rischiando il ridicolo, perché è chiaro che, mettendosi così allo scoperto in una situazione del genere, si esponevano alla vergogna nel caso il paralitico non fosse stato guarito. Dunque è gente che ha buttato dietro le spalle le opinioni, i commenti, i frizzi, le critiche e si è data a una operazione che o riesce, e allora hanno ottenuto l’intento, oppure non riesce, e allora ritorneranno scornati e forse con il paralitico ancora più adirato e amareggiato per tutta la vita. Ecco dunque la situazione di fede, di rischio in cui questi uomini si sono posti con quel poco che sapevano di Gesù, buttandosi dietro le spalle tutte le remore; Gesù risponde col dono più grande: “Uomo, i tuoi peccati ti sono rimessi”. Noi sappiamo che questo dono è il più grande nell’ambito della catechesi lucana, perché è il frutto della morte e risurrezione di Cristo, quindi il punto terminale del kérygma; ma per queste persone, la cosa non può essere così chiara e quindi possiamo immaginare in loro un momento di delusione, come anche nel paralitico stesso. E allora Gesù per far capire cos’è questo dono, rispondendo alla sollecitazione di chi gli sta intorno, e che prende occasione da quella parola per accusarlo e per contestarlo, fa un paragone tra le due guarigioni: “Che cos’è più facile, dire: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina?” Gesù fa capire qui, e la predica ora è anche per noi, che rimettere i peccati è il dono più grande e che l’altro è una conseguenza e una manifestazione di esso; ci mette così di fronte immediatamente alla nostra responsabilità di ministri della penitenza: è più facile la remissione dei peccati, cioè sollevare un uomo dal peso delle proprie colpe, che guarirlo nel corpo? Ecco perché siamo chiamati i medici delle anime e troviamo – quando veramente ci troviamo di fronte alla malattia dello spirito, alla pesantezza dell’uomo – com’è difficile e insieme com’è misericordiosa la guarigione dalla quale tutto il resto dipende, e cioè un nuovo modo di vedere la vita e le situazioni. Possiamo allora chiedere, in questo punto della meditazione, che il Signore compia anche per noi la guarigione più difficile: che egli non curi

tanto le nostre limitazioni, ma ci curi il cuore, cioè ci risani radicalmente dall’interno. “Compi, o Signore, l’opera più difficile; non darmi quelle cose che forse desidero, l’intelligenza, la capacità di riuscire, di fare colpo sugli altri; guarisci invece il mio cuore dall’interno, perché questa è la cosa che maggiormente desidero, questo è il dono veramente tuo”. Chiediamo questo dono più difficile anche per gli altri e mettiamoci di fronte a noi stessi e agli altri nella coscienza della nostra impossibilità: chi può rimettere i peccati se non Dio? Chi può sollevare un uomo dal peso della sua peccaminosità, frigidità, tristezza, avidità, invidia, inimicizia, gelosia? Chi può farlo se non Dio? Noi siamo soltanto suoi ministri di riconciliazione, ma se non interviene il dono dello Spirito, noi ci affatichiamo invano; noi possiamo correre attorno a una persona e lusingarla perché diventandoci amica eviti certi comportamenti, superi certe piccole crisi: ma chi può risanare dall’interno, se non lo Spirito? A noi spetta soltanto divenire testimoni di questi miracoli, del risanamento dei cuori. Terzo episodio (7,36-50): la peccatrice in casa di Simone; potremmo porre come titolo indicativo degli elementi che intendo sottolineare il seguente: “Gesù ribalta una situazione e riabilita una persona”. Notiamo qui un’analogia con ciò che abbiamo già visto: questa donna, entrando in casa e facendo ciò che fa, rischia il ridicolo, anzi lo accetta, sfiora il cattivo gusto, gioca in margine all’ambiguità e noi ci saremmo sentiti a disagio al posto di Gesù, guardati male da Simone, non sapendo se tirare indietro o avanti i piedi di fronte a questa donna; che fare? È una di quelle situazioni un po’ imbarazzanti, nelle quali non si vuole dispiacere alla persona mandandola via, ma non si vuole neppure dispiacere a chi ci guarda con disagio. Ma in questa situazione imbarazzante Gesù, l’imbarazzato, rovescia i ruoli e mette in imbarazzo Simone e riabilita la donna: questa donna, che era al limite dell’ambiguità, diventa figlia della speranza, quella che sa rendere gloria a Dio che l’ha perdonata; Simone, che era il simbolo dell’integrità e della correttezza, diventa un ospite meschino, diventa un anfitrione avaro. Gesù ha rovesciato i ruoli dicendo semplicemente la verità a ciascuno, facendo semplicemente risaltare le evidenze che nessuno aveva il coraggio di riconoscere a occhi aperti. Se questa donna ama molto, è perché le è molto perdonato; è quindi entrata nella conoscenza dei disegni di Dio, si è aperta alla vera conoscenza di Dio che giustifica. Simone invece è ancora impigliato nella giustificazione di sé, nel compiere un gesto amichevole verso Gesù, ma insieme attento a

non sbilanciarsi eccessivamente, per non essere criticato come colui che ha accolto con troppo entusiasmo un maestro discusso. Chiediamo al Signore che di fronte a questa sua azione potente ci faccia conoscere quanto in noi c’è di Simone, quanto poco della generosità perdonata di questa donna, e domandiamoci infine in che maniera questi episodi entrano nell’ambito spirituale di Teofilo. Lo possiamo rilevare riferendoci al v. 35 e ancora al v. 29 per quanto riguarda Giovanni il Battista: “Ma alla sapienza è stata resa giustizia da tutti i suoi figli” e “Tutto il popolo che lo ha ascoltato, e anche i pubblicani, hanno riconosciuto la giustizia di Dio” e cioè tutti coloro che si sono sentiti semplici e peccatori. Teofilo impara quindi a conoscere che cos’è questa conversione lucana, che è il punto finale del kérygma: non è semplicemente un benigno regolamento di conti con cui Dio cancella un documento di debito, ma è un nuovo modo di rapportarsi a Dio, a sé, agli altri, e di glorificare la misericordia di Dio, un nuovo modo di verificarsi nella propria tendenza al negativo; è insieme un lasciarsi valorizzare da Dio, proprio perché ci siamo messi di fronte a lui nella verità e da qui deriva un nuovo modo di rapportarsi agli altri con libertà, con autenticità, con una capacità di conquista come in Pietro, con una capacità di proclamazione coraggiosa della parusia come nella donna, con una capacità di camminare, di muoversi speditamente, come nel paralitico. Ecco la penitenza per la remissione dei peccati resa possibile dalla potenza dello Spirito. È lo Spirito donato da Cristo che ci riabilita, ci pone nella relazione giusta di fronte a Dio, a noi stessi, agli altri, alla comunità, alla Chiesa, al gruppo; si tratta quindi di un puro dono di Dio che noi riconosciamo soltanto dalla sua misericordia e bontà. E da parte nostra con che cosa sollecitiamo Dio a prepararci a questo dono? Con la fede, una fede che giunga a rischiare qualcosa, a rischiare persino il dono a lui della nostra peccaminosità.

V. SULLA VIA PENITENZIALE Padre nostro che stai nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Dio

Padre nostro, tu hai voluto conservare Maria nostra madre senza peccato, dona a noi di avvicinarci a lei attraverso la purificazione del cuore portata avanti coraggiosamente nella verità. Te lo chiediamo Padre, per Cristo nostro Signore. Amen. Riprendiamo una pagina degli Esercizi sulla preghiera: Il primo colloquio con la Madonna, affinché mi ottenga grazia dal suo Figlio e Signore per tre cose: la prima, perché io senta profonda cognizione dei miei peccati e disgusto per gli stessi. La seconda, perché senta il disordine delle mie attività in modo tale che, detestandolo, mi corregga e mi ordini. La terza, chiedere la conoscenza del mondo perché, detestandolo, allontani le cose mondane e vane. Dopo di ciò, un’Ave Maria. Il secondo, fare altrettanto con il Figlio affinché me lo ottenga dal Padre. Dopo di ciò, l’Anima Christi. Il terzo, altrettanto con il Padre perché lo stesso eterno Signore me lo conceda. Dopo un Padre Nostro [63].

Questa insistenza di sant’Ignazio, che ci ricorda la preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi, quando ripeteva sempre la stessa domanda, mi pare che ci inviti a insistere ancora un poco sulle meditazioni di purificazione. Ero incerto se proporre ancora una meditazione su questo tema, perché, certamente, per alcuni può essere un po’ pesante o apparire un po’ scontato; poi ho riflettuto che sant’Ignazio si esaminava molto anche nella fase più avanzata della sua vita mistica; e se si esaminava, vuol dire che trovava qualcosa di serio su cui esaminarsi: non era un gioco. E perciò anche noi siamo invitati a questo esame che non è un gioco, ma è un porsi di fronte alle nostre vere responsabilità. Sant’Ignazio, inoltre, come sapete, è libero da ogni presunta velleità, e una delle sue caratteristiche più rigide è non tanto la meditazione, quanto l’esame di quali sono i punti fondamentali della giornata, quelli che risaltano chiaramente. Quindi c’è qualche cosa che non va, quando i nostri esami ci sembrano superflui, quando ci pare che siano una perdita di tempo, una cosa che si fa pro forma: vuol dire che forse abbiamo perso qualcosa dell’intuizione di sant’Ignazio, sul modo con cui dobbiamo regolarci davanti a Dio. Un’altra considerazione, che mi spinge a invitarvi ad approfondire questo tema della via penitenziale, mi è venuta pensando alla preghiera rivolta a Gesù e così diffusa nel monachesimo orientale. Essa dice: “Gesù, Signore, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Questa preghiera viene ripetuta giorno e notte, decine di migliaia di volte dai monaci dell’Oriente. Ricordo di

aver conosciuto sul monte Athos un monaco eremita, padre spirituale di una grande comunità, che vive sulla montagna e ripete giorno e notte questa preghiera. Ora io mi sono chiesto: “Come può quest’uomo ripeterla se essa non ha una risonanza ben precisa nel suo cuore; un uomo dunque che nonostante la sua limpidezza, la sua chiarezza interiore, non si crede molto libero; se vive quindi di questa preghiera, vuol dire che le dà un significato ben preciso”. Cerchiamo insieme, allora, questo significato, cosa vuol dire: “Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”. Mi rendo conto della difficoltà di proporre, a parole, suggerimenti specifici per la riflessione penitenziale, perché, come già dicevo ieri, il Signore ci conduce, in particolare su questo punto, per vie infinitamente diverse, a livelli diversissimi e forse neanche immediatamente paralleli: è difficile prevedere che cosa Dio può chiedere a ciascuno ed è molto facile, quindi, tracciare delle indicazioni in maniera falsa, applicando cioè alle parole elementi che non fanno parte della propria esperienza; e questo è sempre pericoloso perché è un assumere parole di altri, ma lo è tanto più qui, dove i sentimenti o sono precisi, veri, oppure sono indotti, artificiali. Allora si può creare in noi quel senso di “chi gioca” con la vita spirituale ed ecco quindi il rischio e la conseguente necessità di questa precisazione. Mi proporrei allora di indicare qualche via, o meglio vie diverse, che possano servire a ciascuno per riflettere su questo tema, sulla linea di una comprensione della frase di Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. Propongo quattro vie e in questa meditazione spiegherò brevemente le prime due. La prima la vorrei denominare “l’esperienza del timore di perdere” (l’esperienza della diffidenza che possiamo avere guardando in noi stessi, alla luce della lettura); la seconda, l’analisi dei movimenti del nostro cuore, di tutte le sue tendenze. La prima, la spiegherò alla luce di Eb 2,14-15; la seconda alla luce di Mc 7,27-23. La terza via, che per parecchi di noi è forse difficile, anzi addirittura tale che crea un moto di ripulsa, è la riflessione sulle “colpe collettive”, quelle di cui siamo corresponsabili; la quarta potrebbe essere la considerazione dell’ideale di comunità che siamo chiamati a realizzare. Per la terza mi riferirò brevemente ai documenti del Concilio. E infine, come conclusione, vorrei commentare brevemente un paragrafo del testo Vita religiosa dei Gesuiti con qualche indicazione sulla confessione, il sacramento della riconciliazione.

“L’esperienza del timore di perdere” pensavo, dunque, di legarla al testo di Eb 2,14-15: un testo che a me ha detto molto per lungo tempo e, proprio per questo, mi succede ora che non riesco più a riassumere tutti gli elementi che mi hanno colpito in esso. Prendiamo l’inizio della lettera agli Ebrei là dove l’autore sta per annunciare il suo tema fondamentale: Gesù è morto per noi suoi fratelli; si è fatto pienamente come ognuno di noi per liberarci. In fondo il tema che qui viene svolto ci è stato già ricordato così bene ieri nel sermone del beato Isacco, abate del monastero della Stella, che abbiamo letto nel Breviario14. Lo sposo tolse ciò che trovò di estraneo nella sposa, inchiodandolo alla croce, e portando sul legno i suoi peccati. Possiamo ora leggere i vv. 14-15 del cap. 2 della lettera agli Ebrei: “Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita”. Per dirvi cosa vedo in questo testo, che mi sembra uno dei testi fondamentali per capire la peccaminosità umana, ossia la fragilità dell’uomo di fronte a tutte quelle scelte che richiedono un atto di coraggio e di umiltà di cuore e non semplicemente un navigare nelle proprie acque già sicure, comincio dalle ultime parole: “per tutta la vita…” Si tratta di qualcosa che si inserisce in ogni momento dell’esistenza, che non abbandona mai l’uomo. Che cos’è questa cosa, che per tutta la vita compenetra sempre l’uomo? È la soggezione a schiavitù. Non dice propriamente “schiavi”, ma parla di una condizione di figlio che è assoggettato a schiavitù, una schiavitù perennemente incombente su di lui: è la schiavitù dovuta al timore della morte. Potremmo allora tradurre il testo in parole più comprensibili per noi, in questo modo: “La radice del peccato, e quindi della peccaminosità nostra è la paura di perdere, cioè la diffidenza e perciò l’incapacità a compiere azioni in cui c’è da esporre qualcosa e non vediamo chiaramente ciò che ne possiamo ricevere”. Ricordiamo la parola di Gesù: “Se amate soltanto quelli che vi amano non siete più dei pagani. Se salutate quelli che vi salutano… ecc.” (cfr. Mt 5,46-47): cioè se vi muovete nel campo dello scambio assicurato, siete nell’ambito del dare e ricevere con uguaglianza, ma non uscite mai allo scoperto, perché avete paura di perdere. Questa paura è tipicizzata con la morte che è la perdita assoluta, che è segno di tutte le perdite, di tutte le sconfitte, di tutti gli insuccessi, di tutti i fiaschi da cui noi rifuggiamo e per paura dei quali ci chiudiamo in un castello

di insicurezze e di egoismo. Così Pietro non è entusiasta di mettere fuori la barca e di esporsi a obbedire alla parola, perché appunto si potrebbe perdere senza ricevere niente. Credo che se riusciamo ad applicare questi pensieri alla nostra situazione, allora qui cogliamo un atteggiamento radicato in noi che in ultimo è la paura di dare la vita, ma quando ci si trova realmente nelle circostanze la paura ci attanaglia e ci soffoca; e allora capiamo veramente che siamo incapaci di dare davvero la vita. Potremmo forse, per chiarirci questo pensiero, riferirci all’esperienza di Abramo: Abramo, il grande padre nella fede, colui che vediamo come l’uomo che si è fidato di Dio. Lo ricordiamo nell’Eucaristia ogni giorno. Ora se noi leggiamo l’esperienza reale di questo padre nella fede, così come la Bibbia ce lo presenta, vediamo attraverso quali difficoltà, quali tentennamenti, andava avanti questa povera fede di Abramo. Cogliamo con questo esempio noi stessi, incapaci di guardare con occhio tranquillo il prezzo reale della nostra vita, quando non c’è una contro-partita immediata, e iniziamo a smaniare quando questa non è visibile. Vi posso invitare a rileggere l’inizio del cap. 12 della Genesi, dove Abramo sembra obbedire alle parole: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre”, e Abramo, preso dall’entusiasmo di questa parola, si muove; ma in quel momento non ha ancora vissuto l’esperienza di fede: segue solo l’entusiasmo. Ma noi vediamo, pochi versetti dopo, che Abramo, per paura della morte, non esita a sacrificare l’onore della moglie: “Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: Costei è sua moglie, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Dì dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva per riguardo a te” (Gen 12,12-13). Abramo si sforza dunque, con mezzi subdoli, di difendersi, e non viene per nulla in risalto, qui, la potenza del Signore che gli ha fatto fare un gesto così grande. Si pensa qualche volta a questo, quando si viene a contatto (e ne abbiamo forse anche noi esperienza diretta e indiretta) con dei missionari, che hanno lasciato tutto, che hanno fatto un sacrificio totale, che hanno lasciato la patria, e poi si trovano nella missione con problemi difficili, immediati, e si perdono in piccole miserie; allora si dice: “Ma come mai uno che ha fatto il sacrificio totale della vita, adesso si impunta su una meschinità?” Eccola la realtà nostra. Dunque Abramo, l’uomo della fede, sacrifica l’onore di sua moglie perché vuole salva la pelle, e recalcitra di fronte alla promessa di Dio. È

vergognoso il dialogo di Gn 15,2-3: “Rispose Abramo: Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco. Soggiunse Abramo: Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede”. Quindi il suo desiderio di sopravvivere è sempre lì, è legato alle cose che vede, che sperimenta intorno a sé; ancora, nel capitolo seguente egli si mostra scettico e ride (Gn 17,16-19). Cerca quindi delle uscite di sicurezza (Gn 16,2), ma Dio fa in modo che tutte queste sicurezze gli escano dalle mani. E vediamo come il sacrificio di Isacco, che è veramente il culmine, non è avvenuto a caso. Dio ormai è sicuro della sua fede; Abramo si tirava indietro e Dio continuava in ognuna di queste occasioni a verificarlo, a chiedergli la parola di fiducia, non si stancava di cercarlo: allora Abramo gradualmente perde la sua sfiducia, si conforta nelle sue insicurezze, impara a camminare liberamente. Ma quale cammino faticoso! Ora credo che in questo cammino faticoso di Abramo ognuno può forse leggere qualcosa di sé. È vero, siamo religiosi, abbiamo fatto il voto di castità, rinunciando alla famiglia, a farci una posizione nel mondo: ma poi quando l’insicurezza o il desiderio di vedere qualche affermazione, qualche risultato, qualche successo, ci riprendono (ed è normale che succeda così, perché siamo fatti così), il Signore ci guida misteriosamente, ci travolge, ci insegue – come dicevamo ieri – per educare la nostra fede, fino al momento in cui potremo dire il nostro sì di fronte alla morte. Se volete, un altro aspetto di commento a questa parola della lettera agli Ebrei è che ognuno di noi non sa esattamente quale sarà il suo comportamento di fronte alla morte: per esempio, nel caso di una malattia grave, sapremo accettarla con fiducia o ci ribelleremo? Non lo sappiamo e soltanto la fiducia in Dio ci potrà rassicurare; non abbiamo in noi la certezza di essere all’altezza delle situazioni gravi, difficili, di persecuzione, di raggiri, nelle quali possiamo cadere. E questo, non meditato astrattamente, ma ricercato nella nostra esperienza, ci permette di riconoscere come soltanto Gesù Cristo può farci uscire dalla diffidenza, dalla cautela naturale, per portarci alla fede, alla speranza. Fino a quando non raggiungiamo la pienezza della fede, non siamo veri ascoltatori della parola e del Vangelo: siamo gente che in parte l’ascolta e in parte cerca di assicurarsi, perché, in ogni caso, le cose non vadano troppo male, perché ci sia sempre un’uscita di sicurezza, ci sia una salvezza. Ora, questo cammino nella fede mi pare che duri tutta la vita e nel

momento in cui crediamo di avere raggiunto un alto grado di fede, ecco che un’improvvisa difficoltà, o tristezza, o amarezza, ci riporta quasi a zero, ci fa vedere come abbiamo pochissima fede e speranza. Tutte quelle cose che dicevamo agli altri, consolandoli, rafforzandoli, adesso non risuonano più in noi: le nostre parole sono ora come vuote. Ecco, comunque, una via attraverso la quale il Signore ci porta a riconoscerci e a dire: “Sono un peccatore, solo tu, la tua grazia mi sostengono; sotto le tue ali io mi rifugio, da te sono portato sul palmo della mano, con te io posso scavalcare un muro, con te non temo davanti a diecimila nemici”. Queste parole dei salmi esprimono la certezza che Dio ci pone in cuore; e non sono parole vuote che si possono dire in un momento di tranquillità, ma devono essere dette nella realtà di una situazione avversa, incresciosa, imprevista, drammatica, nella quale possiamo trovarci in ogni momento, a ogni angolo di strada, come, per fare un caso, un incidente di automobile che può cambiare tutta la nostra vita e metterci di fronte a scelte, esperienze, o situazioni totalmente impreviste. Un’altra via che propongo di seguire è quella che ho chiamato “l’analisi dei movimenti del cuore”; mi piacciono molto i versetti 21-23 del cap. 7 di Marco, che si trovano anche nel cap. 15 di Matteo. Si tratta di un elenco di peccati, probabilmente un catalogo catechistico che serviva nella comunità primitiva per educare alla vita morale. Matteo ha sette peccati, Marco ne mette dieci e, nella traduzione italiana, il testo suona così: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo”. Da dentro, cioè “dal cuore degli uomini infatti escono le intenzioni cattive” – notate come tutto è ricondotto alle intenzioni cattive – e tutto viene da qua: “Fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo”. Questo elenco, come dicevo, era importante per la comunità primitiva per elaborarci un’istruzione catecumenale, ed è simile a quello che sant’Ignazio dà nell’esame di coscienza generale. Potremmo fermarci su due cose: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le azioni cattive”. La prima reazione che abbiamo leggendo questo testo è il credere che queste sono le cose che escono dagli uomini cattivi; ma penso che il testo permetta un’interpretazione più vasta: è nel cuore dell’uomo, cioè nel mio cuore, che c’è la radice di queste cose e se

io oggi posso sentirmi diverso da un impudico, da un adultero, da un cupido, è perché la potenza divina mi ha privilegiato. Ce ne rendiamo conto tutte le volte che veniamo a contatto con certi ambienti: se anch’io mi fossi trovato in questi ambienti, non so come avrei potuto non divenire anch’io adultero, omicida, ladro, cupido, malvagio. In tutti c’è questa radice ed è solo cogliendola che capiamo il vero significato di “Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore”: abbi pietà di me, e fa in maniera che possa fare fronte a ogni situazione imprevista, renditi manifesto quando mi prende una forza che mi conduce a fare quel che non vorrei. Possiamo anche capire, allora, cosa significa diventare in qualche maniera solidali coi peccati del mondo, soffrire e, umiliandoci, intercedere per il peccato del mondo, col quale siamo misteriosamente collegati. Una seconda considerazione che si può fare su questo testo è esaminare le singole cose una per una, e forse ci troveremo dove a prima vista non penseremmo di trovarci. Vi consiglio di cominciare dal fondo di questa enumerazione e di vedere come ciascuna di queste realtà ci riguarda. L’ultima è la stoltezza; non è facile definire il significato preciso di ciascuna di queste parole: cos’è dunque questa stoltezza? Io vi proporrei di riferirvi a quel padrone stolto che troviamo in Lc 12,19-20, e che accumula l’abbondante raccolto nei suoi granai dicendo: “Poi dirò a me stesso: anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni: riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” Questa atrofia, questa stoltezza è l’atteggiamento di chi fa i conti solo su se stesso e viene inaspettatamente sorpreso da situazioni nuove. Quando ci appoggiamo solo su di noi, su quello che abbiamo, sulla nostra vita, e galleggiamo in certe situazioni, e ci sorprende, ci colpisce un cambiamento improvviso, una mutazione del quadro, ci rendiamo conto come manchi, in parte o tutta, la disponibilità al disegno di Dio; fa parte della nostra fragilità il fare sempre un quadro di sicurezze nostre, non basato sulla fede. A questa situazione si riferisce anche il penultimo atteggiamento della serie, la superbia; possiamo partire proprio dal cantico di Maria: “Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore”; esso ci fa pensare a coloro che si appoggiano molto su di sé, proprio perché nella vita religiosa hanno raggiunto una certa posizione, un certo modo di cavarsela, una certa serie di appoggi, di amicizie, e si sentono sicuri di queste cose; allora inconsciamente acquistano una certa aria di superiorità, di cui non si accorgono, di cui mai si

farà oggetto di confessione, ma che rende la personalità, appunto, superba, piena di sé, incapace di capire veramente gli altri, portata al giudizio tagliente, e presto incapace di adeguarsi a situazioni lontane. Ecco come riflettere su ciascuna di queste parole e come confrontarsi con esse, verificandone una o due, sempre in ordine di retrocessione. Pensiamo alla calunnia: quante calunnie ci sono in giro, quanti giudizi affrettati, maligni, anche sulle cose della fede, cose che non sono vere e che poi corrono per la comunità, per i diversi ambienti, diventando sempre più esagerate, sempre più maligne. Pensiamo all’“occhio cattivo”, con cui viene indicata l’invidia di cui troviamo esempio nella “parabola dei lavoratori della vigna” (Mt 20,15). Alla sera il padrone, dopo aver dato a tutti la stessa ricompensa, dice a chi si lamenta: “Oppure tu sei invidioso, perché io sono buono?”, cioè mi guardi male, con invidia, per il fatto che altri hanno ricevuto come te. Quest’invidia è molto facile e ci prende senza che ce ne accorgiamo; è abbastanza facile anche nella vita intellettuale, tra le persone dedite allo studio; ci si attacca a vicenda, e a volte si ha l’impressione che in questi attacchi ci sia un piacere di denigrare l’altro, di impedire che venga su; tutte cose di cui mai risuonano le grate dei confessionali, ma che fanno spesso parte della sostanza della vita: ed ecco come il Signore ci può invitare a riconoscere la nostra fragilità. Una terza via, a cui accenno soltanto, è la riflessione sulle colpe collettive; mi sembra che ci siano delle implicazioni precise di cui potremmo fare menzione in questo senso: prendo a esempio le colpe di noi cristiani, riconosciute di fronte ai fratelli separati dal Concilio. Il documento conciliare Nostra Aetate15 riconosce che la Chiesa, i cristiani non hanno abbastanza capito, compreso, amato, non sono stati immuni da pregiudizi, da modi di fare, che in qualche maniera hanno emarginato gli ebrei. Anche di fronte al problema dell’ateismo la Chiesa si è domandata se esso non può essere stato originato anche dalle colpe dei cristiani. Bisogna dire che riflettendo su queste cose leggiamo più chiaramente in noi stessi atteggiamenti, lacune, carenze che ancora contribuiscono di fatto a conservare situazioni di ingiustizia e siamo portati a riconoscere che c’è nella nostra coscienza una partecipazione alle colpe collettive che possiamo fin da ora rinnegare. Fermiamoci anche un momento a pensare alla nostra comunità, ossia a quell’insieme di persone che in qualche maniera sono legate a noi e di cui in

un certo senso siamo responsabili. Quale ideale di comunità ci propone la Scrittura, la Chiesa? In che cosa noi lo favoriamo, oppure col nostro comportamento lo diminuiamo, lo seppelliamo? Dopo ogni incontro con una persona ci dovremmo chiedere, come faceva sant’Ignazio, come abbiamo accolto quella persona, come abbiamo agito, come l’abbiamo ascoltata, come ci siamo preoccupati delle sue cose, come abbiamo contrastato in noi la tentazione di non voler sentire… Se lo facessimo, ci accorgeremmo di quanto siamo resistenti alla grazia che ci invita a costruire la fraternità, e insieme prenderemmo meglio coscienza che questa fraternità, questa comunità la costruisce Dio. È infatti soltanto la strapotenza della grazia di Dio che ci può rendere pienamente comunitari, compartecipanti nella fede; ma questo noi lo otteniamo solo se ci sentiamo deficienti, mancanti: può darsi che il fallimento di tante iniziative comunitarie, fondate su un’attuazione rigorosa delle leggi della psicologia, dell’analisi di gruppo, di varie forme di rapporto interpersonale, mostri che soltanto la fede ci può riunire; con l’uso, è chiaro, di tutti i mezzi psicologici, ma con la certezza che il salto per fare di noi “Chiesa” è soltanto la grazia di Dio che ce lo può far compiere. Ma questo non giunge senza un’analisi della nostra peccaminosità, cioè della nostra fragilità e incapacità a formare un’unità vera. Con le nostre forze possiamo formare comunità di scambio fondate sul do ut des, come i pagani, ma non abbiamo in noi la capacità di formare comunità in cui ci sia da perdere qualche cosa, come richiede l’essere comunità cristiana. E infine, per concludere, vorrei citare un passo di un documento interno della Compagnia di Gesù, che riguarda la pratica della via penitenziale: Abbiamo bisogno della grazia di una conversione continua verso l’amore del Padre delle misericordie per avanzare nel servizio di Dio con libertà e umiltà di cuore. Siamo dunque attivi nel ricorrere al sacramento della riconciliazione. Prendiamo parte anche volentieri alle celebrazioni penitenziali comunitarie e consacriamo le nostre forze a far regnare tra noi lo Spirito di riconciliazione16.

Questa mi pare sia la conclusione più opportuna di ciò che abbiamo detto e voglio, quindi, aggiungere una parola sul sacramento della riconciliazione. Intitolerei questa riflessione “Confessione e trasparenza comunitaria”. A tutti è noto che siamo in un momento di crisi della confessione – chiamandola così – “privata”. Ovunque nel mondo, ma soprattutto nei paesi occidentali la gente si confessa enormemente meno di venti anni fa o di dieci

anni fa: forse anche noi abbiamo sperimentato personalmente questa crisi della confessione. Rendiamoci conto che se prima eravamo molto regolari e ora molti di noi hanno trascurato la confessione individuale, lo hanno fatto per un motivo non del tutto invalido: si tratta di una certa alienazione che sembrava causata dalla confessione così com’era concepita: questo sussurrare due o tre cose (e poi sempre le stesse) e il constatare – ed era un elemento molto negativo – che queste cose non rappresentavano la nostra vita. Ci sono persone, o forse noi stessi, che sono fortemente criticate da altri perché non hanno la capacità di riconoscere i loro limiti e i loro egoismi, e che poi si confessano per la preghiera, per qualche pensiero cattivo; non riescono, cioè, a porre nella confessione, sotto il segno della croce di Cristo, questi loro grossi difetti, tentazioni, iniquità. Restava quindi un divario, tra la realtà dei fatti e la realtà penitenziale, che non veniva sufficientemente fuori: da qui il desiderio di autenticità che ha portato a lasciare questa confessione e a sostituirla con niente. Ma questo è un grave pericolo: altro è riconoscere che un mezzo può essere usato un po’ diversamente, altro è abbandonarlo e lasciarlo cadere nel nulla. È vero che si fa strada il senso della confessione comunitaria, soprattutto fra i giovani, e questo mi pare molto importante, anche se si trova ancora a uno stadio molto elementare, perché vi possiamo scorgere una sana manifestazione del fatto che la Chiesa non può vivere senza penitenza, non può stare senza il rito penitenziale, che messo via da una parte, ritorna dall’altra. Vorrei darvi un suggerimento che ho trovato utile per me e per gli altri, un esperimento di trasformazione della confessione individuale in un “colloquio penitenziale”. Cosa intendo con “colloquio penitenziale”? Intendo una confessione, ma trasformata secondo questa nuova esigenza in un colloquio più lungo e disteso, con una persona che rappresenta la Chiesa, con un sacerdote che mi parla, a nome della comunità, di riconciliazione; e questo fatto in un atteggiamento, in un’atmosfera di preghiera, che comprenda una lettura, che può essere tratta dal nuovo Ordo paenitentiae17, una preghiera comune su questa lettura e poi un’esposizione di ciò che debbo dire, intesa però in un senso un po’ più ampio della semplice accusa delle cose che la teologia morale permette di definire come peccati attuali e specifici. Iniziare, dunque, da quella che chiamerei in maniera duttile “confessio laudis”, per giungere poi alla “confessio vitae”: confessio laudis, e cioè cominciare la confessione (come sant’Ignazio ci insegna nell’Esame generale) con un ringraziamento a Dio, una lode per quelle cose che nella mia vita, in questi

giorni ultimi, in questo periodo dall’ultima confessione, mi hanno fatto toccare con mano la sua misericordia; lodare, ringraziare Dio per quelle cose in cui egli mi è venuto visibilmente incontro. E poi dalla confessio laudis posso passare alla confessio vitae, cioè alla manifestazione, anche in forma di preghiera, con testimone la Chiesa rappresentata nel sacerdote che ci accoglie e che ci aiuta, non solo dei peccati formali, ma anche di un qualcosa più generale che io definirei in questo modo: “Che cosa nella mia vita di questi ultimi giorni, o di queste ultime settimane, non mi piace davanti a Dio? Che cosa mi pesa, cosa vorrei che non ci fosse? E quindi, quali sono quelle cose per cui invoco la grazia di Dio per essere liberato, alleggerito, purificato?” E qui allora vengono fuori non solo i peccati formali, ma anche gli atteggiamenti di fondo, l’occhio cattivo, l’invidia, l’incapacità a sopportare una situazione pesante che si ripete ogni giorno e che non sento la forza di accettare ecc. Da questa confessio vitae nasce la “intercessio”, cioè il fratello veramente mi aiuta e prega con me, a nome della Chiesa, perché il sangue di Cristo Gesù scenda su di me e mi purifichi con quella remissio peccatorum, che non è soltanto un condono con esito immediato, ma è anche una invocazione, perché il Signore infonda su di me lo Spirito Santo e questo Spirito mi faccia più pronto ad affrontare situazioni che non riesco ad accettare, a incontrare persone che mi è difficile incontrare e che quindi rifuggo, a pensare a problemi che finora avevo evitato per pigrizia, a fare un discorso franco con quella persona con cui finora mi sono comportato in modo ambiguo, o formale, e nella preghiera invoco su di me l’imposizione delle mani, come la nuova liturgia propone perché, attraverso questo gesto biblico prolungato, il Signore mi doni la grazia della fiducia e vinca la mia diffidenza. Naturalmente questo colloquio penitenziale dura più dei due o tre minuti della confessione settimanale e può durare anche un’ora, ma è un’ora ben spesa se veramente è un aiuto penitenziale, importante per me. È una maniera di confrontarmi con la Chiesa: è una maniera di essere confortato, aiutato, perdonato. Avevo detto rapporto “confessione - trasparenza comunitaria”, perché appunto mi sembra che tutti gli sforzi di vita comunitaria in qualche maniera riconducano a questa radice. Per convincercene basta che ci chiediamo: che cos’è che a un certo punto blocca le iniziative comunitarie? Si tratta di una “diffidenza reciproca”, per cui non ci affidiamo completamente all’altro per paura che l’altro possa manipolarci, approfittare di noi, e allora riveliamo alcune cose di noi e non

altre. Ora è soltanto in un atteggiamento di mutua disposizione alla penitenza, di trasparenza esercitata, che riusciamo gradualmente a fidarci di più, a fidarci nella fede, ad affidarci quindi agli altri, anche a rischio di venire bruciati: senza questo rischio non si forma la comunità, non possiamo essere noi stessi. Dunque credo che una comunità di fede, di “affidamento”, di fiducia di noi tutti in Dio e quindi di tutti fra di noi, ha la sua base in una forte esperienza penitenziale. Vi invito a concludere con una preghiera perché il Signore ci faccia comprendere il bisogno che abbiamo di lui: Dio, Padre Nostro, tu che per Gesù Cristo, tuo figlio morto e risorto, datore dello Spirito di vita che è in mezzo a noi, ci hai chiamato a formare questa comunità, effondi su di noi lo spirito di penitenza, lo spirito di riconciliazione e per mezzo di esso cresca la mutua fiducia e possiamo riconoscerci tuoi fratelli salvati dal sangue della tua morte e dalla tua resurrezione. Per Gesù Cristo nostro Signore. Amen.

VI. GESÙ È TENTATO E VINCE Leggiamo la Parola del Signore del cap. 4 del Vangelo di san Luca, versetti 1-12: Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo”. Il diavolo lo condusse in alto, e mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: “Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo”. Gesù gli rispose: “Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai”. Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi Angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano; e anche: Essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra”. Gesù gli rispose: “È stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo”.

E ora leggiamo anche dagli Esercizi spirituali di sant’Ignazio il 3° punto della contemplazione della Natività: Guardare e considerare ciò che fanno, per esempio camminare e lavorare affinché il Signore nascesse in povertà per poi morire in croce dopo tanti stenti di fame e di sete, di freddo e di caldo, di

ingiurie e di affronti; e tutto questo per me. Quindi, riflettendo, trarre qualche vantaggio spirituale [116].

Signore Gesù che per ciascuno di noi hai voluto entrare nella via della prova; che per ciascuno di noi hai lottato e hai vinto, vinci ora in ciascuno di noi la prova che sopportiamo per la Chiesa e per i fratelli. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. Vediamo dunque di riflettere insieme sull’inizio della vita pubblica di Gesù, che secondo Luca si apre con la tentazione. Si potrebbe dare come titolo a questa meditazione: “Gesù è tentato e vince”. Ci interesseremo soprattutto all’essere “tentato” di Gesù, anche perché su questo brano di Luca, essendo un brano ricchissimo di implicazioni simboliche, psicologiche, spirituali, e di riferimento all’Antico Testamento, si potrebbe meditare senza fine. A noi interessa mettere al centro la figura del Signore che inizia ad affrontare la lotta per noi. Vi è in questa meditazione una certa tematica comune con la meditazione ignaziana del Regno18; la meditazione del Regno è più esplicita nell’invito ad associarsi a Cristo, mentre in Luca questo invito è implicito nel cammino di Teofilo. Mi è sembrato, rileggendo Luca, in vista di questo ritiro, che questa scena abbia una grande importanza nella presentazione che egli fa di Gesù. Invito anche ognuno a riflettere su ciò che questo messaggio di Luca significa per la via del discepolo secondo sant’Ignazio. Vorrei riassumere i vari pensieri su questo racconto dell’inizio della vita pubblica di Gesù dando alcuni titoli e vedendolo: come inizio programmatico, come inizio salvifico e come inizio profetico. Questi titoli non esauriscono certo la ricchezza di questi passi ma servono almeno per dare un certo ordine a ciò che penso di dire. Spero così che riusciremo a renderci conto del significato della narrazione, per poi cercare di vedere molto più brevemente quali sono queste tentazioni di Gesù e cosa significano. Ciascuno di voi potrebbe inoltre mettersi di fronte alle singole tentazioni e riflettere su se stesso, chiedendosi, sulla linea della meditazione del Regno: “In che maniera voglio associarmi, o meglio, come Gesù mi chiama ad associarmi alla sua prova, alle sue lotte, alle sue fatiche, al suo lavoro? Quale offerta voglio fare di me stesso a lui?” Iniziamo col dire che noi siamo abituati a porre l’inizio della vita pubblica di Gesù all’inizio del cap. 3 di Luca. In questa visuale, le tentazioni sono un episodio che avviene quando questa vita pubblica è già iniziata. Ma, in realtà,

mi sembra che rileggendo Luca di seguito, l’infanzia, o meglio i racconti preliminari, non terminino con “Gesù che cresceva in sapienza, età e grazia”, ma piuttosto con la genealogia di Gesù, che partendo da Giuseppe giunge fino a Adamo e a Dio (3,23-38); dopo questa genealogia comincia il racconto della tentazione ed è il primo fatto che si racconta dopo la preparazione. Il battesimo stesso mi pare che si possa considerare come parte della preparazione, perché fa vedere come Gesù è pieno di Spirito ed è manifestato dal Padre come Figlio; dopo Gesù comincia a presentarsi e la sua prima azione pubblica è la tentazione. Questo ci appare ancora più chiaro se teniamo presente l’alternanza che è stata già notata più volte nei primi due capitoli tra il Battista e Gesù. Il racconto nei primi due capitoli procede a scene successive: si preannuncia la nascita di Gesù con l’Annunciazione, si ritorna in casa del Battista per la sua nascita; si ritorna a Gesù con la sua nascita e con gli eventi della sua infanzia; si ritorna infine al Battista che predica nel deserto e a Gesù che si reca da lui; poi a Gesù di cui si racconta la genealogia. Mi sembra, quindi, che anche questa considerazione sia un buon motivo per ritenere la predica del Battista come la chiusura della preparazione alla vita pubblica: Gesù come persona autonoma appare nel finale della predica del Battista e poi emerge con la genealogia e le tentazioni. Considerando queste cose, sembra che Luca abbia voluto dare molta importanza alle tentazioni e che perciò l’inizio della vita pubblica non sia di per sé la scena di Nazareth, che seguirà poco dopo, anche se essa ha un’importanza programmatica. Cerchiamo ora di domandarci davanti al Signore: “Perché il fatto delle tentazioni ha quest’importanza d’inizio?” Io do questa risposta: si tratta di un inizio programmatico, di un inizio tipico, che contiene tutto il resto. E mi spiego con un esempio. Mi ha colpito, leggendo la vita di Tommaso Moro19, un episodio che, a parte qualche particolare che potrebbe sfuggirmi, avvenne così: Tommaso Moro viene chiamato a corte dal re; egli sa ciò che lo attende (la degradazione e tutto ciò che a essa potrà seguire: la prova, la tentazione, la tortura, la morte); egli tuttavia sale, obbediente, sulla barca per recarsi al luogo dove è chiamato e sulla barca si immerge in un profondo silenzio; la barca avanza sul Tamigi immenso e si sente soltanto il rumore dei remi mentre Tommaso Moro riflette; a un certo punto grida: “Ho vinto!” Ecco, mi pare che questo fatto spieghi un po’ il significato programmatico delle tentazioni lucane: è l’affrontarsi di due mentalità, ma la lotta di Gesù è vinta in radice. Ciò non

vuol dire che per Tommaso Moro non seguiranno le prove, le lusinghe, gli adescamenti per cedere, le torture; ma quando in quel momento egli, immergendosi in preghiera, è posto di fronte agli orrori che lo attendono, e si affida a Dio e sente che la grazia di Dio lo ha raggiunto e gli dà la forza, allora grida: “Ho vinto!”; ecco che la sua tentazione è superata. Mi pare quindi che in questo senso possiamo contemplare Gesù, autore e perfezionatore della fede, che per primo ha vinto per noi, sia che queste tentazioni rappresentino un reale avvenimento della vita di Gesù, come mi sembra emerga dal racconto, sia che rappresentino insieme una sintesi di tutto ciò che sarà la sua vita. Siamo davanti a un modo tipico, sintetico, di presentare tutta la lotta di Gesù. In qualche maniera, nel linguaggio ignaziano, diremmo che è una messa insieme del Regno e dei Vessilli20. Possiamo quindi riassumere così la meditazione: Gesù ha vinto per noi scegliendo la via giusta contro le lusinghe e lasciando la via sbagliata; e ha scelto, esponendosi di persona, per nostro amore, per salvarci, per poter avere radici in noi. In questo senso è “inizio salvifico”, perché ciò che Gesù fa non è semplicemente una rappresentazione, ma una realtà che egli vive nella sua carne, rinunciando ai privilegi delle sue prerogative divine e accettando la via del servizio con le umiliazioni connesse fino a quella di essere respinto, di fallire: Gesù si espone qui al rischio totale bruciando le possibili sicurezze che gli potevano venire dalle sue prerogative, dai privilegi messianici che gli potevano essere attribuiti come “Re messianico”, da tutte le convenienze che la sua “carriera” di “taumaturgo” poteva procurargli. Gesù quindi ci va salvando in radice dallo spirito del mondo, ci sta insegnando la vera vita come capo della vera vita. Per intendere meglio questa forza salvifica delle tentazioni di Gesù, credo che potremmo riferirci alla meditazione di tre brani della lettera agli Ebrei (ci sono parecchie affinità tra questa lettera e il Vangelo di Luca, tanto che qualcuno ha perfino pensato che Luca stesso fosse l’autore della lettera agli Ebrei): uno fa seguito a quello che abbiamo già meditato direttamente ed è Eb 2,17 ss., l’altro sarà Eb 4,15 ss. e infine Eb 5,2 ss. e 5,7 ss. che ci mostrano il senso salvifico della tentazione di Gesù. Vediamo Eb 2,17, che abbiamo letto stamattina: per “liberare così quelli che per timore della morte erano tenuti alla schiavitù per tutta la vita […] doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote, misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la

prova”. Qui l’autore della lettera agli Ebrei prepara gli insegnamenti che seguiranno, che sono soprattutto due: Gesù viene provato per diventare sommo sacerdote, misericordioso e fedele. Fedele, cioè “accetto a Dio”, e misericordioso, “che merita la fiducia nostra”. I capp. 3 e 4 svolgeranno il tema di Gesù che merita la fiducia di Dio, mentre i capp. 4 e 5 (alla fine) il tema di Gesù che merita la fiducia nostra, perché provato, perché lo vediamo simile a noi e quindi lo crediamo capace di compatirci misericordiosamente. Il cap. 4 (vv. 15-16) parla di questa capacità di misericordia, che viene a Gesù dal fatto di essere entrato nella prova; infatti al momento della tentazione è unito anche un momento favorevole, in grazia di Gesù che ha superato questa prova per noi. E infine, concludendo questa esposizione, il cap. 5 al v. 3 mostra la compassione che il sacerdote ha, essendo anch’egli rivestito di debolezza, e conclude poi ai vv. 7 e 8: “Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek”. Gesù, dunque, perché passato attraverso la prova, è causa di salvezza eterna per noi. Torneremo nel punto seguente su queste ultime parole, cercando di spiegare meglio questo brano piuttosto difficile: Gesù offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime; a che cosa si riferisce, che cosa vuol dire? Ma ora vorrei invitarvi a una applicazione che possiamo fare alla nostra vita; possiamo dire al Signore: “Ti scegliamo provato e umiliato e scegliamo di seguirti, e Tu donaci compassione e misericordia per i fratelli”. Come Gesù accettando la prova diventa sacerdote misericordioso, così noi, soltanto entrando coraggiosamente nella prova come Gesù, possiamo divenire misericordiosi e compassionevoli per gli altri fratelli e divenire veramente sacerdoti, compiendo il nostro ufficio di partecipazione completa al sacerdozio di Cristo. Questa tentazione di Gesù è un inizio profetico; cosa intendo dire con queste parole? Mi riferisco a Lc 4,13 che dice: “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato”. Mi pare che questo versetto colga bene il significato che Luca

intende, e cioè che Gesù è tentato al principio della vita, ma come profezia di ciò che gli avverrà alla fine, nella grande tentazione, ed è perciò tutta una prova, è posto sotto il segno della prova. Queste parole quindi non vogliono dire che Gesù ha avuto solo due tentazioni, ma che è stato provato durante tutta la sua vita, tanto più che Gesù, se ricordate, nell’ultima cena dice agli apostoli: “Voi siete coloro che siete rimasti con me nelle mie prove”. Si suppone quindi che la sua vita sia stata tutta una prova, e che gli apostoli l’abbiano seguito in essa, racchiusa da due momenti culminanti: l’inizio e il termine della sua vita pubblica. Fermiamoci brevemente alla prova ultima, che ci aiuterà a capire ancora meglio la prima: mi riferisco soprattutto a quella che chiamerei la seconda grande tentazione di Gesù sulla croce (23,35 ss.). Notiamo qui il ritorno del numero tre: Gesù è tentato tre volte nel deserto, e qui sono ancora tre le provocazioni che rappresentano la voce di Satana, rivolte con lo stesso tipo di frase a Gesù. Ricordiamo la frase condizionale della prima tentazione: “Se tu sei il Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane”. E ora leggiamo 23,35: “Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: ‘Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto’” e l’altra del v. 37: “Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso”. E infine l’ultima che è: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!” Ecco ora capiamo l’acutezza, la drammaticità della tentazione di Gesù vedendolo sulla croce; Gesù viene tentato, qui, nella sua stessa missione, viene invitato ad approfittare del suo potere per non morire: “Approfitta del tuo potere! Fallo vedere se ce l’hai questo potere! I re della terra si salvano, non si lasciano uccidere. Perché tu, che sei re, ti lasci uccidere?” Gesù è tentato proprio in ciò che gli sta più a cuore, che rende credibile la sua missione. Gesù infatti è venuto per suscitare la fede; e ora gli dicono: “Se vuoi che ti crediamo, salvati!” Possiamo intuire la ferita drammatica che colpisce il cuore del Signore che è tentato nella sua stessa opera, che è dare la fede. Se scende dalla croce, questa gente griderà: “Viva Dio!” Ma Gesù non scende; non scende, perché ha accettato la via del Padre e perché questa via è più grande ancora del successo che potrebbe ottenere non accettandola. Da questa considerazione possiamo comprendere la drammaticità della scelta iniziale, anche se si presenta in forme più grossolane (il pane per salvarsi; opere di magnificenza, per farsi applaudire; buttarsi giù dal pinnacolo e approfittare della potenza che Satana offre). Ma sulla croce vediamo queste cose condotte al culmine e vediamo la forza, il coraggio con cui Gesù ha portato avanti la

sua vita nella incomprensione più nera, proprio mentre veniva colpito nel suo desiderio più profondo! Credo che soltanto nella meditazione, nell’affetto che portiamo al Signore Gesù, possiamo capire qual è stata la sua prova e cosa egli ha potuto soffrire scegliendo questa via. Possiamo dirgli: “Hai scelto, Signore, per noi: perché altrimenti ci avresti insegnato la via del dominio, dell’accaparramento, dell’abusare dei propri privilegi, la via del mettersi al centro; quella che Satana ti propone all’inizio e alla fine. E tu, invece, sei venuto a insegnarci che al centro c’è il Padre”. Così egli vince, vince fin dal primo momento, in cui porta a Dio le parole della Scrittura che enunciano l’assoluto di Dio, il primato di Dio. Non si può proclamare l’assoluto di Dio mettendosi al centro; occorre proclamare Dio con mezzi divini: ora il mezzo divino è il riconoscimento della gloria di Dio, anche se questo, in una situazione di contraddizione e di ripulsa, diventa perdita di sé. Contemplando il Signore che vince per noi, chiediamogli che vinca per noi nella nostra situazione presente e che dia a noi la forza di vivere per gli altri. Vorrei ritornare ora un momento alle parole della lettera agli Ebrei, che a questo punto, forse, possiamo comprendere meglio domandandoci ancor più a fondo: sino a che punto il Signore per noi ha potuto vincere, si è dato per noi? Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (Eb 5,7 ss.).

Queste parole sono molto difficili da interpretare (ci sono discussioni esegetiche senza fine) e la difficoltà maggiore è ovvia, perché sembra che Gesù non fu esaudito; Gesù morì e Dio che poteva salvarlo dalla morte non lo esaudì. Cosa vogliono dire queste parole? Ci sono tanti tentativi di spiegazione. Ne propongo uno sul quale vado pensando da molto tempo, che non so se corrisponde a ciò che sappiamo della lettura del Nuovo Testamento. Il linguaggio che usa qui l’autore della lettera agli Ebrei è un linguaggio sacrificale: “Egli offrì preghiere e suppliche”. È un linguaggio che ritorna altrove nella lettera parlando di Gesù che fa il sacrificio della sua volontà, che offre il sacrificio del suo corpo a Dio. “Ho detto: ecco io sono qui, o Padre, per fare la tua volontà”. Ora qual è l’offerta di Gesù con preghiere e lacrime? Mi sembra che non sia la richiesta di essere liberato dalla morte che Gesù in realtà non ha fatto: se leggiamo attentamente il Vangelo, ciò che Gesù chiede,

anche nella stessa agonia, è che si compia la volontà di Dio. Tra preghiere e lacrime, Gesù offre se stesso per il compimento della volontà del Padre e, pur trovandosi di fronte a Dio che potrebbe liberarlo dalla morte, non si tira indietro; le sue preghiere e lacrime sono quelle dell’offerta di sé nella prova, nell’umiliazione, per noi. E Gesù viene esaudito: il Padre accetta lui, affinché noi siamo vincitori nelle prove. Per questo diviene causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono, perché si è offerto per noi al Padre, vincendo nella sua carne l’ansia di salvarsi, di uscire dalla stretta della morte. E tutto questo per noi che saremmo entrati dietro lui in una simile prova. E ora possiamo domandarci come ultima considerazione: “Ma quali sono in concreto le prove che Gesù ha affrontato all’inizio della sua vita, in forma tipica e programmatica e quali sono le prove nostre e cosa significa per noi la frase di sant’Ignazio: ‘Considerare come questo re parli a tutti i suoi sudditi e dice: È la mia volontà conquistare tutto il territorio degli infedeli; pertanto, chi vorrà venir con me deve accontentarsi di mangiare come me, e così pure bere e vestirsi; allo stesso modo, deve lavorare con me di giorno e vegliare di notte; affinché, in tal modo, dopo partecipi alla vittoria, così come partecipò alle sofferenza’ [93]”. Ciascuno deve dare questa risposta a se stesso: l’offerta a Cristo che abbiamo fatto si colora oggi della realtà della nostra vita apostolica, della fatica, dell’impegno, del coraggio, che questa vita apostolica richiede; si colora oggi della prova di fede che ci viene imposta nel vivere come piccolo gregge in un mondo senza fede, tra gente che in fondo ci deride o ci compatisce. Se pensiamo che al di là di un piccolo gruppo di simpatizzanti c’è una massa che si disinteressa o ci deride o non prende sul serio ciò che diciamo, allora sentiamo di essere davanti a una prova tremenda della fede. Meditando dunque sulle tre prove di Gesù, riflettiamo in che maniera esse si manifestano nella nostra vita. Alcuni elementi sono molto chiari: Gesù rifiuta di approfittare per sé dei doni apostolici che gli sono concessi, cioè non usa dei suoi poteri carismatici per salvare se stesso, ma accetta la sorte della parola (Luca svilupperà più tardi questo concetto nella parabola del seme); Gesù facendosi parola non pensa a prevenirsi contro la cattiva sorte della parola stessa, ma l’accetta e, quando questa parola sarà respinta, anche Gesù sarà respinto con essa. Possiamo allora riflettere su ciascuno di noi: “Fino a che punto siamo pronti ad accettare la sorte avversa della parola di Dio, come cosa che può riversarsi e si riversa già sulla nostra

persona, sulla nostra sorte, sulla nostra carriera personale?” L’altra tentazione, quella del pinnacolo del tempio, potremmo forse tradurla così: Gesù non presume di trovare spazio alla parola con atti clamorosi, ma accetta che la parola si faccia spazio, così com’è. La parola è bontà, la parola è genuinità. Gesù quindi si fa genuino, benigno, soccorritore, opera miracoli, grida contro l’ingiustizia, ma non potrebbe compiere opere che sono al di là di ciò che la parola è. Potrebbe, gettandosi dal pinnacolo del tempio, compiere un’opera strepitosa che forse porterebbe molti alla fede, ma con un mezzo che non è di fede (e lo stesso drammaticamente si ripeterà quando gli chiederanno di scendere dalla croce). Gesù vuol portare la fede accettando la morte con amore, non scendendo dalla croce, perché accettare la morte con amore è conforme alla fede, manifesta la fede, mentre salvarsi con un miracolo non è manifestazione di fede, né dell’amore misericordioso di Dio. È su questo che siamo invitati a riflettere, se il nostro seguire Gesù, vestendo le sue vesti e divise, vuol dire uniformarci talmente alla sua sorte, da accettare il destino della sua parola e anche il modo di agire della parola. Penso alla preoccupazione che aveva sant’Ignazio della gratuità della parola, che dobbiamo annunciare così com’è, senza che diventi un mezzo per farci lodare. Nell’offerta dei regni del mondo fatta a Gesù forse possiamo leggere la verità che sperimentiamo continuamente: non c’è successo apostolico senza qualche potere e ciascuno di noi che ha un qualche successo apostolico si fa anche una piccola cerchia di potere. Questo è inevitabile, si crea una cerchia di influenza, di amici, di persone a cui domani possiamo chiedere un favore. Evidentemente questo è normale, è nella logica delle cose; ma attenzione a che sia un potere senza possibilità di deviazione. Dobbiamo essere sempre consci che fino a quando noi abbiamo degli amici, perché la parola è amica e quindi c’è uno scambio di dare e di avere, va bene; ma quando è facile passare da questo all’approfittare degli amici per farsene altri, per crearsi un giro di interessi, di appoggi, tutto questo ci vincola molto più di quanto non pensiamo. Sarebbe naturalmente ingenuo reagire al contrario, rompendo le amicizie, trattando male i benefattori; ma c’è una via di mezzo, c’è la via della libertà evangelica, che dobbiamo percorrere e che solo il Signore ci può far trovare. Questo è necessario ricordare sempre, perché uno sbaglio potrebbe essere fatale per la nostra opera di evangelizzazione. Ecco alcune riflessioni che

possiamo fare meditando sul nostro coinvolgimento alla sequela di Gesù. Vi invito ora a concludere con una preghiera. Accetta, Signore Gesù, l’offerta che già tante volte ti abbiamo fatto di noi stessi al termine della meditazione del Regno. Fa che ne comprendiamo meglio il senso, fa che comprendiamo che se tu ci chiedi di amare la povertà, l’umiliazione, il disprezzo, non è per un semplice gusto strano, ma perché questo è il destino della Parola, il destino tuo, e che se diventiamo compartecipi della sorte dell’Evangelo, allora viviamo la libertà del Vangelo e le controversie e le prove del Vangelo. Fa’, o Signore, che si illumini in noi questa volontà della povertà e dell’umiliazione come ricerca della verità, dell’adesione a te, come ricerca dell’autenticità del nostro essere per gli altri parola tua. Vedi, Signore, che ci è impossibile comprendere questo nella complessità della vita, se tu non schiarisci, illumini e miracolosamente trasformi il nostro cuore, la nostra mente e ci dai un coraggio che da soli non siamo capaci di trovare. Tutto questo te lo chiediamo, Signore, per la tua tentazione, per la tua passione, la tua morte, la tua risurrezione gloriosa. Amen.

VII. LA PREDICAZIONE DI GESÙ MISERICORDIOSA E CONTRADDETTA Il terzo preambolo della prima contemplazione della seconda settimana dice: “Chiedere quel che desidero: in questo caso sarà chiedere di conoscere intimamente il Signore, che per me si è fatto uomo, perché lo ami e lo segua di più” [104]. Penso che questo preambolo possa essere adatto alle singole meditazioni. Qui nella meditazione sull’incarnazione sarà conoscenza intima del Signore che per me si è fatto uomo. Nella meditazione che faremo sulla predica di Gesù a Nazareth chiederò una conoscenza intima di Gesù che per me ha detto nella sinagoga parole di grazia, ed è stato respinto. Leggiamo ancora gli Esercizi spirituali, al n. [93]: “Chi vorrà venire con me deve accontentarsi di mangiare come me, e così di bere e vestirsi ecc.; allo stesso modo deve lavorare con me di giorno e vegliare di notte ecc.; affinché, in tal modo, dopo, partecipi con me alla vittoria, così come partecipò alle sofferenze”; e ancora al n. [95]: “È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio”.

Possiamo notare qui l’ispirazione lucana di questa frase e che il programma messianico, che Luca al cap. 24 fa esporre ai due discepoli di Emmaus da Gesù, è appunto questo: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (24,26). Al n. [95] leggiamo: “Pertanto, chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria”. Concedi, o Signore, a noi che siamo qui riuniti, offrendoti questa nostra permanenza in questo luogo solitario, di conoscerti intimamente; dà a noi la grazia della conoscenza di te, che non possiamo avere col nostro sforzo, né col nostro studio. Donaci questa conoscenza di te che è il frutto del tuo Spirito. Fa che in questa conoscenza di te, della sorte della tua parola, noi ti amiamo e possiamo identificarci con te; parola di grazia predicata agli uomini, con tutto ciò che questa parola attende, sia di frutto, sia di difficoltà e tribolazioni. Donaci, Signore, coraggio, realismo e verità. Con questo desiderio possiamo appunto riflettere insieme sulla predica di Gesù nella sinagoga di Nazareth, così come Luca ce la presenta nel capitolo 4 dal v. 16 fino al v. 30. Che titolo si può dare a questa meditazione? Si potrebbe intitolare così: “La predicazione di Gesù misericordiosa e contraddetta”, perché, appunto, considerando soprattutto il finale dell’episodio, la predicazione di Gesù è sotto il segno della contraddizione e dell’insuccesso. E qui vediamo subito la difficoltà di questo brano, compresa una difficoltà psicologica ad accettarlo. Perché cominciare così? Perché Luca non avrebbe potuto, come ha fatto Matteo, cominciare con una predicazione così sconvolgente e attraente come il discorso della Montagna? O cominciare, come ha fatto Marco, con la prima scelta dei discepoli e poi con la fama crescente di Gesù? Dobbiamo quindi entrare nell’insegnamento che ci viene dato da questo modo peculiare con cui Luca fa cominciare la carriera di Gesù. Non è certo una legge ferrea, cioè non vuol dire che ogni prima predicazione di un neo sacerdote deve essere un disastro; vuol dire semplicemente che c’è un qualcosa da capire nella missione di Gesù, che non si ricava soltanto leggendo Matteo e Marco, ma anche mettendoci alla scuola di Luca, che vuol dare in queste scene sintetiche una chiave interpretativa di tutta l’opera di Gesù. Così come ha fatto nella tentazione, dove ha riassunto la vita di Gesù

come lotta contro la tentazione satanica e vittoria che poi si espliciterà fino alla croce, così anche qui presenta il ministero di Gesù come ministero di grazia e di misericordia, stranamente contraddetto. Questo brano, quindi, non ci piace molto se lo vediamo nella sua verità e nelle conseguenze che può avere per il nostro ministero. È un brano difficile oltre che sconcertante, sia per ciò che ci dice, come anche esegeticamente: ci sono in questo brano problemi letterari, problemi storici, e poi un problema, naturalmente, teologico: cioè la domanda: “Che cosa ci insegna Luca con questo brano?” Io potrei, prima di tutto, richiamare questi problemi letterari, storici, teologici, e, poi, contemplare con voi i singoli momenti o alcuni dei momenti della scena, ma poiché si tratta di un brano sintetico e ogni parola ha un significato molto profondo non possiamo fermarci su tutte le profondità di ciò che ci viene detto, e ci limiteremo a qualche aspetto sulla linea delle domande fatte nelle preghiere iniziali e nella linea della meditazione sulla Natività. Conviene anche rileggere il n. [116] che già abbiamo letto ieri, e che pare qui estremamente importante perché sant’Ignazio fa la stessa cosa che fa Luca nella tentazione di Gesù e in questa predicazione, cioè prevede il senso di tutta la vita di Gesù. Ora, il terzo punto della contemplazione sulla Natività dice: “Guardare e considerare ciò che fanno, per esempio camminare e lavorare affinché il Signore nascesse in somma povertà, per poi morire in croce dopo tanti stenti di fame e di sete, di freddo e di caldo, di ingiurie e di affronti; e tutto questo per me. Quindi, riflettendo, trarre qualche vantaggio spirituale” [116]. Dunque già sant’Ignazio nella meditazione sulla Natività vede tutto fino alla croce, e così Luca in questa prima predicazione vede già tutto fino a Gesù estinto, alla sua morte in croce; ci invita quindi a considerare il mistero della Parola di grazia ripudiata. C’è in questo brano, come dicevo, un problema letterario, cioè bisogna rispondere alla domanda: “Cosa ha fatto Luca come scrittore; come ha composto questo brano?” Si risponde comunemente che ha composto questo brano, appunto, in maniera composita mettendo insieme varie tradizioni, partendo da una visita di Gesù a Nazareth con una predicazione favorevole. Mi pare che possiamo leggere la Bibbia di Gerusalemme, che dà una buona sintesi dei risultati della ricerca sulla composizione del brano: Siamo qui – dice – già forse di fronte al risultato di un’evoluzione letteraria. Un primo brano

narrava la visita di una sinagoga con predicazione coronata da successo, all’inizio del ministero a Nazareth (Mc 1,21 ss.; Mt 4,13). Questo racconto è stato in seguito ripreso, sovraccaricato e posto più tardi nella vita di Gesù per sottolineare l’incomprensione e il rifiuto che hanno fatto seguito al primo favore del popolo. Luca ha saputo trarre da questo testo complessivo una pagina mirabile che egli ha conservato all’inizio del ministero come una scena inaugurale nella quale dipinge, in un compendio simbolico, la missione di grazia di Gesù e il rifiuto del suo popolo.

Dunque probabilmente le tradizioni precedenti erano: visita di Gesù a Nazareth con successo, un’altra visita a Nazareth con insuccesso più tardi, la predica di Gesù basata sui profeti; questi vari elementi vengono messi insieme in una scena unica in cui Gesù viene, predica a Nazareth, pronuncia per la prima volta un suo discorso programmatico, viene prima accolto e poi respinto. E qui sta appunto la difficile sutura: quand’è che Gesù comincia a essere respinto nel brano? Vedremo la difficoltà, appunto, nell’interpretare il v. 22 perché improvvisamente nel v. 23 Gesù passa all’attacco, e non si capisce bene come dall’accoglienza si passi al contrasto; a ogni modo ciò che è chiaro è che Luca ha voluto unire le due cose. C’è poi un problema storico, oltre al problema letterario, cioè che cosa ci dice questo brano del Gesù storico? Cosa ci dice della comunità primitiva? Partendo da alcune tendenze e problemi della comunità primitiva, sembra di poter leggere dentro questo brano una venatura polemica. Inoltre, che cosa sappiamo di Gesù da questo brano? Sappiamo parecchie cose che sono confermate dal resto del Vangelo: che Gesù certamente all’inizio insegnava nelle sinagoghe e cioè che entrava al sabato nelle sinagoghe e poi si alzava per parlare; che Gesù insegnava parlando sul Regno e a partire dalla Legge e dai profeti; che questo insegnamento veniva talora accettato, talora respinto: e cioè che Gesù incontrava fede, ma anche scetticismo, incredulità, disattenzione; e che questo è pure successo a Nazareth. Abbiamo quindi degli elementi che ci testimoniano come Gesù di fatto ha vissuto. C’è poi un elemento che, come dicevo, riguarda piuttosto la storia della comunità primitiva e dei parenti di Gesù. Come sapete, Luca probabilmente ha una tendenza antinazaretana, antigalilaica: in tutti gli Atti degli Apostoli non menziona mai l’apostolo della prima Chiesa in Galilea, se non una volta, e sembra proprio che gli scappi dalla penna. Si ha l’impressione che Luca insista sul cristianesimo gerosolimitano, nato e diffuso a Gerusalemme dagli apostoli, ignorando le comunità di Galilea che pure esistevano, come ci è testimoniato da Marco, e confermato anche dall’archeologia.

C’è sotto probabilmente una polemica, quasi si avesse l’impressione e si temesse che i parenti di Gesù, una volta visto il suo successo, volessero in qualche modo gestirlo, anche in tutta la Chiesa primitiva, e condurre avanti una tradizione legata anche all’interesse proprio, un po’ come succede anche oggi intorno a persone di spicco nella Chiesa; c’è forse una concezione ristretta del cristianesimo, legata al miracolismo, alle guarigioni e probabilmente questo è il peccato di Nazareth, l’essersi cioè irritata perché non riceveva abbastanza guadagno, abbastanza prestigio dall’opera di Gesù; forse sembrava che Gesù si disinteressasse della sua città e si rivolgesse con preferenza altrove e quindi la gente dice: “Perché non da noi?” Luca sembra appunto voler polemizzare nella sua opera contro il cristianesimo di Nazareth di Galilea legato al miracolismo, e non all’universalismo e al senso della croce, e che vedeva in Gesù soltanto il guaritore dei mali dell’umanità e quindi solo un grande taumaturgo benefattore. Luca invece insiste fin dall’inizio sulla croce, attraverso la quale si arriva alla risurrezione. Si può qui vedere come da polemiche ristrette nascono visuali teologiche chiare. Dunque, c’è questo problema storico di cui non sappiamo molto, ma di cui possiamo, attraverso vari elementi della vita della Chiesa primitiva, farci una certa idea e vedere quali tensioni ci siano dietro questo brano. E tutto ci porta alla domanda importante, cioè alla domanda teologica: che cosa ci insegna la Scrittura come parola di Dio in questo brano? Cerchiamo di vederlo contemplando i singoli momenti di questo racconto, e poi di vedere che significato ha tutto ciò per l’educazione alla fede di Teofilo e confrontiamo poi tutto ciò con la via ignaziana e la nostra, domandandoci che significato ha questo racconto per la via che stiamo percorrendo. Quali sono i momenti del brano? Ne ho notati alcuni: – Gesù va a Nazareth; – Gesù si alza e legge, – Gesù legge un testo profetico (riflettiamo un po’ su questo testo profetico che viene letto da Gesù); – terminata la lettura, Gesù è al centro dell’attenzione e della curiosità: tutti gli occhi sono fissi su di lui; – Gesù proclama la parola di compimento delle profezie; – che cosa succede dopo? Cosa avviene, perché questo incanto si rompe? – Gesù passa al contrattacco; – e infine la conclusione, la catastrofe. Vediamo dunque uno per uno questi momenti.

Gesù a Nazareth: possiamo riflettere su quali emozioni nascano in Gesù a Nazareth e nei nazaretani. Gesù aveva già predicato altrove, aveva già una certa fama, e allora, entrando nel suo paese, è lui stesso preso dall’emozione di vedere la gente conosciuta, e si chiede cosa diranno di lui, come lo accoglieranno. Ma la gente soprattutto è curiosa e anche, come dicevamo, un po’ calcolatrice: “Che cosa ci può venire di guadagno dalla fama di quest’uomo che sta diventando il grand’uomo del paese, colui che ci fa conoscere dappertutto (tutti lo chiamavano Gesù di Nazareth) e quindi ci sta dando lustro? Come possiamo gestire questa fortunata combinazione?” Possiamo poi comprendere evidentemente la gioia e il timore di Maria: “Come lo accoglieranno, cosa diranno di questo mio figlio?” E poi l’attesa degli amici d’infanzia, di coloro che non lo avevano mai considerato, e tutta quella serie di emozioni forti che si producono soprattutto in una società chiusa come quella. Gesù vi rientra dopo essere stato fuori in missione, in contrade diverse, dopo aver mangiato “pane di sette forni”, come mi pare dicano in Sardegna, e affronta la situazione; forse sarebbe stato più facile per Gesù non affrontarla, girare al largo da quell’ambito difficile e quindi poco accattivante. Gesù, invece, ci va in mezzo, come dice Luca, entrando, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga; si alza, svolge il rotolo, quindi lo legge ad alta voce; già sembra che la gente si meravigli per questo, perché sa leggere bene, non essendo usuale che tutti sapessero leggere con facilità. Ci troviamo qui davanti a un elemento di comprensione lucana, da cui non è assente un senso di polemica. Ordinariamente si leggeva nella sinagoga un testo del Pentateuco e dopo averlo letto lo si spiegava, aggiungendo anche delle applicazioni morali; così, almeno, sappiamo che avveniva nelle sinagoghe nel periodo successivo a Gesù; i Profeti erano considerati, ma certo molto meno della Legge. Gesù deroga a questa consuetudine, legge un passo del profeta Isaia e profeticamente lo applica a sé. Qual è questo testo che Gesù legge? È un testo composito, ed è quindi chiaro che Gesù non l’ha potuto leggere di seguito perché prende il cap. 61, per poi passare al cap. 58. Si tratta quindi di una sintesi lucana; è Luca che ha preso questo testo, che Gesù forse avrà citato in varie occasioni e in luoghi diversi, e lo mette sulla bocca di Gesù dandogli un valore programmatico. Ecco il testo: Lo Spirito del Signore è sopra di me per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto

messaggio per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore (4,18-19).

Gesù nella sua predicazione, il Gesù storico, ha usato questo testo come tale? Per noi è difficile dirlo, ma possiamo dire che certamente Gesù si è riferito ai profeti, e in particolare a questo passo fondamentale. Se vogliamo avere un’eco in qualche maniera più immediata della predicazione di Gesù, possiamo leggere 7,22-23 dove ci si riferisce ugualmente a questo testo. È la risposta alla domanda di Giovanni: “Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro? […] Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, e ai poveri è annunziata la buona novella”; e qui abbiamo anche un esempio di come Gesù coniugava, per così dire, nella pratica della sua predicazione, questo testo: “E beato chiunque non sarà scandalizzato di me”. È interessante, leggendo questo brano, vedere come anche qui, a una predicazione di misericordia, segua un’ammonizione (“e non”) e ci sia una corrispondenza con ciò che avviene a Nazareth: predicazione di misericordia e opposizione. Che cosa dice, dunque, sostanzialmente questo testo di Isaia? Dice che in Gesù si compie la promessa di Dio, che invia il suo messaggero di misericordia e liberazione a chi è senza speranza. Questo era il significato che i testi avevano in Isaia: a un popolo oppresso, prigioniero, esiliato, maltrattato, viene mandata la Parola di fiducia; ci sarà qualcuno che porterà questa parola ai miseri e ai disgraziati, e quindi farà sperare, attuerà la liberazione tanto desiderata dall’esilio, dalle sofferenze, dall’oppressione. Questo è esplicito in Is 61,1-2: Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti.

È chiaro che qui si tratta della restaurazione di Israele: i poveri, i miseri, vengono restaurati nel loro regno. Nascono a proposito di questo testo tante domande, attuali anche oggi: questo testo annuncia una liberazione sociale e politica? Gesù si presenta come un liberatore sociale e politico dalle condizioni misere e oppresse dei proletari di Israele? Evidentemente se si prende questa parola “poveri” nel suo senso sociologico, allora si può vedervi

dentro tutta la situazione della povera gente, dei salariati mezzo affamati e, diciamo, in perpetua difficoltà. Anche se ci è difficile ricostruire bene la situazione economica di quel tempo, evidentemente la massa viveva male, nonostante ci fosse attraverso la vita di tipo patriarcale un aiuto mutuo, e quindi la possibilità di avere un minimo per vivere; la gente è sfruttata dalle potenze politiche e bistrattata per la mancanza di libertà, per i soprusi che queste potenze politiche favorivano. Cos’è allora questo anno di grazia del Signore? È chiaro che se uno l’interpreta rigorosamente come l’anno sabbatico del Levitico, allora è l’anno in cui si condonano i debiti, è l’anno in cui si eliminano le situazioni di sperequazione che si erano pian piano verificate nei 49 anni precedenti, e ognuno ritorna in possesso della propria terra e gli schiavi vengono affrancati. Ma qui pare di notare che già Isaia, quando diceva “un anno di grazia del Signore”, si riferiva al Signore che solleva Israele dalla sua condizione; non si trattava, quindi, dell’annuncio dell’anno di grazia del giubileo, ma, riferendosi a esso, di un modo simbolico per dire: “Dio vi riporterà in una condizione nella quale la sua misericordia, la sua grazia, si mostreranno ristabilendovi nella situazione di prima”. Dobbiamo quindi prendere queste parole tenendo conto di tutto il contesto biblico che ci sta dietro. A ogni modo il problema rimane: che tipo di liberazione annuncia Gesù? E su questo penso che potremo riflettere ancora in questi giorni, proprio perché non è un problema facile e ci tocca abbastanza da vicino nella nostra responsabilità di fronte alla Chiesa, e a tutti i documenti della Chiesa, e soprattutto dei Papi più recenti sui problemi sociali, economici, politici, sullo sviluppo, sulla liberazione: e tocca anche la nostra situazione italiana. Sono quindi problemi da cui non possiamo prescindere, anche nella nostra preghiera, pur se ciò che dobbiamo cercare in questa preghiera non è tanto una soluzione oggettiva di problemi solo esegetici, quanto piuttosto una rivelazione del cuore, dicendo a Dio: “Signore, facci conoscere la tua volontà oggi, fa’ che senza pregiudizi, senza chiusure prefabbricate e senza entusiasmi anch’essi prefabbricati, ci mettiamo di fronte alla tua parola e al mondo di oggi, agli uomini di oggi, e ascoltiamo ciò che tu ci dici e sentiamo anche tutte queste voci che interpellano”. Penso di proporre ora una meditazione sintetica sulla via del discepolo di Luca, che aiuti a leggere un po’ tutto il suo Vangelo. Una riflessione che però mi pare vada fatta subito è che mi sembra chiaro che queste parole di Isaia, citate qui, ricevono interpretazione dalla vita stessa di Gesù e non viceversa;

non possiamo prendere queste parole alla lettera e trarre per esempio un programma dalla frase “proclamate ai prigionieri la liberazione”, quasi che Gesù venga a svuotare le prigioni. È piuttosto dalla vita di Gesù che dobbiamo capire che cosa queste parole significano, perché Luca le ha messe qui in quanto sono una buona sintesi interpretativa della sua vita, dalla quale appare che cosa vuol dire annunciare ai poveri il lieto messaggio, proclamare ai prigionieri la liberazione, ridare la vista ai ciechi ecc. È alla luce del Vangelo e degli Atti che possiamo intendere, in maniera esegetica abbastanza precisa, il significato di questo testo. Abbiamo visto il testo di Lc 7,22-23, cioè la risposta di Gesù alla missione del Battista; in quel momento Gesù guariva molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e dava la vista a molti ciechi; questo spiega il riferimento di Luca a questo brano di Isaia. Gesù risponde agli inviati: “Andate e riferite…: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la lieta novella”. Dunque è in questo contesto di un Gesù che compie opere di misericordia che il passo deve essere interpretato; di Gesù che va verso la disgrazia umana compiendo opere di misericordia verso chiunque è in disgrazia, povero, in situazione di sofferenza, senza speranza. Un’altra parola interpretativa l’abbiamo già meditata in 5,31: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi”. Anche questa è una parola programmatica di Gesù, che ci aiuta a capire che i ciechi, i prigionieri ecc. vanno intesi nel senso di gente senza speranza, che ormai si considera abbandonata, che non sa come uscire dalla propria situazione. Altro testo, parola di Luca questa volta, che serve per riflettere sul significato di questo annuncio profetico è At 10,38: “Passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”. Ecco l’interesse per i poveri, per gli afflitti, per i ciechi, e naturalmente, partendo da questi mali, per i peccatori. Anche Lc 15,1-2 è un’interpretazione di questa parola programmatica: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori”, come certamente è interpretazione di questa parola programmatica la definizione che Paolo dà di se stesso nell’ultimo suo discorso, in At 26,22 e anche 26,18. Paolo, che ha

imitato perfettamente Gesù nella sua missione, parlando del suo programma dice: “Null’altro io affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani” (At 26,2223). Quest’annuncio della luce ai ciechi è chiaramente in linea con questa profezia. E anche ai vv. 17 e 18 dello stesso cap. 26, leggiamo: “Ti mando ad aprire loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me”. Credo che, mettendo insieme tutti questi passi, abbiamo un’idea della profondità e dell’ampiezza della missione di Gesù, che non è limitata a un aspetto particolare, ma si prolunga fino alla remissione dei peccati. Da questo punto di vista la traduzione della CEI, forse perché non ha potuto fare diversamente, quando ha tradotto “per rimettere in libertà gli oppressi” e “per proclamare ai prigionieri la liberazione”, ha adottato due termini diversi mentre la parola, in greco, è la stessa; parola che, come abbiamo già detto, è la parola programmatica lucana, cioè Luca vede la remissio peccatorum come la liberazione definitiva, ed è per questo che fa proclamare da Gesù, una volta che il suo messaggio è perennemente svelato in Lc 24,47-49, la remissione dei peccati a tutte le genti e il dono dello Spirito. Perciò se si vuole esaurire anche esegeticamente il significato di queste parole, perché certamente si tratta di un passo profetico ancora enigmatico, bisogna rifarsi a tutto il resto della vita di Gesù che lo spiega, e al suo programma apostolico che lo precisa. Quando Luca apre gli occhi ai discepoli, apre loro gli occhi anche sul significato definitivo che questo programma assume e che non viene perciò sminuito, né spiritualizzato, ma chiarito in tutta la sua virtualità, negli elementi a cui tende. Ci siamo fermati forse troppo a lungo su questo, anche perché avrei voluto ancora dire qualche parola sul tema “annunciare ai poveri”. Mi limito a dire che “annunciare ai poveri” mi sembra anche questa una parola enigmatica e programmatica, che va vista soprattutto nella sua applicazione quale la troviamo in 6,20: “Beati voi poveri, beati voi che ora piangete”. Anche queste sono parole esegeticamente non facili da interpretarsi, ma mi basta far risaltare questo: questi termini – poveri, affamati, odiati, respinti – mi sembra, sono tutti collegati. E quindi la figura più tipica che qui ne emerge è quella del discepolo respinto, di colui che,

avendo fatto propria la sorte della Parola, per la Parola piange, è abbandonato e respinto dagli uomini. Questa è, quindi, la figurazione tipica a cui si oppone la contraria: “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi…” Basti questo per far vedere la complessità della riflessione. Se queste parole suscitano in noi un bisogno di esplicitazione, non potevano non suscitare un’attesa anche nella sinagoga di Nazareth: “Cosa sta succedendo? Cosa dice, cosa ci porta di nuovo, a cosa si riferisce?” Per questo Gesù, come dice giustamente Luca, è al centro dell’attenzione (“che cosa ci dirà su queste parole?”) e della curiosità (“che cosa ne verrà fuori da questo ragazzo?”). Pensiamo come ci troveremmo noi in questa situazione, presi dalla paura di deludere (se si fa un fiasco qui, questo fiasco si propagherà, forse tutto andrà male), e quindi da uno stato di ansia, di soffocazione. In una situazione simile ci verrebbe naturale la domanda: “Come affrontare questo pubblico diffidente?”, e forse si farebbe strada il desiderio di giocare un po’, di non comprometterci, per non offendere troppo, e di dire parole di lode a questa cittadinanza così devota, fedele, per ingraziarsela e strappare un applauso e la soddisfazione, infine, del poter dire: “È andata bene!” Mettendomi in questa situazione, la sento come mia, specialmente ogni volta che mi trovo ad affrontare un pubblico nuovo, e ciascuno di voi può sentirla come propria, in quanto siamo sempre guardati, al centro dell’attenzione, da parte della gente che ci sta intorno e che ci condiziona perché aspetta da noi certe cose, certe parole; gli altri vorrebbero essere rassicurati, protetti, e noi siamo lì, con la paura di non dispiacere troppo. Il rivivere questa situazione ci stimola a pregare il Signore perché ci aiuti a purificarci, e ad avere, come lui, il coraggio di essere liberi. Quale parola dice Gesù? Dice una parola di compimento, che rimane ancora abbastanza enigmatica: “Oggi si è adempiuta…”, parola che dice che il tempo della fede in qualche modo è finito; “voi avete sperato, aspettato, per tanto tempo, ed ecco ciò che aspettavate è giunto!” Parola questa capace di destare l’entusiasmo di un popolo come quello di Israele, che viveva di fede e di attesa. Dio è fedele alle promesse, ma la parola è ancora enigmatica, perché Gesù non dice: “Io sono il Messia”, e non appare chiaro, come poi sarà nel cap. 24, che egli realizza la Scrittura; per questo la gente domanda: “Ma che cosa sta succedendo?” Gesù qui si riferisce piuttosto al Regno che si sta costruendo e quindi

indirettamente accenna a sé, ma Luca non ci ha voluto dire di più, ha voluto soltanto ricordare che Gesù, fedele al suo programma, mostra che è ora il momento della salvezza, il momento in cui più interviene a favore dei poveri, degli abbandonati, di quell’Israele abbandonato e oppresso, che riassume in sé tutti coloro che si sentono fuori dal giro di chi detiene il potere. Abbiamo a questo punto una difficoltà nell’interpretazione del testo, che dice: “Tutti gli rendevano testimonianza”. Una testimonianza buona o cattiva? Sembra buona, almeno per quanto riguarda il riconoscere che colui che era stato tra loro adesso si era messo a parlare così bene tanto da essere meravigliati dalle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca. A prima vista sembra un complimento, ma il significato della frase è invece difficile; qualche esegeta pensa che erano meravigliati, stupiti, perché Gesù invece di parlare un linguaggio di vendetta contro i nemici (infatti non viene citata l’ultima parola di Isaia che parla di vendetta), annuncia soltanto la misericordia e non invece castigo per i Romani, i nemici, i malvagi; secondo questa interpretazione qui comincia l’opposizione: “È un uomo da cui aspettavamo un’azione decisa, e che invece parla di remissione, di perdono”. Quello che è certo è che, a un determinato momento, l’atteggiamento diventa più negativo: “Non è il figlio di Giuseppe?” In qualche maniera ciò che mi appare chiaro è questo: vediamo qui nascere gradualmente scetticismo e diffidenza: “Parla bene, ma in fondo chi è, cosa ha fatto? Dicono di lui tante cose, lo faccia vedere!” Da qui la diffidenza e la delusione: “Ma perché non si preoccupa maggiormente di noi? Perché, se è così buono, ci ha abbandonato fino a ora ed è andato altrove? Perché non fa la gloria della sua città?” Nascono da qui tutti quei motivi di disagio che di per sé non ci saremmo aspettati, e che disturbano la scena. Ma Gesù reagisce e ora anche noi siamo chiamati a farci istruire dalla sua libertà, perché ci stupisce che Gesù contrattacchi in maniera un po’ dura, invece di spiegare. E infatti prende la parola che è nei loro cuori: “Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria”, e sembra dire loro: “Volete che io faccia qualcosa per voi come vostro concittadino, che vi dia vantaggi, ma sappiate che la parola di Dio non guarda a queste cose”. Anzi, paradossalmente cita episodi di realizzazione della Parola di Dio fuori dalla patria: “Se Dio ha mandato Elia fuori di Israele, se ha dato nutrimento a una vedova fuori di Israele, se da Eliseo è stato guarito uno che era fuori di Israele, sappiate allora che la Parola di Dio non ha confini e non può essere sfruttata a vantaggio di

nessuno”. Così mi sembra di parafrasare le parole dure di Gesù, quando parla di libertà. Quello che possiamo ammirare certamente in lui e che Gesù vuole trasfonderci quest’oggi, in questa meditazione, è la sua libertà d’animo. La parola di Dio è libera e universale, non può essere legata da nessuno, nessuno può condizionarla, nessuno può chiedere che la si dica in questo o quell’altro modo, nessuno può aspettarsene questo o quel vantaggio: essa è la parola per tutti, e quando è necessario è Parola che, per raggiungere tutti, spezza le barriere. Per questo la parola di Dio non piace sempre, non è fatta per l’applauso, può essere causa di guai: questo Luca ci vuol far capire fin dall’inizio della vita di Gesù. C’è tutta una dolorosa problematica dietro questo episodio così misterioso, che si chiude con l’ombra della croce: Gesù non soltanto se ne va amareggiato, ma la gente si irrita, si infuria. Gesù si sente preso, si sente mettere le mani addosso: immaginate che umiliazione per gli amici, per la madre. È una scena veramente disgustosa e si arriva quasi a volerlo uccidere. Gesù ne esce molto male e possiamo pensare alla reazione dei parenti: “Ci ha disonorati, è venuto qua e ci ha lasciati tutti male; non lo vogliamo, è una persona che ha fatto disonore alla famiglia”. Pensiamo come nell’ambito reale tutto questo è difficile ad accettarsi: eppure Luca lo presenta come l’inizio del ministero di Gesù. Dunque Parola di grazia caduta male e respinta; possiamo nella preghiera metterci con Gesù umiliato e respinto, e dire: “Signore, che cosa vuoi dirci? Certo non una parola di pessimismo (come dire che la nostra predica sarà sempre respinta), e neanche di masochismo (non saremmo veri predicatori se la gente qualche volta non ci respingesse, perché allora andremmo nell’assurdo), ma qualcosa di più profondo, e cioè che la Parola di Dio, che tu, o Signore, ci hai affidato, è parola che trascina in una sorte imprevista, che può essere, grazie a Dio, di accoglienza (il 100 per 1), ma può essere anche calpestata e che quindi seguendoti, o Signore, ti dobbiamo seguire nella pena, nella fatica, come nelle gioie”. È chiaro che, seguendo questo re, nella sua battaglia ci sono anche delle vittorie; per questo sant’Ignazio nella parabola del Regno non nega che chi lo segue abbia delle soddisfazioni anche grandi: ma anche sant’Ignazio parla di seguire il Re nella pena, nella fatica, nella veglia. Non si tratta di una forma di pessimismo: gli Atti ci mostrano che la predicazione avveniva nella gioia, nel coraggio, nell’entusiasmo, nella propagazione di felicità, di letizia e di

pace; ma resta sempre vero che la Parola di Dio è affidamento a Dio e che questo affidamento comprende tutte le possibilità di sbocco. Ci affidiamo a lui non tanto per essere cullati, ma anche per essere scaraventati là dove possiamo pagare di persona e realizzare così radicalmente la nostra liberazione del cuore, la nostra possibilità di predicare la Parola autenticamente: affidamento che è accettazione radicale della sorte del Cristo. Chiediamo che il Signore ci illumini su questa prospettiva. Signore, tu vedi quanto noi desideriamo, coscientemente o incoscientemente, il successo della nostra parola, la rispondenza, che essa sia accolta, stimata, apprezzata. Signore, anche tu hai desiderato questo, anche tu hai voluto parlare per essere ricevuto. Fa’ però che noi entriamo nel profondo del tuo cuore e ci accorgiamo che la tua parola è prima di tutto non parola fatta per l’applauso, ma parola di Dio, cioè parola di verità, di giustizia, di salvezza, parola che ha la sua forza in se stessa e non per l’accoglienza che riceve. Fa’, o Signore, che noi, conformandoci a te e unendoci a te, ti seguiamo coraggiosamente nelle difficoltà per giungere alla gloria e crediamo che è maggior servizio di tutti questa libertà della parola che non il timore o la paura di tutto ciò che ci potrebbe soffocare nella nostra capacità di dire la verità. Ti chiediamo, o Signore, di liberarci ulteriormente per il tuo nome glorioso.

VIII. GESÙ EDUCATORE E FORMATORE Vergine Maria, madre di Gesù, ascolta la nostra preghiera. Tu hai contemplato i misteri del tuo Figlio, li hai paragonati fra loro nel tuo cuore: concedici di poter sentire vivamente in noi questi misteri, di poterli rivivere e attuare nella nostra vita. Prega per noi il tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore. Amen. Leggiamo dagli Esercizi spirituali al n. [100] la seconda nota dopo l’esercizio della chiamata del “Re Eterno”. Essa dice: “Nella seconda settimana, e così pure in seguito, sarà molto utile leggere in alcuni momenti libri quali l’Imitazione di Cristo, i Vangeli e le vite dei Santi”. Leggiamo

ancora al n. [130] le annotazioni dopo la fine del primo giorno della seconda settimana; ci viene detto quali “addizioni” debbono mutarsi: “Quanto alla seconda: appena svegliato, mi porrò davanti la contemplazione da fare, desiderando conoscere sempre più il Verbo Incarnato per poterlo sempre più servire e seguire”; “Quanto alla sesta: dovrò trarre alla memoria la vita e i misteri di Cristo nostro Signore, a cominciare dalla sua incarnazione fino al mistero che sto contemplando”. E da ultimo, al n. [209], la nota alla fine della settimana della passione, dove sant’Ignazio dà delle indicazioni per contemplare più a lungo la passione, conclude: “Dopo aver terminato in tal modo tutta la passione, può fare, in un altro giorno, l’intera passione, in uno o più esercizi, come gli sembrerà più conveniente per trarne profitto”. Partendo da queste indicazioni di sant’Ignazio, mi sembra utile suggerire di applicarvi più in particolare, da qui in avanti, proprio alla lettura continuata del Vangelo di Luca, e di farne una lettura riflessa, lasciando che gli episodi della preparazione della vita pubblica del Signore incidano profondamente su di voi. A questo può anche essere utile affiancare in parallelo la lettura del processo di sviluppo della comunità primitiva degli Atti. Per questo vorrei in questa meditazione dare qualche indicazione per una lettura globale, una contemplazione complessiva della parte del Vangelo di Luca dedicata alla vita pubblica di Gesù. Naturalmente la sintesi che propongo è molto adattata alla nostra situazione; non propongo cioè uno schema esegetico del Vangelo di Luca che potete trovare in qualunque manuale di introduzione ai Vangeli, ma piuttosto un modo di leggere il Vangelo lucano notando quegli elementi che più ci interessano per la nostra riflessione. Ciò che sto per dire si potrebbe proporre come risposta alla seguente domanda: “Come avviene secondo Luca l’educazione del discepolo alla sequela di Gesù?” Si tratta di una proposta di lettura spirituale e orientativa di questo Vangelo nella disponibilità a assorbirne i valori nello Spirito della seconda settimana degli Esercizi, che è quello di lasciarsi illuminare dal Verbo sempre più intimamente, per meglio conoscerlo, amarlo e servirlo. Alla domanda che ho posto presento due risposte, che seguono due parti del Vangelo di Luca, e che proporrei di dividere così: – l’educazione dell’uomo cristiano (capp. 5-9); – la formazione del discepolo evangelico, vale a dire dell’operaio evangelico (capp. 9-18). A noi interessa comunque soprattutto insistere sulla fine del viaggio lucano (capp. 9-18), perché gli eventi entrano nel clima della passione.

Cercherò di proporvi semplicemente una sintesi di ciò che l’evangelista ci dice secondo questi due momenti o punti di vista.

Educazione dell’uomo cristiano (Lc 5-9) Dopo il cap. 4, che abbiamo già meditato nei suoi due episodi principali, che sono introduttivi, e cioè le tentazioni e la predica di Nazareth, Luca ci riporta una serie di miracoli: la guarigione del lebbroso, del paralitico, dell’uomo dalla mano paralizzata, del servo del centurione, la risurrezione del figlio della vedova di Naim, la tempesta sedata, l’indemoniato di Gerasa, l’emorroissa, la resurrezione della figlia di Giairo, la moltiplicazione dei pani, la guarigione dell’epilettico. Sono undici fatti straordinari e, se mettiamo come miracolo conclusivo la trasfigurazione, sono dodici eventi di potenza, manifestazioni di quella gloria di Gesù che viene poi anche trasferita ai Dodici nel cap. 9, in cui già si guarda verso la seconda parte del Vangelo. Questa serie di miracoli, di fatti, di potenza mostra come ci si possa fidare di Gesù. Troviamo anche parole di insegnamento, polemiche e messianiche, soprattutto nel cap. 6, con un’insistenza sull’amore, il perdono, la misericordia e anche sull’esecuzione, pratica e coraggiosa, degli insegnamenti stessi di Gesù, che deve essere il frutto e che ci viene richiamato di nuovo nel cap. 8, nella predica del seminatore. Il seme produce frutto se cade su un terreno che lo accoglie, ma, se viene respinto, resta sterile: siamo, quindi, sempre in questa linea di amore, perdono, misericordia, esecuzione pratica e frutto. Sono parole di insegnamento che possiamo dire costruttivo, e parole di polemica contro la mancanza di fede, parole roventi contro l’inumanità religiosa dei farisei, che si chiudono alla vera intelligenza della legge, alla conoscenza della volontà di Dio. Nel contesto del cap. 6 troviamo altre parole messianiche, che si potrebbero dire di “capovolgimento”, soprattutto le beatitudini: “Beati i poveri”; “Guai a voi ricchi”. Sono parole che da una parte proclamano la missione messianica di Gesù, che evangelizza i poveri, secondo la profezia di Isaia (61,1-2), dall’altra mostrano la nuova serie di valori che comportano un rovesciamento non ancora ben chiarificato in tutte le sue parti, ma annunciato in Gesù che compie opere potenti e misericordiose (secondo la profezia di Isaia, egli viene per dare la vista ai ciechi, la liberazione agli afflitti ecc.). Quello stesso Gesù che predica ai poveri instaura un sistema di valori nuovo e polemizza contro chi non lo sa ricercare nella fede o chi si preclude, con una religiosità meschina, la

possibilità di conoscere la volontà di Dio; ecco come ci appare, più o meno, l’insistenza di questa prima parte che, come si vede, corrisponde abbastanza bene al programma di Isaia, di un Gesù potente, liberatore, misericordioso, proclamatore di valori nuovi. Quindi ora alla domanda “Come avviene qui l’educazione del discepolo alla sequela di Gesù secondo Luca?” mi pare che si potrebbe rispondere, con termini nostri, che ci troviamo davanti a una triplice educazione: – educazione del cuore, educazione cioè alla cordialità, alla bontà, alla fiducia, alla fede; chi segue Gesù, e cerca di imitarlo in ciò che egli fa, in questi capitoli assimila i sentimenti del suo cuore benevolo, compassionevole per ogni male dell’uomo (proprio meditando su Gesù che ha compassione per ogni tipo di malattia, che risana gli oppressi dal diavolo, sant’Ignazio aveva capito l’importanza delle opere di misericordia per la formazione del novizio, del discepolo); – educazione alla fiducia nella sua missione di Messia (“La tua fede ti ha salvato”), educazione a fidarsi di lui; – educazione allo sguardo di fede; in tutta questa attività caritativa la speranza si concentra in Gesù. Gesù educa e il lettore del Vangelo è educato a guardare ai problemi di fondo dell’uomo, nei quali affiora il problema del peccato (“ti sono rimessi i tuoi peccati”, “sono venuto per i peccatori, non per i giusti”, “i malati hanno bisogno del medico, non i sani”). Gradualmente si sta delineando quello che ho chiamato l’uomo cristiano. Non siamo ancora in una rottura di valori molto pronunciata, ma piuttosto nella formazione di quegli atteggiamenti che costituiscono il primo dirottamento della personalità di chi vuol diventare uomo cristiano. In questo senso la prima parte del Vangelo diventa la più bella, la più semplice, la più appetibile, quella anche più facile da riproporre nelle predicazioni, perché qui Gesù assume in sé e trasfonde attorno a sé molti dei valori propriamente umani e quindi più accessibili: misericordia, beneficenza, compassione, apertura, fraternità, fiducia. Quest’educazione è molto necessaria per l’uomo cristiano: egli deve entrare in questa via che non è appunto la via del pagano, stoico, chiuso in se stesso, rigido, disprezzatore degli altri, anche se talvolta ricerca anch’egli una sua onestà, una sua moralità; qui è tutt’altra cosa, come si vede, tutt’altra coniugazione del cuore – alla bontà, alla misericordia, e sempre con lo sguardo di fede verso la verità profonda dell’uomo e del suo male. Gesù assume tutti questi valori umani, accessibili a tutti, e li orienta,

anche se ancora in maniera tanto discreta, contro la radice dei mali: possesso, egoismo, peccato. Gesù non richiede ancora qui alcuna rinuncia, non insiste sulla croce; è un primo periodo di acclimatamento; l’importante è fidarsi di lui, che è così potente, che ama tanto l’uomo, che ci capisce a fondo in tutti i nostri bisogni, come capisce la vedova di Naim che non parla e piange soltanto, la donna peccatrice, il paralitico che gli viene portato davanti e che non sa esprimersi. Educazione del discepolo evangelico (Lc 9-18) In questa parte si tratta specificamente la formazione del discepolo evangelico, di colui che ormai, compiuta la prima iniziazione con coraggio, ha fatto il passo decisivo e segue Gesù nel suo viaggio verso Gerusalemme. Uno dei punti decisivi, degli spartiacque del Vangelo di Luca, è il v. 51 del cap. 9, quando Gesù decide con coraggio, come dando uno strappo, una cesura rispetto al passato, di andare a Gerusalemme: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo (è la prima volta che Luca parla, dopo Nazareth, un linguaggio così duro!) si diresse decisamente verso Gerusalemme (il testo greco dice: “Rese dura la sua faccia per andare a Gerusalemme”) e mandò avanti dei messaggeri”. Comincia qui la sezione del “viaggio lucano”; non dobbiamo formalizzarci però su questo versetto, perché già di per sé in 9,18 ss. col primo annuncio della passione e della resurrezione sta chiudendosi la prima epoca della vita di Gesù e si apre la seconda, che la tradizione fa iniziare con la decisione ferma, disprezzando ogni pericolo, di andare a Gerusalemme. Quali sono le caratteristiche di questa seconda parte? Certamente ci sono meno miracoli, pur essendocene alcuni anche qui: ricordiamo, per esempio, il demonio muto, la donna curva, l’idropico, i dieci lebbrosi, il cieco di Gerico. Ma non abbiamo più l’insistenza su Gesù misericordioso; anzi alcuni di questi miracoli sono collegati con discorsi che occupano la parte principale, e che sono raccolti, almeno apparentemente, senza troppo ordine. Gli esegeti si sono dati da fare per trovare un ordine, uno schema in questi discorsi, ma quanti sono gli esegeti tanti sono gli schemi; non si riesce veramente a vedere un ordine preciso, che forse ci sarà, ma che noi non abbiamo trovato. Quello che è importante notare è che queste sono le parole più dure e più intransigenti che Gesù pronuncia nel Vangelo di Luca. Veramente nasce in

noi una certa paura, a leggere questa seconda parte; sono parole che tolgono il fiato; la punta di diamante evangelica entra ed è capace di ferire, di far male. Un’altra caratteristica di questa parte è un’attenzione ai discepoli, ai futuri evangelizzatori, ai dodici. Ma a un certo punto sono chiamati in causa anche i 72 discepoli, dando così a questa seconda parte la caratteristica di un movimento “pendolare” tra discepoli e folla che fa nascere qualche difficoltà di interpretazione. Gesù infatti parla alla folla, poi torna ai discepoli, e poi di nuovo alla gente. Forse Luca volutamente ha lasciato un po’ d’incertezza, perché si capisca che certe parole di Gesù valgono da una parte per un gruppo scelto e dall’altra per tutti, anche se in maniera diversa. Sembra che Luca ci inviti a un discernimento, anche se non dà regole facili per questo. Prendiamo, come esempio, il cap. 12: al v. 1 si parla di migliaia di persone, ma poi Gesù si rivolge anzitutto ai discepoli; al v. 4 incomincia “A voi miei amici dico…” e sembra che parli di nuovo al gruppo dei discepoli, ma poi troviamo al v. 13 che “Uno della folla gli disse…” Quindi la folla è presente e interviene e l’intervento della folla abbassa il tono del discorso: “Dì a mio fratello che divida con me l’eredità”; quindi questa è la scena che ci viene presentata: la gente, il gruppo dei discepoli, Gesù che parla e risponde quando da qualcuno viene interrotto. Tuttavia l’interesse maggiore sembra concentrarsi verso i discepoli; infatti, dopo aver risposto a quell’uomo che lo chiamava in causa per la divisione dell’eredità e aver raccontato a lui la parabola dell’uomo ricco che ha avuto il buon raccolto e che lo vuole godere, ma che viene chiamato a morire la medesima notte, Luca prosegue: “Poi disse ai discepoli” (v. 22), dove il discorso sembra restringersi dalla folla ai discepoli che gli stanno intorno. Questa è dunque la peculiarità di questi discepoli. Se ora ci domandiamo come avviene la formazione del discepolo evangelico, quali sono le insistenze di Gesù, mi sembra che possiamo fissare alcuni punti, diversi da quelli della prima parte e che ridurrei a tre titoli schematici, anche se, proprio perché tali, rischiano di trattare cose grandiose e difficili con parole troppo brevi e non abbastanza specificate: – educazione al distacco e alla libertà; Gesù insiste moltissimo sul distacco da tutto e sulla libertà del cuore; l’espressione “lasciare tutto” è ripetuta parecchie volte; – educazione all’abbandono di sé al Padre; – educazione al senso della croce.

Vediamo qui come il discorso si fa più elevato, più difficile, anche più sottile, e come perciò sia possibile coglierlo con fraintendimenti ed errori. Sono temi che richiedono una maggiore attenzione, coraggio, umiltà, abbandono. Vorrei ancora notare che questa triplice educazione non è un’educazione ideologica, la proposta di programmi, di principi, con deduzioni logiche, ma concerne la vita; insegnamenti e vita in Gesù si intrecciano e il libro degli Atti dirà che Gesù ha fatto e insegnato: “Gesù fece e insegnò dal principio” (At 1,1). Ci è già possibile qui trarre un’indicazione: il Vangelo si impara per connaturalità affettiva; sant’Ignazio ci fa appunto chiedere la grazia di conoscere Gesù per amarlo e seguirlo. Lo spirito evangelico si impara vivendo con le persone che lo praticano, e quindi per tradizione viva, nella Compagnia, negli ordini religiosi, nella vita cristiana, nella famiglia cristiana: i valori evangelici si imparano non tanto parlando, perché spesso nel parlare ci si astrae un po’ dalla vita e c’è il rischio di prenderli come principi logici da cui trarre delle conclusioni a volte ridicole o esagerate. In questo “essere vita” sta tutta la difficoltà e la ricchezza della fede, del Vangelo rispetto alle ideologie, anche a quelle vere, sane, che rappresentano una certa struttura di principi, di chiavi interpretative, da cui è possibile dedurre logicamente delle conclusioni sulla realtà. Noi certe volte sentiamo la nostalgia di questo, perché ci piacerebbe avere deduzioni chiare e logiche, senza impegnare noi stessi; ma per il Vangelo questo è impossibile. Non si può avere lo Spirito evangelico e giudicare le cose evangeliche senza essersi impegnati e compromessi col Vangelo stesso, senza averlo vissuto insieme ad altri; il viverlo significa essersi compromessi. Certamente molti di quelli che sentivano Gesù non capivano quello che diceva e forse avranno scosso la testa dicendo: “Chissà che cosa vuole costui…!”; solo quelli che lo seguivano da vicino e che erano coinvolti nelle sue prove, nelle sue tentazioni, nei suoi rischi, intuivano questo spirito. Questo spiega anche come le reazioni di Gesù e quelle dei santi sono imprevedibili, e non sono spesso direttamente deducibili da principi. Spesso vediamo Gesù comportarsi in un certo modo, mentre tutti si comportano in modo diverso, e anche la vita dei santi ha spesso di queste imprevedibilità, di questi modi di agire che appunto non sono deduzioni logiche, ma il “vissuto” del Vangelo che è Spirito e Vita. È per questo che dobbiamo chiedere al Signore che anche questa nostra lettura e preghiera siano un essere associati misticamente, in modo misterioso

ma reale, alla vita del Signore; che già la nostra preghiera sia un coinvolgimento, un perderci con lui. Vorrei infine invitarvi, a questo punto degli esercizi, a domandarci: “Come il mio stato di preghiera si sta ora manifestando, e come io lo sto vivendo nella fede, con le sue incertezze, le sue durezze, le sue aridità? Come mi sta conducendo il Signore? Sto accettando la preghiera, oppure mi sto difendendo da essa?” Vorrei qui un momento riflettere su Isaia (cap. 50) e Marco (cap. 8), domandandomi che cosa ci dicono in questo momento, e come si stanno inquadrando in questa riflessione che andiamo facendo. Il Vangelo di Marco, cap. 8, corre in questa sezione parallelo a Luca, o meglio Luca (cap. 9) attinge direttamente e continuamente da Marco e quindi ambedue hanno più o meno le stesse intenzioni, le stesse sottolineature; siamo precisamente alla svolta del ministero di Gesù, quando dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, che Luca riferisce a questo punto, si passa direttamente alla professione di fede di Pietro e poi alla predizione della passione e alle prime sentenze dure sul “lasciare tutto”. Intravediamo già il carattere di questa seconda parte del Vangelo di Luca, che anche Marco ci presenta ma con caratteristiche diverse, incentrato specificamente su una colorazione decisamente cristologica. A voi proporrei di fare una riflessione in seguito sulle predizioni della passione, la prima delle quali ricorre proprio qui. Ora vorrei fermarmi, invece, sul brano del cap. 50 di Isaia che è il terzo canto del “servo del Signore” (Is 50,4-11), e chiederci prima di tutto come questo canto ci colpisca in questa situazione. Prendendo le parole di questo canto vorrei farvi notare una tematica particolare: il canto parla di un misterioso ascoltatore della Parola, disponibile, respinto, e tuttavia fermo, coraggioso e fiducioso; la figura che viene delineata è enigmatica; probabilmente il riferimento più immediato è Geremia, ascoltatore umile, disponibile, respinto, fermo e fiducioso; è attorno a lui che si può quindi ricamare per precisare il quadro, ma esso rimane sempre un po’ generico. Più interessante è notare come gli evangelisti hanno meditato a fondo questo passo. La comunità primitiva sentiva profondamente queste parole del canto, e da esso gli evangelisti hanno preso direttamente le stesse parole greche con cui descrivere i momenti della passione di Gesù: “Ho presentato il dorso ai flagellatori […] non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (cfr. Mt 26,67; 27,30). C’è quindi un salto diretto tra Isaia e il Nuovo Testamento, salto che appunto neppure gli apostoli da principio hanno saputo fare (cfr. Mc 9,31 ss.); la comunità, invece, ha sentito queste parole, ha

riflettuto, piangendo e godendo del Signore morto e risorto, e attraverso questa esperienza è venuta a capire questo canto alla luce di Cristo. Un altro legame col Nuovo Testamento che possiamo ricordare nel leggere questo carme è dato dall’espressione “Rendo la mia faccia dura come la pietra” (Is 50,7); ho l’impressione che Luca dicendo in 9,51 che Gesù ha indurito la sua faccia per andare a Gerusalemme, si sia riferito proprio a questo passo. Qui le parole greche non sono identiche, ma il concetto è lo stesso; quindi certamente gli evangelisti per capire Gesù hanno meditato a lungo questa pagina. Un’altra indicazione riguarda il v. 4 della lettura; esso dice così: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come gli iniziati”. E poi ancora: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza”. È bene che teniamo conto anche di questo v. che mi pare molto importante specialmente per noi, per la nostra situazione presente. C’è inoltre quest’altro riferimento neotestamentario dove Gesù dice: “Noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto” (Gv 3,11). Riferiamoci subito alla nostra situazione: che cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di dare ascolto, di essere anche noi ascoltatori, per divenire iniziati: iniziati a che cosa? A quei misteri che Pietro non ha capito, cioè al mistero della morte di Gesù, Parola respinta e glorificata. Ora questa iniziativa nostra, questa nostra ricerca di ascoltare la parola, per avere questo linguaggio da iniziati, sarà quella che ci permetterà di fare ciò che desideriamo moltissimo fare, cioè saper indirizzare allo sfiduciato una nostra parola. Perciò chiediamo al Signore, soprattutto nell’Eucaristia, che davvero ci faccia questo orecchio attento, per poter capire il suo mistero e dare coraggio. Quante volte, dopo un colloquio con una persona, diciamo: “Forse non ho saputo veramente infondere coraggio, non ho saputo dare respiro”; questa è la grazia che desideriamo e chiediamo. Ma qual è il prezzo di questa grazia? Il prezzo è di farci noi stessi ascoltatori disponibili. Questo sembra facile: “Il Signore mi ha aperto l’orecchio (è lui che ci fa disponibili!); non ho opposto resistenza; non mi sono tirato indietro”. Fin qui tutto sembra tranquillo, con quel “non mi sono tirato indietro” di fronte alla sua parola. Ma ecco che subito la scena si concretizza: questo non tirarsi indietro è anche un non tirarsi indietro rispetto alle contraddizioni della Parola: offrire il “dorso ai flagellatori”, la “guancia a coloro che mi strappano la barba”, non “sottrarre

la faccia agli insulti e agli sputi”. Possiamo qui richiamare direttamente la terza forma di umiltà di sant’Ignazio21 e cercare di capirla meglio in questa luce. Non è una ricerca di umiliazioni generiche, ma un essere umiliato per essere come Cristo, umiliato, perché si è scelta la parola di Cristo, perché siamo apostoli di Cristo e seguiamo la sua sorte, un’umiltà direttamente apostolica, accettata perché sappiamo che questo è il destino della Parola; farci talmente unificati con la Parola da accettare anche la sorte che Cristo per primo ha accettato. Solo così possiamo essere apostoli, propagatori della Parola, quando abbiamo raggiunto questa decisione. Ricordo che, nella sua autobiografia, il cardinale Mindszenty22 descrive, con una frase brevissima, ciò che ha provato quando la prima volta gli hanno messo le mani addosso e gli hanno dato il primo colpo di bastone. Dice: “In quel momento un mondo è crollato per me!” Fino a quel momento era stato il grande cardinale, magari attaccato ma riverito in pubblico, criticato ma sempre rispettato nella sua dignità; in quel momento aveva capito che la Parola lo aveva portato a un’altra esperienza, molto diversa, che è appunto quella che egli descrive. Egli ci riferisce come pregava durante le torture, durante i momenti di abbandono: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso”. Ci vuole un coraggio eroico in queste situazioni; è l’esperienza dell’ascoltatore, coinvolto ormai nella Parola, preso nel gioco drammatico di Cristo, diventato Cristo respinto, ma che esperimenta insieme un coraggio inaudito. E anche noi, timidi, paurosi sperimentiamo allora una capacità di resistenza, insospettata per noi, miracolosa: è il credere in un Signore che solo ci rende giustizia. E da questa fede nasce la capacità di gridare di fronte al mondo la nostra contestazione: “Chi oserà venir a contesa con me?” Questo non aver più paura di nessuno non è il frutto di una millanteria, ma di una sofferenza nella quale la nostra povertà estrema ha sentito di essere presa in mano dalla Grazia: “Ecco, il Signore Dio mi assiste. Chi mi dichiarerà colpevole?” E probabilmente ci dobbiamo preparare a una esperienza simile a quella del cardinale Mindszenty; nessuno di noi può sapere l’avvenire immediato, e tanto meno il futuro più remoto. Tutti siamo chiamati dal Signore a questa identificazione con la sua Parola, che dall’ascolto passa al coinvolgimento e riproduce nella nostra vita la sorte del servo. Contemplando insieme questa Parola, respinta e glorificata, che si fa cibo nell’Eucaristia, chiederemo a vicenda per ciascuno di noi coraggio e forza,

perché può venire il momento in cui, dentro e fuori di noi, un mondo crolla e le nostre sicurezze, il pulpito dal quale proclamiamo la Parola, scricchiola e con umiliazione e sorpresa ci troviamo a terra con gli altri. Ma noi siamo certi che il Signore in quel momento si farà nostra forza: non noi, non la nostra presunzione, ma la sua presenza gloriosa ci fortificherà in questo momento e ci darà solidità per non aver paura di nessuno o per gridare forte ciò che il Signore ci ha fatto sentire.

IX. IL PIANTO DI GESÙ SU GERUSALEMME Maria, madre di Gesù, ti chiediamo di intercedere presso il tuo Figlio, perché conceda a tutti noi, in questo momento degli esercizi, un atteggiamento giusto, cioè quello dell’ascolto, e per me un’esposizione fedele delle cose che il tuo Figlio vuole che noi ascoltiamo. Ottienici un atteggiamento giusto nel cercare non soltanto una soluzione ai problemi immediati che vanno lasciati alle istanze dovute, ma l’atteggiamento di disponibilità a ricevere la parola del tuo Figlio. Intercedi per noi perché con serenità e umiltà, in una preghiera semplice, abbandonata e tranquilla ascoltiamo questa parola e la facciamo nostra come tu l’hai messa in pratica. Leggiamo dagli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, dal n. [135], il preambolo per la considerazione degli stati di vita: “Cominceremo a riflettere e a domandarci, mentre continuiamo a contemplare la sua vita, in quale condizione o stato di vita la Sua Divina Maestà vorrà servirsi di noi”. In questo passo abbiamo puntualizzato il momento dei nostri esercizi: continuando a meditare la vita di nostro Signore, nello spirito della seconda settimana, cioè a contemplare alcuni modi del suo agire, alcuni suoi atteggiamenti, preferenze, reazioni, cominciamo contemporaneamente a domandarci (forse lo abbiamo già fatto perché è emerso spontaneamente in noi, ma ora lo facciamo più specificamente) in quale vita o stato la Divina Maestà vuole servirsi di noi. Cerchiamo cioè, in un atteggiamento di responsabilità, di far emergere quale modo di vivere il nostro apostolato il Signore ci va suggerendo. Porremo attenzione a due punti: – qual è il modo del nostro contatto apostolico con gli altri. Non parlo di

una electio status, che può anche essere fatta nel senso di chiedere un cambiamento radicale del proprio ministero ai superiori, ma parlo piuttosto di una reformatio vitae: si tratta di vedere quali atteggiamenti interiori ed esteriori mi vengono suggeriti per il mio apostolato; – quali modalità deve assumere la mia preghiera per diventare preghiera apostolica in questo momento della mia maturazione spirituale, delle mie speranze e prove, nell’incontro con gli altri. Questi sono due punti che potrà essere utile tenere presenti. Per ottenere meglio questo frutto sant’Ignazio ci fa chiedere una grazia al n. [139] degli Esercizi, nella meditazione dei due Vessilli: “Chiedere ciò che voglio. Qui sarà chiedere di conoscere gli inganni del cattivo capo e l’aiuto per difendermi da essi; e di conoscere la vera vita che indica il sommo e vero capo e la grazia di seguirlo”. Tutti sappiamo quanto sia oggi più che mai necessaria questa grazia del discernimento, a causa dei vari influssi, delle varie proposte, suggerimenti, entusiasmi, speranze, cui siamo sottoposti nel nostro mondo. Ed è appunto per dare un certo supporto a questa ricerca che vorrei proporvi la meditazione del pianto di Gesù su Gerusalemme (19,41-44), strettamente connesso con l’invettiva di Gesù su Gerusalemme stessa (13,3435). Come potete vedere sono due brani strettamente collegati, che stanno uno ancora nel mezzo della vita pubblica di Gesù, l’altro già all’ingresso della passione; questa ripetizione ci fa vedere che si tratta di un tema importante. Con qualche esitazione mi sono deciso a proporre questa meditazione per due motivi. Primo: perché riflettendo ieri sera in merito alle reazioni che mi hanno aiutato a prendere coscienza del punto in cui siamo, temevo che le code di questa meditazione disturbassero la vostra preghiera, introducendo il desiderio di risolvere adesso problemi che vanno invece risolti nelle sedi appropriate e con una metodologia adatta: c’è sempre il rischio di chiedere troppo agli esercizi, alla nostra preghiera. Queste estrapolazioni dal clima degli esercizi sono sempre pericolose e danno poi origine a spiritualismi che rendono ostica la vita spirituale, perché si pretende di fare più di quanto è dovuto; da ciò un timore, meglio un pericolo, dal quale voi vi dovrete difendere. Secondo: perché sono cose che vado ripensando soprattutto sotto la spinta della riflessione su un documento proprio di noi Gesuiti, “La nostra missione

oggi: diaconia della fede e promozione della giustizia”23, che mi fa un po’ da sfondo nel proporre questa meditazione. Questo come premessa. Veniamo ora alla meditazione e leggiamo 19,41-44. Soltanto Luca ha questo brano e lo fa seguire immediatamente all’ingresso trionfale in Gerusalemme, volendo forse in qualche maniera approfondire o correggere una impressione che questo ingresso trionfale avrebbe potuto lasciare: ma Gesù non si è lasciato prendere o entusiasmare troppo dalla risposta plaudente della gente, e vede in profondità le cose. Così, vicino ormai alla discesa dal monte, quando la folla già gridava: “Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli” (quasi l’inno angelico della nascita), alcuni farisei tra la folla gli dissero: “Maestro rimprovera i tuoi discepoli”. Ma egli rispose: “Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre”. Quindi anche Gesù è dentro l’entusiasmo della folla. Ma poi Luca continua: Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa dicendo: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno la via della pace! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi. Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte; abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.

Leggiamo subito anche l’altro brano in 13,34-35. Hanno detto a Gesù: “Parti e vattene via da qui perché Erode ti vuole uccidere”. Egli rispose: “Andate a dire a quella volpe: ‘Ecco, io scaccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito. Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme’”.

A questo segue il nostro brano: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto. Ecco la vostra casa sta per esservi lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”

Probabilmente Luca inserisce qui nel cap. 13 questo passo, che Matteo invece mette nel cap. 23 al fondo dell’invettiva contro i farisei a Gerusalemme con una chiara indicazione escatologica volendo alludere all’ingresso in Gerusalemme, quando Gesù sarebbe venuto per l’ultima volta a scuotere questa città. Dunque, prima di tutto, riflettiamo un istante: mettiamoci, se volete, presso il “Dominus flevit”, quella splendida piccola cappella sulla costa del

Monte degli Ulivi, da cui si può vedere ancora, attraverso le vetrate, celebrando la Messa, il luogo del tempio e quindi tutta quanta la città. Raccogliamoci in silenzio come avrà fatto sant’Ignazio, che ha salito più volte quella collina, per andare verso l’uliveto, e poi sediamoci idealmente su una pietra dimenticando ogni cosa, e riportandoci nella realtà misteriosa della storia che Gesù stava vivendo in quel momento. Gesù piange, e non è un gesto consueto di Gesù in Luca. Piange, e piange pubblicamente, e sappiamo che non è facile per un adulto piangere in pubblico. Può accadere che uno pianga in privato, ma un pianto in pubblico richiede un’emozione violenta, incontenibile, e Gesù non è certamente un debole. Basta leggere quelle parole, che non ci lasciano senza timore, che troviamo in 13,1-5: In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola Gesù rispose: “Credete che quei galilei fossero più peccatori di tutti i galilei, per aver subito tale sorte? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”.

Gesù ci si rivela qui con la personalità forte, dura quindi; se si lascia andare a un pianto pubblico come quello descritto da Luca, vuol dire che c’è qualcosa di straordinario che si agita nell’intimo del Signore. È un atto pubblico e profetico che ci ricorda alcuni gesti di Geremia e di Ezechiele, anche se Gesù lo vive intimamente, senza teatralità ma con una commozione sconvolgente per il suo animo. Penso che potremo, nella nostra meditazione, a questo punto, avvicinarci al Signore e fargli quella domanda che lui stesso ha fatto alla Maddalena: “Perché piangi? Che cosa ti commuove così profondamente e che cosa c’è in me che partecipa in questo momento alla tua commozione?” Gesù piange sulla città alla sua vista: non piange sulla rovina delle singole anime soltanto, ma proprio sulla città come tale, su questo corpo vivente, organizzato, che ha una storia e un destino. Noi possiamo capire queste cose, se proviamo a entrare nella mentalità degli ebrei di oggi e ci chiediamo che cosa significa Gerusalemme per un ebreo di oggi: la città santa, la città desiderata da lontano, a cui i profughi giungono dopo tanti sacrifici, la città conquistata a prezzo di sangue e tenuta oggi a prezzo di odio, di un isolamento mondiale spaventoso e che pure non possono abbandonare, anche se abbandonandola guadagnerebbero la vita, la considerazione presso

le altre nazioni; è un qualche cosa di drammatico e di terribile che si muove nel cuore di un ebreo di fronte a questa città. Gesù risente di tutto ciò, perché appunto in questa città è concentrata tutta la storia di Israele, della promessa, della scelta, dell’elezione, della speranza, della missione messianica per il mondo. Qui potremmo allora fare una domanda più “nostra” a Gesù, una domanda che riflette già una nostra distinzione dal cuore del mondo ebraico, ma che noi non possiamo non fargli: “Signore, sono soprattutto i valori religiosi perduti, cioè le anime di questa città che si perdono (sant’Ignazio direbbe le anime che scendono all’inferno [106]) che ti fanno soffrire, oppure sono anche i valori umani, cioè la storia di questa città, la sua missione, il suo essere corpo organizzato, il suo essere popolo?” Gli ebrei distinguono con molta difficoltà queste due cose, e il Signore stesso in qualche maniera non le distingue nel senso che non separa il destino del singolo dal destino del gruppo: per lui sono strettamente collegati. Certo per il Signore la singola persona ha valore (dicevamo che Dio corre dietro anche a una sola anima), però è altrettanto vero che il Signore ha creato il popolo e non salva se non nel popolo. Egli quindi ricerca la pecorella perché ritorni al gregge in quanto per il Signore è il gregge, il popolo, la città che sarà salvata, e che diverrà la celeste Gerusalemme. I valori della salvezza comunitaria sono fortemente presenti nell’anima del Signore e con questi valori anche le loro espressioni che oggi si chiamano culturali: il vivere insieme, il parlarsi, la forma del linguaggio, una letteratura, che è la Bibbia, nella quale la parola di Dio si esprime in linguaggio umano; valori che producono una storia, dei costumi, dei modi di pensare, di reagire, di vivere, che danno origine a una mentalità, a una filosofia. Dobbiamo chiedere al Signore che ci faccia entrare nelle profondità delle ragioni della sua commozione, anche se ciò non è certo facile: allora ci accorgeremo di come queste toccano fortemente anche noi, perché noi pure non siamo insensibili al destino della città, al destino del popolo. Perché dunque il Signore piange sulla città? Tre motivi sono portati da questo brano: non hai conosciuto la via della pace; verrà il giorno in cui i nemici ti distruggeranno; non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata. Non hai conosciuto la via della pace. Se questa parola va intesa nel senso veterotestamentario allora non possiamo non concludere che Gesù ha desiderato la pace della città, cioè la pienezza dei beni, la prosperità anche

umana riconquistata sotto Dio, nel rispetto reciproco gli uni degli altri, nella lode, nella gloria di Dio. Le due cose sono estremamente connesse nella mentalità ebraica. Gesù ha veramente desiderato questa pace della città, che è la gloria di Dio manifestata, e soffre perché questa pace non le è concessa. Possiamo pensare che se Gerusalemme avesse riconosciuto il tempo della sua visita, la storia sarebbe andata in modo diverso, cioè veramente essa avrebbe costruito nel mondo un esempio di società organicamente costituita nella fraternità e nella giustizia; ma questo disegno viene frustrato, questa via della pace viene nascosta agli occhi di Gerusalemme; cioè la città si è rifiutata di accogliere la voce di Dio, e perciò si sta sprofondando da sola, con le sue stesse mani. E questo suppone evidentemente un rapporto tra il riconoscimento della parola di Dio e il destino, anche storico, della città. Verrà il giorno in cui i nemici ti distruggeranno. Per capire il senso pregnante di queste parole possiamo fare nostra la nota della Bibbia di Gerusalemme, la quale fa capire che questo oracolo (“Verrà il giorno…”) completamente intessuto di reminiscenze bibliche (e cita Isaia, Geremia, Ezechiele ecc.) è una brevissima frase che in maniera telescopica riprende tutto il destino tragico di Gerusalemme, dal tempo delle prime minacce fino alla distruzione e all’esilio, in questo preciso momento in cui questa città sta davanti agli occhi del Signore. È tutta la storia tragica del popolo che Gesù ha presente in questo momento e di cui vede il destino ultimo, drammatico e imminente. “Abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra”: ciò che Gesù vede non è soltanto il crollo dei valori religiosi, ma anche quello degli edifici, dei monumenti, della storia, dell’identità civile. Non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata. È chiaro che qui la parola è religiosa, e la visita è la visita di Dio che viene a dare il buon annuncio, viene a dare la notizia di salvezza, ma è altrettanto chiaro che c’è un legame tra la visita di Dio e la sorte della città. Possiamo leggere questo anche più chiaramente in 13,34-35: nella prima parte (“Gerusalemme uccidi i profeti”) si nota l’atteggiamento di Gerusalemme che rifiuta la Parola e la calpesta; ma questa Parola calpestata non è senza effetto per chi la calpesta: è un giudizio. Di qui anche il coraggio apostolico che Gesù trasmette ai discepoli: “Voi dite la Parola; se non la

ricevono scuotete la polvere dai vostri piedi”; altro che timore di non essere ascoltati, si tratta piuttosto di una forza giudicante insita nella Parola. Quindi Gerusalemme ha rifiutato i profeti. Poi: “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli”. Qui cosa vuol dire questa frase, forse un po’ misteriosa? Che Gesù sia andato molte volte a Gerusalemme, richiamando la città alla penitenza, lo si può dedurre da Giovanni, dove si parla di diverse visite e diversi tentativi di Gesù di convincere i farisei e gli scribi proprio nel luogo della loro origine, la città della sapienza e della legge. Forse però l’espressione va intesa in un senso un po’ più vasto: “Quante volte ho voluto raccogliere” è tutto lo sforzo di Dio nell’Antico Testamento, la sua premura verso il popolo “come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto”. Quindi si parla della cura di Dio per la città come tale, cioè la sua vita umana e religiosa, e della conseguenza del rifiuto: “La vostra casa sta per esservi lasciata deserta”, così come Geremia aveva profetizzato per la Gerusalemme infedele del suo tempo. “Fino al momento della visita ultima”: forse di qui Paolo ha tratto la sua fiducia nella conversione degli ebrei: ci sarà un momento in cui grideranno di nuovo “Benedetto Colui che viene nel nome del Signore”. A ogni modo è chiaro da questo brano che c’è un legame tra la fede e la pace, tra l’accettare la visita e l’essere riuniti come la covata di una gallina sotto le ali del Signore, tra l’essere protetti dal Signore e l’essere collegati insieme, armonicamente, in una città, in un popolo. E naturalmente a questo punto la nostra meditazione diviene interrogazione al Signore riguardo alla nostra situazione presente; possiamo domandargli: “Signore Gesù, questo che tu vedevi e proclamavi è il destino soltanto del popolo ebraico, è vero soltanto per esso, rigoroso annunciatore della parola, col suo legame tra destino politico e religioso?” Qui si aprirebbe un capitolo difficilissimo di teologia del popolo ebraico, quello cioè della missione dell’ebraismo oggi (lodare il nome del Signore? Attendere il Signore e in che maniera?) sul quale ancora attualmente i teologi non riescono che a balbettare. A noi, però, interessa ora in particolare il problema più ristretto del legame tra fede e pace (intesa in senso ebraico di pienezza di doni anche umani, in una vita rivolta alla lode di Jahweh, che qui nel testo, come abbiamo visto, è chiarissimo per il momento storico in cui Gesù parla): questo legame, cioè, è soltanto il destino specifico di quel momento, oppure è una parola per tutte le genti?

A questo punto vorrei aggiungere qualche indicazione, anche se temo nel farlo per la possibilità di uscire dall’ambito della meditazione e della preghiera; a ogni modo penso che qualche spunto di riflessione può essere dato. Approfondiamo la domanda che facciamo al Signore: “Qual è il rapporto tra fede e pace?” o, se volete, per rapportarci al nostro tema più generale: “In che maniera nel Vangelo di Luca avviene l’educazione ai valori del mondo e al loro rapporto con la parola evangelica?” La risposta certo non è facile. E ancora: “Come i valori del mondo sono presenti nell’educazione di Teofilo?” Propongo, non tanto brevemente ma sinteticamente, due vie di avvicinamento a questo tema: una via piuttosto generale di riflessione e cioè quale idea si può ricavare da Luca sul significato dei valori del mondo, intendendo per valori del mondo appunto tutti quelli detti genericamente di cultura, di civiltà, di organizzazione della città, con tutto ciò che vi è connesso: economia, ricchezza, produzione ecc., e quindi una prima risposta e poi qualche riflessione generale, qualche suggerimento, sul punto di partenza messianico che si ricollega direttamente al brano del pianto su Gerusalemme e al lamento contro Gerusalemme. Dunque, prima di tutto, cosa troviamo nell’opera lucana in genere? Troviamo, mi sembra, un atteggiamento piuttosto disincantato rispetto ai valori del mondo del suo tempo (ci limitiamo a questo tempo perché Luca non vuole dare un breviario per tutti i problemi di tutti i tempi). Luca riconosce tanti valori del suo tempo: gli Atti in particolare mostrano di valutare molto bene il prestigio di Roma, il diritto romano e l’aequitas romana (per cui i Romani non condannavano nessuno senza averlo prima ascoltato, aspetto fondamentale per tutta l’impostazione di un criterio di giudizio), l’organizzazione interna delle città greche e anche il fascino di certe città, quali Efeso, il valore delle strade romane, dei viaggi ecc. Chiaramente, dunque, Luca riconosce che il mondo del suo tempo ha valori notevoli (economici, civili, culturali, sociali ecc.), lo accetta e lo stima. Ma d’altra parte è altrettanto chiaro che egli è abbastanza disincantato, cioè sa benissimo che il mondo del suo tempo non è tutto splendore: conosce la giustizia lenta, incerta, per cui Paolo deve viaggiare, aspettare e infine sarà ucciso; i tumulti delle città greche, che le autorità non riescono a controllare; le autorità romane piene di spavento e di servilismo, come a Filippi; l’organizzazione economica carente, con le carestie. Dunque non c’è nessun atteggiamento di ammirazione incondizionata

verso l’organizzazione civile e sociale; c’è un atteggiamento che si potrebbe forse chiamare qualunquistico: alcune cose sono buone, altre cose vanno male, e il discepolo si fa la propria strada senza preoccuparsi molto di dare un giudizio o di rapportarsi a queste realtà in maniera chiara. Dunque una prima constatazione: c’è un atteggiamento piuttosto disincantato verso i valori del mondo del suo tempo. Seconda constatazione: c’è una chiara distanza, nell’opera lucana, da alcuni valori ambigui (o pseudovalori) coltivati al suo tempo e sempre. Valori come la massa, il prestigio, il potere vengono chiaramente sottoposti a critica. La massa: “Non temere piccolo gregge” (12,32): non alla grande massa, ma a voi piccolo gregge è piaciuto al Padre di dare il Regno, e per lui una pecora perduta vale più di novantanove che sono al sicuro (cfr. 15,4-7). Il prestigio: “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” (6,26): eppure il prestigio nella vita politica romana è uno dei moventi fondamentali. Il potere: “I re delle nazioni le governano e […] si fanno chiamare benefattori. Per voi però non è così” (22,25). È chiara qui la critica al modo di governare. Insieme con questa presa di distanza da alcuni valori ambigui o pseudovalori, ci sono alcune marcate preferenze per situazioni apparentemente di poco valore umano: i bambini (“A chi è come loro appartiene il regno di Dio”, 18,16), il piccolo (“Chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande”, 9,48). È chiaro che tutto questo è in contrasto con lo sfondo della civiltà del tempo, con la costruzione della società. Ancora: al banchetto gli invitati sono i poveri, gli storpi, i ciechi (14,13.15-24). Sembra quasi umoristico e viene da domandarsi: “Ma che banchetto è?” Non è evidentemente un banchetto come gli altri, e appare come un affronto a tutto un modo di gestire la cultura. E poi quel principio che è distruttivo, almeno apparentemente, di tutta la politica e il diritto: “Benedite il nemico, perdonate” (6,27 ss.). Come si può costruire la società sul diritto se vige questo principio? È chiaro che qui c’è un modo di entrare nella società del tempo che è un modo del tutto originale, diverso, che non piega il ginocchio di fronte a nessuna forma costituita del vivere, anche se le rispetta e le usa. Così Paolo userà del diritto romano e userà dei suoi diritti per non farsi bastonare, per chiedere l’appello a Cesare. Se egli, quindi, riconosce, nonostante quanto detto appena prima, la validità di queste cose, allora (questa è una prima osservazione che di per sé ci lascia un po’ perplessi) il problema è molto

difficile e non possiamo trarre troppo facili conclusioni. Per essere anche più stimolante nella mia critica, potrei dire così: sulla famiglia, la cultura, la vita economico-sociale, la vita politica, la pace tra le nazioni, questi grossi nodi riguardanti la vita, il manuale del discepolo (Lc e At) tocca un po’ la famiglia (alcuni elementi), poco la cultura (pur essendo Luca uomo di cultura, come dimostra dal modo di scrivere), la vita economica abbastanza da rovescio (proclama il distacco e con il distacco non si fa molta produzione economica!), pochissimo la politica e poco o nulla il rapporto tra le nazioni (c’è qui, è vero, questo concetto di pace, ma esso è legato alla parola di Dio). Quindi questo manuale del discepolo è molto deludente, se chiediamo a esso di rispondere a quei cinque problemi riguardo ai quali la Chiesa, con la Gaudium et Spes24, dice di avere parole da pronunciare per tutti gli uomini. Questo fatto ci pone certamente in uno stato di ansietà che dobbiamo lasciare penetrare anche nella preghiera, chiedendo al Signore che cosa esso significhi. Significa forse due cose: la prima che dobbiamo farci la nostra vita. Il manuale del discepolo è il manuale del discepolo e non dell’uomo d’oggi, e quindi come uomini di oggi dobbiamo trovare la nostra strada; questo manuale del discepolo non ci dà (come anche sant’Ignazio negli Esercizi) nessuna conclusione già fatta, ma piuttosto la radice di tutte le scelte: ed è qui il punto specifico al quale dobbiamo tendere, anche se questa radice di tutte le scelte non ha corpo, non ha sostanza, se non si concretizza poi in scelte specifiche (sant’Ignazio non sarebbe contento se uno terminasse gli esercizi con la pura disponibilità in astratto: la disponibilità si mostra nella scelta). Questa è una prima riflessione come vedete piuttosto dispersiva e che forse non aiuta la meditazione, ma che a me pare importante nel contesto della nostra ricerca odierna. Dunque abbiamo fatto questo cammino, abbiamo cercato di leggere questi due brani di Luca per vedere che cosa ci dicono sulla domanda: “In che maniera il manuale del discepolo ci parla dei valori del mondo?”, e abbiamo visto risposte un po’ deludenti. Ora, in una seconda e ultima riflessione di questo tipo più generale, che chiamerei “punto di partenza messianico”, cerchiamo una risposta a questa stessa domanda, ma centrandola di più nel cuore del Signore. Rientriamo un momento in noi stessi e cerchiamo di percepire per via di simpatia e di connaturalità l’ideale che sta, per esempio, dietro Lc 2,38: Anna “parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”, oppure dietro la parola di Simeone: “luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo,

Israele” (2,32). Troviamo qui lo stesso atteggiamento di Gesù che piange, cioè un ideale messianico profondamente vissuto in cui l’assoluto desiderabile è Dio, ma vissuto in una situazione umana di giustizia, pace, equità, rispetto per tutti, libertà dagli oppressori, nella lode di Dio. È l’ideale del Benedictus25: ci ha concesso, “liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni” (1,74 ss.). È questo l’ideale di fondo, l’anima giudaica che riaffiora nel pianto di Gesù su Gerusalemme, nel suo lamento. Ora, fatto questo primo tentativo di avvicinamento, possiamo chiederci (“sforzarci”, come dice sant’Ignazio) di vedere come questo è l’ideale che, in fondo, si muove nel cuore di ogni uomo non rassegnato al peggio, è l’ideale che anima oggi i miliardi di uomini che fanno sforzi sinceri di miglioramento, anche se spesso questo ideale è tragicamente mutilato nella sua apertura a Dio. Un valore fondamentale, cioè la speranza e la tensione verso il meglio, è appunto il messianismo radicale, come potremmo chiamarlo, che vive nel cuore di ogni uomo che non si rassegna a che le cose vadano male, anche se la disperazione, la frustrazione possono portare a una rassegnazione apparente. Ma di fatto l’uomo è uomo per questo suo desiderio del meglio. Ora Gesù fa leva su questo sentimento che tutto l’Antico Testamento aveva coltivato, cioè la speranza che esista in qualche posto, in qualche tempo, anche nella stessa vicenda umana, un mondo giusto e migliore. E Gesù sceglie i suoi tra gente non rassegnata o pigra, ma tra gente in cui fanno presa entusiasmo e fiducia; sceglie i suoi tra i discepoli del Battista, cioè tra la gente che aveva ideali altissimi, che aspettava la redenzione di Israele e sperava in un cambiamento delle cose. E questa attesa tra i discepoli era tanto violenta che la vediamo riapparire, malgrado tutte le chiarificazioni di Gesù, anche in ultimo, nelle forme più terrene e deludenti: “Speravamo che fosse lui a liberare Israele” (24,21), dicono i discepoli di Emmaus. Dunque Gesù ha vissuto in mezzo a queste speranze violente che sono le nostre e degli uomini di oggi, e ha fatto leva su di esse; ha fatto leva su di esse perché, appunto, vi si è immedesimato e le ha purificate; ha lasciato che i suoi vivessero questa attesa, non l’ha negata ma l’ha educata attraverso prove rigorose e dure per portare quest’aspirazione alla sua verità. I discepoli di Gesù in Luca sono coloro che hanno creduto che Gesù poteva prendere questo loro entusiasmo e lavorarlo a modo suo, metterlo alla prova e dargli il senso definitivo, non spegnerlo ma portarlo avanti.

Possiamo allora vedere l’esperienza di Gesù inserita e vissuta in questo ambiente di idealismo messianico che non è distinto, ma, al contrario, vicinissimo a quella che è l’aspirazione di ogni uomo, e che muove tanti uomini anche oggi. Noi dobbiamo contemplare il Signore e chiedere che cosa ci dice attraverso questa manifestazione del suo cuore, che egli ci fa nel pianto su Gerusalemme. Vorrei però enunciare brevemente tre conclusioni che possiamo tenere presenti per orientare la nostra preghiera. La prima conclusione è un discorso di fiducia che il Signore ci fa nel Vangelo di Luca, la seconda è un discorso di approfondimento, la terza è un discorso di distinzione di piani. Il discorso di fiducia. L’abbiamo già enunciato: la domanda è questa: “Hai fiducia che il Signore sa dove ti porta, che il Signore comprende le profondità dei tuoi desideri, che non li vuole negare, ma riempire? Accetti quindi di rischiare e anche di perdere sulla sua parola?” Questo è il discorso della seconda parte di Luca, rivolto al discepolo di cui educa le attese messianiche, i desideri violenti; è quindi un discorso di fiducia nel Signore fatto soprattutto al presbitero dall’evangelista. Forse non può essere fatto troppo facilmente alla folla, ma deve essere prima di tutto intuito dal presbitero stesso, cioè da colui che segue Gesù. Il discorso di approfondimento. Credo che la scuola di Gesù, presa sul serio, ci porti là dove questa ansia messianica raggiunge l’ultima sua radice, cioè il desiderio di Dio. L’illuminazione che possiamo avere nella preghiera riguarda il rapporto tra il desiderio messianico universale di pace, libertà e giustizia, e il desiderio di Dio più radicale ancora, che si muove per grazia di Dio, per attrazione divina di creazione e di salvezza nel cuore di ogni uomo. Che il Signore mostri a noi la continuità dei due desideri e ci faccia cogliere la radice del messianismo, della speranza di giustizia, nel desiderio dell’assoluto, portandoci così a quella che è la situazione ultima della preghiera, cioè l’essere di fronte a Dio, il desiderarlo: è la preghiera come atteggiamento radicale dell’uomo, in cui tutti gli altri desideri acquistano lucidità, chiarezza, ordine. Un desiderio di Dio che è desiderio di vedere il suo volto, espresso molto bene dal salmo: “Mostraci, o Signore, il tuo volto, il tuo volto, Signore, io cerco”, il desiderio di sant’Agostino: “Ci hai fatto, Signore, per te”26, o quello di padre Lallemant con cui comincia il suo libro sulla vita interiore: “C’è nel nostro cuore un vuoto che Dio solo può riempire”27; oppure anche quello di Madeleine Delbrêl: “È la passione di Dio

che mi muove, essa è la radice di tutto”. Madeleine Delbrêl, assistente sociale morta nel 1964, è vissuta alla periferia di Parigi, in un ambiente totalmente dominato dai comunisti, con i quali ha avuto una collaborazione quotidiana, animata da una passione di Dio e da una lucidità evangelica formidabili. Io personalmente sono molto aiutato da questi scritti di Madeleine Delbrêl per vedere il collegamento tra una vita contemplativa molto pura e un’azione sociale molto intensa: questa passione di Dio, a cui lei non avrebbe mai rinunciato, le dava la possibilità di vedere fin dove invece doveva gridare e distinguersi. Il discorso quindi che Luca ci fa è un discorso di approfondimento: conoscere come dal desiderio di Dio, dall’abbandono in lui, che comporta radicalità e distacco, deriva la possibilità di far sgorgare in purezza il desiderio delle cose di Dio, cioè della giustizia, della pace, della fraternità, della collaborazione, e in definitiva anche dell’organizzazione della città giusta, che è il sogno dell’anima ebraica, quello a cui tende tutta la legge nelle sue disposizioni civili e sociali. Il discorso della corretta reazione e distinzione dei piani. Una terza conclusione, che però Luca ci lascia appena intravedere (perché è piuttosto della nostra civiltà), è il discorso della corretta relazione o distinzione dei piani. Dicevamo che non possiamo chiedere alla Chiesa primitiva (e quindi neanche al Nuovo Testamento che viene in parte dalla Chiesa primitiva) più di quanto essa ha vissuto. I primi cristiani hanno vissuto l’esperienza di piccolo gregge in una società statica, e quindi piccolo gregge non gravato di responsabilità sociali ampie, non necessitato ad avere una visuale completa dell’uomo. Quindi, anche se ci sono molte indicazioni preziose e intuizioni profonde, il problema non si pone come oggi in una Chiesa di maggioranza. È un piccolo gregge, e inoltre posto in una società statica, come dicevamo, in cui moltissimi problemi portati dal crescere vorticoso, dall’autocostruirsi della società permesso dall’industrializzazione, dalla moltiplicazione del lavoro umano, non esistevano. Il rapporto tra uomo e lavoro era semplicissimo: più uomini più lavoro; e quindi una società sempre ricondotta nelle stesse linee per cui, in fondo, è stato sufficiente sostituire per parecchi secoli al paganesimo un ideale religioso cristiano per avere una corrispondente e analoga struttura. Non può, quindi, il Nuovo Testamento aver previsto i problemi degli ultimi due secoli, di una Chiesa con responsabilità pubbliche e sociali in una società in rapido movimento, in cui la religione sembra non poter più essere

animata della prassi come in una società statica (pagana o cristiana) e in cui sembra occorrere invece una mediazione ideologica. Sulla questione del problema sociale odierno rispetto all’antico basti solo questo accenno. Ritorniamo ora al tema della nostra meditazione dicendo al Signore: Signore, facci comprendere il perché del tuo pianto, il perché della tua commozione violenta di fronte alla città e di fronte al destino doloroso che prevedevi per lei. Fa’, o Signore, che come hai vissuto in perfetto abbandono al Padre, in perfetta chiarezza di idee e in grande sofferenza umana queste situazioni, così anche noi accettiamo di vivere con grande sofferenza umana, ma, con la tua Grazia, anche con chiarezza di idee, con abbandono al Padre, ciò che tu hai vissuto. E quindi che accettiamo anche di non poter noi imporre o gridare quelle soluzioni che vorremmo, perché è compito di altri, in una distinzione di piani, ma fa che soffriamo di questo, cioè che accettiamo umilmente almeno di essere coinvolti nella sofferenza in ciò che ci è possibile. Quindi ti chiediamo, o Signore, per noi, per la nostra Compagnia, per la Chiesa, abbondanza di chiarezza, di grazia, di lucidità, che sciolgano tutte le confusioni, le amarezze, i vicoli ciechi nei quali siamo impegolati. Soltanto la tua grazia, o Dio, ci può liberare. Signore, forse tu piangeresti oggi non più soltanto sulla città, ma anche sulla nostra confusione emotiva e mentale in cui siamo entrati: che la tua potenza la sciolga. Amen. PREGHIERA DI OFFERTA E DI IMPEGNO28 Signore Gesù Cristo che sei venuto in mezzo a noi per cercare e salvare chi è perduto, che hai donato tutto te stesso, fino a morire in croce, per liberarci dal potere del Male, per insegnarci il cammino dell’Amore che salva e per chiamarci a seguirti nella missione redentrice che il Padre ti ha affidato, BENEDICI LA MIA DETERMINAZIONE A SEGUIRTI, in comunione attiva con la tua Chiesa,

collaborando sempre meglio con te per la diffusione del tuo Regno. Sono cosciente che un tale impegno comporta sacrificio e fatica, ma ciò non mi scoraggia, perché so che tu cammini con me, fatichi, soffri e ami con me, in me. Non ti chiedo dunque di rendere facile il mio cammino, ma piuttosto di tenermi per mano e di darmi sempre la forza necessaria a percorrerlo fino in fondo. Cosciente della mia debolezza io confido nella tua amicizia. Con l’aiuto di Maria, tua e mia Madre, che ti ha detto il “sì” più puro, più totale e fedele, IO MI DONO A TE, impegnandomi a vivere come membro delle Comunità di Vita Cristiana secondo lo Spirito del Vangelo e la legge interiore dell’Amore. Che la Vergine Maria venga in mio aiuto. Amen.

X. LA PREGHIERA DI CRISTO E DELLA CHIESA Eccoci, Signore, di fronte a te, riuniti in preghiera, col desiderio di pregare e anche di riflettere fra noi sulla preghiera. Ti chiediamo, Signore, di insegnarci a pregare nella realtà. Se vuoi, comunicaci qualche cosa, se vuoi, comunica anche a me qualche cosa da dire sulla preghiera. E, soprattutto, se vuoi, comunicati a ciascuno dei miei fratelli, aiutando ciascuno di essi a percepire alla luce del Vangelo quella esperienza di preghiera che è sua, nella quale consiste la sua risposta di fede, e nella quale consiste gran parte del frutto di questo ritiro. Signore, ti chiediamo come gli apostoli: Insegnaci a pregare! Ave o Maria. Leggiamo dagli Esercizi spirituali parte del n. [162], cioè la prima nota dopo il quinto giorno, quando sant’Ignazio parla di come bisogna portare avanti le meditazioni della seconda settimana. Egli dà tanti chiarimenti, poi dice:

La prima osservazione da fare è che, a proposito delle contemplazioni di questa seconda settimana, ciascuno potrà allungarle o accorciarle secondo che voglia dedicarvi più tempo o secondo il profitto che ne avrà tratto. Se si vorranno allungare potranno essere considerati i misteri della visita della Madonna a santa Elisabetta, dei pastori, della circoncisione del Bambino Gesù, dei re magi e così via; se poi si vorranno abbreviare se ne tolgano anche quelli indicati. Infatti con questo si vuole offrire una introduzione e un metodo perché poi ciascuno contempli meglio e più compiutamente.

Partendo da questa indicazione di sant’Ignazio, vorrei invitarvi a riflettere sulla nostra preghiera, non solo perché è l’esercizio che compiamo in questi giorni, ma anche quello che ci qualifica più chiaramente e più distintamente nella nostra vita di fede: l’educazione del discepolo alla fede si specifica in educazione alla preghiera. Come proporre questa riflessione che si riallaccia a quanto dicevo sulla riforma, o l’elezione che ciascuno si prepara a fare? Mi pare che essa dovrebbe comprendere due punti importanti: il nostro rapporto apostolico con gli altri e la nostra vita di preghiera. Il titolo di questa meditazione potrebbe essere questo: “Preghiera di Cristo e della Chiesa”. Vorrei infatti partire da un breve richiamo alla preghiera di Gesù e poi fare una analisi di tipo fenomenologico, della preghiera nostra e del suo sviluppo, per concludere, dopo qualche indicazione sulla preghiera nello Spirito Santo, con una domanda finale: “Qual è dunque la mia preghiera?” Possiamo partire, però, anche all’inizio, con una domanda: “Qualunque preghiera ci fa crescere? Basta pregare, cioè pregare più a lungo, pregare più intensamente, pregare più fervidamente?” La risposta è certamente “No”, perché esiste anche la preghiera fatta male, come la preghiera del fariseo nel tempio. Ciascuno di noi deve domandarsi: “La mia preghiera è quella del fariseo o del pubblicano? Una preghiera che mi sviluppa, mi fa crescere nella fede o che invece mi blocca?” Una riflessione su questo tema mi è stata più fortemente inculcata da una pagina di Adrienne von Speyr, una mistica, stretta collaboratrice di Urs von Balthasar che, sotto dettatura, ha scritto alcuni libri di lei. Fra le altre cose, forse tra le cose migliori, essa ha delle indicazioni sulla preghiera, e una di queste mi ha particolarmente colpito ed è questa: “Talvolta nella preghiera siamo simili a una donna che intrattiene il marito e i figli solo con le proprie preoccupazioni e con la noia delle ore passate da sola: una preghiera in cui spesso l’uomo, e non Dio, gioca il ruolo principale”29. Altrove questa stessa mistica sviluppa di più il paragone e dice: “C’è una donna, rimasta sola in casa, annoiata. Il marito viene, vorrebbe parlare con lei, dirle qualcosa, ma la donna l’assale con tutta la piccolezza delle cose che ha vissuto la mattina, con una valanga di pettegolezzi. Il marito ne rimane

sopraffatto e non gli resta che tacere e leggere il giornale”30. Ecco come può essere talvolta la nostra preghiera, se proiettiamo o buttiamo in essa noi stessi, così da ritrovarci ad aver chiuso la bocca al Signore; ecco il senso della domanda fondamentale che dobbiamo proporci come riforma di vita: “La mia preghiera mi fa crescere, è risposta di fede, è educazione alla fede?” Non si tratta tanto di pregare un po’ di più, di fare la meditazione, di celebrare la liturgia delle ore (anche questo certamente!), ma di domandarsi: “Che tipo di preghiera faccio? È una preghiera di fede o una preghiera che non è uscita ancora allo scoperto, cioè tale da mettermi allo sbaraglio, nelle mani di Dio?” Ecco la domanda e, se volete, l’id quod volo di questa meditazione: “Signore, insegnami a pregare, insegnami quell’atteggiamento giusto che da solo non posso conquistare, perché da solo ritorno sempre alla preghiera di egoismo, in cui mi specchio all’infinito”. Posso infatti aumentare le ore di preghiera, ma in realtà aumento le ore che passo davanti allo specchio, ottenendo, come dice san Giacomo, di uscirne come prima (cfr. Gc 1,23-24). Con questa domanda nel cuore, con questa richiesta, che può essere anche abbastanza angosciosa, perché può essere uno shock svegliarsi all’improvviso e dover concludere che ho pregato per anni, con poco frutto, quasi girando intorno alla vera preghiera cui Dio mi chiamava, con questa domanda nel cuore, facciamo le nostre considerazioni. Come prima riflessione contempliamo la preghiera di Gesù così come Luca ce la presenta. Ci sono vari passi di Luca che si potrebbero citare a proposito, ma prima diamo uno sguardo sintetico. Una guida della Palestina, Pia Compagnoni31, che chi è stato in Terra Santa avrà forse incontrato, parla spesso di queste cose, come del significato del deserto; essa ha una sua teoria, che è almeno interessante e che è facile da ricordare; dice che Gesù aveva tre tempi nella sua vita: il tempo per la gente, il tempo per gli amici e il tempo per Dio. Leggendo il Vangelo si vede che è vero. Per quanto ci interessa, Gesù aveva dei momenti anacoretici forti; certe volte lo si direbbe un anacoreta che esce a predicare. Perché l’idea di Gesù che, arrivato a trent’anni, si butta tra la gente giorno e notte, non è giusta: Gesù spesso fuggiva, andava nei luoghi deserti, si ritirava e la gente doveva venire a cercarlo e a pregarlo. Gesù si ritirava imponendosi talvolta anche separazioni molto dure e qualche passo di Luca sottolinea questi aspetti, come per esempio 5,16: “La sua fama si diffondeva ancor più. Folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro infermità. Ma

Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare”. Gesù dunque si nasconde e Luca non dice solamente che si nasconde perché non vuole popolarità, ma afferma che lo fa perché vuole pregare: quest’ansia di Gesù di pregare, di ritirarsi in disparte è per noi sorprendente. In un altro passo Luca scrive: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna – quindi lascia la gente non soltanto per un’ora, ma veramente si separa, se ne va, parte – a pregare, e passò la notte in orazione” (6,12). Ciò significa che Gesù faceva preghiere prolungate, insistenti: “Che cosa facevi, Signore, durante questa preghiera?”; ecco la domanda che penso gli apostoli gli facessero spesso e che anche noi, ancor più meravigliati gli facciamo, perché conosciamo la sua perfetta intuizione del mistero di Dio, la sua capacità di adeguarsi in un istante alla volontà del Padre, di amarlo. Perché Gesù passava così lungo tempo in preghiera? Certo non ci sarà dato di penetrare a parole questo mistero, ma il fatto che ci sia, che ci sia anche per noi, ci fa capire che questa dimensione anacoretica della vita è fondamentale. Tralascio altri passi di Luca dove si insiste più o meno su questo stesso aspetto della preghiera di Gesù inserita nella vita, anzi addirittura della vita inserita nella preghiera. Si direbbe che certe volte Gesù è piuttosto fuori, lontano, e che di là la gente deve, quasi a forza, tirarlo a sé. In questo senso penso che un esempio evangelico splendido sia san Francesco d’Assisi, con le sue parentesi, il suo piantare in asso i frati, tutti i problemi, il suo andar via per quaranta giorni: questo è tipico della libertà di Gesù. Chi di noi oserebbe piantare in asso tutti i problemi e dire: “Adesso ho delle cose più importanti da fare; per tre giorni gli altri aspettino, telefonino, gridino, corrano: io ho qualcosa di più importante e urgente da fare”? C’è ancora un’altra cosa che dobbiamo imparare e cioè il coraggio di essere noi stessi e di dire: la preghiera è più importante di una visita dal dentista, per la quale uno pospone tutto, lasciando che gli altri aspettino. Debbo dare questo valore alla mia preghiera affermando il mio diritto ad allontanarmi dalla gente, e lasciare che protestino, gridino, si lamentino. Gesù faceva così, perché, quando egli si separava dai malati, quanti disagi e quante ire da parte di chi era venuto con due o tre giorni di viaggio, da lontano, e non era stato ricevuto; ma Gesù partiva, si staccava con coraggio, dando un valore alla preghiera almeno tanto quanto lo dava al contatto, alla carità, all’esercizio della misericordia. Alla luce di questa contemplazione della persona di Gesù, facciamo una

seconda riflessione che riguarda gli arricchimenti, almeno fenomenologici, esterni, della nostra preghiera negli ultimi anni. Come pregava Cristo, così preghiamo anche noi? Ciascuno potrebbe fare qui la storia della propria preghiera. Io, non per sottolineare gli aspetti autobiografici, ma per dare un punto di riferimento, vorrei ricordare qualcuno degli avvenimenti, delle situazioni, che hanno determinato in me modi diversi di accostare la preghiera, partendo da un punto che tutti conosciamo e che è la meditazione del padre Roothaan32, quella che ci fu consegnata in noviziato e che abbiamo praticato e che, fino agli anni cinquanta, era stimata come “il metodo” della preghiera. Durante il periodo degli studi, si guardava con estrema diffidenza a qualunque altra forma che non fosse questo preciso impegno dell’ora di meditazione elaborata, dire “stile Roothaan” è dire troppo, ma almeno in quella linea, con quel metodo. Per esempio, non si aveva quasi conoscenza delle preghiere prolungate, preghiere che durassero un giorno, una notte; non si concepivano perché quell’ora doveva essere talmente intensa da avere la capacità di provvedere a tutto. Poi, a partire di là, sono avvenuti certamente degli allargamenti, delle diverse esperienze che ciascuno ha fatto; io vorrei ricordarne soltanto alcune. A me ha fatto molto impressione, avendola vissuta ancora recentemente, la preghiera liturgica della Chiesa greca, dei monasteri greci. Ho fatto i miei esercizi nella Pasqua scorsa a Patmos33 ed era la Settimana Santa ortodossa; ho vissuto questi uffici durante il giorno e la notte e mi sono reso conto che lentamente acquistavo un’altra sensibilità, un altro modo di pregare. Ugualmente al monte Athos, presso alcune comunità molto rigorose, dove si pratica la preghiera monastica a partire dall’una fino alle due di notte in privato e dalle due in avanti nel coro, con salmi, preghiere ecc., a un certo punto cominciano le prostrazioni, quasi in una specie di estasi notturna e collettiva di preghiera al lume delle candele; si vede pochissimo: ombre che si muovono, si inginocchiano, si alzano, baciano le mani, riprendono i canti. C’è un qualche cosa che fa pensare, fa riflettere, e questa preghiera prolungata aiuta a capire un poco la preghiera prolungata di Gesù. Si tratta di entrare in un certo ritmo, situazione, a cui non ci ha abituato la nostra preghiera: la prima mezz’ora ci si riesce più o meno; poi a mano a mano che si entra nel clima, ci si dimentica e allora le ore passano, senza che uno se ne accorga; il canto sostiene la bellezza dei testi e dei gesti e si crea un’atmosfera che veramente trasforma, sembra nutrire profondamente lo spirito.

Un altro tipo di esperienza di preghiera che voi avrete fatto è la preghiera pentecostale, che per molti ha costituito la riscoperta della possibilità e della bellezza di una preghiera di lode, di riconoscenza, di ringraziamento; allora, soprattutto quando la si vede sgorgare da giovani, da persone che hanno un’esperienza minima della vita spirituale, ma che con una spontaneità intensissima, con verità e autenticità, lodano Dio, si capisce la frase di sant’Ignazio: “L’uomo è fatto per lodare Dio” [23]. In questo tipo di preghiera la lode si trova a suo agio, al suo posto; la lode comune rimbalza dall’uno all’altro, esperienza della preghiera spontanea suggerita dallo Spirito, ed entra in noi fin nel profondo. Dietro la linea della preghiera pentecostale si potrebbe aggiungere la preghiera dei gruppi in genere, che assume forme svariate, talvolta profondamente commoventi. Certamente conoscerete voi più di me gruppi di preghiera nei quali la preghiera diventa prolungata, e senza stancarsi passano ore e ore. Ricordo la preghiera di un gruppo che lavorava presso un carcere minorile a Roma: pregando con loro, mi sono reso conto che a un certo punto la preghiera acquistava una visibilità che era data dalla realtà che si stava vivendo, e lo spirito era veramente travolto dal torrente di lode, di adorazione, di offerta di sé, che veniva creandosi. Abbiamo parecchi gruppi che in Italia vivono e fanno vivere queste esperienze in forme molto intense. Ci sono inoltre dei luoghi nei quali si può andare per imparare a pregare; perché allora non prendersi tre o quattro giorni e andare là, per farci istruire, per imparare da persone che hanno quest’arte di insegnare la preghiera? Un altro capitolo, che per molti si è aperto, è tutto l’influsso della preghiera orientale, dello yoga, della preghiera profonda, della contemplazione silenziosa, che per molti è stata l’occasione per ritrovarsi e per approfondire il senso del proprio stare in orazione. Rimane comunque, di fronte a tutte queste esperienze, la domanda fondamentale, perché a un certo punto uno potrebbe anche fare una galleria di esperienze passando da una all’altra; e se è giusto che ci lasciamo arricchire da tutte queste possibilità, che verifichiamo che alcune sono più per noi e altre non lo sono, che alcune fanno vibrare luoghi della nostra psiche che forse erano un po’ dimenticati, poco toccati nella nostra preghiera, rimane comunque sempre la domanda fondamentale: dove mi deve portare la preghiera, qual è la preghiera che mi fa crescere?

Veniamo allora al terzo punto, nel quale ci chiediamo più esplicitamente: che cos’è la preghiera cristiana? Mi sono piaciute moltissimo le cose che disse in un’esortazione padre Mollat34, dell’Istituto Biblico, e vi voglio leggere qualche indicazione che lui ci diede rispondendo alla domanda: “Qual è l’elemento specifico e distintivo della preghiera cristiana?” Poste infatti tutte le varie forme di preghiera, tutte le possibilità che ci sono e che si possono sperimentare, questa domanda rimane. Padre Mollat risponde con san Giovanni: l’elemento specifico e distintivo della preghiera cristiana è la preghiera “in spirito e verità” (Gv 4,24), intendendo “in spirito” non nel significato di opposto a materia, ma lo spirito come Dio stesso, che con la sua potenza divina ci fa pregare. Questa è la caratteristica che, secondo padre Mollat, distingue la preghiera cristiana da tutte le altre esperienze religiose, anche se bellissime. La vera, la sola preghiera autenticamente cristiana nasce con lo spirito nel cuore dell’uomo e nella verità, cioè di fronte al piano salvifico che mi viene comunicato concretamente dalla Parola, dal Verbo; nella verità, cioè basata sulla rivelazione che Dio ha fatto di me nel Figlio (perciò adorazione filiale) e nello Spirito, cioè nella forza dello Spirito, che mi fa pregare. Il padre Mollat ci diceva anche che aveva fatto un’indagine e da essa aveva concluso che questa preghiera nello Spirito è specificamente cristiana, cioè non è neppure ebraica, perché è proprio del Nuovo Testamento il collegamento della preghiera con lo Spirito. Si domandava poi come lo Spirito è il maestro della preghiera e allora ci dava alcune indicazioni che io brevemente riassumo. Lo Spirito suscita la preghiera, ne è il vero autore; quindi la preghiera cristiana è dono, è grazia. Da noi stessi siamo incapaci di pregare perché come dice Paolo noi “nemmeno sappiamo cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26). Ecco una conversione importante da operare negli esercizi: riconoscere davanti al Signore che non so pregare, che se prego è per un dono suo. Riprendiamo il testo della lettera ai Romani: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (8,26). Esso significa che rispetto alla preghiera siamo astenici, deboli, incapaci di metterci in stato di vera preghiera; capaci sì di passare un’ora, anche due, meditando, riflettendo, ma non di una vera preghiera. “Ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi”; egli infatti collabora con

noi, agisce in noi, come in uomini liberi, attivi, e se ci apriamo a lui suscita in noi questo movimento della preghiera. Lo Spirito opera tutte le volte che veramente ci abbandoniamo a lui e non solo quando siamo nell’entusiasmo, ma anche nella secchezza, nell’aridità, nel silenzio. Lo Spirito vive e si muove, collabora da vicino con noi e addirittura geme “con gemiti inenarrabili”: misterioso questo gemito dello Spirito! Il padre Mollat ci faceva attenti ai gemiti dei santi: san Francesco Saverio35 passava la notte dicendo: “O Trinitas!”; ecco, questa vivificazione dello Spirito che geme e fa uscire un qualche cosa che è semplicissimo e che si ripete senza fine; “plura pati”, soffrire di più, ecco un altro gemito dello Spirito che cogliamo sulla bocca di altri santi. Ecco la vera preghiera che ci mette in una vera relazione con Dio. Lo Spirito dà la profondità misterica della preghiera. Possiamo rileggere in questa luce i capp. 1 e 2 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che possiamo sintetizzare: “Lo Spirito che conosce tutti i segreti di Dio è in noi” e ci dà accesso a quel mondo che la psiche dell’uomo non conosce; per questo è difficilissimo parlare della preghiera se non per esperienza o a chi non ne ha fatto esperienza. Tuttavia noi vediamo che portando gruppi di giovani, per esempio a Spello36 o in qualunque luogo simile, ecco che immediatamente qualcosa scatta e quella capacità di pregare che è in loro si sviluppa, a contatto con un’atmosfera di fede che è quella giusta. Lo Spirito è il confidente del Padre e del Figlio, e ci dà quel senso di saporosa verità e penetrazione del mistero, che non si può spiegare con parole, e che quindi non può essere comunicato se non come comunicazione di fede; lo Spirito sviluppa in noi la fede e la grazia battesimale, portandoci a una vera conoscenza del mistero del Padre. Lo Spirito dà cordialità alla nostra preghiera, una sana e intima cordialità e affettuosità. Egli dice in noi: “Abbà, Padre!” (Gal 4,6); lo dice e lo grida, cioè ci fa fare un’esperienza spirituale di abbandono. Infine lo Spirito è autore, guida della nostra preghiera, e la nostra preghiera è nello Spirito, anche perché ci fa trovare insieme, ci vivifica come corpo di Chiesa e ci fa pregare insieme in assemblea. Diceva giustamente padre Mollat che né la pietà indù, né il buddismo sono stati capaci di insegnare la preghiera del culto pubblico come si pratica nel cristianesimo. Queste religioni hanno insegnato altissime preghiere individuali, ma non la capacità di perdersi e fondersi in una preghiera pubblica e corale che abbia questa qualità di fede: questo è il dono specifico cristiano, il dono dello

Spirito. Questo senso corale e comunitario lo troviamo già nella preghiera giudaica ma raggiunge, nella comunità cristiana in preghiera, il suo sviluppo perfetto. Anche la preghiera di Plotino37, in se stessa meravigliosa, è piuttosto la fuga di un solitario verso un altro solitario, il solo verso il solo, che poi darà inizio a un certo ideale di preghiera: ma la preghiera cristiana è il sapersi abbandonare alla preghiera comunitaria e lasciarsi portare da essa. Abbiamo molto da imparare in questo, in quanto spesso siamo nella preghiera comunitaria soltanto individui che sommano le loro preghiere; ma questa non è vera, piena preghiera cristiana finché non ci abbandoniamo al movimento della comunità che ci porta. Anche quando celebriamo l’Eucaristia, finché siamo noi al centro, quasi attori principali di essa, finché non sentiamo che noi non siamo se non un momento della preghiera di tutto il popolo di Dio, e quindi partecipi di tutte le ansie, le sofferenze della gente che ci sta davanti, non siamo ancora entrati nel vero senso di essa; dobbiamo mescolarci alle sofferenze degli altri, dare loro forma, ma non dal di fuori, bensì coinvolgendoci in esse. Non basta che il prete reciti bene la messa (tutti i preti hanno oggi questa cura, a differenza di trenta, quarant’anni fa, quando in certe chiese erano dette velocemente, brontolate), perché si abbia la preghiera corale della vita, cioè il riconoscersi animati insieme dall’unico Spirito. Ed è per questo che quando si va in una comunità che prega, si ha subito il termometro di essa e dalla sua preghiera ci si accorge subito se si tratta di una somma di preghiere individuali o se vi è una raggiunta fusione di cuori nell’unità. Qui c’è molto per noi da convertirci, da fare un cammino, perché l’abbandonarci alla preghiera comune richiede sempre un certo salto, un uscire da noi stessi, dal nostro individualismo, per lasciarci salvare insieme e farci visitare dallo Spirito. Ecco alcune indicazioni che ci permettono di venire alla domanda finale: “Quale preghiera, Signore, vuoi da me?” Senza pretendere di voler dare una risposta definitiva, io penso che la preghiera a cui dobbiamo tendere, sulla quale dobbiamo verificarci, è la preghiera del pubblicano, cioè quella di chi non riconoscendo niente in sé, nemmeno la capacità di pregare, si abbandona alla potenza e alla misericordia di Dio; sentiremo anche in noi la lode per la misericordia di Dio, per la verità non una lode sforzata, ma la lode di chi si sente graziato. Nasce così anche la conformità piena e la preghiera diviene atto di conformità, un uscire da sé per perdersi e lasciarsi morire nelle mani di Dio; è

un lasciarsi mettere in croce. Questo è sperimentare veramente la preghiera, e quando riusciamo a farlo pubblicamente, comunitariamente, e non solo compiendo dei gesti formali ma nel pieno coinvolgimento di noi stessi come in una compromissione pubblica, allora sempre più sperimentiamo la preghiera come un lasciarci afferrare da Dio; non è più il continuare a pregare tenendoci stretti, avvinghiati a noi stessi, alle nostre idee, ai nostri umori e facendoli passare davanti a Dio come in una rappresentazione che può durare senza fine; tutto questo non ha alcun valore se non metto me stesso nelle sue mani, se non mi arrendo alla sua potenza, anche nel silenzio del mio spirito. Chiediamo quindi, in silenzio, al Signore, che la sua potenza ci afferri, ci insegni a pregare, perché non sappiamo farlo; ci insegni a non voler ogni volta proiettare noi stessi nella preghiera, le nostre preoccupazioni, i nostri desideri. Io per primo chiedo che il Signore dia a ciascuno di noi quella pienezza di Spirito che ci strappi da noi stessi, e ci faccia sperimentare nella preghiera la morte, cioè l’uscita da noi, e la nostra preghiera divenga il momento in cui viviamo il dono perfetto di noi stessi, e il dono che Dio ci dà la grazia di compiere.

XI. LA VISITA DI GESÙ A MARTA E MARIA Signore Gesù, tu ci conosci, tu conosci l’interno di ciascuno di noi, tu leggi le preoccupazioni, gli affanni che in ciascuno di noi produce il vivere quotidiano, il contatto con le persone, i problemi, le situazioni. Ti chiediamo Signore di conoscere noi stessi, così come tu ci conosci e ci scruti. Fa’ che al contatto con la tua Parola noi conosciamo noi stessi, la radice delle nostre preoccupazioni e anche la vanità di molte di esse. Fa’ che sentendoci conosciuti e spiegati dalla tua Parola noi ci sentiamo anche amati da te e trasformati dalla tua verità, che è salvezza e misericordia per noi. Vergine Maria, Tu che hai saputo vivere nella pace le situazioni più drammatiche della storia umana, dacci di essere illuminati dalla luce che viene dall’ascolto della Parola, e di trovare in noi la fonte della Pace. Ave o Maria. Esaminando l’educazione del discepolo evangelico che si attua nella seconda parte del Vangelo di Luca, mi pare che vada sottolineato, fra gli aspetti che emergono particolarmente, la libertà di cuore, il distacco e

l’abbandono. Ho pensato per questa mattina di proporre un episodio che dobbiamo cercare di meditare, di intendere come uno dei momenti di questa educazione. Si tratta dell’episodio della visita di Gesù a Marta e Maria (10,38-42). A questo episodio, poi, potrete aggiungere, se avete desiderio di allungare questa riflessione, le parole di Gesù in 12,22-34 che sono legate a esso. Chiediamoci ora qual è il nesso di questa meditazione, che ora propongo con le precedenti: io mi sono fatto questa domanda perché, tra le osservazioni gentilmente fattemi da alcuni di voi, mi si chiedeva di esprimere più chiaramente il nesso tra le singole meditazioni. In passato si insisteva molto sulla logica di sant’Ignazio, che prende una persona e alla fine la porta a dire sì. Ma avendo sperimentato come non è possibile forzare il consenso, neppure con una logica ferrea, perché il consenso deve nascere dalla grazia di Dio che ci apre all’amore e alla conoscenza di Gesù, allora mi sono chiesto se questo nesso deve esistere e qual è. L’unica risposta che ho saputo darmi è che esiste tra le singole meditazioni un nesso affettivo, nel senso che è la “rispondenza” a ciò da cui esso dovrebbe nascere. Ogni meditazione produce un certo frutto; dall’esame di questo frutto si vede che cosa è emerso o come dono di Dio o come mia carenza; può trattarsi di un affetto disordinato, che è stato scoperto ed è rimasto ancora non lavorato; e così la meditazione seguente dovrebbe agganciarsi a questa realtà. Quindi il nesso è la via che ciascuno di noi sta seguendo. Da una meditazione nasce l’altra, sullo sfondo, si capisce, dell’educazione di Gesù al discepolo, ma a seconda che la meditazione faccia emergere l’uno o l’altro affetto disordinato, oppure l’una o l’altra necessità di approfondimento della mia sequela di Cristo. È così che, vivendo questo interrogativo con una certa inquietudine, mi è venuto davanti questo episodio di Marta e Maria, come richiamo al fatto che è veramente il Signore che cura le nostre inquietudini; ecco come è nata questa scelta. E perciò la meditazione che vi propongo non ha un nesso specifico, ma si situa nella nostra ricerca del Signore, nel nostro desiderio di essere curati e guardati da lui. Mettiamoci quindi alla scuola di Gesù con Marta e Maria. Notiamo anzitutto il bellissimo contesto in cui si situa questo episodio: c’è prima Gesù che si rallegra di fronte al Padre, Signore del cielo e della terra, perché ha nascosto queste cose ai sapienti, ai saggi e le ha manifestate a

coloro che neppure sanno parlare; poi il buon samaritano e subito dopo il Padre Nostro. Questo episodio è dunque una gemma incastonata fra le altre gemme. Nel suo svolgimento esteriore è molto semplice, e quindi cercheremo di commentarlo parola per parola. Gesù va in un villaggio e viene ricevuto da Marta; Gesù riceve l’ascolto di Maria, mentre Marta lavora, ma Marta a un certo punto scoppia e Gesù le risponde. Ecco la semplicissima struttura dell’episodio. Quale testo ignaziano può servirci per definire l’id quod volo38 di questo episodio, per noi? Mi sembra che l’id quod volo sia il conoscere le nostre preoccupazioni vane e l’essere guariti da queste preoccupazioni dalla Parola del Signore, dalla sua luce. Come testo ignaziano vorrei citare il n. [172] degli Esercizi spirituali e cioè il terzo punto per conoscere su quali cose si deve fare elezione: sant’Ignazio dice che un’elezione che è frutto di una scelta disordinata non può essere vocazione divina, perché “ogni vocazione divina è pur sempre pura e limpida, senza mescolanza di sensualità né di nessun’altra propensione disordinata”. Quindi, per disporsi a scegliere, bisogna sentirsi liberati; quando ci accorgiamo di non essere limpidi non siamo nella disposizione di fare una scelta e dobbiamo pregare per essere messi in questa disposizione. Perciò volendo specificare meglio l’id quod volo, dobbiamo “disporre l’anima a togliere da sé tutti i legami disordinati e, dopo averli tolti, a cercare e trovare la volontà divina”39. Penso che questo proposito non vada inteso nel senso che nella prima settimana40 si rimuovono gli affetti disordinati e nella seconda si cerca la volontà di Dio; anche nella seconda settimana la volontà di Dio si cerca rimuovendo gli affetti disordinati: le due cose vanno insieme. Perché la volontà di Dio emerge non laddove noi tentiamo di rimuovere questi affetti, ma di disporci, di aprirci alla grazia di Dio che li rimuove da noi. Ecco dunque come esprimerei il frutto, la domanda di questa meditazione: “Signore, fa che io conosca che da queste preoccupazioni vane è insidiata la mia giornata e fa che io mi apra alla liberazione che tu mi proponi e giunga alla libertà del cuore, all’abbandono, al distacco”. Gesù, dice l’apertura dell’episodio, cammina e nel suo cammino entra in un paese, in un villaggio non nominato; notiamo che il suo camminare più precisamente era un camminare in gruppo: “Mentre erano in cammino, entrò…” (10,38). Mi colpisce questa insistenza sul camminare di Gesù, sul suo far strada. È vero che qui questo particolare interessa Luca soprattutto perché Gesù

cammina verso Gerusalemme; ma è ugualmente interessante questo camminare di Gesù. I rabbini per lo più non camminavano ma sedevano in un luogo, la gente veniva e si faceva scuola intorno a loro: Gesù invece cammina, va a cercare la gente. Qui naturalmente noi pensiamo che oggi, con i mezzi moderni di comunicazione, non c’è più la fatica del camminare, anzi, può essere anche piacevole viaggiare, anche se è sempre un po’ faticoso; ma in quel camminare c’è soprattutto la fatica, che Gesù ha affrontato, di essere sempre presente di fronte a nuove situazioni, di dover sempre ricominciare in un ambiente diverso e quindi ogni volta con un margine di incertezza. Ogni volta che entriamo in un nuovo ambiente ci domandiamo: “Come mi accoglieranno? Come si svolgerà quella dinamica di ambientazione che si verifica sempre ogni volta che si entra in un gruppo nuovo e che può avere vicende molto alterne?” Può capitare, come a Gesù nel villaggio samaritano, di non essere accolti. Questa dinamica può essere particolarmente impegnativa per coloro che, per ufficio, si trovano spesso davanti a una nuova comunità, a un nuovo ambiente, a un nuovo gruppo; questa provvisorietà sradica perché, appena terminata la fatica del conoscerci, dopo un po’ di giorni, quando si comincia a trovare una certa rispondenza, bisogna cambiare di nuovo e avventurarsi nell’ignoto, anche se non è così pericoloso come per Gesù nel villaggio samaritano; ma è sempre una nuova situazione, un nuovo ambiente e questo, soprattutto a una certa età, può costare. La gente per lo più non fa così. Quando uno ha una sua famiglia si ferma: ha il suo ambiente, gli amici, le persone conosciute e a questi si appoggia. Il nostro viaggiare, anche non semplicemente fisico, ma il coraggio di affrontare situazioni nuove, diverse, ambienti refrattari, è il nostro partecipare al viaggio di Gesù, che mai sapeva come sarebbe andato il giorno seguente, come l’accoglienza sarebbe stata. E questo viaggiare – dice il testo “mentre erano in cammino” – è il “loro” viaggiare: viaggiare in un gruppo per testimoniare. San Francesco d’Assisi, che viaggiava in gruppo con i suoi frati, ha meglio imparato questo modo concreto di muoversi di Gesù: l’arrivare di un gruppo portava così interesse, entusiasmo, attenzione e quindi creava subito testimonianza… e già l’esistere di un gruppo, così precario e insieme così lieto, di gente che si muoveva insieme e parlava di Dio, subito destava per se stesso una scossa nel villaggio dove arrivava. Gesù dunque entra in un villaggio che qui non viene nominato; e in questo villaggio una donna di nome Marta lo accoglie. E qui notiamo come tutto è inconsueto in questo racconto, tutto è inaspettato: intanto è un po’

inaspettato che lo accolga una donna. Per lo più, quando si tratta di una famiglia, è il capo della famiglia che accoglie Gesù; qui siamo davanti a un caso un po’ raro e cioè che sia una donna ad accoglierlo e una donna di cui non si sa quasi nulla: solo che ha una sorella. È vero che nell’Antico Testamento troviamo casi simili (per esempio Eliseo è stato accolto da una vedova, ma la situazione è più chiara ed è nominata la vedova e il figlio). Qui c’è inoltre un qualche ardimento nel fatto che Gesù accolga l’ospitalità di questa donna, se non altro rispetto agli usi, alle consuetudini del tempo; è vero che Gesù viene accolto con i dodici, perché l’inizio del brano ci dice che facevano il viaggio insieme; ma nella scena i discepoli scompaiono e ci sono soltanto Gesù, Marta e Maria. Ammiriamo questo coraggio di Gesù nel dare la Parola e nel proclamare la sua Parola a una donna soltanto, percependo quanto di nuovo e di inaspettato, rispetto al suo tempo, e soprattutto di libertà apostolica egli esprime in questo gesto. Questa donna lo riceve dunque in casa sua e Gesù accetta l’ospitalità, entra in casa e si trova accolto familiarmente; troviamo qui quella libertà e tranquillità che egli raccomanda ai suoi apostoli, ai settantadue discepoli in Lc 10,5-7, quando dice loro: “In qualunque casa entrate, prima dite: pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa mangiando e bevendo di quello che hanno…” Gesù pratica egli stesso quello stile tipicamente suo di approccio personale, apostolico, del tutto nuovo in quel tempo e che non era per nulla quello dei rabbini. Poteva forse richiamare l’antica tradizione profetica, ma i profeti non c’erano più, erano finiti. Gesù quindi instaura un tipo di rapporto con le famiglie, con le persone, che esula dalla tradizione scolastica rabbinica. Vediamo, dunque, Gesù che entra e si dispone a suo agio in questa casa. Fermiamoci ora sulla figura di Maria e di sua sorella Marta: probabilmente Marta, che viene presentata come la padrona della casa, è la sorella maggiore e Maria la sorella minore; questo lo si può dedurre anche dal modo in cui, dopo, le si rivolge la sorella maggiore. Che cosa fa Maria? Al v. 39 è definita chiaramente come una discepola; è questa forse l’unica descrizione, anche fisica, di un ascolto, di una persona che ascolta Gesù. Ordinariamente nel Vangelo noi vediamo descritto Gesù che parla; in qualche caso, come nella sinagoga, si parla della gente, degli occhi fissi sopra di lui. Ma qui c’è di più, c’è proprio descritta la posizione della persona: “sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola”. Non si descrive qui il Signore che

parla, ma la discepola che ascolta; questa è una scena nuova e l’interesse è spostato sulla discepola, la quale si è seduta tranquillamente ai suoi piedi. Quindi, non soltanto non stava a sentire sul limitare di una porta o in piedi, ma si è seduta, come chi vuole passare del tempo e dimenticare ogni altra cosa, mentre Gesù probabilmente è seduto su uno sgabello che gli hanno offerto. Il modo in cui questa scena è descritta, con l’imperfetto dell’ascolto (lo ascoltava, lo stava ascoltando…), trasfonde una grande calma, un distacco da ogni altra cosa: non c’è più nient’altro che questo rapporto di parola e di ascolto, che è un rapporto di grazia. Di fronte a questa calma, si ha come contrapposta la scena immediatamente seguente: Marta viene descritta come l’opposto di Maria. Maria è seduta tranquillamente ai piedi del Signore senza dir parola e invece Marta “era tutta presa dai molti servizi”. Luca in questo brano usa molti verbi nuovi. Già Marta è un nome che non ricorre altrove nella Bibbia e che si riferisce quindi a questa precisa situazione. Il verbo greco con cui è descritta Maria che sta ai piedi di Gesù è la prima e sola volta che ricorre nel Nuovo Testamento; come anche quello che descrive la tensione di Marta si trova solo qui; ma è difficile tradurlo esattamente. Si potrebbe dire che Marta era tutta tesa, tutta in tensione, tutta agitata; e si rincara la dose con l’espressione “per i molti servizi”. Poniamoci dunque di fronte a Marta agitata e chiediamoci il perché di questa agitazione. Marta vuole essere all’altezza della situazione: è arrivato il maestro con i suoi discepoli, in casa sua; occasione unica per far vedere cosa sa preparare, come nella loro casa si sa fare bene, si è all’altezza di queste cose. Ma perché Marta interpreta in tal modo la situazione? Forse Gesù è venuto da lei per un buon pranzo? Che tipo di richiesta immagina le venga fatta? Qui vediamo chiaramente come l’immaginazione sia rivolta a una richiesta sbagliata, come il pensare che Gesù avesse scelto la sua casa perché vi si mangiava meglio che in altre. Nasce perciò l’affanno: “Come farò in così poco tempo e senza aiuto a preparare bene tutto?” E ancora: “Manca questo; bisogna comprare questo e quest’altro; non abbiamo preparato quest’altra cosa; lo avessimo saputo prima…” Vedete come la situazione è falsata: Gesù è entrato per portare la sua pace a questa casa e invece sta nascendo il nervosismo, l’ansia. Anche se piccola, questa ansia ha la sua radice nella nostra capacità di angosciarci per cose vane: è quindi la radice di tutte le nostre vanità. L’aver interpretato male una situazione e l’essersi

messa in affanno crea altri malanni: questa povera Marta sta perdendo la testa per sciocchezze, fraintende completamente lo scopo della venuta di Gesù, gli attribuisce desideri che in fondo Gesù non ha mai avuto, e si sforza di venire incontro a questi desideri che in fondo non sono che la proiezione di se stessa e delle sue ambizioni. E che cosa succede! Leggendo il v. 40 ci accorgiamo che Marta perde la testa e si intromette. Per dire questo, Luca usa lo stesso verbo di At 4,1-2, dove si dice che mentre gli apostoli stavano predicando la resurrezione, i sadducei, non potendone più, irritati, si intromisero, si buttarono dentro la discussione. Marta sta diventando così causa di una serie di errori, perché non soltanto è turbata lei, ma comincia a portare il suo turbamento agli altri. Cosa avrebbe potuto fare Marta? Avrebbe potuto, noi pensiamo, se fosse stata più calma, chiamare Maria e chiedere il suo aiuto senza creare disagio, mentre invece tiene in sé la sua ansietà che cresce tanto, fino a farla scoppiare. Il risultato è che entra in scena in modo sbagliato: invece di rivolgersi a Maria per dirle “Vieni ad aiutarmi”, si rivolge al Signore con un rimprovero. Così viene del tutto falsata la situazione di accoglienza: colui che doveva essere accolto (che lei voleva accogliere con tutti gli onori…) ora viene rimproverato. “Signore non ti curi…?”; parola molto dura ed è la stessa, nel testo greco, rivolta dagli apostoli a Gesù durante la tempesta: “Non ti importa che moriamo?” (Mc 4,38); Marta si sente nella tempesta, perché vede ormai il crollo della reputazione della sua casa. È anche la stessa parola che Gesù in Gv 10,13 usa per il mercenario (“al mercenario non importa delle pecore”) e che si ripete in At 18,17 per lo scettico Gallione che lasciava che i giudei si picchiassero fra loro perché non gli importava di loro. Gesù viene dunque tacciato di persona che non sa capire la situazione: è entrato in una casa e vi porta disordine, disturbo. “Non ti curi?”: c’è forse una sfumatura in più in questa brutta parola, che potremmo esprimere così: “Maestro, tu insegni la carità: e adesso perché non la metti in pratica? Tu insegni che dobbiamo aiutarci a vicenda e non vedi come mi lasci?” Ecco in quale goffa situazione porta Marta quell’iniziale ansietà, il desiderio di far bella figura, di riuscire. Questa frase, che è un capolavoro di psicologia, è un appello diretto al Signore; ha anche tutto un tono patetico per Marta: “Eccomi abbandonata, tutto sulle mie spalle, e questa mia sorella non mi aiuta”. Forse ci sono anche dei risentimenti precedenti, che vengono fuori. È una frase simile a quella che usa Paolo nella seconda lettera a Timoteo (4,11) quando racconta che solo Luca è rimasto con lui e che tutti l’hanno

abbandonato. Ecco dunque una donna che, messasi al centro dell’attenzione, si sente la martire della situazione, e Gesù viene rimproverato di non aver capito la situazione di martirio della povera Marta. E non basta: Marta ora fa anche la predica a Gesù dicendogli cosa dovrebbe fare. Forse è l’unica volta che nel Vangelo si fa una predica a Gesù. La Madonna a Cana prega Gesù umilmente dicendo: “Non hanno più vino”, ma non decide quello che deve fare e gli presenta solamente la situazione. Qui invece vengono addirittura suggerite le parole che Gesù dovrebbe dire a Maria: “Dille dunque che mi aiuti”. Questo verbo non è l’unica volta che è usato nel Nuovo Testamento e in greco è un verbo abbastanza ricco e che troviamo in Lc 1,54 per dire: Dio “ha soccorso Israele, suo servo” e anche in At 20,35 nella frase “si devono soccorrere i deboli”. L’idea che esprime è quella di prendersi cura e dunque Marta vuol dire: “Questa mia sorella non ha cuore, mi ha abbandonata, e tu devi dirle adesso che si prenda cura di me, che partecipi alla mia generosità, alla mia bontà, alla mia dedizione”. Ecco una situazione ormai falsata: Marta è un modello di bontà, di dedizione; la sorella è una persona senza cuore, pigra e indolente; Gesù è un maestro che di fatto viene richiamato a essere un po’ più coerente con ciò che insegna. Permettetemi di fermarmi ancora un momento su queste parole, su questo sbottare di Marta, perché mi pare che sia proprio l’esempio di una reazione distruttiva. Marta sentiva in sé disagio, sofferenza, fatica, forse anche fatica fisica, e la sofferenza di non essere all’altezza; e allora quale sarebbe stata una reazione giusta? Evidentemente quella di riconoscere la verità, oppure di dire alla sorella: “Guarda, mi sento in difficoltà”, o di dire al Signore: “Mi dispiace, non so se riuscirò veramente a preparare come desidero, perché sono qui sola”. E allora si sarebbe chiarita la situazione e il Signore avrebbe potuto più facilmente farle comprendere ciò che era giusto, e si sarebbe evitata questa punta di irritazione. Invece mentre la reazione giusta consiste nell’esprimere in verità ciò che uno sente, essa diventa distruttiva quando si esprime in un attacco all’altro; invece di esprimere la propria situazione di disagio e di chiarirla, si attacca un’altra persona, si attaccano tutti gli altri, rimane quindi un’espressione vera dei propri sentimenti, ma distruttiva, perché tende a non far emergere il proprio problema, ma a proiettare sugli altri la colpa di tutto quanto sta avvenendo. Ho detto che il concetto di richiesta d’aiuto occorre anche altre volte nel Nuovo Testamento; occorre in particolare nel brano che abbiamo citato nella meditazione precedente: lo Spirito viene in soccorso alla nostra

debolezza “nella preghiera”. C’è, quindi, anche questo senso di partecipazione affettiva, di collaborazione che la sorella vorrebbe avere da Maria e che si sente negata. Adesso tocca al Signore. Mettiamoci nei suoi panni: come avremmo risposto noi? Come rispondiamo noi quando siamo aggrediti da una persona irritata, che riversa su di noi la colpa di ciò che sta avvenendo? Certo, ci sono tanti modi: c’è per esempio la maniera che viene insegnata agli impiegati della TWA e delle compagnie aeree, per cui il cliente ha sempre ragione: “Sì, ha perfettamente ragione”, così si comincia il discorso. Anche molti superiori fanno così: “Sì, ha perfettamente ragione, esaminerò tutto questo che lei mi dice”. Ecco una possibile prima forma di reazione. Gesù quindi potrebbe rispondere: “Capisco la tua situazione: tu sei irritata, comprendo”, sarebbe una forma più benigna di entrare nel merito, valorizzando ciò che avviene. Ma come risponde Gesù? Anche qui in modo imprevisto. Intanto notiamo la ripetizione: “Marta, Marta”. Io non ricordo, al momento, se ci sono altri casi nel Nuovo Testamento in cui il nome è ripetuto due volte; e quindi non so se è qualcosa di unico; è comunque estremamente significativo. Cosa c’è dietro queste parole di Gesù? C’è tutta la serietà della situazione, quasi che Gesù dicesse: “Qui stiamo trattando un problema serio, non è una questione solo di cucina, di piatti che non si stanno preparando, di riso scotto”; c’è un richiamo alla serietà del problema, ma c’è anche molto affetto in questo richiamo alla persona. Dire il nome di una persona esprime sempre un senso di immediata partecipazione, e dirlo due volte suona come un appello alla persona stessa; c’è quindi il tono della comprensione, ma la parola che viene detta è una parola di verità, di liberazione. Invece di partire da una lunga valutazione delle ragioni che Marta ha, Gesù le dice direttamente che la sua percezione della situazione è sbagliata, che sta sbagliando tutto: “Ti preoccupi e ti agiti per molte cose”. I due verbi sono forti. Il primo lo possiamo trovare leggendo 12,22.25-26 e si tratta proprio di preoccupazioni affannose e vane (12,22: “Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, come lo vestirete”; poi al v. 25: “Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?”; e al v. 26: “Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto?”). Il termine è molto vasto e si riferisce a una preoccupazione ansiosa e superflua. Qui potremmo già interrogarci e chiedere al Signore che mi faccia conoscere

quanto io cedo nella mia vita quotidiana a preoccupazioni ansiose e superflue. Il secondo verbo “ti agiti” è anch’esso una parola forte. Il verbo greco ricorre solo nel Nuovo Testamento: l’attivo ricorre in contesti di sedizione, di turbamento, come è in At 17,5: “I giudei mettevano in subbuglio la città”; e in At 20,10 per il turbamento seguito alla caduta dal terzo piano di Eutico. Dagli esempi che ho citato, si potrebbe tradurre: “Perché ti agiti turbata?”, a indicare lo spavento e l’eccitazione che sorge per un male temuto; si teme un certo male, ci si spaventa e si vuole reagire. Perciò Gesù qui sta analizzando una situazione umana molto complessa; non è solo Marta che viene interpellata affettuosamente, ma è ciascuno di noi, con le nostre preoccupazioni ansiose e i nostri turbamenti, tutti necessari secondo noi. È chiaro che anche noi, come Marta, potremmo rispondere: “Come posso non preoccuparmi di questo, come posso non turbarmi di quest’altra cosa?” Che siano vane le preoccupazioni è il Signore che lo dice, ma è chiaro che la persona interpellata si difende e tenta di negare. Ma Gesù, dopo aver stigmatizzato la situazione di preoccupazione ansiosa e superflua, di spavento per un male temuto e non reale, dà una risposta positiva; risposta positiva che però, per nostra tribolazione, non è stata conservata unanimemente dai codici, che vanno a questo punto in direzioni molto diverse e questo ci fa vedere che non è facile interpretare questo passo. Un gruppo di codici dice: “Una sola è la cosa di cui c’è bisogno”; altri dicono: “Poche cose sono necessarie”; altri omettono tutta la parte positiva. Qui naturalmente non possiamo fare una lezione di critica testuale per dire quali motivi ci sono per scegliere l’una o l’altra versione; probabilmente la più antica è quella che dice che “una sola è la cosa di cui c’è bisogno, necessaria”. Comunque è chiaro ciò che segue: “Ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno”. Cosa è questa sola cosa necessaria? Alcuni interpretano riferendosi al mangiare: “Basta un piatto, non tanti, ma uno solo”. Oppure: “Bastano poche cose, mi accontento di poche cose, non turbarti”. Ma evidentemente c’è qualcosa di più; se non possiamo fare tanta forza su tale frase perché è un po’ generica, dobbiamo dunque spiegarla con ciò che segue: “Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta”. Anche qui la frase è abbastanza misteriosa; cosa vuole dire? Non certo la parte migliore del pranzo: qui Gesù sta parlando di altro. La prima risposta che verrebbe in mente è l’ascolto: Maria cerca di

ascoltare; l’ascolto della Parola è la cosa migliore. Quindi l’episodio metterebbe in contrasto l’affanno di Marta, che non le permetterebbe di ascoltare con la calma di chi è libero per l’ascolto: ed è, mi pare, già un buon insegnamento. Corrisponde in questo caso un po’ alla parabola del seminatore: le spine che sono le preoccupazioni del mondo soffocano la Parola. Quindi chi è preoccupato perde la cosa migliore, cioè l’ascolto della Parola; crede di essere un eroe al centro della situazione; di fare lui tutto, ma in realtà ha perduto l’essenziale. Questo è vero, ma forse si può cercare qualcosa di più, anche perché l’ascolto sarà tolto: Gesù partirà, lascerà Maria senza ascolto. Quindi neanche l’ascolto continua indefinitamente: perciò non si può definire l’ascolto come la parte che non sarà tolta. È, sì, la parte migliore, ma come non sarà tolta? Ho cercato di riflettere che cosa può essere questa parte migliore, anzi, dice il testo greco, buona. Forse c’è un’allusione al pranzo, alla buona porzione; ci sono tante porzioni, e Maria ha scelto la buona porzione. Riflettendo su questa parola, la parte o porzione, mi è venuto in mente At 8,21, dove il termine viene usato per esprimere la partecipazione al dono di Dio. Quando Pietro rimprovera Simone, il mago, dice: “Non v’è parte né sorte alcuna per te in questa cosa, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio”; quindi “la parte” qui sono i doni carismatici connessi con l’evangelizzazione, che Pietro porta in sé, che ha ricevuto in parte e in sorte; qui parte si collega con sorte, con eredità. E mi pare che si possa anche passare a citare il testo di Col 1,12, dove lo stesso termine indica il dono di Dio, ciò che da lui proviene, meditandolo in spirito di ringraziamento al Padre perché ci ha reso possibile “la parte” di eredità dei santi nella luce. Il dono per eccellenza di Dio è Dio stesso che si dona; Dio stesso che personalmente ci si rivela nella sua intimità e costituisce la nostra luce, la nostra gloria; quello stesso Dio che ci ha liberato dal regno delle tenebre e ci ha trasferito nel Regno del Figlio, del suo amore. E allora mi sembra che questa parte, probabilmente, nella mente dello stesso Luca, è da interpretarsi in stretta relazione con quella parte di eredità di cui parla il Sal 15 (16). Mi sembra la miglior esegesi di questa frase: “Maria si è scelta la parte migliore”. Il Salmo 15 (16) dice: “Il Signore è mia parte di eredità – è la mia parte, la mia porzione che mi è venuta in sorte – e il mio calice, nelle tue mani è la mia vita. Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi, è magnifica la mia eredità. […] Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia destra, non posso vacillare. Di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima;

anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione” – cioè non sarà tolta questa parte, mai, perché è la vita del Signore, ricevuta nell’ascolto della Parola – “Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra”. Ecco quindi la parte che non viene mai tolta, cioè quell’ascolto contemplativo nel quale il Signore si dona e quindi viene ricevuto come dono affettuoso e partecipazione di vita. Chi è entrato, chi ha scelto questo dono affettuoso? Colui che ha scelto di calpestare una situazione umana, come il farsi valere, far bella figura, riuscire in questa accoglienza esterna, chi ha messo dietro di sé tutte queste cose, anche buone, ma che sono fonte di preoccupazione ansiose e in realtà superflue, e ha accettato Gesù così com’è, nella sua verità di dono. Gesù veniva in quella casa non per mangiare, ma per donarsi come cibo, per essere accolto con affetto e quindi per riempire il cuore di chi sapeva capire il senso della sua presenza: Maria ha capito la situazione e quindi è stata riempita di quella presenza che non viene mai meno. Il pranzo di Betania finirà, le lodi della gente per il pranzo ben fatto avranno termine, ma la presenza di Cristo donata a Maria rimane. Che cosa le ha permesso questo? Glielo ha permesso il coraggio di superare le convenienze esterne, il coraggio di capire la realtà di quella situazione che non era un semplice ricevimento formale, ma era la presenza del Signore. Credo che qui abbiamo molto da riflettere. Quando siamo affannati perché una telefonata si accavalla a un’altra, una persona deve dirci una cosa, un’altra ci attende, c’è una scadenza che preme, effettivamente siamo presi dal timore di non rispondere a questa o a quella situazione; allora il Signore ci dice: “Per che cosa stai qui? Che cosa è importante? Che cosa vuole da te la gente? Perché non hai il coraggio di dare alla gente ciò che chiede e non ciò che sembra chiedere, perché non hai il coraggio di dire di no a certe richieste apparenti, per dire di sì alle richieste vere?” Questa è un’ascetica grande della vita quotidiana, della vita di relazione, di comunità, un’ascetica difficile, perché richiede un distacco del cuore molto grande anche nelle cose piccole. Ed è in queste cose che cadiamo, o possiamo cadere in qualunque momento, proprio perché il nostro cuore non è ancora purificato. In questa luce potreste leggere per conto vostro il brano di Lc 12,22-32: il distacco dalle preoccupazioni. Questo brano sembra anch’esso chiedere la rinuncia al possesso, ma

facendoci vedere come la rinuncia alle preoccupazioni è molto di più che la rinuncia al possesso. È più facile rinunciare a possedere, farsi poveri, che non rinunciare alle proprie preoccupazioni: perché le preoccupazioni sono molto più noi stessi che non il possesso, con la nostra volontà di non essere sommersi, di non essere scavalcati, di non essere considerati carenti; le nostre preoccupazioni esprimono l’intimo di noi e a esse quindi rinunciamo con più difficoltà che a ogni altra cosa; le nostre ansietà sono il nostro possesso ultimo, quello a cui teniamo più di tutto. E questo è ciò che più ci insidia. Il padre Lallemant diceva, nella sua Dottrina spirituale41, che, dopo il peccato, non c’è niente che impedisca di più il profitto spirituale che l’ansia di raggiungere un qualche risultato in un tempo determinato; se lo diceva lui, che aveva certamente una grande esperienza, vuol dire che c’è veramente qui una radice fortissima della nostra schiavitù interiore, che si rivela ogni momento, e forse più agli altri che non a noi stessi. Chiediamo quindi al Signore che ci voglia illuminare sulla radice delle nostre schiavitù e non attraverso ragionamenti, ma attraverso la sua presenza, il suo dono. Egli ci liberi, mentre noi gli gridiamo: “Signore salvaci! Liberaci dalle nostre preoccupazioni vane che ci impediscono di fare ciò che tu e gli altri davvero ci chiedono”. E recitando il Padre Nostro, chiediamo, poiché noi tutti ci troviamo in questa situazione, di essere aiutati e liberati. Padre Nostro.

XII. GESÙ TRA SUCCESSO E INCOMPRENSIONE Leggiamo la preghiera che di norma si fa precedere agli Esercizi di sant’Ignazio: Anima di Cristo, santificami. Corpo di Cristo, salvami. Sangue di Cristo, inebriami. Acqua del costato di Cristo, lavami. Nelle tue piaghe, nascondimi. Non permettere che io mi separi da te. Dal nemico maligno, difendimi. Nell’ora della mia morte, chiamami, e comandami di venire a te, a lodarti coi tuoi Santi, nei secoli dei secoli. Amen”. E possiamo completare: “Signore Gesù, che per nostro amore vai alla passione, fa’ che ciascuno di noi si lasci attrarre da te per seguirti là dove tu vuoi condurci. Leggiamo come introduzione della meditazione al n. [193] degli Esercizi

spirituali il terzo preambolo della prima contemplazione della passione: “Chiedere quel che voglio. Qui sarà chiedere dolore, afflizione e vergogna perché il Signore va alla passione per i miei peccati”. E poi ancora al n. [197], sesto punto: “Considerare come egli soffre tutto questo per i miei peccati e che cosa io dovrei fare e patire per lui”. Vorrei meditare questa sera non ancora propriamente sulla passione in se stessa, ma suggerirvi di meditare sulla terza predizione della passione di Luca (18,31-34), che ci prepara, pur trovandoci ancora nella vita pubblica di Gesù, ad affrontare la terza settimana degli Esercizi42. Si potrebbe qui porre la domanda che io mi pongo ogni volta: “Che scopo ha questa terza settimana nel pensiero di sant’Ignazio?” Classicamente noi ci riferiamo ai confirmata, o meglio reformata confirmare, cioè alla confirmatio con tutto ciò che essa significa nella lezione ignaziana. Debbo dire che, per chiunque non ne ha fatto una esperienza profonda, tutto ciò rimane sempre un po’ esterno. In fondo rimaniamo con l’impressione che, fatta bene l’elezione, tutto sia finito, e quindi non ci è facile il capire veramente quale nuovo momento, non soltanto come aggiunta quantitativa di materia da meditare, ma anche di salto qualitativo, costituisca la passione; il perché lo vedremo appunto confermato dalla meditazione che stiamo per fare. Noi non siamo capaci di capire la passione di Gesù; essa non ci parla se non attraverso una grazia di Dio. Non voglio addentrarmi adesso nella precisazione dello scopo della terza settimana, ma mi limito a dire ciò che faremo. Naturalmente dal punto di vista materiale proporremo qualche meditazione della terza settimana (siamo quindi, da questo punto di vista, nella terza settimana) ma poi, formalmente, ciascuno per conto suo reagirà a questa meditazione secondo la grazia corrisposta al suo stato di preghiera, che può essere stato di purificazione, di ricerca, di illuminazione. Non possiamo, infatti, sforzare in noi una rispondenza che sia diversa dal nostro stato presente: perciò il problema è risolto praticamente senza avere determinato quale sarebbe il punto ideale di arrivo della terza settimana, perché esso sarà quello al quale noi rispondiamo nelle singole meditazioni. Tornando al contenuto delle singole meditazioni, io lo vedrei così: continua il nostro incontro con Gesù, fra lui che è conseguente fino in fondo e che quindi continua la linea della sua vita pubblica nel darsi, nell’abbandonarsi, nel donarsi come parola evangelica buona e indifesa, e noi calcolatori e diffidenti. Così vedo sintetizzata la linea di questa meditazione. Gesù si dona a noi,

ci si dona come parola evangelica sempre buona e desiderosa di portare frutto, ma anche inerme, e noi la riceviamo a partire dal nostro calcolo e dalle nostre diffidenze; così portiamo in noi la possibilità di respingerla; e Gesù si lascia respingere da noi. Ci si potrebbe ancora mettere davanti al problema dell’elezione, ma io non penso di trattarne espressamente, né di commentarne le regole43: ci vorrebbe troppo tempo e poi troppo diversi sono gli stati di ciascuno. Quindi ciascuno vedrà se è il caso di giungere a una elezione specifica, oppure, come suggerisco, di contentarsi di determinare meglio il proprio atteggiamento apostolico verso gli altri, il proprio stato di preghiera nel quale la nostra verità si esprime, così come stiamo ora davanti a noi e davanti agli altri, e quindi di conseguenza ciò che Dio vuol fare di noi. La prima meditazione che propongo, dunque, è quella delle tre predizioni della passione; si trovano in 9,18-23 la prima; la seconda in 9,43-45; la terza in 18,31-34. Come titolo orientativo della meditazione ho pensato di dare questo: “Gesù tra successo e incomprensione”. Gesù è ancora nella vita pubblica, ancora nell’altalena tra accoglienza e incomprensione, ma l’incomprensione si accentua sempre di più, soprattutto da parte di coloro che per missione sarebbero chiamati a comprenderlo meglio. Nella nostra riflessione, evidentemente, metteremo in questo Gesù tra “successo e incomprensione” anche noi, ugualmente tra successo e incomprensione della nostra vita. Vediamo prima di tutto qualcosa nella collocazione di queste tre predizioni di Luca. Già dai capitoli in cui sono poste, si intende che hanno significativamente un posto diverso che in Marco. In Marco occorrono a intervalli regolari (Mc 8,31; 9,31; 10,32) dal capitolo ottavo fino al capitolo decimo, che prepara l’ingresso a Gerusalemme che troviamo nel capitolo undicesimo; sono quindi inserite nel ritmo della narrazione. In Luca invece due sono molto vicine nel capitolo nono e l’altra si trova nel capitolo 18, quasi a inquadrare tutto il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, con tutti i miracoli e le istruzioni di Gesù, soprattutto sull’abbandono al Padre, il distacco dalle ricchezze e dagli altri beni ecc. che costituiscono, in qualche maniera, la trama di questo viaggio. Possiamo domandarci nella preghiera: in quale situazione sono fatte queste predizioni; come si comporta in esse Gesù; come rispondono i discepoli e come noi siamo coinvolti, come ci comportiamo. La prima si colloca, volendo inquadrare la situazione in una cornice un

pochino più ampia, nella confessione di Pietro, e incomincia quindi dal capitolo 9, v. 18. Gesù sta pregando da solo – di nuovo Luca si introduce con questo suo quadro preferito di Gesù in preghiera –, i discepoli gli si avvicinano e Gesù li interroga: “Chi sono io secondo la gente?” Che Gesù voglia sapere cosa la gente dice di lui, certo li stupisce un po’: evidentemente è una domanda retorica e Gesù vuole suscitare, vuol far venire fuori ciò che i discepoli hanno dentro; ma incomincia alla larga. Non che Gesù sia insensibile a ciò che la gente dice di lui (e questo lo dovremo tener presente quando Gesù parlerà delle umiliazioni che gli toccano), perché Gesù vuole anche rispondenza; egli non predica per essere deriso, ma per essere ascoltato, e quindi vuol sapere cosa produce la sua parola nella gente e che cosa, addirittura, pensano di lui; riconosce dunque che il farsi accettare dalla gente è parte fondamentale della sua visuale e che quindi è importante sapere come la gente lo vede: come un mago? Come un uomo strano? La risposta di per sé è abbastanza confortante: Giovanni Battista, Elia, un profeta che ritorna dai tempi antichi. La risposta, dicevamo è abbastanza confortante perché coglie alcune caratteristiche di Gesù: – Giovanni Battista: quindi la gente lo vede come un uomo austero perché il suo modo di vivere è semplice; Giovanni Battista era quell’uomo che aveva parlato contro Erode, non aveva avuto paura, e quindi la gente stima Gesù un uomo coraggioso, che dice la verità a tutti; – Elia: siamo sullo stesso piano; Elia è il profeta potente, una delle più grandi figure profetiche, che parlava a nome di Dio, resisteva ai potenti e ai re del suo tempo; e quindi anche Gesù appare come un uomo coraggioso che parla in nome di Dio, che compie opere grandi; – un profeta: cioè un portavoce di Dio; la gente quindi vede giusto, capisce che in Gesù quell’opera di Dio, quella parola di Dio che si incarnava nei profeti, è ora presente: non come un profeta poco conosciuto, ma come il più grande dei profeti. Gesù naturalmente è convinto che ci vuole qualcosa di più. Che questo non basta, e allora chiede agli apostoli che gli sono vicini: “Ma voi chi dite che io sia?” È una domanda che richiede un certo coraggio, perché punta a un rapporto chiaro; spesso noi sfuggiamo a queste domande più coraggiose, perché le risposte possono rappresentare una delusione, e preferiamo mantenere su di noi quell’opinione che gli altri hanno o vorremmo che avessero. E Pietro risponde: “Il Cristo di Dio”. Da tutto il Vangelo è chiaro che Pietro risponde giusto, perché in definitiva Gesù non è uno dei profeti,

ma colui che riassume tutte le promesse di Dio; Gesù quindi può essere contento. Ma ecco che di nuovo Gesù ci sconcerta ammonendoli severamente a non dir niente a nessuno. La parola che qui viene usata è la stessa che Luca mette sulle labbra di Gesù che grida allo Spirito demoniaco di non parlare più, di tacere. Cogliamo dunque una emozione oltremodo forte in Gesù, propriamente una domanda, mentre conferma un mandato. Cosa succede? Come mai Gesù da una parte vuole che la gente giunga gradualmente a conoscerlo, e poi, a un certo punto, sembra far marcia indietro? Gesù sembra spiegarlo con le parole seguenti, che noi cercheremo di capire: “Il Figlio dell’Uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno”. C’è qui una complessità di elementi. Vediamo prima di tutto perché Gesù qui ci viene presentato come colui che proibisce di parlare; possiamo ricavare questa comprensione dagli altri Vangeli. Dire “Il Cristo di Dio” suscitava immediatamente quell’insieme di emozioni e di speranze messianiche di cui abbiamo parlato precedentemente, e quindi la speranza che questo Cristo avrebbe preso in mano la situazione e avrebbe avviato la soluzione definitiva di tutti i problemi; c’è sotto dunque una certa figura del Cristo, del Messia. Ora qui il Cristo propone immediatamente un’altra figura, marcatamente opposta: il Cristo è uno che sarà schiacciato. Come è possibile questo? Ecco il problema gravissimo per la coscienza degli apostoli, per l’ebraismo, per i primi convertiti. Il Cristo dovrà soffrire molto: in queste parole è chiaro che Luca già intende la morte e ciò viene confermato dal termine greco che segue, che è l’opposto tipico di essere provato, che significherebbe provare, provato da Dio, da cui verrebbe poi il senso di “approvare”, che suppone un esame positivo fatto da persone competenti. Per Gesù capiterà l’opposto: persone competenti lo metteranno alla prova e lo bocceranno, diremmo noi. Questo è uno scandalo tremendo, perché queste persone competenti sono appunto coloro che hanno l’intelligenza, il governo, la responsabilità, coloro a cui la gente si affida, che costituiscono l’appoggio di tutti i semplici di Israele. E questi lo respingeranno, lo bocceranno all’esame delle sue credenziali, non lo accetteranno: questo certamente è qualcosa di inconcepibile, se si pensa che Gesù viene nel suo popolo. I discepoli non possono se non sforzarsi di intendere in senso figurato, come un episodio marginale, questo rifiuto, e non possono accettare che questo sia il destino

completo di Gesù, che culminerà nell’essere ucciso. Che cosa significa allora, per i discepoli, che il terzo giorno deve risorgere? Data la ricchezza del linguaggio figurato e profetico del tempo, che cosa significa, cosa vuol dire Gesù, a cosa si riferisce? Riferendoci all’episodio meditato ieri, potremmo forse tentare di capirlo così: Gesù piange su Gerusalemme, ma non solo piange, muore per Gerusalemme, darà la vita per essa. Ma anche questo i discepoli evidentemente non possono intenderlo bene ora, e cercheremo poi di capire la causa di questa incomprensione. In Luca, dopo questo episodio, Gesù continua dicendo: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”. Riprende qui il linguaggio figurato e i discepoli poterono intendere qualcosa, ma a livello molto superficiale, senza che queste cose potessero essere assimiliate. Ora ciò che Gesù ha voluto dire, sia qui come nelle frasi seguenti che si riferiscono all’impegno della vita cristiana come vita di rinuncia, è che non c’è missione senza coinvolgimento e il coinvolgimento può giungere a casi estremi, paradossali, fino a cancellare la possibilità stessa di svolgere la propria missione. La mano che viene offerta non soltanto viene respinta, ma viene tagliata: questo costituisce lo scandalo dell’offerta che Gesù fa di sé. Qui però la parola rimane nell’aria e non si dice nulla di ciò che i discepoli capiscono o non capiscono. Passiamo ora alla seguente predizione (9,43). Qual è qui la situazione? È una situazione di entusiasmo che nasce da un miracolo, quello della guarigione del ragazzo tormentato in ogni modo dallo spirito impuro e che i discepoli non avevano potuto guarire; Gesù lo guarisce e allora nasce un grande entusiasmo e tutti si meravigliano per la potenza di Dio, è un momento di esaltazione e di meraviglia per tutte le cose che Gesù faceva. Proprio in questo momento, in cui i discepoli hanno davanti agli occhi tutto ciò che Gesù ha fatto di grandioso, egli dice loro: “Mettetevi bene in mente queste cose: il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini”. Siamo qui di fronte a un’altra parola molto enigmatica, che però sottolinea un altro aspetto di come Gesù sente la sua missione. Intanto è chiaro dal testo che Gesù ci tiene molto a quello che dice: “Mettetevi bene in mente queste parole”: sono quelle frasi che Gesù usa quando parla di una cosa importante. Il Figlio dell’Uomo “sta per essere consegnato in mano degli uomini”: qui la profezia è più vicina che nella predizione precedente: là

era al futuro; qui è imminente, ormai, che il Figlio dell’Uomo sia tradito per mani di uomini. Che cosa vuol dire che “il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini?” È chiaro che si riferisce a qualcosa di sinistro, e cioè che il Figlio dell’Uomo non sarà più in potere di se stesso, ma di altri, e che altri disporranno di lui; colui che è venuto a restaurare tutto sarà invece in balia delle mani di altri. Possiamo qui iniziare una più profonda preghiera davanti al Signore e, come sant’Ignazio ci invita a fare, sforzarci di entrare in questa mentalità di Gesù, che sta definendo se stesso – perché questa è proprio la sua definizione – come colui che è “consegnato in mano degli uomini”. Pensiamo a come è vera questa definizione di Gesù e come egli la realizza fino all’Eucaristia, in cui è dato in mano di uomini, correndo il rischio che se ne possa abusare. Noi diciamo che è quasi follia mettersi nelle mani di altri, di chiunque, lasciando alla fiducia dell’altro di fare ciò che vorrà, in bene e in male. È così che Gesù si presenta come bontà, disponibilità, misericordia di Dio, che condividendo la nostra situazione arriva fino al punto di mettersi nelle mani degli uomini. Questa parola è così alta e difficile, perché è chiaro che in chi l’ascolta comporta un capovolgimento pieno: come posso io mettermi nelle mani d’altri? Fino a che punto sono disponibile? Luca sottolinea, in una maniera che non si potrebbe immaginare più forte, che gli apostoli non capiscono nulla: il v. 45 del capitolo 9 ripete tre volte la stessa cosa: “Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura di rivolgergli domande su tale argomento”. Luca non ha mai insistito così su un concetto: se cerchiamo di vedere meglio nei verbi usati da Luca, avremo una impressione ancora più chiara della forza che egli vuole dare a questa vicenda. Prendiamo “comprendere”; il verbo greco significa disconoscere, misconoscere la parola; è lo stesso termine che egli usa per dire che i giudei hanno misconosciuto la giustizia di Dio, non hanno capito niente del suo piano e hanno preferito praticare la propria giustizia; è anche lo stesso verbo che esprime la condanna nella prima lettera di Paolo ai Corinti: “Se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto. Dio misconoscerà colui che misconoscerà il suo piano” (14,38). Anche in 13,17 ritorna la sua stessa parola per indicare che i capi non hanno capito niente di Gesù, hanno misconosciuto lui e le Scritture. Siamo qui di fronte a una incapacità a ricevere il piano di Dio da parte di persone che hanno già fatto un tirocinio di vicinanza con Gesù, di entusiasmo, di sequela,

ma che sono ciechi davanti al piano di Dio. E Luca insiste, perché quello che Gesù stava dicendo è una parola così importante per lui, in quanto lo definiva quasi più ancora di “il Cristo”, perché specificava veramente “come” egli è “il Cristo”, cioè come colui che si dona e che deve essere compreso. Proprio questa parola che definiva il mistero pasquale era come un velo davanti a loro. Di questo velo parla appunto san Paolo, quando dice che esso impedisce agli ebrei di riconoscere Cristo, e tutta la storia di salvezza. Una parola, questa, che mi pare richiami l’apocalisse, la rivelazione cioè del mistero nascosto, che solo Dio può rivelare e sul quale solo Dio può aprire gli occhi. Gli apostoli, dunque, avevano ancora gli occhi accecati. Luca aggiunge che la parola “per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso”; è chiaro che essi sentivano con le orecchie, ma mancava loro la percezione profonda della situazione, e per di più essi avevano paura di interrogarlo: si è creata quella situazione di ambiguità così spesso presente anche tra noi, nelle nostre comunità e nella nostra vita di ogni giorno, quando si sente che c’è qualcosa di poco chiaro, ma si ha paura di un chiarimento proprio perché non si vuole accettare la situazione reale, la si teme, tanto da non voler andare a fondo. Questa paura, che può essere inconscia e che nella preghiera chiediamo ci venga portata a livello di coscienza, riguarda l’essere messi di fronte a cose che non siamo disposti ad accettare; è un po’ come la paura del malato grave, che teme qualche malattia dolorosa, ma preferisce non sapere, perché non sa se potrebbe sopportare una certezza. Il problema di fronte a cui ci si trova è essenziale, perché si sta trattando di quel Gesù al quale gli apostoli hanno dedicato la vita: eppure essi preferiscono non sapere di che si tratta. Mettiamo ora in mezzo noi stessi, e diciamo al Signore: “Signore, possiamo fare a te e a noi stessi la domanda definitiva? Signore, facci comprendere che cosa abbiamo paura di domandare, su che cosa temiamo di andare a fondo, e soprattutto fa’ che riconosciamo che questo mistero della croce è un mistero nascosto e per quanto ne parliamo, ci esercitiamo, esso rimane invisibile al nostro occhio umano; è soltanto lo Spirito Santo che ci può trasformare, così da intenderlo praticamente, anche se la nostra debolezza ce lo nasconde sempre, tanto che il riconoscerlo sarà sempre una sorpresa ogni volta”. A ogni modo per gli apostoli c’è ancora tutto il viaggio da percorrere con Gesù verso Gerusalemme, quel viaggio durante il quale Gesù con parole e con opere proporrà un messaggio altissimo, in cui è compresa la passione, il

senso della croce, della libertà del cuore, del distacco, dell’abbandono totale al Padre, e darà loro la possibilità di verificare a che punto sono nel seguirlo. Chi mai avrebbe potuto disporre di una scuola migliore? Luca vuole sottolineare nel capitolo 18, v. 31 ss. qual è la situazione al termine del viaggio. Oramai sono vicini a Gerico; Gesù prendendo a parte i dodici dice loro: “Ecco, noi andiamo a Gerusalemme, e tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’Uomo si compirà”. Notiamo qui un elemento che prima non c’era; prima Gesù diceva in genere: “Deve avvenire o sta per avvenire” e indicava in maniera generale come questo “deve avvenire” il volere divino. Qui più chiaramente Gesù dice che le Scritture stanno per adempirsi, che siamo al momento culminante del piano di salvezza. Come si delinea questo momento? Ecco: “Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà. Ma non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto”. Rispetto agli altri brani, oltre alle indicazioni delle Scritture che ci richiamano alla importanza e al compiersi del piano divino, alcuni accenni ci fanno considerare come Luca vede la passione: ritroviamo qui il rifiuto, in un crescendo di umiliazioni; sarà consegnato ai pagani, sarà quindi talmente respinto che per i suoi concittadini non ci sarà neppure bisogno di sporcarsi le mani; lo daranno in mano a coloro che non onorano Dio, sarà buttato a loro come qualcosa di cui Israele non vuole saperne. L’accento è posto qui soprattutto sulle umiliazioni: sarà preso in giro, deriso, guardato con disprezzo, come cosa vergognosa, gli sputeranno addosso; viene specificato proprio l’aspetto di umiliazione umana, personale; Gesù sarà “consegnato” e questo gli costerà non soltanto la vita, ma l’essere svilito come persona, come uomo; e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno. Interessante vedere come Luca ricorda qui la flagellazione, che poi egli ometterà nel racconto della passione. “Il terzo giorno risorgerà”: qui si dice ciò che mancava nella seconda predizione, cioè il punto di arrivo. È chiaro che Gesù lo esplicita perché si veda tutto il quadro; ma gli apostoli, che non capiscono la passione, non capiscono neppure la resurrezione. Potremmo dire: perché non rallegrarsi almeno di questo? No, essi non vedono cosa sta per succedere e quindi Luca conclude: “Ma non compresero nulla di tutto questo”. La parola greca che

Luca usa per indicare il “non intendere” è una parola che ricorre parecchie volte nei Vangeli di Luca e di Marco, appunto per situazioni nelle quali non si intende il mistero. “Ancora non capite – dice Marco – non avete capito neanche dopo la moltiplicazione dei pani, avete orecchi e non ascoltate, avete occhi e non vedete” (cfr. Mc 8,14-21); è la stessa parola che si ritrova nel contesto della misteriosa predicazione delle parabole: “vedranno e non comprenderanno”. Il mistero di Cristo, il mistero pasquale è nascosto all’occhio dell’uomo e solo Dio lo può far comprendere. Il problema qui si fa talmente grave che alcuni esegeti pensano che non può essere stato così, e spiegano dicendo che Luca e Marco raccontano di predizioni anticipate e con questa ipotesi spiegano la sorpresa davanti alla morte di Gesù e la fuga dei discepoli. Ma a me non pare una buona soluzione, neppure dal punto di vista psicologico; e qui arriviamo già a parlare di noi. Noi sappiamo benissimo che ci sono delle cose che noi non vogliamo intendere. Ora è chiaro che questo vale per Luca specialmente nella seconda e nella terza predizione: Gesù capiva a che cosa andava incontro e quindi l’ha espresso; i suoi discepoli non erano disposti a capirlo. Questo mi pare il fatto fondamentale e chiaro su cui Luca ci vuol far riflettere. Gesù sapeva che cosa stava per succedere, sentiva che ciò era collegato alla sua missione perché era la consequenzialità del suo darsi come Parola buona e inerme, del suo offrirsi con amore; Gesù capiva e cercava con parole appena velate di farlo intendere ai discepoli: ma su questo punto non otteneva consenso. Dobbiamo quindi concludere che, dopo tutta l’istruzione del discepolo evangelico fatta da Gesù, la capacità del discepolo di discernere è nulla. Questo mistero di incomprensione certamente ci sconvolge, perché, se loro non hanno capito, come potremmo capire noi? E quindi è veramente necessario che ci mettiamo in ginocchio di fronte a questo mistero della morte e resurrezione di Gesù dicendo: “Signore, fallo entrare tu nella nostra vita. Non possiamo con il nostro ragionamento venire a capo nel senso di accettarlo davvero, perché ci coinvolge troppo e non lascia estraneo niente di noi. Abbiamo una capacità estrema di mettere tra parentesi, di scartare quel coinvolgimento di noi che non vogliamo accettare, anche se a parole diciamo di accettarlo. Signore, facci dunque capire quali sono quelle cose che non accettiamo, quelle che scartiamo da noi, quelle che sono in noi un’ombra e alle quali giriamo sempre attorno senza volerle affrontare”. Quando noi diciamo: “Su questo punto non si discute” e lo diciamo con

una certa emotività, è chiaro che quello è il punto dolente e tutto il resto è un parlare sfuggendo al vero punto del problema, quello nel quale bisogna compromettersi, bisogna perdere qualcosa. È la soluzione appunto di chi scarta a priori qualcosa e i discepoli hanno fatto proprio così: “Non sia questo per te! Messia sì, passare attraverso la prova no”. Nella nostra vita accade la stessa cosa: noi con le nostre forze non possiamo, non siamo in grado di accettare il mistero della morte e resurrezione. Non basta concentrare lo sguardo sulla gloria, ma bisogna guardare colui, come dice la lettera agli Ebrei, che, essendo stato provato, è stato perfezionato ed è giunto alla gloria (cfr. Eb 2,9-10). Per questo dobbiamo chiedere al Signore che nella preghiera faccia emergere in noi quelle zone oscure, quei rifiuti che portiamo radicati in noi stessi e che abbiamo per così dire archiviato, per domandarci se non c’è forse in qualcuno di essi il nostro punto debole, il nostro mistero pasquale, il nostro passare al Signore, nella morte; con la certezza che solo il Signore ci può mettere in questa elezione, solo lui ci può portare a non perdere di vista, attraverso le singole scelte della vita, l’oggetto ultimo di esse, cioè lui stesso. Così la preghiera sia come entrare nella morte, cioè un aprirsi totalmente alla parola di Dio perché niente di noi rimanga all’oscuro. Chiediamo che la parola di Dio ci illumini e bruci tutto ciò che è impuro in noi: questo sarà soltanto dono del Signore, ma noi possiamo nella nostra preghiera far emergere, in adorazione e in lode del Signore che ci salva e in sicura confidenza nella sua grazia, la resistenza che egli deve distruggere, per portarci dove noi non vorremmo e dove, in fondo, è il luogo della nostra pace, la nostra vita, la nostra resurrezione. Chiediamo ora intensamente al Signore che ci illumini sulla verità di noi stessi. Signore Gesù, tu sai che anche noi, come gli apostoli, da noi stessi siamo portati a respingere la verità del tuo messaggio difficile e non sappiamo seguirti come e fin dove tu vai, ma immaginiamo una sequela a nostro uso, nella quale ci sentiamo di poterti seguire e respingiamo quella sequela che tu prepari per noi ogni giorno. Illumina, o Signore, la nostra mente, riscalda il nostro cuore perché possiamo comprendere ciò che tu vuoi da noi. Vedi, o Signore, quanto questo discorso già in se stesso è per noi difficile nell’esperienza delle cose di ogni giorno. Facci comprendere che, se andiamo a fondo di queste esperienze, noi

troviamo quanto da noi desideri, cioè la nostra povera offerta di fronte a te. Donaci, Signore, di lasciarci accogliere da te e di accogliere da te la tua parola completamente, senza nasconderti nulla. Vergine Maria tu che hai accolto la parola di Dio perfettamente e ti sei lasciata trasformare da lui e hai lasciato che ti modellasse in tutto, fino al dono completo di te sotto la croce, tu che con gli apostoli hai goduto della pienezza dello Spirito Santo donato alla Chiesa, concedi anche a noi di seguire in verità la vita del tuo Figlio. Rivela a ciascuno di noi anche in che cosa consiste questa verità e fa che la possiamo accettare con gioia.

XIII. IL GIUSTO SENSO DELLA CROCE Signore Gesù, tu hai voluto radunarci attorno a te nel giorno in cui commemoriamo i dolori della tua Madre in unione alla tua passione e morte. Tu non hai voluto risparmiare a lei la partecipazione dolorosa e drammatica alla tua sofferenza. Ti chiediamo, Signore, di renderci capaci di partecipare anche noi in qualche modo a questa tua sofferenza. Ti chiediamo di riscaldare il nostro cuore così freddo e lontano, perché viva con tua Madre la vicenda tua per noi. Madre di Gesù, imprimi nel nostro cuore le piaghe del Signore, fa’ che sentiamo il giusto senso della croce e che questo senso illumini il nostro contatto con le difficoltà e le sofferenze degli altri e ci metta nella giusta situazione rispetto alle sofferenze del mondo e di tutti gli uomini. Fa’ che preghiamo con te, Madre di Gesù, in unione con le sofferenze del mondo. Ave o Maria. Come titolo di questa meditazione vorrei suggerire il seguente: il giusto senso della croce. Anche la grazia da chiedere è questa: che il Signore ci conceda il giusto senso della croce. Più specificamente vorrei presentarla così: io, Pietro e la sua croce. Per croce intendiamo qui la croce di Gesù, cioè la sua esperienza del fallimento esterno della missione e l’opposizione che lo conduce alla morte. Pietro rappresenta il discepolo eletto, che lo ha seguito nel suo cammino, e nell’avvicinarci a lui chiediamo di vedere la croce e di viverla così come Pietro l’ha vissuta. Cerchiamo di vederla dal suo punto di vista, di meditare il dramma di Pietro nel suo coinvolgimento alla croce, per essere aiutati a capire anche il nostro: Pietro e la croce; in Pietro leggiamo la nostra reazione davanti alla croce. Egli ci appare qui non solo come il

discepolo eletto, ma anche come l’uomo semplice, sincero, senza tante seconde intenzioni, che prende le cose come sono e vi reagisce secondo la propria sensibilità e di sorpresa viene portato avanti. Abbiamo già conosciuto e ci siamo sintonizzati con Pietro come uomo, quando in Lc 5,8 ci siamo uniti alla sua confessione: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore”. Lo seguiamo ora nel suo cammino successivo: dove finisce questo cammino, o meglio, qual è il punto culminante di esso? Il punto culminante è il pianto di Pietro nella passione e voglio soprattutto considerare questo momento. Vorrei però vedere questo momento culminante, ma non ultimo, perché sappiamo che il momento finale è nell’annuncio di 24,34: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. La nostra meditazione parte quindi dagli eventi registrati in 9, 20 (Pietro che dice: Tu sei “il Cristo di Dio”), fino a giungere a questo annuncio di 24,34, avendo naturalmente come punto chiave il pianto di Pietro. Nel racconto della passione, precisamente 22,62, leggiamo: “E uscito fuori pianse amaramente”; Pietro prova amarezza, dolore, umiliazione. Chiediamo di partecipare pienamente a questo stato d’animo di Pietro. Come riferimento degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio potremmo prendere il n. [203], che è il preambolo della seconda meditazione della terza settimana: “Chiedere ciò che voglio. E ciò che bisogna propriamente chiedere nella passione è dolore con Cristo addolorato, tormento con Cristo tormentato, lacrime, intima pena per la grande pena che Cristo soffrì per me”. Possiamo meditare sul pianto amaro di Pietro in questa luce. Vorrei però che tenessimo presente anche il n. [224], che mi pare importante per capire questo itinerario di Pietro; è il quinto della prima contemplazione della quarta settimana: “Osservare il ruolo di consolatore che assume Cristo, paragonandolo a quello degli amici che consolano altri amici”. Unisco questi punti per diversi motivi. Come è emerso anche ieri nella preghiera, questo officium consolandi non solo è uno dei nostri ministeri più importanti, ma per sant’Ignazio stesso consolare è una delle attività a cui siamo chiamati più spesso44. Certe volte siamo portati a radicare l’officium consolandi nella terza settimana, mentre invece sant’Ignazio lo mette nella quarta. In realtà c’è una stretta connessione tra questo officium e la partecipazione alla passione di Gesù: potremmo dire, schematizzando, che nella terza settimana il frutto è la compassione per Gesù, da cui nasce anche la nostra capacità di compatire, soffrire con gli altri; nella quarta settimana perciò si radica la nostra capacità, dopo aver compatito, di

saper anche consolare: ed ecco un’altra grazia che possiamo chiedere in questa meditazione. Ci sono infine altri elementi che si potrebbero presentare come introduzione a questa meditazione: sant’Ignazio ogni tanto fa delle annotazioni, prima o dopo le meditazioni, che danno il clima, la situazione, l’atmosfera, la problematica, che si muovono attorno a esse. Anche qui mi sentirei inclinato a proporre parecchie annotazioni, perché siamo a un punto nodale, a un tema complesso nel quale si incontrano tante realtà: la croce di Cristo, la nostra croce, la croce degli altri, la croce del mondo, il nostro rapporto verso la nostra sofferenza e quella altrui, la consolazione che possiamo dare. Tutto questo si confonde insieme e si complica per sfumature senza fine che questo problema assume per ciascuno di noi, in virtù della nostra esperienza, del nostro partecipare alle sofferenze altrui. Siamo qui davanti a uno di quegli elementi personalissimi, come la stessa preghiera: come ci sono forme senza fine di preghiera (la nostra preghiera è nostra e di nessun altro), così ci sono forme senza fine di affrontare, sentire, vivere, il problema della croce e ciascuno ha il suo. Perciò da una parte mi sento disarmato di fronte a questa meditazione, nel parlare di queste cose, e dall’altra sento che non possiamo non esortarci a far emergere, ciascuno nel proprio stato di preghiera, la grazia di affrontare nella verità le proprie e le altrui sofferenze: questo sarà il frutto di questa meditazione. Una delle cose che ci impediscono e bloccano in noi l’emergere della verità di noi stessi, nell’esperienza della croce propria o altrui, credo che siano alcune carenze intellettuali sul tema teologico della redenzione. Noi sappiamo che questo è uno dei temi più difficili e sul quale la teologia ha elaborato tante visioni che, avvicinate da noi nella riflessione teologica, ci hanno soddisfatto più o meno, non solo a causa del modo in cui le abbiamo recepite, ma forse anche considerate in se stesse. E forse non ci hanno aiutato, come speravamo, a chiarire lo sguardo di fronte a questo mistero; anzi, forse ce lo hanno caricato di pesi e di oscurità. Sento quindi tutta la difficoltà di quelle teologie nate non dall’esperienza vissuta della conversione e della croce, ma piuttosto da considerazioni astratte. Credo che dovremmo giungere anche a liberarci, se ce ne fosse bisogno, da certe ipoteche che queste teologie astratte hanno messo in noi riguardo al tema della croce, del sacrificio, della mortificazione, e anche riguardo a tutti i temi connessi: come, per esempio, la vittoria sulla sessualità, lo stesso tema della sessualità. Non dobbiamo buttare

a mare niente di ciò che di valido ci è stato consegnato, non possiamo rinnegare nulla di ciò che di vero, di profondo esiste e viene fatto. Negli Stati Uniti ho trovato e scorso un libro che trattava del celibato del sacerdote e della religiosa: ora in questo libro ho trovato cose con cui non potevo assolutamente concordare; vi ho riscontrato un’incapacità a capire il senso del celibato e quindi l’assenza totale, almeno per le pagine che ho letto, del senso della croce unita a una permissività veramente strana e sospetta. Una volta scalzati dalla nostra vita spirituale alcuni elementi fondamentali, non si può più dire dove si può arrivare. Quando manca un ancoraggio profondo alla conversione, al Vangelo vissuto, ma si prendono le cose in astratto, le conseguenze possono essere deleterie. Questo per dire che ciò che dobbiamo fare, soprattutto, è sviluppare in noi il senso profondo, vero, vissuto, della nostra conversione evangelica e metterci di fronte alla realtà della vita cristiana, così come la viviamo, per poi chiedere alla teologia che illumini questa realtà e non viceversa. La realtà della vita evangelica, che troviamo nella Scrittura, nella vita dei santi, non può essere condizionata da teorie fatte a tavolino e da modi di pensare che non partano da una vita cristiana vissuta, dall’esperienza della quarta settimana degli Esercizi, presi come cammino globale di conversione. Questo per dire quanto è delicato questo tema che stiamo trattando e quante risonanze ha in tutto quanto il nostro modo di concepire la vita, l’apostolato, l’ascetica, la mortificazione ecc. Veniamo, dunque, ora a Pietro: io, Pietro e la croce. Di per sé il Vangelo di Luca non è il manuale migliore per meditare su questo cammino di Pietro, perché Luca risparmia molto Pietro (è Marco che presenta il dramma di Pietro e anche i rimproveri di Gesù in modo più forte): non troviamo, per esempio, in Luca il rimprovero che Pietro fa a Gesù dopo la prima predizione della passione e la parola di Gesù “Satana” rivolta a Pietro. In Luca Pietro non è messo in evidenza nell’orto del Getsemani come colui che dorme, colui al quale Gesù si rivolge; anche la parola: “Rimetti la tua spada nel fodero”, che Giovanni riferisce come detta a Pietro, non è riportata da Luca; in più, per mettere in buona luce Pietro, riferisce a lui la frase che troviamo in 22,31: “Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede”; anche la stessa millanteria di Pietro nell’ultima cena (“Anche se tutti dovessero lasciarti, io non ti lascerò”) è omessa da Luca. Luca quindi risparmia Pietro, lo lascia nell’ombra: per questo mediteremo sulla base di Luca, ma tenendo presente anche Marco e Giovanni. Ecco, quindi, i punti che

faremo passare: prenderemo qualcosa da 9,20 per vedere come inizia il cammino di Pietro, a proposito della via della croce; poi passeremo a considerare: Pietro all’ultima cena; Pietro nell’orto del Getsemani; Pietro quando Gesù è in tribunale. Lc 9,20: cogliamo qui Pietro in un momento culminante della sua carriera, quando si sente soddisfatto perché ha detto ciò che gli altri non sono stati capaci di dire: tu “sei il Cristo di Dio”. La fiducia mostratagli da Gesù fin dal momento della prima chiamata gli faceva sentire e capire che avrebbe dovuto avere una missione importante; ora è al colmo della gioia e sente che questa missione ce l’ha: egli ha proclamato “il Cristo di Dio”, ha dato voce a quello che era ancora timido, implicito negli altri, ha avuto coraggio e ha anche messo Gesù in buona luce. Immaginiamo la sofferenza e l’umiliazione quando, subito dopo, Gesù attenua questo entusiasmo e proibisce di parlarne, mentre invece egli inizia a parlare della croce. Ascoltiamo ora Mc 8,32: Pietro si sente sconcertato dall’annuncio della passione e sente il dovere di rimproverare Gesù e di dirgli: “No, questo non è per te” e ottiene il solo risultato d’irritare fortemente il maestro. Proviamo a immaginare Pietro che ci racconta e chiediamogli cosa gli è successo in quel momento. Credo che Pietro ci direbbe che in quel momento non ha capito più niente: “Io, che avevo esaltato il Signore, non potevo permettere che lui andasse in croce; volevo evitargliela quella croce, perché avevo per lui grande stima, grande affetto; volevo fargli capire che noi peccatori avremmo dovuto essere votati alla sofferenza, ma lui no; e il Signore si è messo a gridare, a inveire contro di me. Non ho capito più niente e mi sono chiuso e mi sono detto: chi sarà dunque questo Signore?” In realtà vediamo come Pietro, nell’episodio immediatamente seguente, quello della trasfigurazione, non ha ancora capito la lezione; è ancora lui che vuole provvedere al maestro (9,33) e se ne esce: “Maestro è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Luca aggiunge: “Egli non sapeva quel che diceva”. Proviamo a metterci noi nella sua situazione, con Pietro che si sente colui che deve provvedere al maestro e agli ospiti; sembra quasi dire: “Ci penso io; adesso, maestro, stiamo qui”. Notate la sua generosità: le tende sono solo per Gesù, Mosè ed Elia mentre loro, gli apostoli, staranno all’aperto; ma Pietro si sente al centro della situazione, è lui che provvede al Signore e forse ancora con questa fiducia in se stesso Pietro scende dalla montagna. Luca, in 9,40, ci dice che gli apostoli,

che erano rimasti sotto, non avevano potuto cacciare il demonio da un ragazzo e penso che Pietro avrà guardato con una certa sufficienza gli apostoli che avevano fallito l’esorcismo e avrà detto fra sé, usando le parole di Gesù: “generazione incredula”. Pietro, dunque (e la sua psicologia è in fondo anche la nostra: pensiamo a noi in lui), si è sentito investito del Regno, capace veramente di fare qualcosa e capace di provvedere come Gesù e anche un pochino più di lui. Riflettiamo come questo atteggiamento ci penetra rispetto alle nostre opere, rispetto alla Chiesa, quando ci identifichiamo col nostro lavoro e lo facciamo più nostro che del Signore. Da questa situazione passiamo, senza che ci sia stato molto progresso (perché Luca dice che gli apostoli, quindi neppure Pietro, non avevano capito niente delle predizioni della passione), passiamo, dicevo, a ciò che succede nell’ultima cena, come ci viene presentato in 22,31. Troviamo quella doppia ripetizione del nome che abbiamo già visto nel brano di Maria e Marta e già sappiamo che cosa significa: “Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te che non venga meno la tua fede: e tu una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. Pietro gli disse: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”. Gli rispose: “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”. Cerchiamo di metterci anche qui nei panni di Pietro, che Gesù interpella così accoratamente e amorevolmente: “Simone, Simone”. Luca dunque non ci presenta gli aspetti più negativi della millanteria di Pietro. Pietro è oggetto dell’amoroso rimprovero di Gesù: “Pietro, non stai comprendendo la situazione reale, non sei nel giusto, non capisci che cosa ti sta succedendo intorno: sei così pieno di te, della tua capacità di fare qualcosa per me, che quasi ti consideri tu il mio benefattore, il mio salvatore. Guarda Pietro che io ho pregato per te; sei tu che hai bisogno della mia preghiera. La tua fede è in pericolo. Ho pregato per te perché tu possa poi aiutare gli altri, ma solo quando sarai tornato indietro”. E qui c’è un accenno delicatissimo: “Guarda, sei nel baratro, sei al limite. Mentre credi di aiutare me a portare la croce, stai per esserne schiacciato tu”. E Pietro che cosa risponde? Delle parole bellissime: “Signore, con te sono pronto”. Cosa potremmo pensare di più bello di così? Potremmo dire che l’elezione è fatta, gli esercizi sono chiusi, Pietro è pronto, tutto è finito. E invece ciò che conta non è l’elezione materiale, queste parole pur bellissime: “Con te” (sembra di sentire

sant’Ignazio: “Chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria” [95]). Ma che cosa c’è sotto? Mi pare che qui Pietro stia addirittura abusando delle parole del Signore; il Signore ha detto: “Conferma i tuoi fratelli”, e Pietro invece di ricavare dal precedente “ho pregato per te” il senso della sua povertà e del suo bisogno, ne trae invece la sua sufficienza, la sua capacità. Non ha accolto l’accenno al ritorno, al pericolo per la sua fede, ha accolto solo l’accenno a se stesso di cui il regno di Dio ha bisogno, mentre egli non ha, per così dire, neppure il bisogno della preghiera del Signore, perché anche da solo egli ce la farà. E invece Gesù risponde: “Guarda, Pietro, che la catastrofe è imminente”. Ma egli non capisce, non vuole capire, e gli altri apostoli con lui; tanto è vero che subito dopo l’affermazione “sono pronto con te ad andare in prigione e alla morte”, nel v. 38, appena luccicano le spade queste parole acquistano un altro senso; lo leggiamo dietro il testo, anche se materialmente non c’è scritto: “Ecco qui due spade; siamo pronti alla morte, ma per difenderti, Signore. Vogliamo difendere te, vogliamo farti vedere di cosa siamo capaci per te”. Ecco lo stravolgimento completo del Vangelo, in cui non è più il Signore che ci salva, ma siamo noi che facciamo qualcosa per lui, noi che facciamo qualcosa per la sua Chiesa; non è più il Vangelo della salvezza da parte di Dio, ma è il Vangelo della nostra capacità a fare qualcosa per Dio. E quindi al luccicare di queste due spade, Pietro ha sentito risalire in sé l’uomo-uomo, cioè l’uomo che vuole fare qualcosa per Dio e non accetta… perché non è mai riuscito ad accettare, Pietro, che Gesù sia in qualche modo più generoso di lui, che Gesù faccia qualcosa per lui, che egli deve lasciarsi condurre. Pietro ha sempre tradotto tutto in propria capacità di salvezza, e quindi non ha capito niente dell’insegnamento di Gesù sul fariseo, il pubblicano, del messaggio di salvezza per i poveri, della parola di conversione del peccatore. Anche quando ha detto: “Sono un uomo peccatore”, l’ha detto per riprendersi poi di nuovo la propria potenza, l’illusione della propria capacità. Ed eccoci così al giardino degli Ulivi dal v. 39 fino al v. 46. Come ho detto, qui, Pietro è risparmiato da Luca; dobbiamo quindi riferirci a Marco. Comunque, anche leggendo Luca, vediamo Gesù in agonia, Gesù che prega e che agonizza e che suda sangue e ci chiediamo: “Dov’è Pietro? Perché non è qui?” e lo chiediamo anche a noi, perché avremmo fatto anche noi come lui.

Io, personalmente, confesso che avrei avuto paura dell’angoscia di Gesù; non avrei voluto vedere Gesù piangere, Gesù angosciato (è troppo); per questo sarei stato da parte. Proprio per questo senso di protezione per lui, non avrei potuto sopportare il vederlo angosciato, il vederlo abbattuto. Così Pietro ha paura dell’angoscia di Gesù e non sa che parole trovare: preferisce restare lontano; preferisce cancellare queste cose che non vuole assorbire e lasciarsi prendere dal sonno della tristezza, di cui parla Lc 22,45. Pietro non può sopportare la sofferenza di Gesù, così come per noi è difficile sopportare la sofferenza di un altro quando questa sofferenza ci fa conoscere l’impotenza di aiutarlo; forse la sopportiamo finché ci sentiamo utili, importanti, possiamo fare qualcosa per l’altro, quasi sostituirci a lui, ma quando questa sofferenza ci rivela la nostra incapacità, preferiamo ritirarci, abbiamo paura: abbiamo paura di essere travolti dalla sofferenza dell’altro che non riusciamo a dominare. E qui Pietro sente che non può dominare la sofferenza di Gesù, perché appunto tutto il suo modo di capire il Vangelo glielo impedisce; in questo momento si rivela tutta l’errata concezione della salvezza che Pietro non è riuscito a dissipare completamente: si sente perduto di fronte alla sofferenza del Signore, e tutta la sua sicurezza comincia a cadere. Pietro avrebbe voluto essere con Gesù fino in prigione, alla croce, ma in una situazione affrontata virilmente, coraggiosamente, con la spada in mano. Ma adesso che invece siamo di fronte alla tentazione di Gesù, alla sua umiliazione, come fare? Qui per Pietro tutto è sconvolto di nuovo. E lo schiaffo ultimo alla sicurezza di Pietro mi pare che venga dal v. 46: Gesù dice loro – a Pietro secondo Marco, ma qui a tutti – “Perché dormite, alzatevi e pregate per non entrare in tentazione”. Gesù vede la situazione chiara: vede che questi uomini hanno una fede così debole, così oscura, così confusa, che stanno per essere travolti. Dice loro: “Pregate”; cioè “mettetevi nella vera situazione di mendicanti di Dio; non state a pensare che in questo momento non sapete come esercitare la vostra capacità di reagire, ma mettetevi nella situazione vera. Confessate la verità del momento, quella che Gesù sta confessando col dire: “Padre, io non ce la faccio se tu non mi dai la forza; vorrei non affrontare questa situazione”. Gesù stesso sta pregando e gridando con umiltà la verità della debolezza della natura; questi uomini invece non accettano questa debolezza: non deve essere così. Preferiscono dormirci sopra, e hanno paura della preghiera, perché la preghiera sarebbe mettere a nudo questa debolezza, riconoscerla e

riconoscere che hanno bisogno di essere salvati, non di essere loro salvatori: essere salvati loro più di Gesù. Per questo entrano in tentazione; la falsità nella quale si sono lasciati avvolgere ormai li travolge. Tutto questo emerge nella scena della cattura in 22,47 e seguenti. La scena cambia rapidamente: entra la folla, entra Giuda, c’è il bacio di Giuda e l’emozione sale al colmo. Pietro cosa fa? Pietro vuole salvare la situazione, ricorre alla spada ed ecco il culmine della verità di se stesso che ora salta fuori: il maestro non deve morire; noi dobbiamo difenderci da prodi, dobbiamo difendere il maestro. Chiediamo a Pietro: “Cosa hai voluto fare con questo gesto?” E Pietro ci risponderà: “Avrei voluto impedire a Gesù di morire, a costo della mia vita; non potevo accettare che Gesù fosse preso; se avessero preso me l’avrei accettato, ma non potevo accettare che prendessero lui; ho perso la testa e mi sono scagliato per spaccare la testa a uno e meno male che il colpo è andato di fianco e ho evitato guai peggiori”. A questo punto Pietro perde tutto il coraggio, perché Gesù dice di non approvare questo gesto. Gesù dice di no e Pietro allora si domanda: “Ma cosa ci sto a fare allora? Cosa vuole da me questo maestro? Mi sono compromesso fino all’ultimo e mi dice di tornare indietro e anzi sana questo uomo con misericordia; non capisco più niente; io qui sono diventato inutile”. Ed eccolo quindi, perché sconfessato da Gesù, umiliato, confuso: è il culmine della tentazione di Pietro. E c’è ancora una parola di Gesù che dà l’ultimo colpo alla sua sicurezza in 22,53, quando Gesù dice: “Questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre”. Mi immagino che Pietro abbia pensato: “Ma se allora Gesù non resiste neanche alla potenza delle tenebre, dove siamo andati a finire? Cosa succede? Gesù accetta su di sé la potenza delle tenebre; ma allora cosa è venuto a fare?” E per Pietro la delusione è enorme, completa: “Non posso far più niente per lui e la mia parte non so più quale sia”. Pietro ha perso la sua identità. Però, siccome è uomo buono e sincero, e Gesù ha pregato per lui, non vuole lasciare il maestro del tutto, e lo segue con amore anche se avvilito; lo segue perché ha sempre in mente: “Cosa sarà di lui? Forse qualcosa posso ancora fare; forse posso essere ancora utile”. In questa situazione, in questo stato d’animo, con affetto, più che con convinzione, segue Gesù. E qui assistiamo all’emergere della verità di Pietro, che già è apparsa, che si è manifestata nella sua povertà nell’orto; perché qui Pietro va del tutto a fondo:

è costretto a riconoscere pubblicamente che la sua situazione è di smarrimento totale. Nell’orto poteva ancora cavarsela con una certa gloria, ma qui è costretto a sentire lui stesso con le sue orecchie a che punto è arrivato. Consideriamo le domande che gli vengono fatte: al v. 56 la serva che vede Pietro seduto al fuoco e lo guarda, gli dice: “Anche questi era con lui”. Pensiamo a come è bella questa frase “con lui”. È la frase che Pietro ha detto: “Con te”. Ma Pietro nega dicendo: “Non lo conosco”. Pensiamo a quanto è vera questa frase; esprime l’amarezza di Pietro, non è quello che pensava: “Quell’uomo mi ha deluso, non riesco a capirlo”. Qui c’è non solo la paura, ma anche la delusione, lo smarrimento: “Non so più cosa dire di lui”. Al v. 58 la seconda pubblica umiliazione di Pietro, un altro l’accusa: “Anche tu sei di loro!” Nel primo intervento si mette in questione il suo rapporto con Gesù, nel secondo il suo rapporto con i discepoli. E anche qui Pietro, pensando a essi, che sono fuggiti, dice: “No, non lo sono!” Non sa neppure come riferirsi a questi uomini, che forse stima diversi da sé in questo momento, perché non ci sono. Ha perso il senso del rapporto con Gesù e il senso del rapporto con la comunità dei fratelli: nega l’uno, nega gli altri. E qui Luca dice: “Passata circa un’ora”: che terribile ora! Chiediamogli: “Pietro cosa ti è successo in quell’ora? L’ora più spaventosa della tua vita: smarrito, mangiato dai rimorsi, dalla paura, dall’incapacità di riprenderti, dal non sapere più che cosa devi fare, chi sei”. Io penso che per Pietro, in quell’ora terribile, siano risuonate come martellate nel cuore le parole che aveva sentito: “Vi dico: chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio” (12,8-9). Ecco Pietro sconvolto da queste parole che vanno, vengono, turbinano in lui. E poi un’altra parola sempre in questo contesto: “Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire” (12,11-12). Con quale vergogna, invece, Pietro sente che è entrato proprio in quella tentazione, preoccupato e confuso! Preoccupato di sé, del proprio ruolo, di come doveva regolarsi al centro della vicenda; sentiva che a lui toccava salvare Gesù, ma senza sapere come, quel Gesù che invece non aveva voluto lasciarsi salvare. E in questa confusione e umiliazione l’ultima domanda, più insistente: “In verità” – dice uno che lo osserva a fondo – “anche questo era

con lui, è anche lui un galileo”. Ma Pietro disse: “O uomo, non so quello che tu dici”. Ecco qui Pietro rivelato al massimo. Viene usata qui da Luca la stessa parola che aveva usato nella trasfigurazione, quando Pietro aveva detto “farò delle tende”: “Egli non sapeva ciò che diceva” (9,34). Pietro ha lasciato parlare completamente se stesso, ha lasciato venir fuori la propria povertà ed è arrivato al punto che non capisce più; ha perso completamente il senso della situazione; è totalmente smarrito; non sa più che cosa deve fare, chi è, cosa ci si aspetta da lui: allora gli unici sentimenti che emergono sono salvare la pelle, salvare la vita, non compromettersi, e basta, perché non c’è più niente che valga la pena di essere fatto. In questa situazione neppure il canto del gallo, che segue subito al v. 60, gli dice qualcosa. Infatti all’improvviso il gallo canta; questo gallo è la denuncia fredda, tagliente, accusatrice e Pietro non sente, non capisce cosa questo gli voglia dire. Ma subito dopo, ecco il v. 61: “Allora il Signore, voltandosi, guardò Pietro e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: ‘Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’; e uscito pianse amaramente”. Domandiamo a Pietro cosa ha capito in quel momento e perché lo sguardo di Gesù gli ha aperto gli occhi e gli ha rivelato la verità completa di tutta la situazione. Non so con quali parole Pietro l’abbia detto, ma penso che più o meno saranno state queste: “Lui muore per me, che sono un verme, un vile”. Ecco la situazione chiarita completamente: “Io volevo essere chissà chi, ma adesso lui sta morendo per me, che sono un pover’uomo, che sono uno smarrito, ridotto a non sapere più chi sono: mi hai vinto, Signore, tu sei più buono di me, credevo di farcela, di fare qualcosa per te, ma tu mi hai sopraffatto con la tua bontà. Lui va a morire per me, che sono questa persona di cui io stesso mi vergogno”. Scoppia qui la penitenza di Pietro, la penitenza della terza settimana. Quella della prima settimana era: “Stai lontano da me, perché sono un uomo peccatore”, in confronto a te; qui invece è al confronto con la carità del Signore: “finalmente capisco che lui mi ama e vuole che mi lasci amare”. A Pietro sono cadute le squame dagli occhi, ha visto che aveva sempre rifiutato di lasciarsi amare davvero; aveva sempre rifiutato di lasciarsi salvare pienamente da Gesù, voleva che il Signore non lo amasse del tutto. Com’è difficile lasciarsi amare davvero! Vorremmo sempre che qualcosa di noi non fosse legato a riconoscenza, mentre invece Pietro impara che deve riconoscersi debitore di tutto. Dio è il primo e mi salva totalmente, con amore. E Pietro dirà a se stesso che in fondo, fino a quel momento, non aveva

mai creduto che Cristo volesse morire per lui, non gli era entrata l’idea, forse perché diceva: “Non sono degno di questo, sono io che devo fare qualcosa per lui”. Ora capisce che tutto si è rovesciato, che la grandezza di Gesù consiste nel morire per lui e che lui deve accettare questo amore, anche se incredibile. E naturalmente questa parola di Gesù a Pietro non si conclude qui, ma nel capitolo 24,34: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone”. Cerchiamo nella nostra meditazione di chiedere a Simone che differenza c’è stata tra lo sguardo di Gesù (e quello che aveva suscitato in lui) e l’apparizione di Gesù risorto. In fondo, già nello sguardo di Gesù, Pietro aveva capito tutto, e cioè che era amato infinitamente, e in quello sguardo tutto il resto gli si era chiarito: che Gesù era l’amore, la vita, Dio; che la sua morte era morte per amore e quindi che non poteva essere se non la vita; che perciò la resurrezione era già piena in quello sguardo accettato. E allora che cosa sente Pietro quando Gesù realmente gli si fa presente? Potrete riflettere voi su questo; io penso che in quel momento Pietro sente una immensa gioia per Gesù. Ormai Gesù è per lui colui che conta e, quindi, la consolazione di Pietro è la consolazione di Gesù stesso; consolazione che gli viene come rovesciata addosso, da cui è travolto, in cui resta immerso. L’apertura a lasciarsi amare dal Signore è quella che accetta anche senza limiti la consolazione del Signore nella resurrezione; non quella consolazione preoccupata e affaticata che a volte ci sforziamo di raggiungere, ma la consolazione di chi si è ormai lasciato travolgere dal piano di Dio, che ha fatto proprio il piano di Dio, per il quale la gloria di Cristo è la propria gloria. Chiediamo a Pietro che ci faccia partecipi della sua esperienza e che ci dia il vero senso della croce. Possiamo concludere con una preghiera: Signore Gesù, tu che hai permesso che Pietro passasse per tante paure, perché risplendesse in lui la verità del Vangelo che doveva manifestare agli altri, fa’ che anche noi ci lasciamo amare da te nelle nostre prove. Fa’ che riconosciamo la tua bontà, fa’ che ci lasciamo amare e conquistare dalla tua croce per poterti conoscere come tu sei, cioè il Dio che ci ama, e per poter con gioia partecipare alla tua gloria e proclamarla agli altri. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.

XIV. LA CROCE DI MARIA

Noi ti adoriamo, Signore Gesù, che ci hai uniti davanti a te nella festa di tua Madre, nella memoria dei suoi dolori. Concedi a noi, che ti vogliamo commemorare insieme, la grazia di poterti ripensare con fede, con umiltà, con affetto. Vergine Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, tu sai quanto poco noi amiamo e quanto, forse per questo, ci è difficile parlare di te. Illuminaci e fa’ che possiamo essere da te ricevuti e accettati come siamo; concedici che attraverso questo nostro tentativo di parlare di te, noi sentiamo la tua protezione, il tuo aiuto, la tua bontà, la tua pazienza, il tuo accontentarti del poco che possiamo fare. Ottienici infine di essere ricevuti dalla bontà del tuo Figlio, che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen. Ho pensato di proporvi oggi, in concomitanza con la memoria liturgica della Vergine Addolorata, la meditazione sulla croce di Maria. Credo che parlando della madre di Gesù dobbiamo dire qualcosa di analogo a ciò che si è detto della preghiera e della croce e cioè che il rapporto di ciascuno di noi con la madre di Gesù è vario, molteplice come sono diversi i momenti del nostro sviluppo spirituale; e che soprattutto l’espressione di questo rapporto è diversa secondo la nostra educazione spirituale e affettiva, e secondo tutto ciò che si è sviluppato in noi. In questo senso dobbiamo dire che negli ultimi anni, a partire dal Concilio, questa educazione spirituale affettiva è diminuita, o che siamo meno portati socialmente o collettivamente a vivere e a esprimere questo rapporto spirituale con la madre di Gesù. Anche per questo, probabilmente, è difficile parlarne ed esprimerlo insieme, pubblicamente, anche se forse rimane vivo e profondo in ciascuno di noi. D’altra parte mi è sembrato opportuno tenere presente questa circostanza della memoria dei dolori di Maria per meditare, un po’ come abbiamo fatto su Pietro e la croce, anche su Maria e la croce, associando anche noi stessi (io, Maria e la croce) e vedendo in Maria il discepolo che ha voluto fare il suo cammino verso la croce. E siccome lei l’ha capito molto più intimamente e l’ha sofferto più delicatamente di Pietro, chiediamo a lei che ci introduca in questo cammino. Questo è il senso della richiesta che la Chiesa ci fa fare nella preghiera dello Stabat Mater45: “iuxta crucem tecum stare” (io voglio stare con te, Maria, ai piedi della croce). Ho pensato, poiché il momento di Maria ai piedi della croce è quasi indescrivibile, di prendere le cose dall’inizio, come fa Luca, che dice nella sua profezia: “Ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi” (1,3). Ora il mistero di Maria è proprio un mistero di origine: lo si capisce là dove esso sorge.

Per questo ci rechiamo a questa sorgente del mistero, cominciando la nostra meditazione proprio con i momenti della preparazione alla venuta del Figlio di Dio nel mondo, che sono poi quelli che Luca ci descrive con maggiore precisione e intensità. Perciò ho definito così il programma di questa riflessione: – il mistero della preparazione, di cui Luca ci dà il maggior numero di testi; – il primo entusiasmo, sempre nel mistero della preparazione, ma come momento specifico; – i momenti oscuri; – Maria sotto la croce; – Maria nella Chiesa. Il cammino di Maria ha due punti estremi: il primo è a Nazareth e l’altro è con gli apostoli nel cenacolo. La sua esperienza del mistero pasquale si svolge tra questi due estremi, e ha come punto culminante lo stare sotto la croce, anche se Luca non ce lo presenta, ma passa direttamente a presentarci Maria nella Chiesa. Quali sono i testi ignaziani che possiamo tenere presenti in questa considerazione, per definire il “ciò che vogliamo” e l’atmosfera di questa meditazione? Penso al n. [208] degli Esercizi spirituali dove sant’Ignazio, nel settimo giorno della terza settimana, nella contemplazione di tutta la passione, ci fa meditare la “solitudine della Madonna in tanto dolore e sofferenza”. Ed è questo forse il pensiero che ci può guidare nella nostra meditazione: la solitudine della Madonna come sua croce, e anche la preparazione e l’accettazione di tale solitudine, nella quale si è consumato il suo sacrificio. E come altri elementi ignaziani potremmo prendere i nn. [103] e [108] degli Esercizi, i due soli momenti in cui sant’Ignazio descrive più da vicino la madre di Gesù. Nel n. [103] ci invita a “vedere in particolare la casa e le stanze di Maria a Nazareth, nella provincia di Galilea”; nel n. [108] a vedere “l’angelo nel suo ruolo di messaggero e la Madonna umiliandosi e ringraziando la divina maestà”. Ho colto questi aspetti, perché mi sembrano i pochi in cui sant’Ignazio descrive direttamente qualcosa dell’intimo di Maria, la sua solitudine, il suo umiliarsi, il suo rendere grazie. E ancora un punto importante per questa meditazione è il n. [299], nel quale sant’Ignazio presenta la prima apparizione di Gesù a sua madre: “Apparve alla Vergine Maria”. Questo, sebbene non si dica nella Scrittura, lo si ritiene per detto,

perché si afferma che apparve a tanti altri. Infatti la Scrittura suppone che abbiamo intelletto, secondo quello che sta scritto: “Siete anche voi senza intelletto?” Qui si suppone che per la meditazione di questi misteri ci voglia molta intelligenza spirituale, ed è qui dove io sento di sfiorare solo le frange del mistero di Maria, e confido che supplirete voi, con la vostra intelligenza spirituale. Cominciamo con il mistero della preparazione. Sottolineo unicamente, di tutta questa presentazione di Maria, quegli elementi che riguardano la sua partecipazione alla croce; si tratta di cogliere, secondo questo taglio specifico, come Maria viene lavorata da Dio. Fermiamo la nostra attenzione all’episodio dell’annunciazione su tre cose espresse in Lc 1,29.34 e 38 che mi sembrano particolarmente pertinenti a questo proposito. Al v. 29 dice che: “A queste parole ella rimase turbata, e si domandava che senso avesse tale saluto”. La parola originale greca tradotta con “rimase turbata” è usata solo in Luca ed è, di per sé, molto forte e indica un vero turbamento, uno sconvolgimento interno. Per fare un esempio, è quello stesso sconvolgimento che si impadronisce di Erode quando vede davanti a sé i magi, e si rende conto che sta succedendo qualcosa di nuovo e di grosso, che fa vacillare i suoi progetti. Maria aveva una sua pietà, una sua fermezza, un suo proposito, una sua dedizione e si accorge che Dio interviene a turbare la sua quiete: Dio entra nella sua vita come un elemento sconvolgente. Lo stesso verbo è usato da Luca anche per Zaccaria in Lc 1,12: anche Zaccaria si accorge che Dio sta entrando per sconvolgere le sue abitudini, ormai quiete, di vecchio; un altro tipico lo troviamo in Mt 14,26, quando Gesù cammina sulle acque e i discepoli sono sconvolti nel vederlo. Cosa avviene in Maria che si domanda: “Che cosa sta per farmi la potenza di Dio?” (il verbo usato qui indica quasi una discussione interna, una profonda riflessione). Maria sa che in qualche modo è pericoloso essere toccati da questa potenza, sa che la sorte di chi ne è toccato cambia, come la sorte di Geremia e degli altri profeti; e pur essendo da una parte pienamente abbandonata al mistero di Dio (e da questo punto di vista dobbiamo dire che la parola di Dio è per lei come la goccia su una spugna, di cui parla sant’Ignazio nelle regole della seconda settimana46), dall’altra è presente in lei quel comprendere, tipico della Bibbia, che Dio, quando viene, sconvolge. Già qui si annuncia la croce nella vita di Maria, in questo lasciarsi prendere in braccio dall’azione sconvolgente di Dio. Questo sentimento mi pare ritorni nel v. 34: “Come è possibile? Non

conosco uomo”. Maria ha una sua linea, una sua scelta, ma intuisce che la potenza di Dio viene a cambiare la sua situazione presente; non sa come, tuttavia si abbandona a questa potenza: è certa che essa opererà per il bene suo e del mondo, anche se capisce che la sua personale situazione le sfugge dalle mani; Maria ha finito di disporre di sé, anche del suo proposito buono. Infine nel v. 38 la risposta conclusiva, che riassume tutto il mistero di Maria: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. Luca, volendo andare alla radice “degli avvenimenti successi tra noi”, è giunto qui, a queste parole di Maria, nella quale ha visto la fonte di tutto ciò che succederà. Ora questa parola è un affidarsi totalmente, e quindi una parola abbastanza dura: “Ecco la schiava”. Sentiamo qui vicino la situazione espressa dal Sal 122 (123): “Come gli occhi della schiava, alla mano della sua padrona”; ciò che la padrona comanda o dice, sia esso vita o sia morte, così deve essere. Già qui la vita di Maria è affidata al volere di Dio: Dio la può prendere e può fare di lei ciò che vuole. In questo atteggiamento c’è già tutto: “Dio ha diritto alla mia vita”, dice Maria, “ha diritto per il bene e per il male”. Possiamo anche riflettere, se lo vogliamo, sul fatto che è questo lo stato di preghiera di Maria: da questo momento la sua preghiera è la preghiera dell’affidamento completo senza limiti. Vedremo però che Maria dovrà ancora stupirsi, addolorarsi: emotivamente qui non è ancora certo tutto compiuto, ha accettato, ma la sua preghiera dovrà colorarsi di sofferenze e di amarezze, forse anche di delusioni, almeno come madre, per tener fede a questo proposito. “Eccomi sono la serva del Signore. Avvenga di me quello che hai detto”. Qui non leggerei tanto una seconda preghiera, che ripete la prima, ma piuttosto un augurio; cioè Maria è già entrata in pieno e gioiosamente in quanto le è stato annunciato e quindi: “Mi auguro che ciò ormai avvenga”; ha già ratificato con gioia quello che il Signore le ha fatto comprendere. E questa gioia è quella che si esprime nell’episodio seguente, che ho intitolato: il primo entusiasmo. Una volta rapita dalla potenza di Dio, ecco che essa gode all’inizio del frutto grandioso di questa potenza: questa gioia esplode nell’episodio della visitazione, nella lode ricevuta e restituita. Maria riceve lode: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”. Non si può augurare cosa più grande a una madre che dire: “Benedetto il frutto del tuo grembo”; è il colmo dell’esultanza, perché Dio ha prodotto in lei ciò che la beatificherà, cioè suo Figlio. Più di così Dio non poteva darle;

inoltre è madre del Signore (1,42), fa rallegrare Giovanni (1,44), è beata nella sua fede (1,45). È interessante notare in queste quattro lodi che vengono dalla bocca di Elisabetta la schiettezza della Scrittura, che non ha paura di lodare. Forse noi tante volte pensiamo all’umiltà, ma qui la verità e le cose vengono dette come sono. Ci sarà in seguito il tempo in cui Maria dovrà soffrire l’umiliazione, la solitudine; qui si esprime la verità di Dio attraverso Elisabetta, attraverso la proclamazione delle cose che sono: “Benedetta tu, beata tu che hai creduto, tu madre del Signore, tu porti la gioia nella casa”. E Maria risponde con la semplicità di chi restituisce la lode alla sua origine: “L’anima mia magnifica il Signore”. Potrete fermarvi nella vostra meditazione su questo canto evangelico per eccellenza; il canto con cui Maria risponde alla lode di Elisabetta. C’è in esso la grandezza di Dio, la lode di Dio, la povertà nostra, Dio che sconvolge le vicende umane e cambia le sorti, Dio che ha misericordia, compassione e che viene in soccorso. Per Maria ormai tutto si è compiuto: il Vangelo è già realtà per lei; lei risponde a Gesù con una risposta perfettamente evangelica; non parla esplicitamente di sofferenza, ma contiene la sofferenza, là dove essa ha il suo senso, cioè non come sofferenza terminale, ma come un abbandonarsi alla potenza di Dio che interviene secondo le vicende umane e ci inserisce in questo sconvolgimento, perché ci ama, perché ci vuole riempire, come poveri, della sua pienezza. Possiamo quindi chiedere a Maria che ci dia quest’animo evangelico dal quale nasce la possibilità di comprendere la croce, in quanto è lode, riconoscimento della grandezza di Dio: di inquadrare tutto, cioè, nella iniziativa misericordiosa, a cui nulla sfugge, di Dio. Vengono poi i momenti oscuri: cominciano presto. Sottolineo in particolare alcuni momenti di Gesù al tempio, nel contesto di Lc 2. Mi appare già un po’ strano che Luca in tutto il racconto della nascita e di ciò che avviene intorno a Gesù, non descriva neppure minimamente lo stato d’animo di Maria: Maria è semplicemente la madre che lo mette alla luce, che lo pone dentro la mangiatoia. Mentre tutto intorno c’è esultanza, gioia, angeli e pastori, Maria è là nella sua funzione di madre: l’unica cosa che viene detta di lei, al termine di tutto, è che: “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore”. E a partire da questo v. 19 potremmo chiedere a Maria che cosa sta avvenendo in lei, come lei prende questi avvenimenti, come li vede: e possiamo chiedere di essere illuminati nella preghiera. Ciò che a me sembra è che Maria stia già vivendo la sua crescita interiore, disposta da Dio. Mentre

come madre si dovrebbe sentire al centro degli eventi, in realtà gli eventi le mostrano fin dall’inizio che quel Figlio le sfugge, è più grande di lei; e quindi si sente fin dall’inizio messa da parte, perché cielo e terra e persone, che lei non ha pensato di invitare, vengono e si congratulano col Figlio, non con lei, la madre, come di solito si fa in occasione di una nascita; è già il Figlio al centro dell’attenzione e dell’interesse. Quindi fin dall’inizio Maria nella sua gioia immensa di madre, riceve un ammonimento: è lui che conta. E Maria deve da questo momento imparare a fare tutto per Gesù, anche a ritirarsi in disparte. Ed è ciò che gradualmente mi pare si verifichi negli episodi dell’infanzia che seguono, soprattutto in 2,35: “Egli è qui per la rovina e la resurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”. È difficile per noi determinare cosa significa poi questa “spada” per Maria. Naturalmente pensiamo subito alla croce; però a riportarci questi avvenimenti è Luca, e Luca non ci farà vedere Maria sotto la croce. Quindi se vogliamo interpretare correttamente questa “spada” che le trapasserà la psiche, l’anima (cioè qualcosa di molto grosso, di lancinante: “tu sarai lacerata”), non possiamo intendere semplicemente il vedere il Figlio che soffre e che muore in giovane età: è qualcosa di più specifico; è connesso, mi pare, con il resto della profezia, che quasi incastona questa parola. Dobbiamo tener presente, infatti, che mentre nella nostra versione le parole “a te una spada trafiggerà l’anima” sono messe in fondo, in altre versioni sono al centro della profezia: “Costui è qui per la caduta e la resurrezione di molti, la tua anima la trapasserà una spada, perché siano rivelati i pensieri di molti cuori”. La versione della CEI, dunque interpreta il trapassare della spada quasi come una conclusione, non ponendola all’interno dell’altra profezia di Gesù contraddetto, rivelazione dei cuori. Se teniamo presente questo, cos’è allora la spada che trapasserà il cuore di Maria? È la sua partecipazione intima a Gesù contraddetto, cioè il vedere il proprio Figlio bersaglio di contraddizioni, respinto; vedere il Figlio in mezzo alle ambiguità, in mezzo a tutto ciò che intorno a lui si muove in un senso o nell’altro, e sentirsi lacerata da questa sofferenza del Messia respinto. Quindi qui Maria partecipa direttamente alla sofferenza di Gesù: vedere attorno a Gesù tutte quelle persone che all’inizio potevano sembrare buone, accoglienti, come i pastori, e che a un certo punto si dividono e lo contrastano; Maria verrà coinvolta nella vita travagliata del Figlio e soffrirà del fatto che egli come Messia sarà respinto dai capi del popolo. Si

intravvede qui la vita di Maria, partecipe del mistero di Gesù e delle sue sofferenze, e contemporaneamente, come dicevamo, al di fuori di tale vita, in quanto incapace di porvi un qualche rimedio, non potendo che contemplare passivamente ciò che il Figlio fa: destinata dunque a lasciarlo emergere come segno di contraddizione, senza potergli portare direttamente aiuto, soccorso. Ciò appare più chiaramente nell’episodio del ragazzo Gesù, cioè di Gesù al tempio, di cui voglio commentare soprattutto una parola in 2,48: “Ecco tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo”. In realtà non si tratta di semplice angoscia e di ansietà, ma di molto di più. È lo stesso termine che esprime in 16,24 la dolorosa sofferenza del ricco nell’inferno: “Questa fiamma” – dice il ricco – “mi tortura”. È anche la parola di Paolo ai Romani: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua” (9,2). Cos’è qui il dolore di Maria, quei tre giorni nei quali essa cerca Gesù? È tutta una serie di sofferenze: quella della madre che ha perso il Figlio; quella della persona a cui è stata affidata la responsabilità di Gesù, che sente di essere venuta meno alla propria responsabilità, poi quella della sua ossessività naturale, come madre, verso Gesù, che viene a trovarsi di fronte a una grande delusione: “Questo Figlio, che credevo di possedere, di avere così vicino, mi sfugge e neppure accetta di partecipare al mio dolore e di scusarsi”. Certamente è un momento molto doloroso per Maria quello in cui comprende come l’essersi abbandonata completamente alla parola di Dio l’abbia portata a una condizione imprevista nei confronti di suo Figlio, a una situazione quasi di malinteso, di distanza, in cui il Figlio le sfugge e le parla con un linguaggio che essa non capisce. Tenendo presente questa indicazione, possiamo riflettere, anche se Luca non ne parla più direttamente, su ciò che succede a Maria quando, come si racconta in 4,29, essa vede suo Figlio cacciato fuori della città di Nazareth e umiliato di fronte a tutta la città. Maria vede l’insuccesso di Gesù, vive la sofferenza del non poter far niente per lui e capisce che essa è chiamata ad accettare passivamente tale sofferenza, come manifestazione della forza messianica dell’amore di Gesù: si prepara cioè alla croce. Ma il colpo più duro che Maria riceve, e da Gesù stesso, la prova più grande prima di quella croce, è esposta in 8,19 ss., che nel descrivere questo episodio è molto delicato, diversamente da Marco, più duro, e dice semplicemente che la madre e i fratelli giungono e non possono arrivare a Gesù per la troppa gente; gli fanno perciò dire che la madre e i fratelli stanno fuori e lo vogliono incontrare, ma Gesù rifiuta di vederli e dice:

“Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”: certo non possiamo negare che sia una parola dura. Eppure Gesù ha cuore, perché, per esempio, proprio nel capitolo precedente (7,12) lo si vede commosso per la morte del figlio unico di una madre di Naim, mentre poi lui stesso sottopone la propria madre Maria, forse a causa dei propri fratelli con cui non voleva aver a che fare, a un duro rifiuto, almeno a quanto ci appare dal Vangelo. C’è cioè una assoluta libertà di Cristo, libertà che fa sentire duramente anche alla propria madre. Maria capisce ormai che deve lasciare Gesù al suo destino e che non lo riavrà se non abbandonandolo; non lo riavrà se non in quanto è discepola e continua a farsi discepola; Maria deve passare, pur avendo il privilegio di essergli madre, per la via del discepolo e dell’ascolto. È chiaro che tutto ciò lei evidentemente lo sapeva e lo viveva, ma Gesù glielo fa capire a costo di strappi emotivi; e per questo Maria continua la partecipazione alla vita pubblica di Gesù e viene descritta dai Vangeli mediante l’assenza. Ci sono infatti donne che seguono Gesù e che vengono menzionate da Luca all’inizio del cap. 8, ma Maria non è fra queste. Quindi possiamo immaginare quanto Maria ha vissuto il suo ruolo di passività e di adorazione della volontà di Dio, di sofferenza macerata in sé per tutto il crescente insuccesso del Figlio che “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). Maria era stata obbediente fin dall’inizio, però nella vita ha dovuto imparare amaramente ancora questa obbedienza, cioè questo lasciar fare a Dio come vuole e lasciar fare al Figlio come il Figlio vuole. Penso che questa sia stata la parte della “spada” di Maria: vedere il proprio Figlio avvicinarsi al precipizio, al pericolo estremo, all’essere sbranato dai leoni, e contemporaneamente essere spinta fuori senza poter fare niente per intervenirvi. E Maria, differentemente da Pietro, accetta e macera questo ruolo in sé. Forse è per questo che Luca, tanto attento e profondo nel ricordare la radice del consenso di Maria, la radice di tutta l’opera di salvezza, non ci presenta Maria sotto la croce: Maria tace e Luca tace sulla presenza di Maria al Calvario; c’è il gruppo delle donne, ma Maria non ha nessun ruolo a sé. Per Luca, invece, il ruolo di Maria è di nuovo chiaro nella Chiesa: nel momento culminante della fondazione della Chiesa, Maria è presente con i Dodici. Possiamo quindi intravedere tutto questo cammino: Maria cioè ha dato non soltanto se stessa a Dio, ma anche Gesù a Dio; ha dato Gesù alla sua

missione, si è liberata di tutto ciò che in lei poteva essere, anche minimamente, possesso affettivo del Figlio. Per questo riceve in dono, ci dice Luca, non la vita del Figlio risorto, ma la comunità primitiva. Purificatasi non dalla sua passionalità, che non esisteva, ma dalla sua affettività, purificatasi da ogni possibile forma di prevalenza, ecco che ora è capace di ricevere una moltitudine di figli. Quindi Luca, anche senza farci partecipare alla scena della croce presentata da Giovanni, ci fa capire come Maria, liberata da tutto, avendo saputo adorare il Figlio dato al Padre e strappato a lei nel suo amore per l’umanità, può aprire ora le braccia di nuovo e ricevere nella Chiesa il suo posto per gli altri figli. Ma pensiamo attraverso quale straordinaria purificazione è passata e come ha dovuto anche essa, mille volte più di Pietro, soffrire nel vedere il suo Gesù, non più suo, nelle mani degli uomini, ucciso dagli uomini, per loro. Passiamo a questo punto a riflettere brevemente sulla scena di Gv 19,25-27, che ora possiamo meglio comprendere. In Giovanni, in questa brevissima presentazione di Maria sotto la croce, che dà alla presenza di Maria un valore definitivo e perenne, viene esplicitato ciò che già Luca ci aveva fatto intendere. Nell’accettare cioè che il Figlio le muoia, nel disfarsene per l’umanità, Maria ne riceve altri; riceve Giovanni, apre il suo cuore per ricevere i figli della Chiesa, per essere madre nostra. E quindi questa scena in Giovanni (in Luca è la scena della Pentecoste) è il ritorno di Maria al Figlio, la scena nella quale, come Gesù è innalzato e glorificato sulla croce, Maria riceve la definitiva consacrazione del suo sì. Certamente a questo punto possiamo riflettere di nuovo su questo sì di Maria e vedere come questo sì iniziale l’ha portata lontano. Quale straordinario corso di eventi interiori, imprevedibili per Maria! Mai avrebbe potuto aspettarsi questo travaglio di essere madre e di doversi staccare dal Figlio, di doverlo abbandonare alle mani degli uomini, perché l’amore di Dio si manifestasse in lui; mai avrebbe pensato di dover accettare che l’amore di Dio per gli uomini fosse così grande, e che perisse suo Figlio, e lei soffrisse in tal modo; Maria impara a conoscere nella sua carne che l’amore per l’umanità è senza fine; essa ne è momento ed espressione: per questo la veneriamo come colei che ci può introdurre in questo amore, di cui ha sperimentato il fuoco. Possiamo in questa giornata pregare insieme:

O Maria, davanti al tuo mistero, di fronte agli eventi interiori, tremendi, che si sono verificati in te, noi siamo impotenti e senza parola. Tu hai sperimentato la forza dell’amore di Dio per noi; hai sperimentato a tue spese quanto tuo figlio si sia abbandonato alle nostre mani sfuggendo alle tue; hai sperimentato a tue spese la nostra cattiveria verso tuo Figlio e hai partecipato alla sua bontà, alla sua dedizione inerme; hai sperimentato la sua infinita potenza di amore e di dedizione verso di noi. Concedici, per la tua intercessione onnipotente, che anche noi possiamo sperimentare questa potenza dell’amore di Cristo e che, come tu hai accettato di divenire compartecipe di questa azione potente, così anche noi, pur prevedendo il baratro di affetto e di sofferenza a cui questo coinvolgimento ci può portare, sappiamo accettarlo, sappiamo accettare il distacco e la purificazione che il tuo Figlio opera in noi, il distacco da noi stessi, dalle nostre opere, dalle nostre speranze, dai nostri progetti. Così l’amore di Dio potrà manifestarsi liberamente verso di noi e verso gli altri. Ti chiediamo, madre di Gesù, di renderci un cuore semplice, umile, paziente, abbandonato a Dio, capace di diffondere attorno a noi questa accettazione filiale del piano di Dio che trasforma il mondo. Ave o Maria.

XV. LA RESURREZIONE Prendo qualche passo della quarta settimana del libro degli Esercizi spirituali, e cioè il terzo preambolo e poi il quarto e il quinto punto. Terzo preambolo: “Chiedere ciò che voglio. Qui sarà chiedere la grazia per rallegrarsi e godere intensamente per la grande gloria e gioia di Cristo nostro Signore” [221]. Quarto punto: “Considerare come la divinità che sembrava nascondersi nella passione, appare e si mostra ora tanto miracolosamente nella santissima resurrezione attraverso i veri e meravigliosi effetti di essa”. Notiamo queste parole: attraverso i veri e meravigliosi effetti di essa. Quinto punto: “Osservare il ruolo di consolatore che assume Cristo, paragonandolo a quello degli amici che consolano altri amici” [223-224].

Signore Gesù, tu sai che spesso per noi le meditazioni della resurrezione sono le più difficili, perché forse le più lontane dalla nostra esperienza; mentre viviamo spesso a contatto con la sofferenza, e per questo non ci è forse tanto difficile riflettere sulla croce, l’esperienza della gioia ci appare talora come qualcosa di artificiale e di imposto. Troviamo quindi difficile in queste meditazioni raggiungere quello che sant’Ignazio si propone come il

“ciò che voglio”. Ti chiediamo, Signore, di farci sentire quella letizia che tu infondi nella Verità, senza sfasature e senza artifici; sia anche questo in noi la nostra verità. Fa’ che sentiamo ciò che tu operi in noi; fa’ che lo registriamo con serenità e lo mettiamo in opera nella preghiera con spontaneità. Certamente non è una buona cosa che negli esercizi spirituali si dia soltanto qualche accenno fugacissimo alla meditazione della resurrezione, e dopo aver toccato in maniera troppo breve la passione. Io mi sono posto il problema del come fare, ma non ho ancora trovato una soluzione. Per i miei esercizi personali la soluzione ce l’ho; per esempio, negli ultimi esercizi fatti ho cominciato direttamente dalla passione e resurrezione. Ritengo che a livello personale questa scelta si possa fare proprio per aver modo di approfondire questi misteri. Ma quando si fanno in comune, per forza si segue un ritmo più generale e quindi queste meditazioni sulla resurrezione vengono un po’ sacrificate. Naturalmente a questo si aggiunge, come dicevo nella preghiera, che queste meditazioni sulla resurrezione sono difficili, almeno mi appaiono tali, probabilmente anche perché, non avendo ancora un’esperienza profonda del Vangelo, sperimentiamo più la fatica che la gioia esultante che la buona novella produce in noi, e troviamo ancora più difficoltà a esprimerla e a proporla. Perciò, tenendo conto di tutte queste limitazioni, io non mi propongo qui se non di ritornare con voi a meditare il punto di partenza, cioè la strada verso Emmaus. Se ricordate, abbiamo incominciato otto giorni fa proprio su questa strada; ci siamo messi vicino, in facile sintonia, a quei discepoli dalla faccia scura; abbiamo cercato di intuire le loro irritazioni, le loro discussioni accese con accuse reciproche, recriminazioni; poi ci siamo sentiti inseguire, accompagnare da Gesù, e abbiamo cercato di accogliere la sua spiegazione. Possiamo quindi ora, quasi a riprova, rivedere questi otto giorni come la spiegazione che Gesù ci ha dato. Il film, dunque, a questo punto ritorna indietro, ci riporta allo stesso punto e ripropone noi coi due viaggiatori su questa strada, nel momento in cui, già arrivati a Emmaus, Gesù si sta manifestando. Quindi vi suggerisco di meditare assieme, con molta semplicità, ancora su questo episodio, ma a partire dal v. 30 del cap. 24. Ci eravamo infatti fermati all’ospitalità e all’affetto sorti fra queste persone e all’umanità nata fra di loro, dopo la diffidenza iniziale. Possiamo ora continuare fino alla fine dell’episodio a

partire da questo punto e prendere, dall’episodio seguente dell’altra apparizione di Gesù, specificatamente i versetti programmatici 44-49, che sono quasi una sintesi del Vangelo di Luca. Prendiamo dunque 24,32, quando i due si dicono l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” Questi due che cosa fanno? Si manifestano in una confessione reciproca ciò che stava succedendo in loro e cioè l’ardore che aveva invaso il loro cuore (e noi abbiamo chiesto proprio questa grazia, che il nostro cuore bruci). La parola è molto forte: non si dice soltanto “il cuore si riscaldava”, ma “il cuore ardeva”; e qui ci viene in mente la parola di Gesù: “Sono venuto a buttar fuoco sulla terra”, un fuoco che, bruciando, produce poi anche divisione, scuotimento e imitazione, e che qui comincia a manifestarsi come sconvolgimento interno di queste persone. Cerchiamo, dunque, di metterci un po’ con loro, di chiedere cosa vogliono dire con questo “cuore che ci ardeva in petto”. Un’emozione molto forte, certo, violenta come un fuoco che divora in modo sempre crescente, che si esprime con tutta una catena di comprensione, di legami affettivi e intellettivi, che si creano e che crescono come una vampa; e tutto questo senza aver ancora avuto il messaggio diretto della resurrezione; semplicemente le Scritture hanno spiegato il senso di ciò che stava succedendo, e ciò basta perché i pezzi dell’enigma drammatico, che si erano sparpagliati qua e là e avevano creato la confusione interiore, gradualmente si ricompongano; allora il loro cuore buono, nel quale bruciava in fondo lo Spirito, soffocato però da questa incapacità a comprendere, da questa mancanza di fede, si riaccende. Ed ecco già qui un evento di resurrezione di cui ci parla sant’Ignazio: la manifestazione della chiarificazione e significazione delle cose vissute, che prendono figura, forma e si stagliano sullo sfondo. Qui già Gesù si manifesta come risorto, capace di spiegare il mistero dell’uomo, della storia, delle cose che stiamo vivendo, capace di farci dire: ecco come questo si collega con quest’altro; capace quindi di darci quel respiro, quella fiducia che ci era stata tolta da una serie di eventi inaspettati contrastanti con le nostre speranze. Dunque Gesù fa ardere il cuore e lo fa ardere certamente non soltanto con queste spiegazioni, ma con la sua presenza amabile. Essi sentono cioè che da quest’uomo le cose escono sentite, vissute e che questo si comunica. Senza che ancora sappiano che Gesù è risorto, già il risorto agisce in loro; e questo mi pare molto importante. Noi forse vorremmo sapere ancora di più: che discorso faceva Gesù, come

concatenava i ragionamenti; se poi potessimo averlo anche registrato su magnetofono, potremmo impararlo a memoria, potremmo ripeterlo, potremmo farcene uno schema di predicazione! Forse, però, saremmo un po’ delusi se ascoltassimo le parole di Gesù: sarebbero cose semplici, molto, molto piane. Allo stesso modo siamo delusi talora nel leggere le prediche di alcuni santi: le prediche del Curato d’Ars47, per esempio, deludono molto a leggerle. Cos’è allora che faceva Gesù? Comunicava la pienezza di vita. Anche per noi quindi non è tanto importante l’instaurare con gli altri un discorso ben fatto, ben compilato, quanto il comunicare ciò che viviamo. E, come vedremo, questo è parte della testimonianza su cui Luca chiuderà la propria opera. Dunque Gesù comunica questo fuoco spiegando le Scritture, fa cioè opera intellettiva, chiarificatrice, ma la fa con quella pienezza che è la sua vita di risorto. Queste persone sentono di essere illuminate e affettuosamente di essere ricevute nella loro oscurità, tristezza e sofferenza: ecco il primo effetto di Gesù risorto, che noi sperimentiamo nella vita; l’avvertire oggi la sua carica di vitalità e insieme sentirci aperti alle Scritture; e queste due cose le sperimentiamo negli esercizi e ogni volta che ci accostiamo a lui o alla Chiesa (alle persone, alle cose, alle situazioni della Chiesa). Questa esperienza di resurrezione, come vedete, non è gioia fittizia, artefatta, ma è il ricevere con gratitudine la rivivificazione del cuore da parte del Signore. Ecco, dunque, ciò che succedeva mentre ancora Gesù non si era esplicitamente rivelato risorto con il messaggio verbale, ma lo era nella realtà e già come tale agiva. E poi meditiamo, tornando indietro, al v. 30: i due discepoli si siedono a tavola, Gesù si siede con loro e, per rispetto all’ospite, gli danno l’ufficio di “padre di famiglia”; allora Gesù spezza il pane e dice la preghiera di benedizione. Anzi Luca è più accurato ancora: “Prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. Che cosa succede qui? Ecco un altro modo con cui il Signore risorto si manifesta. Non ho dato un titolo particolare alla nostra meditazione, ma volevo darle questo: “come Gesù risorto si manifesta a me”, e lo svolgeremo mettendoci nei panni di questi discepoli. Come dunque Gesù risorto si manifesta a me: riscaldandomi il cuore, spiegandomi le Scritture, facendomi assistere allo spezzare il pane. Anche qui chiediamo ai due discepoli: che cosa avete visto, che cosa avete sperimentato? E siccome qui Luca probabilmente ricompone

la scena con la sua arte, che cosa Luca ci vuol dire attraverso questa maniera di arrivare al riconoscimento del Signore? Qui naturalmente qualcuno può dire: ecco l’Eucaristia, Gesù ha celebrato l’Eucaristia. Ma io però non vedo tanto Gesù che pronuncia le parole dell’Eucaristia, anche perché Gesù può consacrare senza pronunciare le parole, in quanto egli dà se stesso e quindi non ha bisogno di dire una formula liturgica ma certamente, parlando dello spezzar del pane di riconoscimento, Luca ha chiaramente in mente l’Eucaristia, che già si celebrava nella comunità e ci vuol fare meditare su questa scena come una scena che si prolunga e ripete nelle assemblee eucaristiche. Ecco come si manifesta a noi il risorto: si manifesta nell’Eucaristia. Ma come si manifesta più specificatamente a questi discepoli? È difficile spiegarlo in parole; cerchiamo tuttavia di immedesimarci in tale situazione. Alcuni dicono: Gesù aveva un certo modo di spezzare il pane, un certo modo di pronunciare la benedizione, e forse è questo che lo fa riconoscere, questo modo. Mi sembra però che i due discepoli vedano in questo gesto di Gesù di dare loro il pane, proprio quest’uomo stesso che si consegna loro, che si mette nelle loro mani. Essi leggono dunque il significato stesso dell’Eucaristia, vedendo quest’uomo che in questo momento con tanta pietà è unito al Padre nella benedizione, e con tanta amorevolezza serve loro. Ecco il Cristo, è lui, non può essere che lui, se giunge a tale unione col Padre e a tale capacità di donazione pur con un gesto semplicissimo. Noi comprendiamo subito molto dal modo con cui una persona ci fa un favore; infatti è tutta la persona che ci si manifesta, dietro, tutta una persona. E qua, dietro a questo gesto, c’è Gesù come colui che si dona, cioè Gesù come Eucaristia, Gesù che si sta donando a noi nel pane spezzato. In ciò riconosciamo Gesù risorto, cioè Gesù che si dona a noi con carità perfetta, ripetendo il suo gesto di dono fino alla morte, gesto che non può che essere vitale e vitalizzante, in quanto l’amore perfetto è vita. Quindi cogliamo già la resurrezione nel dono di Gesù fino alla morte, così come fa san Giovanni. Dio Padre non può non vivificare l’amore assoluto, definitivo, senza limiti, che Gesù ci mostra. Ed ecco un altro vero e meraviglioso effetto della resurrezione di Gesù, che questi uomini sperimentano, e che a noi è dato di sperimentare tutte le volte che celebriamo una Eucaristia autentica, nella quale cioè ci lasciamo amare da Cristo e cerchiamo di ripetere gli uni agli altri questo gesto di dedizione e di disponibilità che abbiamo fra le mani.

E quindi si aprono loro gli occhi, che prima erano impossibilitati a vedere a causa della mancanza di fede, perché qui sono ormai riscaldati dalla bontà, dalla benignità, dalla apertura alle Scritture. Ora hanno tutto: le Scritture, l’Eucaristia, la presenza viva di Gesù, la sua amabilità; ecco Gesù risorto. Come lo sperimentiamo noi? Non lo possiamo sperimentare se non in momenti mistici o quando percorriamo una via mistica, in forma di gioia perfetta, assoluta: sono, ad esempio, quelle consolazioni “senza causa precedente” della seconda settimana degli Esercizi spirituali48. Quando avviene questo, è certamente il Signore che ci tocca con la sua misericordia, e ci fa versare lacrime di amore, di gioia; ma oltre a questo, è la nostra stessa vita nella Chiesa, nella fraternità dell’Eucaristia, che ci fa sperimentare il Signore risorto in forme umili, semplici e non soggette a complicazioni sentimentali, con reali e verissimi effetti, come dice sant’Ignazio [223]. Quale ne è la conseguenza? La conseguenza è il bisogno immediato di consolare altri, il bisogno immediato di alzarci, di interrompere la cena, correre, rifare la strada percorsa a fatica e svogliatamente, rifarla di corsa senza sentirne il peso, per raggiungere gli altri e dare l’annuncio. Ed ecco qui l’officium consolandi, che come volevo accennare già ieri, di per sé non è la stessa cosa dell’officium compatiendi. L’officium compatiendi è semplicemente il mostrarsi vicino nella prova: la tua prova è anche mia, la sento come se fosse mia, capisco ciò che ti sta succedendo, almeno cerco di capirlo e di starti vicino; questo è l’officium compatiendi, quello che nella terza settimana degli Esercizi si attua con Gesù. Ma l’officium consolandi suppone qualcosa di più: che ci sia una buona notizia da dare, un plus di affettività gioiosa e trasformante da manifestare; e questo è il Vangelo. L’officium consolandi mi pare descritto molto bene da Paolo all’inizio della seconda lettera ai Corinzi (1,3 ss.) dove dice che questo officium consolandi gli viene dall’essere passato nelle sofferenze, non però dalle sofferenze come tali, quanto dalla consolazione che lui riceve in occasione delle sofferenze. Qui sono ben distinti i due termini: “Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio”. Quindi per poter dare consolazione bisogna prima riceverla da Dio; non diamo cioè qualcosa di noi, mentre invece la compassione forse è più nostra.

La consolazione dunque è dono di Dio, che possiamo umilmente comunicare solo in quanto e nella misura in cui ci viene dato e con cui lo riceviamo. Infatti come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così per mezzo di Cristo abbonda anche la nostra consolazione. Da notare che non è la sofferenza che causa la consolazione, ma è la sofferenza nella quale si manifesta la potenza di Cristo consolatore; quindi la sofferenza non rende di per sé capaci di consolare (tutt’al più ci permette di capire), ma è solo la forza di Dio che consola: e questa è una esperienza della resurrezione, che noi diciamo anche esperienza della croce, ma in quanto esperienza della croce come amore di Dio che ci vivifica. Quindi non esperienza della croce come esperienza della tribolazione sopportata, ma come potenza di Dio che ci ama fino a questo punto. Qui vediamo, dunque, che la parola “croce” può essere usata ambiguamente, sia come sofferenza nostra nella quale entriamo, e non è il senso evangelico, sia come potenza di Dio che ci ama in maniera incredibile e ci consola, e questo è l’autentico significato evangelico. “Quando siamo tribolati – continua Paolo al v. 6 – è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo”; quindi la consolazione sola ha forza di aiutare nelle sofferenze. Mettiamoci qui con i due discepoli chiedendo al Signore che ci dia questa consolazione essenziale di cui non possiamo fare a meno. Sant’Ignazio ci presenta anche lo stato di chi non sente questa consolazione nonostante, come tale (come consolazione del Vangelo cioè), ci sia indispensabile, perché senza di essa non siamo intimamente evangelizzati: quindi dobbiamo chiedere che questa consolazione ci venga data, o meglio che noi sappiamo riceverla, che non ci chiudiamo per falsi pudori e per sciocchi stoicismi a quella consolazione di cui abbiamo assoluto bisogno per vivere. Vorrei dire un’altra cosa a proposito di questo episodio: mi viene in mente, vedendo davanti a me le parole “spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (24,27), quanto ci indica Luca sul cammino di fede di Maria, che mi ha interessato ieri rileggendo ciò che il Vaticano II dice sulla Madonna e che parla proprio di un cammino di fede che la Madonna ha percorso, di un processo della sua fede. Ora, in questo processo di fede, uno dei momenti difficili consiste, all’interno dell’episodio che abbiamo visto di Gesù nel tempio, nel dolore acuto e lacerante che Maria e Giuseppe hanno provato.

Un’altra parola che non ho commentato, ma che è molto forte, è la risposta di Gesù: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” E l’evangelista aggiunge: “Ma essi non compresero le sue parole” (2,49 ss.). È dunque la stessa frase – è questo che mi ha colpito ieri – usata per l’incomprensione degli apostoli: non capivano la Parola. Ciò mi ha fatto comprendere che il processo di fede per cui sono passati gli apostoli è lo stesso per cui è passata Maria, senza che evidentemente ciò sia dovuto, come poteva essere per gli apostoli, a una qualche sua complicità o volontà di non capire. È proprio Dio che ci fa camminare per questa fede di fronte all’incredulità e alla straordinarietà del Vangelo ed è soltanto il Signore che toglie il velo, anche a Maria. Essa non ha capito tutta la portata della Parola; è stato il Signore che l’ha fatta camminare nella fede aprendole questa pienezza. E potremmo ancora riflettere come nel Vangelo, anche in altri casi, viene sottolineato questo non capire. Ad esempio in Gv 2, nell’episodio della purificazione del tempio, gli apostoli non capiscono le parole di Gesù sul suo corpo, sul tempio del suo corpo; e ancora, non viene capito il senso della trasfigurazione, tanto che Gesù proibisce di parlarne fin dopo la sua resurrezione. Quindi questo cammino della fede, che tutti percorriamo, e che ha momenti e fasi diversi, ha la sua chiave nel Cristo risorto o, ed è la stessa cosa, nell’accettazione del suo amore crocifisso, che è già la sua vita piena. Vediamo ora come Gesù desidera che questo suo amore crocifisso e vivo, presente, sia manifesto. Il Vangelo di Luca si conclude con delle indicazioni che riguardano la testimonianza della Chiesa (24,44 ss.). Nella prima parte (vv. 44 e 45) Gesù riprende il tema del compimento delle Scritture in lui; poi apre gli occhi e la mente ai discepoli così come li ha aperti ai due di Emmaus, e dice: “Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mi ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto”. Vorrei riflettere, insieme con voi, su queste parole, soprattutto sulle parole del v. 48: “Di questo voi siete testimoni”, e del v. 49: “E io manderò su di voi il promesso; aspettate di essere rivestiti di potenza”. Dunque la parola che Gesù dice, e che può essere veramente la conclusione delle parole che Gesù ci ha detto, è: “Mi siete testimoni”. Consacra cioè i suoi, che sono passati per l’esperienza dello scandalo della croce, che hanno capito il suo

amore di crocifisso risorto, come testimoni. Chi sono i testimoni? Per prima cosa coloro che hanno visto e riferiscono nel tribunale; più ampiamente, sono coloro che non solo hanno visto, ma che hanno anche capito il senso delle cose viste. Quindi, non solo testimoni materiali, come potevano essere molti contemporanei di Gesù, ma testimoni qualificati del significato di ciò che è successo; sono cioè coloro che hanno visto e capito e hanno fede. Per testimoniare non basta aver visto e capito. E, naturalmente, l’impegno esistenziale di far fede di ciò che si è visto e capito (dato il tipo di testimonianza cristiana) comporta anche un impegno personale. “Questo è dunque, o Signore – potremmo dire nella preghiera –, ciò che tu oggi ci chiedi: di essere testimoni, d’impegnarci, di far fede di fronte al mondo, noi poveri, noi pochi, noi piccolo gregge minoritario”. Testimoni: ecco ciò che il Signore ci dice in questo momento; testimoni come Stefano, che avendo visto la gloria di Dio, la proclama pubblicamente di fronte a coloro che non lo capiscono e non lo riconoscono, e hanno già le pietre in mano (At 7,55 ss.); testimoni come Paolo, costituito da Cristo testimone delle cose che ha visto (At 26,16); testimoni, dice il testo, di questo, di queste cose; ma di quali cose? Luca nei versetti precedenti le ha enunciate: delle sofferenze di Cristo, della sua resurrezione vissuta dagli apostoli e sperimentata in noi, e anche, questo è interessante, di tutto ciò che precede, cioè della predicazione, nel nome di Gesù, della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti. Ora è curioso che Luca a questo punto faccia dire a Gesù: “Di questo voi siete testimoni”; gli apostoli infatti sono stati testimoni della passione e della resurrezione, ma non ancora della predicazione alle genti: eppure, qui, testimonianza si riferisce anche a delle cose che verranno! Vedete come si allarga il concetto di “testimoni”, almeno se leggiamo nel loro senso ovvio questi termini. Il greco “testimoni di queste cose” si riferisce infatti a ciò che immediatamente precede, cioè: “Il Cristo dovrà patire e resuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti…” Certo queste parole fanno molto riflettere: o è un errore di Luca che ha messo “testimoni di questo” dopo aver parlato della proclamazione alle genti, ma intendendo riferirsi soltanto a morte e resurrezione, oppure c’è qui un qualcosa che mi sembra molto importante: “noi siamo testimoni” di tutte queste cose, anche della realizzazione della Pasqua nella Chiesa. Non siamo, dunque, soltanto testimoni dicendo: “Guardate che duemila anni fa Cristo morì; lo sappiamo, lo dicono i libri sacri, Cristo risorse ecc.”,

ma siamo testimoni anche della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti, cioè di quell’esperienza, che per primi dobbiamo aver fatto noi, del Cristo che vive risorto nella resurrezione che avvertiamo in noi e che sperimentiamo continuamente attorno a noi. Senza questo, noi non siamo testimoni di tutte queste cose, ma soltanto di alcune; e quindi corriamo il rischio di sentirci banditori di una parola del passato, mentre invece siamo testimoni di ciò che stiamo vivendo. Da qui il problema: come possiamo testimoniare ciò che non viviamo a fondo? E anche l’umiltà di dire: posso testimoniare ciò che vivo, cioè che Dio mi fa vivere. Che ci sia una testimonianza riferita anche alle cose future Luca lo dice pure nel testo già citato da At 26,16; anche qui una parola curiosa, se cerchiamo di intenderla così come è scritta. Paolo riferisce che Gesù parla così: “Io sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quello per cui ti apparirò ancora”. La testimonianza si estende anche alle esperienze che Paolo farà; Gesù è già risorto, ma Paolo farà delle nuove esperienze e anche queste dovrà proclamare: proclamare la vita di Cristo nella Chiesa, la conversione dei pagani come atto della potenza di Dio, proclamare le meraviglie del Cristo risorto e vivente nella sua Chiesa. È chiaro che tutto ciò diventa assurdo, se lo separiamo dal Cristo morto sul Golgota e risorto e manifestatosi a Gerusalemme; dobbiamo quindi tenere fortissimamente il legame tradizionale con questi fatti iniziali, ma tali fatti iniziali devono essere da noi testimoniati così come li sperimentiamo, cioè nella ricchezza di vita della Chiesa; senza questo la nostra testimonianza è debole, timorosa. Non dobbiamo neppure aver timore di dire che questa nostra testimonianza crescerà a mano a mano che crescerà la nostra esperienza del Cristo risorto nella Chiesa, in noi e in coloro che ci faranno parte della loro esperienza; che questa esperienza sia da intendersi con questa ampiezza, mi pare si possa ricavare anche dalla parola degli At 1,8, che in fondo ripete dandone un’altra presentazione quella di Lc 24,48: “Mi sarete testimoni, dice Gesù risorto, e cioè testimoni di uno che, morto e risorto, è ora vivente”: quindi testimoni di Gesù che vive? A ciò rispondono il v. di 24,49 e la prima parte del v. 8 di At 1, che presentano una sola realtà in forma diversa, in Luca testimonianza e Spirito, negli Atti Spirito e testimonianza; le due cose però sono conglomerate l’una nell’altra. Prima di passare a spiegare il v. 49, vorrei ancora trarre una conclusione: spesso noi ci preoccupiamo del linguaggio della fede. Ora è chiaro che qui la

testimonianza riguarda prima di tutto ciò che si vive; il linguaggio segue. Questo linguaggio sarà quello di oggi, e non possiamo prenderlo in prestito da chissà chi; sarà il linguaggio che noi oggi usiamo descrivendo l’esperienza personale. Mi pare che di qui debba partire, pur con tutte le sfumature e gli approfondimenti propri della pastorale, il modo per giudicare qual è il linguaggio adatto: è il linguaggio che oggi esprime questa esperienza vissuta, la quale se è realmente vissuta è potente, e si farà strada in parole che saranno, se la persona è del suo tempo, parole di questo tempo. Vediamo ora il versetto dello Spirito (24,49) da meditarsi insieme con la prima parte di At 5,32: “E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui”. In questo v. risalta ancora di più l’identità operativa, la connivenza fra testimonianza e Spirito. Insieme con questo v., prendiamo anche At 2,32: “siamo testimoni” e At 2,33 “Gesù […] dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo […] lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire”. In questi versetti ci sono diversi modi per esprimere il legame tra testimonianza e Spirito. Leggiamo il v. 49 così com’è: “Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso”; qui abbiamo, prima di tutto, l’idea della promessa del Padre. Abbiamo già riflettuto sul fatto che l’Antico Testamento è una serie di promesse che gli conferiscono una tensione messianica vivissima; ora la promessa del Padre è la realizzazione di tutto l’Antico Testamento, inteso come promessa: lo Spirito è perciò la manifestazione del regno; lo Spirito è il dono messianico che rinnova la faccia della terra; lo Spirito è quello che, attraverso il cambiamento che produce, apre l’uomo alla lode, alla carità, al distacco, alla giustizia, al servizio. Lo Spirito, quindi, attua già qui il Regno messianico proprio con la sua presenza, anche se tale presenza è ancora misteriosa, contrastata, contraddetta, e sempre esprimentesi attraverso le spine, le difficoltà. Ecco la promessa assicurata da Gesù nel v. 49: la pienezza dell’agire messianico data a noi. Prima lo Spirito si era manifestato presente in Gesù al battesimo; ora quello stesso Spirito è dato a noi e il regno di Dio ora è presente con noi e possiamo proclamare con Gesù “Beati i poveri perché vostro è il regno”, perché viviamo l’esperienza messianica che Gesù ha vissuto in sé, con lo Spirito che gli è stato dato. Lo Spirito, in questo v. 49, non è soltanto la promessa, ma è anche la forza perché i discepoli saranno “rivestiti di potenza dall’alto”. Qui Luca non nomina lo Spirito, ma lo indica solo con queste due

parole metaforiche e descrittive: promessa e potenza. Che cosa è la potenza? È la potenza dall’alto, cioè la stessa potenza di Dio. Notate il delicato riferimento a Maria: è la stessa potenza che, era stato detto nell’Annunciazione, sarebbe scesa su Maria. Luca termina così il suo Vangelo, proclamando per tutti quella potenza dall’alto, la cui prima attività era stata l’incarnazione, quella che ha iniziato in Maria la salvezza: forza che ci pone in quella possibilità di operare che è stata data a Maria, quando si è abbandonata a tale potenza. Come questo Spirito (promessa e forza) porta alla testimonianza? La connessione è più chiara e diretta in Atti 1,8: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni”. Qui viene affermato il legame tra lo Spirito e la testimonianza; non si può essere testimoni senza avere lo Spirito, ma non viene ancora specificato cosa fa lo Spirito. Ed è soltanto nei capitoli seguenti, il cap. 2, già citato, e il cap. 5, che si vede che cosa fa lo Spirito: lo Spirito trasforma l’uomo dall’interno e lo rende capace di aprirsi. Per mezzo dei doni carismatici (intesi sia in senso stretto che largo) l’uomo può aprirsi a tutte le attività che sono vita (lode, riconoscenza, gioia, servizio, carità, costruzione, fraternità ecc.), a tutte quelle attività che Paolo descrive in Gal 5,22 come “frutti dello Spirito”. Ecco dunque la potenza della testimonianza o, in altri termini, la testimonianza stessa, dono del risorto: la capacità di affrontare vitalmente il mondo, con quelle forze costruttive di lode, carità, servizio, che sono la proclamazione della vita in un mondo che tende, attraverso l’egoismo, all’entropia della freddezza, della glacialità, della prevalenza della forze dell’uno sull’altro. Ed è qui, come torniamo a vedere, che questa testimonianza con forza si inserisce nella vicenda umana: è infatti vitalità, e vitalità profonda, non semplice costruzione di dighe o di ponti; è quella vitalità sulla quale si innestano le altre vitalità dell’uomo, quando raggiungono la loro trasparenza. Prendendo più da vicino At 2,32 ss. possiamo vedere come questo Cristo, di cui gli apostoli sono testimoni, è quello che manda lo Spirito “Come voi stessi potete vedere e udire”; quindi è di nuovo un’esperienza del presente. Come è possibile predicare la resurrezione senza far fare a coloro a cui la predichiamo una qualche esperienza di essa? La Chiesa primitiva non lo ha mai fatto: ha sempre predicato il Vangelo in modo che si potesse in qualche modo toccare con mano, o in una comunità vivente o almeno, nel caso di un contatto individuale, nella amabilità di colui che parlava e che portava in

qualche modo, anche se debolmente, una carica vitale evangelica. Certo, anche se la sua parola è presentata male ed è in un contesto errato, la potenza di Dio può fare miracoli, ma noi dobbiamo ubbidire alla legge della parola e quindi non disgiungerla mai dallo Spirito di vitalità con cui la parola si presenta e si rende attuale: “Come voi stessi potete vedere e udire”. Occhi e orecchie devono essere impegnati in questo riconoscimento e si aggiunge: “Di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a lui” (At 5,3), cioè la testimonianza va data nello Spirito. In questo senso allora ci sembra meno ardita e utopistica la parola con cui termina il v. degli At 1,8: “Fino agli estremi confini della terra”. In questa parola leggiamo che non c’è nessuna situazione umana che si sottragga all’attenzione dello Spirito; questa forza dello Spirito, cioè, può vivificare qualunque situazione che si trovi nei confini della terra, cioè tutto. È con questa certezza che noi possiamo predicare, non scusandoci o quasi chiedendo in ginocchio di essere tollerati bensì con la serietà umile e semplice che viene dal sapere di predicare quello Spirito, che sta già vivificando l’Universo; noi proclamiamo Dio perché ne sperimentiamo vitalmente gli effetti e perché ci è data nel Vangelo la chiarezza della potenza che sperimentiamo. Dobbiamo ripartire da questi esercizi con la fiducia e con la certezza che è Dio che ci manda; ci manda anche se siamo umiliati, poveri, poco appariscenti e in situazioni ambigue, contorte, equivoche, create nei nostri ambienti dalla storia con tutte le sue successive stratificazioni. La Parola di Dio non ha paura di niente, lo Spirito scioglie tutto: con la dinamica evangelica del seme e del lievito, lo Spirito, che è in noi, ci dà la certezza assoluta che non c’è situazione umana insensibile a questa potenza di Dio, che ha creato l’uomo e gli ha infuso fin dall’inizio il proprio Spirito. Possiamo dire una preghiera: Signore ti ringrazio, perché dandoci l’esperienza dello Spirito ci dai l’esperienza della resurrezione. Ti ringrazio perché ci fai sperimentare la resurrezione nella Scrittura, nell’Eucaristia, nella fraternità, nel bene che riceviamo, nei doni carismatici e in tutto ciò che nella Chiesa è vita, dal perdono alla consolazione, dal mutuo incoraggiamento alla capacità di superare le prove e alla speranza che tu fai sorgere nelle situazioni più disperate. Grazie, o Signore, che ti manifesti a noi come risorto anche oggi.

Donaci, o Gesù, la capacità di riconoscerti, apri i nostri occhi perché possiamo vederti; apri la nostra lingua perché possiamo esprimere con semplicità, con chiarezza, ma anche con coraggio, la verità che sperimentiamo e che vogliamo che sia chiara, luminosa, infuocante anche per gli altri. 1

Orientati alla ricerca della volontà di Dio, gli Esercizi spirituali immaginano la situazione più radicale, cioè quella di una persona che si trova davanti all’alternativa tra la vita consacrata e la via laicale del matrimonio. Quindi la scelta di “uno stato di vita”. 2 Martini riporta qua una frase delle annotazioni introduttive degli Esercizi: chi li propone “deve narrare fedelmente la storia della contemplazione o meditazione” [2]. 3 Cfr. nota 29, p. 225. 4 Teofilo (nome che significa “amato da Dio”) è il destinatario per cui Luca scrive il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, in modo che possa rendersi conto della solidità degli insegnamenti che ha ricevuto (cfr. Lc 1,4). 5 Cfr. nota 8, p. 35. 6 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Principio e Fondamento”, p. 1157. 7 Le Addizioni o Note complementari [73-90] raccolgono una serie di consigli pratici. La quarta [76] invita ad avere una grande libertà nella posizione del corpo durante la preghiera, “sempre alla ricerca di ciò che voglio”. 8 L’espressione è tratta dalla versione latina degli Esercizi. Letteralmente significa “ciò che voglio”. 9 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Composizione di luogo”, p. 1156. 10 Maria Josefa ALHAMA VALERA, diventata poi MADRE SPERANZA DI GESÙ (1893-1983) è stata una religiosa e mistica spagnola, beatificata il 31 maggio 2014. 11 MADRE SPERANZA DI GESÙ, Diario, Collevalenza, Edizioni L’amore misericordioso, 20144, p. 17. 12 Giovanni BERCHMANS (1599-1621), santo della Compagnia di Gesù, le cui spoglie sono venerate nella chiesa di sant’Ignazio di Loyola a Roma. 13 La “contemplazione per giungere ad amare” [230-237] è posta alla conclusione dell’itinerario degli Esercizi spirituali, e fa da ponte tra il ritiro e la vita quotidiana. 14 ISACCO, di origini anglosassoni, visse nel XII secolo. Fu monaco cistercense e abate di Stella, presso Poitiers, dal 1147 fino alla morte nel 1169. 15 La dichiarazione Nostra Aetate (letteralmente, “Nel nostro tempo”) è il documento del Concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. 16 Il passo è tratto dai decreti della 32ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù, che si svolse a Roma dall’1 dicembre 1974 al 7 marzo 1975. Si trova nel decreto 11, “L’unione degli animi”, n. 39. 17 Approvato dalla Sacra Congregazione per il Culto divino il 2 dicembre 1973, l’Ordo paenitentiae è il testo che riporta le formule e il rito del sacramento della Penitenza. 18 Cfr. Piccolo lessico ignaziano, voce “Regno”, p. 1157. 19 Tommaso MORO (1478-1535) fu un umanista, scrittore e politico cattolico inglese, imprigionato e giustiziato perché rifiutò di abiurare. 20 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voci “Regno” e Vessilli”, pp. 1157-1158.

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“[…] per imitare e assomigliare più attualmente a Cristo nostro Signore, voglio e scelgo piuttosto povertà con Cristo povero che ricchezza, piuttosto ignominie con Cristo pieno di esse che onori, e desidero più di essere stimato insensato e folle per Cristo, il quale per primo fu ritenuto tale, che saggio e prudente in questo mondo” [167]. 22 Cfr. nota 52, p. 271. 23 È il decreto 4 della 32ª Congregazione Generale della Compagnia di Gesù. 24 La Costituzione pastorale Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, è uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II. 25 Il cantico di Zaccaria nel Vangelo di Luca: Lc 1,68-79. 26 AGOSTINO, Le confessioni, I,1, in ID., Opere di Sant’Agostino cit., vol. I. 27 Louis LALLEMANT (1588-1635), sacerdote gesuita francese. La citazione precisa è: “Sentiamo nel cuore un vuoto che tutte le creature insieme non riuscirebbero a riempire. Esso non può essere colmato che dal Signore, nostro principio e nostro fine. Il possesso di Dio riempie questo vuoto”; cfr. ID., La dottrina spirituale, Casale Monferrato - Milano, Piemme - Ancora, 1984, p. 63. 28 Preghiera recitata dagli appartenenti alle Comunità di vita cristiana nell’assumere l’impegno a vivere, da laici, secondo la spiritualità ignaziana. 29 Adrienne VON SPEYR, Esperienza di preghiera cit., p. 29. 30 Ibid. 31 Pia COMPAGNONI (1929-2016), di nazionalità svizzera, fece parte della Compagnia di San Paolo, visse a lungo in Terra Santa impegnandosi come guida dei pellegrini. 32 Jan ROOTHAAN (1783-1853) fu un gesuita olandese, preposito generale dell’Ordine dal 9 luglio 1829 alla sua morte. 33 Isola nel mare Egeo. Ospita le grotte dove, secondo la tradizione, san Giovanni evangelista avrebbe scritto l’Apocalisse. 34 Cfr. nota 30, p. 227. 35 Francisco DE JASSO AZPILCUETA ATONDO Y AZNARES DE JAVIER, comunemente noto come FRANCESCO SAVERIO (1506-1552), fu uno dei primi compagni di sant’Ignazio. Per la sua instancabile opera di evangelizzazione in Oriente, dove morì, è stato proclamato nella Chiesa patrono delle missioni. 36 A Spello, in Umbria, fratel Carlo CARRETTO (1910-1988), piccolo fratello di Gesù (Congregazione religiosa ispirata alla spiritualità di Charles de Foucauld) iniziò nel 1965 una fraternità di preghiera, che radunava molti giovani. 37 Cfr. nota 31, p. 229. 38 Entrando in ogni esercizio di preghiera, Ignazio ci invita a chiedere a Dio una particolare grazia: “quello che voglio” [48]. 39 Questo è il fine degli Esercizi spirituali, descritto nelle prime righe del libretto: [1]. 40 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Settimana”, p. 1158. 41 Louis LALLEMANT, La dottrina spirituale cit., pp. 98-99. 42 La terza e la quarta settimana degli Esercizi hanno lo scopo di confermare quelle novità di vita suscitate nelle settimane precedenti dal confronto con il Vangelo: reformata confirmare. 43 Nel libretto degli Esercizi ci sono alcune regole per orientare il discernimento della volontà di Dio (l’elezione): [169-189]. 44 Nella Formula dell’Istituto, documento fondatore della Compagnia di Gesù, è scritto che uno dei suoi scopi principali è “la consolazione spirituale dei credenti”. 45 Preghiera del XIII secolo, attribuita a Jacopone da Todi.

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[335]: “In quelli che procedono di bene in meglio, l’angelo buono tocca l’anima dolcemente, delicatamente e soavemente, come goccia d’acqua che entra in una spugna…” 47 Giovanni Maria VIANNEY (1786-1859) svolse una lunga e intensa attività come parroco, soprattutto nel ministero della confessione, ad Ars, un paesino nelle vicinanze di Lione. 48 Sant’Ignazio le descrive nelle regole del discernimento: “Solo Dio nostro Signore dà consolazione all’anima senza causa precedente… Dico senza causa, senza nessun previo sentimento o conoscenza di alcun oggetto da cui venga quella consolazione, mediante suoi atti di intelligenza e di volontà” [330].

L’EVANGELIZZATORE IN SAN LUCA

INTRODUZIONE È una grande grazia, quella di trovarmi qui, con voi, con una certa calma, una certa distensione, per un tempo un po’ prolungato. Tutto questo mi pare, quasi, un miracolo, dopo mesi durante i quali ho avuto incontri con tante persone ma brevemente e spesso nel frastuono. Vorrei vivere questi giorni un po’ nello spirito di quelle parole che san Paolo scriveva ai Romani: “Ho un desiderio ardente di vedervi” (Rm 1,11). Anch’io ho questo desiderio ardente di trovarmi con voi, “di farvi partecipi dei doni dello Spirito che diventano ancora più forti” ma – come prosegue san Paolo al v. 12 – “soprattutto io desidero vedervi perché, in mezzo a voi, anch’io possa sentirmi confortato da quella che è la vostra e la mia fede”. È il frutto fondamentale che mi aspetto da questi giorni. Il testo greco che qui è tradotto con “sentirsi confortato”, è symparaklethénai, avere una consolazione comune: secondo il linguaggio del Nuovo Testamento significa “essere pieni della luce dello Spirito”, essere pieni di gioia, di entusiasmo, di coraggio. Paolo, nel testo citato, dà la preminenza alla fede degli uditori: è proprio questo l’atteggiamento con cui io sono venuto e mi trovo davanti a voi. Desidero vedervi per potermi sentire confortato e consolato da quella che è la vostra fede. In questo spirito, propongo subito un breve esercizio: gli esercizi infatti sono un’attività, un’elaborazione di qualche cosa. Dobbiamo cercare di rispondere a una domanda: come descrivere la mia, la nostra situazione all’inizio di questi giorni? Incomincio col descrivere la mia, in modo da avviarvi a fare, ognuno personalmente, la propria autodescrizione nel silenzio e nella preghiera. La mia non è la situazione ideale di chi dovrebbe guidare altri, perché la situazione ideale sembrerebbe essere – come il Vangelo dice di Gesù che, sedutosi sul monte, ammaestrava i discepoli – quella di chi si trova a parlare

già bene assestato, in una situazione tranquilla, con tutte le proprie relazioni spirituali, di fede, di vita ordinate e, a partire da questo organismo di equilibri ben fatti, propone qualche cosa. Invece, riflettendo su di me questa sera, io devo descrivermi con un’altra immagine, quella di Abramo tre giorni dopo la chiamata: Abramo in viaggio perché la Parola lo chiama e non sente niente se non che deve muoversi. Muovendosi, Abramo sa che deve incominciare a rifare tutti gli equilibri della propria vita, a tagliare tante relazioni e riannodarne altre; gli è chiesto di riequilibrare tutto il proprio sistema affettivo, relazionale, tutto il proprio modo di vedere, alla luce delle nuove situazioni nelle quali la Parola di Dio lo ha messo. È, quindi, uno stato un po’ di disequilibrio, di una ricerca del Dio che mi chiama adesso, in questa esperienza molto più corposa di Chiesa anche come organismo, come struttura, come complessità di relazioni che butta all’aria equilibri precedenti. Il mio, purtroppo, è perciò il discorso di uno che sta camminando e non ha sempre a disposizione il fiato come lo vorrebbe: nemmeno volendo potrei inventare o fingere una situazione diversa. Ciò che vi dirò avrà probabilmente lo stigma della mia nuova fatica. Tocca a voi ricevere con benevolenza, con pazienza e con partecipazione quanto io cercherò di comunicarvi nella mia personale ricerca del mistero di Dio e degli equilibri ecclesiali che ciascuno deve continuamente ricostruire, soprattutto in periodi nuovi della propria esistenza, nei momenti delle chiamate diverse, inaspettate, improvvise. Capire il punto di partenza nel quale ci si trova, e capire il punto di partenza delle riflessioni che faremo sulla Scrittura. Vi invito a rispondere alla domanda, magari cercando una pagina biblica, un salmo in cui vi sentite descritti. Certamente le posizioni saranno assai diverse: ognuno potrà specificare ulteriormente la propria situazione a seconda delle prove, delle tentazioni, delle difficoltà, delle fatiche, degli entusiasmi, dei disgusti, dei disagi, delle speranze, delle sofferenze nelle quali stiamo passando. Conoscere il punto di partenza è molto utile per poter fare un cammino preciso. Quale sarà l’argomento che aiuterà il cammino comune? Fra le varie scelte possibili, ho pensato di attenermi al Vangelo secondo Luca, soprattutto perché è il Vangelo dell’evangelizzatore, il Vangelo che risponde alla domanda: come si forma l’evangelizzatore? Come viene formato nella Chiesa colui che ha il ministero, il servizio, la diaconia dell’evangelizzazione?

Terremo presenti, insieme col terzo Vangelo, gli Atti degli Apostoli, che ne sono la continuazione, l’esplicitazione ecclesiale, e la seconda lettera ai Corinti che esprime lo stesso travaglio di Paolo. Paolo si domanda: “Ma cosa faccio quando evangelizzo? Cosa vuol dire? Che tipo di esperienza sto vivendo?” Durante i tempi che vorrete dare alla lettura vi suggerisco, quindi, una lectio continua di Luca, degli Atti e della seconda lettera ai Corinti. Vorrei sottolineare un aspetto degli esercizi: la comunicazione di fede attraverso il silenzio, da voi proposto come scelta responsabile che mette ciascuno in un clima di rigore, di austerità, di fatica ma che vale la pena di essere vissuto. Questo silenzio dovrebbe divenire fonte di comunicazione nella fede, secondo l’espressione dell’apostolo là dove scrive della parola che deve abitare e girare nella comunità (cfr. Col 3,16). Accanto all’esperienza di preghiera silenziosa, contemplativa, di ascolto e di adorazione sarebbe importante che ci fossero alcune esperienze di comunicazione nella fede su ciò che la lettura o la riflessione della Scrittura, per dono di Dio, ci ha fatto capire e che può essere utile ad altri. Questa comunicazione di fede è importante per l’evangelizzazione: l’evangelizzatore si forma nella comunicazione dell’esperienza o del dono di fede. Comunicazione non è discussione, non è approfondimento, ma semplice offerta di quelle cose che ci sono sembrate davanti a Dio utili e che potrebbero aiutare altri. Infine, desidero raccomandarvi un altro versetto della Scrittura, nel quale Paolo comunica che cosa è successo in lui come evangelizzatore: “Dio che ha detto ‘dalle tenebre luce risplenda’, proprio lui rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio nel volto di Cristo” (2Cor 4, 6). Questo passo mi colpisce molto, perché sottolinea l’attività di Dio nella nostra vita: lo stesso Dio che ha ordinato il cosmo per la positività e per la vita, si incarica di testimoniare nei nostri cuori la luce risplendente di Cristo dalla quale parte ogni vita e ogni evangelizzazione. Questo versetto dell’apostolo si potrebbe meditare parola per parola perché riflette in sintesi Antico e Nuovo Testamento, rivelazione divina nella natura, nella storia, nella grazia e nella vita dell’uomo; all’inizio di questi giorni, ci aiuta a dire: Opera Tu, o Signore, nei nostri cuori. Noi siamo nelle tenebre, brancoliamo nel buio e quando guardiamo intorno ci accorgiamo che

sappiamo ben poche cose, abbiamo risposto a ben pochi problemi e ci sono invece moltitudini di cose che ci spaventano e ci fanno sentire la nostra impotenza. Ti chiediamo, quindi, o Signore, di fare risplendere in noi la luce del volto di Cristo perché possiamo camminare nella luce e, se Tu lo vuoi, possiamo aiutare anche altri a camminare.

I. VERSO LA COMPRENSIONE DEL KÉRYGMA1 Ti ringraziamo, Signore, per questo tempo che ci dai per ascoltare la tua Parola. Ti preghiamo, o Signore, fa’ di noi degli ascoltatori attenti, perché nella tua Parola è il segreto della nostra vita, della nostra identità, della nostra vera realtà alla quale siamo chiamati. Togli da noi, o Signore, ogni pregiudizio, ogni prevenzione, ogni preconcetto che ci impedirebbe di accogliere liberamente la Parola del tuo Vangelo. E chi sarà mai degno, Signore, di proclamare questa Parola se non tu stesso? Chi di noi potrebbe interpretare adeguatamente questa Parola di salvezza? Ti chiedo anche per me, che mi preparo a esporre qualcosa della tua Parola, di togliere tutto ciò che è pregiudizio o idea personale e di far risplendere soltanto ciò che Tu, nello Spirito, vuoi dire a ciascuno di noi. Maria Madre del Signore, che ripensavi nel tuo cuore le parole e i fatti di Gesù, fa’ che ti imitiamo con semplicità, con tranquillità, con pace; togli da noi ogni sforzo, ansia o nervosismo e rendici attenti ascoltatori perché nasca in noi il frutto del Vangelo. Te lo chiediamo, Madre, per il nome del tuo Figlio glorioso, vivo, che regna in mezzo a noi, nella nostra comunità, nella Chiesa di tutti i tempi, nel mondo, nella storia, per tutti i secoli dei secoli. Amen. Evangelizzatori e pastori Come si forma l’evangelizzatore secondo le pagine del Vangelo di Luca? Innanzitutto occorre chiarire che cosa si intende per evangelizzatore e poi spiegare perché Luca è adatto a rispondere a questa domanda. Con il termine evangelizzatore intendo riferirmi a quel dono particolare, edificativo del Corpo di Cristo cui si riferisce la lettera agli Efesini (4,11)

dove si parla dei doni di Gesù asceso al cielo. Questi doni fanno alcuni apostoli, altri profeti, altri evangelisti, altri pastori, altri dottori. Sono cinque doni che san Paolo enumera come costruttivi della comunità cristiana per l’edificazione del Corpo di Cristo. Sappiamo che non sono gli unici doni perché, in altre lettere di Paolo, troviamo indicati altri carismi; in questo versetto della lettera agli Efesini, l’apostolo pensa però specificamente alla costruzione della Chiesa. L’apostolo è colui che pone il fondamento iniziale di una comunità e la sorregge, il profeta interpreta i disegni di Dio per il momento attuale della comunità, l’evangelista proclama il kérygma, la buona notizia, e quindi aggrega alla comunità nuovi fedeli che sono attratti dalla parola di salvezza, il pastore custodisce e porta avanti il gregge che si è creato, il dottore approfondisce, attraverso la catechesi, la dottrina e la teologia, tutto ciò che forma il corpo della comunità. Sono cinque grandi carismi formativi della comunità. Una comunità sana, ben fondata, è quella che sviluppa tutti questi carismi che, nella storia della Chiesa, si sono espressi in modi diversi: i fondatori di comunità, cioè gli apostoli e i profeti che interpretano per il proprio tempo la parola di salvezza, sono passati in seguito ad altri uffici, ad altri servizi ecclesiali e, oggi, è proprio dei vescovi il portare avanti l’ufficio di sostegno per l’unità della comunità e l’impegno di interpretare per la comunità i disegni di Dio sul presente. È l’azione magisteriale e unificatrice del vescovo. I due carismi seguenti, evangelisti e pastori, pur essendo propri anche del vescovo, si riferiscono in particolare a coloro che hanno la cura specifica di vari membri e situazioni della comunità. Concretamente e per buona parte la Chiesa, oggi, affida ai suoi presbiteri il doppio compito di evangelisti e di pastori; anzi, soprattutto il compito di evangelisti non è – come ci mostra il Nuovo Testamento – legato esclusivamente ai membri della gerarchia e può essere esteso, sotto la loro guida, ai laici, come oggi avviene. Tuttavia la funzione principale, la responsabilità fondamentale di evangelizzare e pascere è quella che i vescovi condividono con i presbiteri e che i presbiteri esercitano nei singoli luoghi e nelle singole comunità. La Chiesa vive se mantiene in sé questi due doni di evangelizzare e di pascere in un equilibrio che, evidentemente, potrà variare a seconda delle circostanze e delle situazioni. Quando l’equilibrio si rompe e una Chiesa, per esempio, diventa unicamente evangelizzatrice senza pensare di portare avanti e di sostenere le comunità, allora abbiamo quel tipo di Chiese entusiaste, nelle quali dominano unicamente le forze d’attacco, ma non si costruisce. Quando

invece tutto il peso si porta sull’azione pastorale, allora la Chiesa pasce se stessa indefinitamente e perde quel punto di espansione che la fa essere Chiesa. Ecco l’importanza di questi due carismi congiunti, evangelizzatori e pastori. Negli evangelizzatori prevale, in un certo senso, l’iniziativa, il mordente, l’attacco, la capacità di affrontare situazioni diverse, di cogliere il mondo che la pensa diversamente, di interpretare i bisogni di coloro che sembrano lontani, di entrare nel desiderio profondo di verità, di giustizia, di Dio, che c’è in ciascuno e renderlo esplicito. È un’attività che va, invece di aspettare; che si muove, invece di fare la torre in cui bisogna entrare. Questa attività è specificata qua e là nel Nuovo Testamento, ma soprattutto è chiara nella figura di Filippo. Filippo è l’evangelista, colui che rappresenta questo tipo di azione. In At 8,40 evangelizza le varie città correndo un po’ dall’una all’altra, è presente vicino al carro dell’eunuco etiope e poi lo ritroviamo in un’altra parte della Palestina, con l’animo attento ai bisogni nuovi della gente. Filippo osa affrontare l’uomo che sta leggendo sul carro, e senza aspettare di essere interrogato gli suscita la domanda, gliela chiarisce dentro. È chiamato, quindi, l’evangelizzatore, colui che ha questo dono di euangelistès (Ef 4,11), poi richiamato in At 21,8 in riferimento a At 8,40, dove è così descritta la sua attività: “Filippo… percorreva evangelizzando tutte le città”. Ecco un’idea concreta di questo tipo di carisma che pone una certa capacità d’entrare nell’animo altrui, di scoprire le necessità anche non espresse della gente, di trovarsi in situazioni dove sembra che ci sia lontananza dal Vangelo, di aiutare a fare un cammino di conversione scoprendo i germi della grazia ecc. Come dicevo, questa non è l’unica attività ecclesiale: l’attività pastorale rimane fondamentale; chi ha ricevuto la grazia del Vangelo deve coltivarla per tutta la vita, affinché la forza del kérygma sia sempre lucida in lui ed egli compia un vero cammino cristiano completo, secondo le tappe che ho ricordato parlando dei quattro Vangeli in ordine al cammino cristiano. Tuttavia è un carisma molto importante ed è distribuito nella Chiesa diversamente: alcuni lo posseggono in misura maggiore, altri meno; alcuni sono più pastori, altri più evangelizzatori. La Chiesa richiede dai suoi presbiteri una certa dose dell’uno e dell’altro; o meglio, nel corpo organico della Chiesa sono necessari tutti e due questi doni perché vi sia equilibrio e non eccessiva staticità, perché non ci sia soltanto il vento dell’entusiasmo senza una solida costruzione.

Perché il Vangelo secondo Luca è particolarmente adatto a illuminare la figura dell’evangelizzatore? Non posso fermarmi a lungo su questo punto: ci vorrebbe uno studio esegetico del Vangelo. In una tesi di laurea fatta al Pontificio Istituto Biblico, uno studente americano ha approfondito molto attentamente questo problema ed è riuscito a dimostrare come tutti i passi di Luca caratteristici – il tipo di sentenze di Gesù che Luca ama raccogliere, le insistenze particolari del suo Vangelo – derivano, con tutta probabilità, dai gruppi di evangelizzatori che giravano la Palestina e la Siria (Luca era quasi certamente uno di loro), e che avevano un particolare interesse a chiarire a se stessi il ministero evangelizzante che facevano. Era il “loro” problema, da qui il loro taglio nel leggere la vita di Gesù, nel raccogliere le sue parole, nel metterle in ordine. Proprio per questo, Luca ha sentito il bisogno di continuare con gli Atti, in modo da dare una serie di esempi di evangelizzazione e proseguire la messa in opera di un Vangelo – nel quale appare, in particolare, la forza evangelizzatrice di Gesù e la sua educazione degli evangelisti – con un secondo volume nel quale ci fossero esempi concreti di evangelizzazione nella Chiesa primitiva. Il Vangelo secondo Luca è, perciò, il più adatto per specchiarsi nella propria azione evangelizzatrice. Qui possiamo ricordare, come esempio, che soltanto Luca menziona i famosi settanta o settantadue che sono, appunto, quegli evangelizzatori itineranti il cui principale scopo era di andare in giro a portare la Parola, e che certamente non esistevano soltanto al tempo di Gesù; in seguito hanno continuato questo tipo di attività, favorendo così le raccolte di parole, di detti di Gesù, presenti soprattutto nella seconda parte del Vangelo in parecchi episodi caratteristici, alcuni dei quali verranno in seguito presi in esame anche da noi. Come ci rivolgeremo a questo Vangelo, che tipo di lettura propongo per rispondere alla domanda che ci interessa: come si forma l’evangelizzatore alla scuola di Gesù? Ho pensato a un tipo di lettura che aiuti a portare l’attenzione su alcuni punti focali del Vangelo che mi sembrano tipicamente lucani e particolarmente adatti a farci riflettere sul nostro impegno di evangelizzatori. Ciascuno pensi un po’ quali punti focali sceglierebbe se volesse mettere in luce la formazione dell’evangelizzatore che questo Vangelo può dare. Pensandoci sono arrivato a una conclusione che, evidentemente, non è apodittica, non è assoluta, ma può costituire un punto di partenza: bisogna

prendere due episodi che, insieme, fanno da cornice al Vangelo. Il primo è l’episodio inaugurale: Gesù a Nazareth, 4,16-30. È un racconto tipicamente lucano perché costruito da Luca con materiali sparsi della tradizione evangelica – si trovano qua e là negli altri Vangeli –, da lui messi insieme per dare un quadro introduttivo alla sua presentazione. Il secondo episodio focale – anch’esso presente soltanto in Luca che l’ha elaborato con una cura tutta particolare per mostrarci Gesù maestro di evangelizzazione – è quello di Emmaus: 24,13-35. Il metodo che seguo non è tematico; in un corso di esercizi, non è tanto importante acquisire una serie di idee chiare e distinte, ma piuttosto entrare nella manifestazione gloriosa di Dio dentro il nascondimento della povertà di Cristo e da questa manifestazione di Dio lasciarsi formare, trasformare, per entrare nella forza della vita di Gesù raccontata dalle parole evangeliche e sostenuta, ancora oggi, dalla potenza dello Spirito Santo. Questo è il metodo per metterci proprio alla scuola del Vangelo. Gesù, evangelizzatore mancato Primo episodio: 4,16-30. Gesù va a Nazareth, entra nella sinagoga, gli viene dato il rotolo, lo apre e legge un brano di Isaia (“lo Spirito del Signore è sopra di me…”); poi chiude il rotolo, si siede e tutta la gente lo guarda fisso. Si sottolinea che è un momento decisivo questo, per la vita di Gesù. Se sbaglia andrà forse male tutto il ministero. Sono i momenti propri del primo impatto; se uno sbaglia all’inizio, molte conseguenze ne possono venire. C’è un senso di attesa un po’ spasmodica: vediamo cosa viene fuori da quest’uomo di cui si dicono tante cose! Tutti dunque lo guardano fisso, Gesù parla e – secondo Luca – dice, in sostanza, una sola parola: “Ecco, questa Scrittura si è adempiuta”. Qui non si capisce bene cosa succeda e gli esegeti non sono riusciti fino a oggi a districare il mistero dei versetti 22 e 23. Dapprima sembra che la cosa piaccia, poi cominciano le discussioni: ma chi è, ma cosa fa, perché non ha operato qui quei miracoli… Concretamente, la prima impressione che sembrava favorevole rapidamente si sgretola. Gesù sente che l’atmosfera diventa ostile e allora riprende il discorso: “Di certo voi mi citerete il proverbio: ‘Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!’” Poi aggiunge: “Nessun profeta è bene accetto in patria. Vi dico anche: c’erano molte vedove

in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidone. C’erano molti lebbrosi al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman il Siro”. A questo punto l’emozione raggiunge il colmo, la gente si esaspera e succede il crollo: Gesù viene cacciato fuori addirittura per essere ucciso e la sua storia sembra concludersi; in una giornata sembra tutto finito, il suo ministero è andato a male. Da qui deve cominciare la nostra riflessione. Io confesso che, ogni volta che mi metto davanti a questo brano, non finisco di meravigliarmi: ma perché Luca ha cominciato il suo Vangelo così? E penso che se avessi voluto cominciare a scrivere un Vangelo per servire all’educazione dell’evangelizzatore, io avrei preso una serie di episodi belli, attraenti, dove Gesù evangelizza con successo e quindi attrae a seguirlo: avrei messo una serie di quadri molto positivi del metodo di Gesù, della sua capacità di capire la gente, di invogliarla, di aiutarla e, soltanto dopo un certo numero di capitoli, avrei fatto intendere le difficoltà e i problemi. Non finisco di stupirmi perché Luca cominci la presentazione dell’attività pubblica di Gesù con un episodio che si potrebbe intitolare: Gesù evangelizzatore mancato. Gesù non è riuscito, non si è fatto capire, non si sono intesi e ha dovuto partire in tutta fretta. Comincia qui quello choc evangelico che sento tutte le volte che, leggendo la Scrittura, mi metto davanti alla situazione e dico: io come l’avrei scritto questo episodio? E invece come mai è così, perché questo modo strano di presentarsi di Gesù secondo il Vangelo? Vi invito a una prima riflessione proprio su questo tema: Gesù evangelista mancato. Vi invito a meditare su questo esempio di evangelizzazione non riuscita e che viene quasi proposta come programmatica. Più che dare troppo presto una risposta a quelle domande, cerchiamo di lasciare entrare dentro di noi questo reale problema: perché Luca ha cominciato così la presentazione della vita pubblica di Gesù? Propongo di riflettere sull’episodio, secondo alcuni punti, a partire dall’ultimo versetto, il v. 30: “Gesù, uscito in mezzo, se ne andava”. Consideriamo tutta la tristezza di questo partirsene di Gesù: è chiaro che qui c’è anche un aspetto della misteriosa potenza di Dio. Gesù non viene ucciso e – chissà perché – viene lasciato andare, forse all’ultimo momento la gente si era impaurita di fronte a quello che stava facendo, ha avuto terrore della sua stessa reazione e Gesù se

ne va. Però, come se ne va di lì? Certamente se ne va sconfitto. Questa è la prima immagine di Gesù evangelizzatore che viene presentata: sconfitto, cacciato, non ascoltato, non gradito, ed è davvero una scena misteriosa se pensiamo che Gesù è l’evangelizzatore. Possiamo anche immaginare l’amarezza, ad esempio, di Maria sua madre, nel vedere che il figlio non è riuscito, l’amarezza dei suoi amici, dei suoi ammiratori che non comprendono cosa sia successo, che temono quello che potrà succedere, che credono finite le speranze che avevano nutrito. Dopo aver chiarito questa scena anche interiormente, cerchiamo di vederne altre analoghe nel Nuovo Testamento; questa non è una scena solitaria e se Luca l’ha messa qui, è perché sa di toccare qualche cosa che appartiene a una costante del Regno di Dio. Ne indico due. La prima cerca di interpretare il brano evangelico di Luca con gli Atti. La situazione e i sentimenti di Gesù che deve andarsene si ritrovano, per esempio, quando, dopo un’apparenza di successo ad Antiochia di Pisidia, Paolo e Barnaba ritornano a predicare: “i giudei furono pieni di gelosia, e contraddicevano alle cose dette da Paolo, bestemmiando” (At 13,45). Essi, allora, devono partire: come parte Gesù, così anche Barnaba e Paolo devono andarsene. Il loro ministero non è riuscito, la Parola non è stata accolta. Possiamo partire di qui per esaminare altre pagine del Nuovo Testamento dove non ci viene nascosta la sofferenza dell’evangelizzatore. Gesù che dice: “Vi farò pescatori di uomini” non illude aggiungendo: “e saranno tutti successi”, “ne pescherete molti subito”. Così pure, è vero che non sappiamo quali siano stati i sentimenti di Gesù nel momento in cui fu cacciato da Nazareth, però conosciamo i sentimenti di Paolo in situazioni analoghe: “Non vogliamo, infatti, che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze” (2Cor 1,8). Sono parole grosse quelle di Paolo: “al di là delle nostre forze”; cioè, quanto è successo ci ha sconvolto, non ne potevamo più, “sì da dubitare anche della vita”, eravamo proprio giunti a dire: è finita. Come per Gesù a Nazareth, bastava poco perché tutta la sua azione fosse conclusa in poche ore. “Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che libera i morti” (2Cor 1,9). Ancora, in At 14,22, ai discepoli si insegna: “[…] è attraverso molte tribolazioni che dobbiamo entrare nel Regno di Dio”. Paolo ha dunque sperimentato più volte, in questi suoi tristi esodi da una città all’altra, ciò che Gesù ha sperimentato in quella scena iniziale. Qualcuno

potrebbe dire che quella scena iniziale è stata costruita da Luca, ed è vero, ma questo aumenta il problema del perché Luca ha costruito così quella pagina del Vangelo. E la risposta è che Luca voleva, fin dall’inizio, far riflettere profondamente su chi è l’evangelizzatore. Tornando a Lc 4,16-30, voglio farvi notare un elemento che risulta fortemente e che io ricavo dalla composizione tra le parole “Tutti gli occhi della sinagoga erano fissi su di lui” (4,20) e le parole “mi direte: medico, cura te stesso” (4,23), “ma non c’è profeta ricevuto in patria ed Elia ed Eliseo fecero molti miracoli al di fuori di Israele” (cfr. 4,27). Come la figura di Gesù evangelizzatore ci si presenta in questi due momenti, quando c’è tutta la gente che lo guarda fissamente e quando risponde affrontando il malcontento della gente? Nella prima scena leggo un fenomeno assai comune: la gente si aspetta molto da Gesù, tenta quasi di catturarlo, sono tutti lì a sentire e cercano di coinvolgerlo nelle loro aspettative. Sono le aspettative che il quadro ristretto di Nazareth – un po’ di lavoro, un po’ di commercio – poteva dare. Leggendo queste aspettative, alla luce della storia della Chiesa primitiva, delle liti tra i parenti di Gesù per il primato, delle liti tra Gerusalemme e la Galilea, si può già intravvedere una certa ansia di accaparrarsi il profeta, di farne oggetto di gloria paesana e, magari, di un po’ di guadagno paesano: in fondo, se incomincia a fare qualche miracolo la gente viene, controlliamo gli alberghi, facciamo qualche cosa. Dobbiamo credere queste cose molto realistiche nella mentalità della gente della Chiesa primitiva: “il profeta è nostro”, c’è un po’ di rabbia perché non ha cominciato prima lì ed è invece andato a Cafarnao; le cose che hai fatto a Cafarnao falle qui, tu sei uno dei nostri, siamo noi che ti abbiamo aiutato, e adesso devi renderci qualche cosa… Da una parte, Gesù è sotto la minaccia di una cattura, di quello che la gente vuole da lui, di un tentativo di adeguare ciò che egli dice alle aspettative, ai bisogni, alle necessità, per avere successo e quindi di essere rapidamente incastrato in tutta quella piccola serie di interessi che formavano il tessuto sociale del piccolo villaggio. D’altra parte, invece, emerge l’estrema libertà di Gesù che, incurante del successo, incurante di quanto potrebbe capitare, incurante della cattiva fama che quel primo incontro potrebbe portare ai villaggi vicini, alla gente che non lo vorrà più e non lo inviterà più, parla liberamente; anzi, sembra addirittura provocare un po’ la gente ricordando loro che esistono altri confini, altri orizzonti, altri interessi del Regno di Dio molto più vasti; ricorda che i pagani

valgono di più di quel villaggio, perché possono essere meritevoli di una particolare presenza di Dio. Gesù appare qui come l’evangelizzatore dotato di assoluta libertà di spirito, di una libertà così profonda che guarda il mistero di Dio e tutto il mondo. Questa libertà gli dà, fin dall’inizio, una statura profetica totalmente al di fuori di quella di un piccolo predicatore di paese, la statura di chi porta se stesso e la sua libertà in giro per il mondo perché ha davanti a sé gli orizzonti di Dio. Chiamati a essere con Gesù Possiamo fermarci un momento nella preghiera e dire: Signore, che cosa ci insegni con questo tuo primo modo di presentarti? Ci insegni che evangelizzare non vuol dire innanzitutto fare qualche cosa, ottenere qualche risultato, mettere a posto qualche pietra che poi rimanga, ma vuol dire partecipare alla tua libertà, alla tua vastità di vedute, vuol dire entrare nella ricchezza di questa libertà straordinaria. Evidentemente questo non vuol dire imitare Gesù nella sua efficacia di provocazione – nella quale talora cadiamo per malumore o per ripicco! – ma vuol dire imitarlo in questo assoluto distacco nel quale soltanto egli può predicare la libertà di Dio. Se noi risaliamo all’inizio dell’episodio, vediamo che Gesù predica libertà, liberazione, nuovo modo di vivere, presenza abituale del Regno liberante (4,18-19). Ma può farlo perché egli, per primo, vive questa assoluta libertà, questa superiorità a tutte quelle che possono essere le attese immediate e meschine della gente: è lui che, con la sua persona, proclama la presenza dell’Unto di Dio che libera, che rischiara, che illumina, che dà remissione dei peccati. Il messaggio liberante di Gesù è lui stesso. Ciò che colpisce, in questa prima parte dell’episodio, è l’estrema personalizzazione del messaggio, è più una predica sul messaggero che sul messaggio. “Lo Spirito di Dio è su di me, per questo ha unto me, mi ha mandato”: fra le tante frasi anticotestamentarie che potevano essere scelte, è scelto un passo estremamente personalizzato nella figura del Messia, “mi ha mandato per liberare, per perdonare, per proclamare”. Ecco la prima cosa che siamo chiamati a leggere in questa pagina evangelica così densa: Signore, chiamandoci a evangelizzare, tu ci chiami

non a dire o a fare qualche cosa, ma prima di tutto a essere qualche cosa con te, a partecipare alla tua libertà, alla tua missione. Prima di pensare a che cosa dobbiamo fare, a cosa dobbiamo dire, quali risultati dobbiamo ottenere, occorre essere con te partecipi della tua missione, della tua libertà che ti viene dall’essere Figlio, che ti viene dall’essere uno col Padre. Ecco il primo messaggio incarnato: l’uomo liberato dalla sua partecipazione alla vita di Gesù Figlio, proclamatore del Vangelo di libertà. Su questo possiamo riflettere attentamente, perché è certamente un cardine di tutta quanta la chiamata evangelizzatrice. Non possiamo aiutare, liberare, pacificare gli altri se prima non siamo noi liberi, pacificati, salvati dalla presenza di Gesù, dalla nostra permanenza in lui liberatore, in lui salvatore. E se volete aggiungere un’ultima riflessione, proviamo a domandarci come mai la gente di Nazareth non lo ascolta. Non l’hanno ascoltato, probabilmente, perché erano colpiti alcuni loro interessi, erano deluse alcune loro attese. È un esame di coscienza su di noi: quali sono le attese deluse, gli interessi colpiti che potrebbero impedirmi di accettare Gesù come liberatore, come salvatore, come messaggero di buona notizia per me? Da qui può partire la preghiera affinché si apra il nostro cuore all’ascolto della Parola, alla salvezza che Gesù promette, innanzitutto, all’evangelizzatore.

II. DIFFICOLTÀ NELLA COMPRENSIONE DEL KÉRYGMA Prendiamo, ora, il secondo episodio, che fa un po’ da alternativa al primo e che è, anch’esso, uno dei punti focali della costruzione del Vangelo secondo Luca. La narrazione dei due discepoli di Emmaus: Lc 24,13-35. Mi propongo, qui, di meditare su “Gesù evangelizzatore riuscito”, per mettere poi, in parallelo, la scena iniziale e la scena finale di questo Vangelo. Portiamo con noi alcune delle domande suscitate dalla precedente meditazione, su Gesù non accolto a Nazareth. Se c’era un corso di esercizi ben preparato era, di fatto, quello di Nazareth: un ottimo predicatore, un uditorio naturalmente disponibile, una sintonia, una unità di linguaggio. E invece non riesce. Abbiamo cercato di esaminare qualche cosa partendo dall’animo interno dei nazaretani e confrontandolo un poco con alcune nostre disposizioni; in realtà c’è qualcosa di più da capire. È proprio una difficoltà inerente al kérygma che, poco a poco, il Vangelo

ci deve svelare, affinché questo kérygma diventi nelle nostre mani, non un bastone nodoso che fa soltanto del male sulla schiena di coloro su cui capita, ma piuttosto la spada a due tagli della Scrittura che penetra giusto, che va dove deve andare. Dobbiamo attentamente riconoscere il kérygma nella sua verità e nella sua distinzione da tutte le altre cose che sembrano annuncio evangelico e che ne sono invece imitazione, scimmiottature, approssimazioni e perciò creano difficoltà e disagio. In realtà la gente di Nazareth non ha colto il kérygma: ha colto delle scimmiottature o approssimazioni e le ha trasformate nel proprio modo di recepire, non si è veramente aperta alla parola di Gesù. Per approfondire questo tema, esamineremo l’episodio di Emmaus secondo alcuni punti successivi. Prima di tutto porteremo l’occhio della macchina da presa su questi due discepoli: chi sono, chi rappresentano, che esperienza vivono i due che se ne vanno per la strada verso Emmaus. Poi sposteremo l’occhio della macchina su Gesù: che cosa fa Gesù verso di loro, come agisce. In un terzo momento ci domanderemo come i due reagiscono, qual è la loro reazione all’avvicinarsi di Gesù. Infine, in un quarto momento, che cosa Gesù propone e qual è il risultato della proposta. Ogni parola ha un profondo significato perché ha dietro di sé un’esperienza di conversione e di accoglimento del kérygma da parte della primitiva comunità, esperienza che varrebbe la pena di essere ponderata anche nella sua espressione filologica. Sono quei casi in cui le parole non sono pietre, ma sono diamanti che devono essere lucidati in modo da compiere tutta la loro opera illuminatrice. La crisi dell’evangelizzatore Esaminiamo questi momenti successivi. Chi sono i due? “Ecco due dei loro in quel giorno (non si dice il nome per ora), se ne andavano verso un villaggio distante da Gerusalemme sessanta stadi, di nome Emmaus”. Dunque sono due di loro, due ex autón – ci dice il greco –, due del gruppo dei “privilegiati”; non sono due discepoli occasionali: sono quelli che noi chiameremmo proprio dei nostri, cioè della gente che abbiamo coltivato, che abbiamo seguito, sulla quale abbiamo posto certe speranze, due “supercoltivati” della comunità primitiva. E se ne vanno – come apparirà sempre più – in un momento di crisi, di disgusto: ma chi ce lo

fa fare, cosa aspettiamo ancora, ci siamo illusi, non succede niente, ormai le parole non ci bastano più e i fatti non vengono… Stanno vivendo quel punto di crisi che è una delle prove normali dell’evangelizzatore, e lo vivono in maniera un po’ esemplare per tutta la comunità; lo vivono non rinnegando niente, ma andandosene per i fatti loro, per cose più concrete, più immediate, per affari forse quotidiani, come il coltivare il campo, il visitare amici; per cose, insomma, che danno soddisfazione. Ciò che aspettavano dal kérygma è ormai troppo vago e confuso. Il testo specifica ancora meglio: “parlavano di tutte le cose che erano avvenute” (24,14) e “discutevano fra loro” (v. 15); più avanti “si fermarono tristi” (v. 17). Dunque, come vediamo queste persone? Sono persone a cui la rinuncia al kérygma non ha dato nessuna gioia, non hanno fatto pace dicendo: bene, è una esperienza finita male. No, l’esperienza è ancora amara dentro di loro; quindi discutono, litigano per capire di chi è stata la colpa, per rimproverarsi una certa imprudenza. Come succede tutte le volte che le cose non vanno bene e si cercano i colpevoli, si addita qualcuno che ha sbagliato, perché il senso di amarezza e di scontentezza vuole sfogarsi. Quel verbo syzetéin – discutevano – ritorna ancora in At 15,7.10 là dove si parla delle discussioni violente nella comunità primitiva a proposito della circoncisione. Si vede che anche tra loro, pur avendo scelto di andare insieme, pur avendo una certa amicizia, c’era divisione, era successo qualcosa che li aveva sconvolti e su cui non riuscivano ad accordarsi e a trovare pace. Potremmo pensare a tutte le volte nelle quali noi, che abbiamo messo nell’evangelizzazione molto di noi stessi, e in fondo abbiamo giocato tutta la vita su questo, rimaniamo sconvolti per qualcosa che non va e, anche se magari cerchiamo di passarci sopra e di non pensarci, in realtà conserviamo in cuore amarezze e accuse perché ci sentiamo colpiti negli impegni a cui credevamo di più. Certamente ci fa onore, come preti, l’essere vulnerabili a questa sofferenza. Vuol dire che abbiamo veramente dato le nostre vite al servizio del Signore, della Chiesa, dell’evangelizzazione: se fossimo degli incoscienti o degli indifferenti ci consoleremmo presto e, allora, vorrebbe dire che non ci tenevamo molto. La mancanza di realizzazione di ciò che ci eravamo proposti, le delusioni riguardo a quanto ci eravamo aspettati, fanno del male e ci creano situazioni di tristezza, discussione, magari mutua accusa e le varie forme di divisione che ne seguono. Però tutte queste cose denotano che l’annuncio evangelico

invece di dare pace a noi stessi, ha dato turbamento, fatica, disagio; ciò deve far nascere nuove domande. Secondo momento dell’azione. Che cosa fa Gesù? Qui veramente cominciamo a conoscere meglio il Signore che è il Vangelo, è l’evangelizzatore. Qual è la tattica di Gesù? Leggiamo attentamente: “Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro”. È potente il simbolismo di queste brevissime annotazioni. Mentre essi erano in situazione di confusione e di amarezza, Gesù si avvicina, quindi è lui che, come evangelizzatore, prende l’iniziativa di salvezza. Ancora una volta è in lui Jahweh misericordioso che si avvicina all’uomo confuso, all’evangelizzatore messo in imbarazzo e che ha bisogno lui stesso di essere evangelizzato. “Gesù si avvicina e si mette a camminare al loro passo”. L’annotazione è meravigliosa: si mette a camminare al loro passo per un bel po’ senza dire niente. Così fa loro compagnia, si fa accettare come misterioso compagno di viaggio, discreto, non invadente, che non li obbliga ad abbassare il tono, a parlare sottovoce. Continuano a parlare perché Gesù sembra amichevole e, quasi naturalmente, lo immettono nella conversazione. A un certo punto, però, Gesù fa una domanda: “Di che tipo sono queste parole che scambiate tra voi?” Avrebbe potuto intervenire partendo dalla gloria di Dio, descrivendo la gloria di Dio venuto tra gli uomini, e in tal modo illuminarli in un istante e guarirli. Invece il metodo è un altro: è il metodo progressivo dello stimolo, della domanda, del far venire fuori gradualmente il problema. Ecco Gesù, sapiente pedagogo evangelizzatore, che aiuta i due ad aiutarsi; non li sconvolge con la sua intuizione profetica, dicendo loro che stavano sbagliando, ma piuttosto fa in modo che essi mettano in chiaro quello che hanno dentro, che prendano coscienza di ciò che stanno facendo e vivendo, che sciolgano i nodi interiori, oggettivandoli. Gesù fa la domanda giusta; spesso succede, in questi casi, che uno precipita la situazione magari illudendo, cercando di distrarre, cambiando argomento. Ma facendo così spesso si chiude il discorso e, se qualche volta può andare bene per la banalità dell’argomento, altre volte è certamente sbagliato. Nel nostro caso Gesù capisce che l’argomento è profondo e li interroga sia sull’oggetto della conversazione sia sul loro stato d’animo: “perché siete tristi”, o – secondo altre traduzioni – “si fermarono tristi”. La

parola produce immediatamente l’emergere della situazione di fondo che è la tristezza e i due discepoli non si possono più sottrarre alla domanda semplice e umana di Gesù. Qual è la risposta? La risposta ha due momenti. In un primo momento è un po’ impertinente, quasi scostante: “tu solo straniero non sai queste cose”. E Gesù, come se niente fosse, non tiene conto di questa prima rugosità, sapendo che le prime risposte spesso non sono quelle vere, sono quelle del riccio che si chiude, per non rivelare subito il mistero della persona. Gesù riceve la scortesia e la neutralizza nella sua pazienza, nella sua bontà e ridà corda al discorso. Il kérygma a metà Ed ecco, il secondo momento dei “due malinconici” è una risposta davvero sorprendente (Luca l’ha composta con sopraffino umorismo). Se, infatti, esaminiamo tutte le parole di questa risposta, anche nella loro struttura filologica, ci accorgiamo che i due stanno recitando il kérygma, stanno recitando le parole del Credo, sono tutte le parole con cui si annuncia Gesù di Nazareth. Paragonandole con i discorsi kerygmatici di Pietro (At 2; 3; 10) e di Paolo (At 13), vediamo che risuonano le medesime espressioni: “Gesù di Nazareth, profeta potente in opere e parole davanti a Dio e davanti al popolo”– è ciò che Pietro annuncerà solennemente a Gerusalemme, è l’annuncio di salvezza –, “e questo profeta potente in opere e in parole i sommi sacerdoti l’hanno tradito, i nostri principi l’hanno consegnato alla morte e l’hanno ucciso”. Sono le parole del kérygma, che saranno pronunciate con un tono salvifico, proclamatorio nella Chiesa primitiva. Sono il messaggio. Ecco la situazione “comica” che Luca descrive: questi uomini annunciano il messaggio come se fosse una disgrazia, annunciano il messaggio di salvezza con parola triste. Questo skythropói (v. 17) che descrive la loro faccia è un termine che si ritrova anche in Mt 6,16 dove Gesù dice: “quando digiunate non fate la faccia triste”, e la faccia dei due discepoli era una faccia da funerale. Luca gioca finemente con questi contrasti paradossali: quegli uomini hanno sulla bocca il kérygma, ma non lo capiscono come tale e quindi lo annunciano quasi fosse una disgrazia terribile, irreparabile. E poi continuano:

“Noi speravamo che egli stesse per liberare Israele, ma sono tre giorni che queste cose sono avvenute; alcune donne ci hanno spaventato; sono andate presto alla tomba, non hanno trovato il corpo, hanno visto gli angeli che dicono che egli vive” (v. 21). Qui il kérygma, anche se in una forma più dubitativa – non è il oútos eghérthe = veramente risorto –, contiene tutto il materiale: i tre giorni, le donne al sepolcro, gli angeli, l’annuncio che vive. Eppure viene detto come una cosa di cui non si capisce niente, una cosa che non doveva avvenire e che è una tragedia per tutti coloro che speravano in lui. È quello che chiamo il kérygma a metà, è l’annuncio a parole ma il cuore non c’è, anzi c’è un cuore di tristezza, di rassegnazione, di delusione che amareggia quelli che lo dicono e non convince quelli che lo ascoltano. E Gesù, di fronte a questa contraddizione vivente, cosa fa? Pensiamo prima, un momento, a come avremmo reagito noi davanti a una situazione simile: situazioni drammatiche di persone afflitte da un male incurabile e che hanno la mente oppressa da questo e continuano a parlarne; oppure situazioni di famiglie disastrate, di psicologie malate che non riescono a uscire da certi drammi, da certi vizi. O, ancora, situazioni esteriori di gente che non ha lavoro, che non è in situazione di trovarlo, insomma situazioni che in parte si possono evitare ma che in parte forse non si riesce a evitare, e allora come veramente reagire? A volte prendiamo la via di ridurre i fatti, di non accettare tutto quel carico di male che la persona vede, di ritagliarglielo un po’ perché sia quasi più sopportabile, oppure si prende la via dell’incoraggiamento: coraggio, staremo vicino, pregheremo, e sentiamo anche noi l’insufficienza di ciò che diciamo; talora, non sapendo fare altro, cerchiamo la via della compassione, facendo vedere che cerchiamo di stare loro vicino, con comprensione. Sono varie forme con le quali noi avremmo potuto venire incontro ai due di Emmaus. Ma nessuna, credo, delle nostre risposte avrebbe avuto il coraggio di essere quella di Gesù che è l’unica risposta veramente kérygma, parola di salvezza che, come verità, viene da Dio. Il kérygma completo Come viene questa parola di salvezza, veramente nuova, inaspettata, incredibile, semplicissima, perfettamente adattata alla situazione perché l’affronta pienamente dall’interno? È proprio la risposta che noi vorremmo

avere nelle situazioni che ho prima descritte, per poter rompere il male nella sua struttura. Gesù risponde in tre tempi. Il primo tempo è l’attacco, l’ammonizione violenta: “stolti e tardi di cuore a credere alle cose dette dai profeti”. È come un pugno nello stomaco che certamente avrà fatto sobbalzare quella gente: come, quest’uomo che finora era stato così pacifico, amabile, umile, adesso diviene così aggressivo? Eppure è necessario, quando una persona è giunta a questa stortura rispetto al kérygma, a questo totale rovesciamento e incomprensione dei valori del Regno, scuoterla, riportarla alle realtà essenziali dell’uomo, toccandola nella sua intelligenza e responsabilità. Infatti non c’è niente di più umiliante che sentirsi dire: non sei stato intelligente, né responsabile. Gesù fa vedere come lo stato di amarezza, di confusione religiosa – perché siamo nel campo religioso –, anche dal punto di vista della dottrina a cui essi sono arrivati, richiede un cambiamento totale. “Stolti e tardi di cuore”, credete di essere stati a chissà quale scuola di Gesù e non avete imparato niente! Tutte le vostre esercitazioni non vi sono servite a nulla. Nel secondo tempo, dà l’annuncio biblico della storia di salvezza: “Non doveva forse il Cristo patire queste cose ed entrare nella sua gloria?” È una chiave interpretativa che Gesù butta su tutti quegli avvenimenti precedenti: gli avvenimenti rimangono gli stessi, ma la chiave interpretativa è tale da rovesciarne il senso. In fondo, qual era il grande problema di questi uomini? Quello di tutti noi ogni volta che siamo di fronte a situazioni di questo tipo, che si sono evolute secondo quella che appare a noi la degradazione costante dei valori fino all’uccisione del Giusto. Noi diciamo: “Ma Dio allora dov’è? Perché non si mostra? Se questo era un uomo di Dio, perché Dio non l’ha aiutato, dov’è la giustizia, dov’è la potenza divina?” È la vastità del dramma nella quale entra l’evangelizzatore, allorché certe realtà si svolgono al di fuori degli schemi previsti. È il lavoro che dobbiamo fare tutte le volte che viviamo situazioni nuove, impreviste, diverse, quando le previsioni, le attese, gli schemi sono delusi o superati dai fatti e occorre ricominciare a capire qual è e dov’è la volontà di Dio. Il grido del salmista: “perché ti nascondi, o Signore”, “perché non ti mostri”, nasce da questa angosciosa richiesta di comprendere come mai le cose vanno in un certo modo e la giustizia sembra calpestata, la verità evangelica priva di forza e concretamente trionfa il non senso, trionfa l’assurdità nella vita, lo scetticismo, il senso di disfattismo. Quella di Gesù è l’unica risposta all’esperienza che stiamo vivendo, è la

chiave interpretativa che ci richiama al disegno divino provvidenziale: Dio ha in mano tutte le cose ed era nel suo piano che le cose andassero così, tutto è avvenuto secondo il piano di salvezza che Gesù comincia amabilmente a spiegare. Questo piano di salvezza voi l’avevate, era nella Scrittura. Sapevate a quale prova di morte Abramo fu portato e come il popolo nel passaggio del Mar Rosso pensava di essere sommerso e ucciso; conoscevate le sofferenze per le quali passarono Mosè e i nostri padri prima di entrare nella terra promessa e come, attraverso questi momenti di oscurità, Dio si è formato il suo popolo. Eppure non avete capito, perché non avete l’intelligenza della Scrittura e quindi i fatti vi hanno sconvolto. Invece, l’intelligenza teologica allarga lo sguardo e porta ad accogliere l’unità del mistero di Dio sulla vita dell’uomo e del mondo. Dunque Gesù si fa evangelizzatore e didáskalos, maestro: mette in opera tutte le sue qualità di esegeta della Scrittura, di catecheta e, quindi, compie l’opera di chiarimento di cui i due discepoli avevano bisogno. Però sappiamo dall’episodio che non è ancora tutto. Infatti, quando i discepoli si sono sciolti, resi di nuovo capaci di amicizia – prima stavano discutendo tra di loro, litigando, adesso sono riconciliati e si accordano subito sull’invitare quest’uomo a cena – si siedono a tavola ed ecco che Gesù si manifesta. Si manifesta con il segno, già da essi conosciuto, della frazione del pane che, certamente, per Luca, vuole indicare tutte le future manifestazioni di Gesù nella sua Chiesa nella frazione del pane. Gesù si mostra vicino a loro, con loro, presente. Questa manifestazione, questa presenza scioglie ogni dubbio, chiarisce le cose fino in fondo ed è così espressa: “Non ci ardeva forse dentro il cuore mentre ci parlava nella via e ci apriva le Scritture?” (v. 32). L’evangelizzatore Gesù non soltanto annuncia il kérygma, proclama il disegno di salvezza attualizzandolo con la sua persona, ma, ancora, riscalda il cuore dall’interno. Questa è la caratteristica che più colpisce in tutta questa serie di fatti rivelatori della persona di Gesù. Non dicono: Gesù ha parlato bene, ha spiegato bene, è stato un buon predicatore, ci ha raddrizzato le idee; dicono: ci ha riscaldato il cuore, si è manifestato come l’amico capace di sciogliere il cuore amareggiato dalla vista di un disegno di Dio apparentemente inaccettabile. Tocchiamo, qui, un punto davvero molto importante. Leggevo l’altro giorno nel libro Il metodo in teologia2 – là dove parla, appunto, della potenza dell’amore di Dio nella teologia – questa frase che mi ha colpito: “Il mondo è troppo brutto per essere accettato se non si ama”. Se

veramente uno si mette di fronte a certi fatti come quelli che succedono ai nostri giorni – i fatti di qualche tempo fa a Bologna3, quelli in Oriente dove migliaia e migliaia di persone sono uccise e torturate – come può accettare questo mondo, come può ammettere che ci sia un Dio giusto? È la grande difficoltà per molta gente e, in fondo, all’evangelizzazione si oppongono spesso queste domande: come è possibile credere a un Dio che permette simili cose, simili forme di mostruosità e di atrocità? Resta vero che noi possiamo spiegare che la colpa è degli uomini, che Dio ci ha creati liberi e, lasciandoci liberi, ci ha messo gli uni in mano agli altri per il bene e per il male. Evidentemente però gli interrogativi non vengono risolti se non – come in questo caso – dalla presenza di Gesù e dal suo Spirito che, sciogliendo il cuore, rimettono nella capacità di accogliere un disegno buono di Dio sul mondo e di donarsi, per questo disegno, come il Cristo crocifisso che per primo ha sofferto, ha vissuto su di sé queste tragedie e queste sofferenze. Non è la logica perfetta di soluzione che conta, anche se potremmo riassumerla, ma è l’essere stati avvolti dall’amore di Dio che ci ha reso certi che Gesù – giustizia, verità, sapienza – vive ed è capace di dare vita a tutti coloro che sono stati schiacciati dall’ingiustizia. Qui tocchiamo l’estremo e delicato limite dell’azione dell’evangelizzatore. Se non è lui ripieno di questa potenza di Gesù amore, vivo, vita, difficilmente riuscirà con parole e con ragionamenti a sciogliere i cuori induriti dalla tristezza, dall’amarezza, dall’ingiustizia. L’annotazione di Luca “Non ci ardeva forse il cuore dentro mentre ci apriva le Scritture?” ricorda due cose: primo, che ci vuole l’aspetto di apertura delle Scritture, cioè di proclamazione, di spiegazione; secondo, che questa spiegazione e proclamazione dovrebbe far sentire che il nostro cuore è vivificato dallo Spirito di Colui che risuscita i morti e che possono sperarlo anche coloro che ci ascoltano. Perciò la fine dell’episodio di Emmaus è ricca e difficile a dirsi con poche parole: può essere sentita più col cuore che espressa con una partecipazione logica e per questo dobbiamo chiedere di entrare nel cuore del Signore per poter cogliere ciò che lui, come vero evangelizzatore, sa comunicare. Fermiamoci in questa contemplazione per partire poi – e lo faremo nelle prossime meditazioni – alla ricerca delle condizioni per essere anche noi, come Gesù, evangelizzatori; per passare dal Vangelo sulle labbra all’interiorizzazione del Vangelo nel cuore.

III. IL KÉRYGMA: CHE COSA OPERA E COS’È Anche oggi premettiamo alla nostra meditazione sul Vangelo di Luca una domanda: che cosa maggiormente nella mia vita fa ostacolo per ottenere ciò che desidero? Prima di continuare a riflettere come l’evangelista viene formato a proclamare il kérygma, è bene fare una meditazione sull’annuncio stesso. Supponendo il contesto di Luca in Atti, vorrei esprimere le cose in due momenti: in un primo momento ci chiediamo che cosa opera il kérygma e in un secondo momento ci chiederemo che cos’è il kérygma. Cosa opera il kérygma? Opera tutte quelle cose che sono accadute al termine del colloquio di Gesù con i discepoli di Emmaus (24,13-35). Succedono cose che cambiano dall’interno la persona, che le danno un nuovo orizzonte, un nuovo respiro. Tutto questo è descritto in vari modi: primo, si aprono gli occhi (v. 31); secondo, arde il cuore dentro il petto (v. 32); terzo, si mettono a correre per annunciare ad altri il messaggio che non si riesce più a contenere e va comunicato (v. 33); quarto, trovano tutti riuniti e a tutti comunicano la parola (v. 35). Molte altre cose si potrebbero trarre dalla Scrittura ma qui ne abbiamo concretate alcune per mostrare il cambiamento che l’annuncio della buona notizia produce nell’uomo. Apertura degli occhi, ardore del cuore, desiderio di comunicare ad altri, desiderio di fare comunità. Ciascuno può approfondire queste indicazioni sia con l’esperienza propria, sia con l’esperienza altrui. Dove accadono queste cose c’è vero annuncio evangelico, dove non accadono c’è la tristezza dei due di Emmaus; c’è senso di pesantezza, di paura dell’avvenire, di frustrazione; e allora vuol dire che l’annuncio evangelico non c’è oppure non si esprime come tale. Vorrei sottolineare la situazione particolare di quei due discepoli perché presenta una realtà esemplare della vita cristiana; essi avevano già tutto fin dal momento in cui stavano camminando: avevano la parola del kérygma, avevano l’oggetto centrale del kérygma, cioè Gesù vivo con loro, ma non avevano né gli occhi aperti né il cuore ardente e allora vivevano male, senza vedere niente, senza rendersi conto, senza capire, perché il kérygma è questa apertura degli occhi, questo riconoscere che nella situazione che stiamo vivendo, Dio si è mostrato e ci ha svelato orizzonti insperati.

Il kérygma produce una trasformazione interiore che riempie di gioia. Possiamo immaginare tutta la comunità riunita con gli Undici mentre risuona l’annuncio che davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone. Ci pare di vedere questa comunità che esulta, salta per la gioia, esplode, anche esteriormente, di serenità. Questa esplosione esteriore l’ho vista esprimersi nella recente visita che ho fatto alle diocesi dell’Africa, anche col ballo: ci si mette a ballare insieme per l’esultanza interiore che non si contiene più. Ricordo quando, a Kafue, un parroco mi ha invitato al consiglio pastorale: e tutti i membri del consiglio pastorale erano riuniti in silenzio, molto seri. Io allora chiesi di raccontarmi qualcosa di loro, di parlarmi dei problemi della parrocchia. Uno si alzò e disse: “Vede, noi siamo qui riuniti in tanti gruppi diversi, c’è l’Azione Cattolica, ci sono le Figlie di Maria, poi questo, quell’altro gruppo, però l’importante è che ci vogliamo tutti bene e adesso glielo facciamo vedere”. Allora cominciò a battere le mani e a ballare in mezzo alla sala e tutti quanti, uno dopo l’altro, si alzarono e si misero a danzare insieme. Fu davvero uno spettacolo meraviglioso! Poi, naturalmente, si è parlato anche, si è discusso, ma l’inizio fu così. L’effetto del kérygma è proprio questa esplosione di gioia che si esprime anche esteriormente e che noi possiamo verificare quando incontriamo esperienze di persone che giungono a questa maturazione. Ho conosciuto un giovane che veniva da un’esperienza molto lontana dal Vangelo e che, dopo aver fatto un certo cammino e aver intuito che cosa significava per lui il Vangelo, mi diceva, con estrema semplicità: è come se cominciassi a vivere adesso e tutto mi appare nuovo, tutto mi appare bello, tutto mi appare grande, rivedo la vita con un altro sguardo! Ricordo, anche, un’altra persona che pure aveva fatto un cammino importante di fede, dopo una situazione molto difficile, e che diceva proprio quella frase degli Atti: è come se aprissi gli occhi e vedessi tutto un mondo che non intuivo e che non immaginavo. Sono gli effetti del kérygma. È la parola di Dio, la vita del Cristo risorto che, entrata dentro di noi, ci ha cambiato la vita e ci ha permesso di vedere le cose, gli orizzonti, le situazioni in un ordine diverso, un ordine che esisteva già prima e uno si stupisce come prima non riuscisse a vederlo. È un po’ come vedere le montagne nell’oscurità della notte e provare un senso di pesantezza, di timore; poi, quando l’alba apre l’orizzonte, si scopre tutta la bellezza dei colori, delle luci, delle nevi e ci si meraviglia. Questo è ciò che il kérygma

produce nella nostra vita, è l’effetto della buona notizia ricevuta. Ciascuno potrebbe, nella riflessione, esemplificare quanto abbiamo detto, con esperienze proprie e altrui che il Signore, per grazia, ci concede di fare perché possiamo sempre meglio capire che cosa succede nella vita di un uomo allorché è attraversata dal messaggio della salvezza. Che cos’è il kérygma? Vi invito a rileggere le pagine degli Atti degli Apostoli e quelle del Vangelo che ce lo presentano. Luca è l’evangelista del kérygma e tutto il terzo Vangelo è, nella sua interezza, kérygma, annuncio di salvezza. Però Luca esprime l’annuncio anche in forme sintetiche, più brevi: sono i cosìddetti discorsi missionari degli Atti (cfr. At 2; 3; 10; 13). Si tratta di quattro grandi discorsi che, insieme con altri discorsi minori, costituiscono l’esposizione dell’annuncio evangelico di salvezza. Oltre a queste esposizioni in forma sintetica e diretta ce ne sono altre in forma indiretta là dove gli Atti degli Apostoli raccontano quello che avviene in una comunità che è trasformata dalla Parola; tra queste, le più note sono le descrizioni sulla comunione e la comunità, per esempio in At 2,37-48, dove si descrive come viene cambiato un gruppo di persone che ha veramente accolto in sé la buona notizia. Io sottolineo quelli che per me sono punti determinanti e qualificanti dell’annuncio sintetico del kérygma, punti che evidentemente possono essere espressi in mille altri modi. Guai a noi se fossimo dei semplici ripetitori del kérygma, se non avessimo altro che da ripetere, nelle prediche alla gente, le parole bibliche tali e quali: può darsi benissimo che in certe situazioni, soprattutto per chi non è preparato, non suonino bene. Per noi però è importante cogliere quali sono i momenti strutturanti dell’annuncio, quelli che entrano sempre, in un modo o nell’altro, nella parola che proclamiamo o diciamo o suggeriamo discretamente – a seconda delle circostanze – quando facciamo opera di illuminazione evangelica dei cuori, quando siamo non soltanto pastori di una comunità, ma proclamatori evangelici di una speranza a chi questa speranza non l’ha e ne ha particolarmente bisogno. Leggiamo, dunque, uno di questi discorsi per vedere gli atteggiamenti e i punti portanti che mi sembrano degni di essere rilevati. Il discorso di Pietro (At 2,14-36): Allora Pietro, in piedi con gli Undici, levò alta la voce – notate, a voce alta, cioè è qualcosa che uno proclama con tutto se stesso perché lo vive a fondo, ci crede, non è una proposta ipotetica – e parlò loro

così: Voi giudei, e abitanti tutti di Gerusalemme, fate attenzione a ciò che sto per dire, e porgete l’orecchio alle mie parole. Costoro non sono ubriachi, come voi pensate, perché sono soltanto le nove del mattino; si sta invece verificando ciò che fu detto per mezzo del profeta Gioele: Negli ultimi giorni – dice il Signore – effonderò il mio spirito su ogni essere umano e profeteranno i vostri figli e le vostre figlie, e i vostri giovani vedranno visioni, e i vostri anziani sogneranno sogni; certo, sui miei servi e sulle mie ancelle, effonderò in quei giorni il mio spirito e profeteranno. E farò prodigi in alto nel cielo e segni prodigiosi giù sulla terra, sangue e fuoco e vapori di fumo. Il sole si trasformerà in tenebre e la luna in sangue, prima che venga il giorno del Signore, il gran giorno sfolgorante. Allora chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo. Uomini di Israele, udite queste parole: Gesù il nazareno fu un uomo accreditato da Dio presso di voi con prodigi, portenti e miracoli, che per mezzo di lui il Signore operò in mezzo a voi, come voi ben sapete; Dio, nel suo volere e nella sua provvidenza, ha permesso che egli vi fosse consegnato: e voi, per mano di empi senza legge, lo avete ucciso inchiodandolo al patibolo. Ma Iddio lo ha risuscitato liberandolo dalle doglie della morte; poiché non era possibile che la morte lo possedesse. Dice infatti Davide a suo riguardo: Vedevo il Signore davanti a me continuamente perché egli è alla mia destra, affinché non vacilli. Perciò si rallegra il mio cuore e le mie parole sono piene di letizia: io, benché essere mortale, riposerò nella speranza, perché non abbandonerai la mia anima al regno dei morti non permetterai che il tuo servo fedele veda la corruzione. Mi hai fatto conoscere i sentieri della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza. Fratelli, parliamoci francamente. Il nostro patriarca Davide morì e fu sepolto, e il suo sepolcro rimane in mezzo a voi fino a questo giorno. Ma egli era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono uno della discendenza. Perciò, prevedendo il futuro, parlò della risurrezione del Cristo, quando disse che non sarebbe stato abbandonato al regno dei morti, né la sua carne avrebbe visto la corruzione. Questo è quel Gesù che Dio ha risuscitato, e noi tutti ne siamo i testimoni. Egli è stato dunque esaltato dalla destra di Dio, ha ricevuto dal Padre il dono dello Spirito Santo secondo la promessa ed ha effuso questo stesso Spirito che ora voi vedete e ascoltate. Infatti Davide non ascese al cielo, tuttavia egli dice: Disse il Signore al mio Signore, siedi alla mia destra, finché ponga i tuoi nemici

sgabello dei tuoi piedi. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Iddio ha costituito Signore e Cristo questo Gesù che voi avete crocifisso.

Analogamente possiamo leggere tutti gli altri discorsi e cercare di renderci conto di questo schema fondamentale della predicazione. A partire da questo schema, vorrei elencare quattro elementi che mi sembrano particolarmente significativi per il fatto che indicano le realtà sulle quali si basa questa comunicazione della buona notizia. Gli effetti del kérygma Il Dio per me. Il primo elemento è un pronome che si trova al v. 16. In greco è toutó estin: questo che voi vedete è ciò che fu detto dal profeta. È un modo di esprimersi che ritorna nei discorsi: “ciò che voi vedete significa ‘questo’”, “questo” è il significato dell’esperienza che state facendo. Al cap. 3 si dice: “‘Questo’ storpio guarito significa che Dio ha glorificato il suo Figlio”. Il primo elemento dell’annuncio è il riferimento a una situazione vissuta, presente. Il kérygma parte da un’esperienza che l’uomo sta facendo, è riferito a una situazione che, sia io che parlo sia la persona che mi ascolta, stiamo vivendo. Questo è ciò che tu stai vivendo. Vuol dire che questa parola evangelica non è mai una parola che si dice in astratto: Cristo è risorto, d’accordo: cosa vuol dire, cosa dice a me? Cristo ci ha liberato dai nostri peccati: cosa ha a che fare questo con la mia vita? Si parte da una situazione che la persona sta vivendo e nella quale è possibile mostrare un segno della potenza di Dio. Il segno sarà diverso: nel discorso di Pentecoste è il parlare entusiasta in lingue degli apostoli; nel discorso di At 3 è la guarigione dello storpio; nel discorso di At 10 è la provvidenziale missione di Pietro alla casa di Cornelio; nel discorso di At 13 è lo stesso annuncio di Paolo che giunge a Pisidia. Quindi anche la fede dell’annunciatore, la certezza, che l’annunciatore ha, che la situazione che sta vivendo una data persona è suscettibile di diversa interpretazione che ne mostri l’aspetto salvifico, che mostri in essa la gloria di Dio; c’è sempre qualcosa di collegato alla persona che sta ascoltando. C’è per te una buona notizia, la tua vita può essere diversa, il tuo problema può essere visto con altri occhi, tu ti sei sbagliato nel giudicare così la tua

situazione, c’è una via di uscita per te; ciò che tu attendi, ciò che tu desideri, ciò che tu vorresti che fosse, è così, io te lo posso annunciare e proclamare. Spesso, la situazione di collegamento con la vita di chi ascolta è, concretamente, una comunità cristiana viva, un’esperienza viva di cristianesimo, un’esperienza di accoglienza ai poveri, di servizio della giustizia, di amore, di perdono fraterno, di gioia vissuta in una comunità. Una delle impressioni che ho avuto nella visita in Africa è che quelle comunità cristiane evidenziano la gioia comunitaria anche nelle liturgie, che durano ore e ore, piene di canti, festa, senso di esultanza; e diventano, così, un punto di attrazione per tanti che non sono ancora cristiani e che vengono ugualmente alla Messa, perché attratti da questo nuovo modo di vivere, da questa esperienza diversa, da questa atmosfera di serenità che pervade la vita e, istintivamente, ne domandano il significato. Il secondo elemento è la presenza di Dio in azione. “Il Dio dei nostri Padri, il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe ha glorificato il suo Figlio Gesù” (At 3,13). Riflettiamo un momento sull’importanza di questo ricorso all’azione di Dio, soggetto attivo del kérygma. Che cosa significa per la vita della persona che ascolta? Dio ha in mano la tua vita, non ti ha abbandonato, Dio ti tiene presente, tu sei importante davanti a lui: dobbiamo, cioè, attualizzare questa espressione del kérygma per noi, per me. Il Dio dei nostri Padri, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio di Gesù Cristo, il Dio di sant’Ambrogio, di san Carlo, il Dio delle persone che mi hanno educato alla fede, dei miei genitori, dei miei sacerdoti, il Dio che, da sempre nella storia della mia tradizione, della mia vita, mi è vicino, ora, qui, si manifesta a me. Si tratta, allora, di ritrovare – anche collegandosi con la tradizione precedente – la fiducia che quel Dio che ha agito nella storia, che ha risuscitato Gesù, che ha suscitato i santi e le persone che ci hanno educato nella fede, è il Dio “nostro”, Colui che ora è presente nella mia vita per questa azione di salvezza. Il terzo elemento: questo Dio rovescia le apparenze. Rileggiamo alcune delle frasi del cap. 2: “Voi […] lo avete ucciso inchiodandolo al patibolo. Ma Iddio lo ha risuscitato liberandolo dalle doglie della morte”. Il respinto è stato glorificato, colui che sembrava reietto dagli uomini è stato innalzato. Dio ha rovesciato le apparenze umane, ha sconvolto il modo di vedere degli uomini, glorificando Gesù. Riflettiamo sull’importanza di questa semplice annotazione: “Dio ha sconvolto le apparenze umane, le ha rovesciate”, perché è proprio qui che ciascuno di noi aspetta un messaggio.

Le cose sembrano andare in un certo modo che procura diffidenza, disfattismo, sfiducia, senso di inutilità: non ci si deve fermare qui, Dio è capace di rovesciare la situazione della tua vita così come ha rovesciato la situazione, il giudizio umano della vita di Gesù. Notate l’importanza di questo principio se lo applichiamo a tante pagine del Vangelo di Luca: “Beati i poveri… beati voi perseguitati… beati voi che piangete…” Il Signore viene per rovesciare le apparenze umane, per rovesciare realtà di ingiustizia, di sofferenza e per creare una nuova possibilità di esistenza nelle cose che apparentemente ci schiacciano. Viene per donare lo spazio di un mondo nuovo in queste realtà la cui considerazione ci sembrerebbe soffocante e rivoltante, viene per creare nel mio interno, a partire da me, dalla mia comunità un rovesciamento di valori che dà una nuova speranza di esistenza. Tutto questo può essere espresso in molte forme: ho la coscienza di essere estremamente lontano dalla realtà del kérygma dicendo le cose che dico, ma vorrei unicamente invitare ciascuno a entrare in questa realtà per poterla poi riesprimere a modo proprio. L’intervento sconvolgente della potenza di Dio, che ha risuscitato Gesù, ci dà una nuova speranza di configurare diversamente la vita dell’uomo: proprio in ciò che ora ti appare più duro si può rivelare, immediatamente, per la potenza di Dio, la tua risurrezione, il tuo passaggio a modi ed esperienze di vita insperati. Il quarto elemento: è la persona stessa di Gesù che ti viene incontro e ti riscalda il cuore col suo modo di parlare, col suo modo di avvicinarti, in forme umanamente congetturabili, e ti cambia la mentalità e la vita. Questa capacità dell’uomo di percepire la presenza di Gesù vicino a sé è qualcosa che dobbiamo, prima di tutto, sperimentare e vivere noi: questo essere con lui che ci permette, a un certo momento, di poter far sentire ad altri la forza dell’esperienza. Il dono dello Spirito Infine, voglio sottolineare ancora un aspetto: la presenza di Gesù avviene attraverso un dono che è una nuova vitalità dall’interno ed è il dono dello Spirito. Quindi il kérygma, partendo dalla situazione presente dell’uomo, mettendo in essa l’azione potente di Dio, presenta questo Dio che rovescia le situazioni umane risuscitando Gesù, che è capace di rovesciare la tua vita e mette dentro di te una vitalità, una nuova potenza di operare che è il dono

dello Spirito. Il kérygma termina sempre con la realtà dello Spirito che ci cambia dall’interno. Tutto questo viene espresso in molti modi: con le parole “lo Spirito Santo che il Padre ha promesso”, oppure con il termine áphesis amartión cioè la remissione dei peccati. Esso significa, appunto, togliere dalla tua vita tutto ciò che ti è di peso, che ti schiaccia, che non ti permette di esprimere la tua vitalità spontanea così come desideri. Togliere dalla vita quegli ostacoli, quei pesi, quelle chiusure che non ti permettono di essere te stesso e ti rendono scontento. La potenza dello Spirito è questa nuova vita che trasforma: non si può dirlo semplicemente a parole: è l’esperienza vissuta dell’evangelista, della comunità cristiana viva, luoghi nei quali si colgono con mano le trasformazioni della fede, della carità, del disinteresse, della pazienza, dell’attenzione al più povero, dello spirito di responsabilità, del coraggio contro la morte. Tutte realtà queste che manifestano lo Spirito vivo e permettono di dire che lo Spirito è presente. Qui basta poco, non è necessario mostrare opere clamorose. Forse ne abbiamo fatto più volte l’esperienza: un atto vero di carità, di perdono, di disinteresse, può aprire lo spiraglio verso questo nuovo modo di vivere. Esiste un altro modo di vivere, di pensare, di amare, di credere, di essere contenti e questo altro modo è per te. Il kérygma è difficilmente esprimibile a parole perché contiene tutta la complessità dell’uomo redento; della potenza di Dio che gli viene incontro, del Cristo risorto, dello Spirito che è donato. Tuttavia cerchiamo di domandarci in quale misura gli aspetti più significativi dell’annuncio che abbiamo meditato sono presenti prima di tutto nella nostra vita e non tanto nelle nostre parole: in quale misura ci lasciamo trasformare da questa potenza del Risorto, dello Spirito di Dio che rovescia le situazioni; come affidiamo totalmente la nostra vita al Dio dei padri che interviene per non lasciarci soli nelle prove presenti, nelle situazioni di responsabilità, ma per essere con noi, per vivificare e dare gioia. Chiediamo, dunque, al Signore di manifestarci davvero, nella lettura della Scrittura e nell’adorazione silenziosa, tutto ciò che egli è per noi, affinché possiamo comprendere e conoscere fino in fondo il kérygma, così come si esprime nella nostra vita.

IV. IL SENSO DEL PECCATO NELL’EDUCAZIONE DELL’EVANGELIZZATORE Propongo di meditare, oggi, alcuni episodi della vita pubblica di Gesù nei quali appare chiaramente come Cristo è Colui che ribalta le situazioni umane chiuse e perdute, e educa i suoi discepoli a riconoscere concretamente che cos’è il kérygma e, quindi, come esso opera la salvezza. I tre episodi – mi fermerò più sul primo, indicando gli altri alla riflessione personale – sono: la chiamata di Pietro, 5,1-11; la guarigione del paralitico, 5,17-26; il perdono della peccatrice in casa di Simone, 7,36-50. Ciò che unifica questi tre episodi è il senso del peccato o la purificazione dal peccato. L’educazione dell’evangelizzatore significa, prima di tutto, dare a questi il vero senso del perdono misericordioso di Dio sul peccato degli uomini. Al cap. 4, Luca ci ha già mostrato Gesù che compie alcune azioni: non soltanto si reca a Nazareth per “l’evangelizzazione mancata”, ma dopo di essa riprende coraggiosamente il suo giro di predicazione, va a Cafarnao, risana un uomo abitato da uno spirito impuro, risana molti fuori della sinagoga e visita poi le diverse sinagoghe della Galilea. Soltanto a questo punto Luca introduce Pietro; in primo luogo Gesù dà lui stesso l’esempio di predicazione e solo più tardi comincia ad associarsi qualcuno. È un episodio importante perché l’evangelista vuole darci un modello di chiamata dell’evangelizzatore al ministero: Gesù incomincia a scegliersi accuratamente gli evangelizzatori e lo fa in maniera che è già istruttiva per il tipo di missione che vuole dare loro e per la via formativa nella quale li introduce. “Nella tua parola getterò le reti” La chiamata di Pietro: 5,1-11. Lo sfondo della scena: c’è molta gente che ascolta Gesù. Gesù sta vicino al lago, vede due barche con i pescatori già scesi che stanno ripulendo le reti e, con molta libertà e sicurezza, quasi fosse di casa, sale su una di quelle barche, la barca di Pietro. Gli chiede di scostarla un po’ dalla riva e, sedutosi, si mette a insegnare. Possiamo immaginare il sentimento di Pietro che certamente si ringalluzzisce perché è stata scelta la sua barca: non sono allora il peggiore del villaggio – si sarà detto –; probabilmente Gesù ha capito che c’è in me una persona modesta però degna di essere onorata… Pietro, cioè, vive un

momento di euforia. Ma c’è già una sorpresa pronta per lui: quando il discorso è finito e Pietro pensa di scendere a terra e di ricevere i complimenti della gente, Gesù, senza altri preamboli, gli dice di andare al largo e buttare le reti. Certamente c’è un mutarsi di Pietro in quel momento – la Scrittura non dice molto dei sentimenti interni della gente, ce li lascia immaginare e vivere personalmente –; dalla risposta di Pietro si può indovinare che nella sua mente sorgono dubbi sulle parole del maestro perché l’ora è tarda, la pesca è finita e non ci sono pesci. E c’è di più: probabilmente Pietro pensa alla figura che faranno se poi non succede niente, teme di essere preso in giro da tutto il paese come colui che si è comportato in modo folle, che si è messo a pescare in un’ora in cui non si spera più di ottenere una buona pesca. È un istante difficile nel quale la fiducia di Pietro nel maestro può essere scossa: forse gli converrebbe dire semplicemente di no e non entrare nel piccolo cimento, nella prova che potrebbe renderlo ridicolo di fronte alla gente. Queste cose noi le cogliamo nella prima parte della risposta: “per tutta la notte, affaticandoci, non abbiamo preso niente”. Fermiamoci su questo verbo “affaticandoci”, kopiásantes: è un verbo che il Nuovo Testamento usa altre volte quando parla della fatica apostolica, là dove Paolo dice “ho faticato molto più di questi altri pseudoapostoli”, è il verbo che è stato trasferito dalla fatica fisica alla fatica apostolica. Quindi, noi possiamo qui leggere anche tante nostre situazioni: mi sono affaticato molto, ho speso molta energia, ce l’ho messa tutta, mi sono esaurito e non è venuto fuori niente. C’è quel senso di stanchezza evangelizzatrice, di disfattismo, di sfiducia: ma Signore potevi aiutarmi prima, perché non sei venuto finora? Ecco il momento delicato nel quale Pietro gioca se stesso: se cede a questa stanchezza dicendo che ha già tentato, che è inutile, che è meglio andare a casa, si tira indietro dall’offerta di Gesù. Se, invece, Pietro decide di giocarsi un pochettino, di rischiare un poco, di calpestare sia la fatica che l’opprime, sia il ridicolo che lo minaccia e dice “buttiamoci e andiamo”, ecco l’evangelizzatore che supera la prova di fiducia: “nella tua parola io butterò la rete”. Notiamo quanto c’è di profondo in questo epí de tò rémati sou: nella tua parola, perché è l’espressione che nella Bibbia, nei salmi designa l’atteggiamento dell’uomo davanti a Dio. “Nella tua parola io confido, è la tua parola che mi dà vita”, Signore. Tu mi hai afflitto, hai permesso tante sofferenze, ma nella tua parola io confido.

Qui Pietro cessa di essere il piccolo episodio privato, è la figura dell’uomo che gioca se stesso anche in situazioni piccole, semplici ma che esigono una certa decisione, un certo coraggio. Esce dai calcoli e si butta sulla parola del Signore. Abbiamo una delle tipiche caratteristiche che Gesù ricerca nell’evangelizzatore e delle piccole prove con cui Gesù lo saggia, lo forma. Sapete meglio di me, per l’esperienza che potete avere sia di voi stessi o di altri, nel vivere con i ragazzi ad esempio, che, in genere, quelli che calcolano molto, che continuamente sono preoccupati di sé, del ritorno delle cose che fanno, che vogliono verificare bene tutto quanto per vedere se coincide o no con le proprie sicurezze, non sono terreno buono di vocazione. In realtà, l’evangelizzatore si mostra proprio in questi momenti, è questione di rischiare un poco, di buttarsi un po’ fuori, di perdere il senso del calcolo, di perdere un po’ il senso della misura. L’evangelizzatore rimane sempre caratterizzato da questo quid irrazionale: irrazionale, naturalmente, non nel senso di qualcosa che va contro la ragione ma nel senso di fare qualche passo oltre ciò che è puramente sicuro e solido. Ritornando a Pietro: in fondo, è egli stesso che compie il passo fuori della barca per buttarsi nel lago. Anche lì ci vuole un pizzico di follia per fare quel passo. È proprio quel pizzico di follia che fa l’uomo. Noi diciamo spesso – e il papa l’ha affermato chiaramente nell’enciclica Redemptor Hominis4 – che l’uomo non può vivere senza amore: è l’amore che nell’uomo suscita questo andare al di là dei calcoli, questo buttarsi. Qui Pietro è toccato da Gesù sulla sua disponibilità ad avere quella capacità di rischio nella quale Gesù lo eserciterà sempre più a lungo, e che è caratteristico di ciò che l’evangelista dev’essere. E la rete buttata sulla parola di Gesù si riempie, vengono altre barche e anch’esse stanno per affondare. Allora cosa succede? Vedendo questo (ecco un aspetto del kérygma: c’è un fatto, un fatto notevole, imprevisto) Pietro scopre la manifestazione della potenza di Dio e si butta alle ginocchia di Gesù dicendo: “Allontanati da me perché sono uomo peccatore”. Qualcosa è avvenuto. La potenza di Gesù fa risaltare la peccaminosità di Pietro: forse Pietro non era tra i più grandi peccatori di Cafarnao, però certamente era anche lui un uomo che, messo di fronte alla potenza, alla santità di Dio sentiva che molte cose della sua vita non andavano. Ciò che fortemente colpisce in questo agire di Gesù verso Pietro, è proprio la delicatezza che Gesù mostra.

Se Gesù fosse stato quell’educatore pignolo che talora, forse, noi abbiamo davanti, avrebbe detto: dunque, Pietro, tu vuoi seguirmi; ricordati però che sei un peccatore, quindi per prima cosa devi pentirti veramente dei tuoi peccati, purificarti, perché altrimenti non sei degno di seguirmi. Invece Gesù porta Pietro a compiere un atto di fiducia. A seguito di quell’atto di fiducia Pietro riconosce la grandezza di Gesù, la sua bontà, la sua potenza, e istintivamente, facilmente, senza nessuno sforzo viene fuori il proprio peccato. Gesù porta Pietro – lui per primo – là dove voleva portarlo, a una sincera purificazione, all’umiltà, al riconoscimento della necessità della misericordia di Dio, perché sia in grado di comprendere la misericordia del kérygma, della parola di salvezza. Lo porta in questa maniera così umana, libera, senza sconvolgimenti faticosi. Potremmo subito fare un’applicazione per il nostro cammino penitenziale, cammino tanto necessario per ogni uomo e donna di questo mondo, e necessario innanzitutto per l’evangelizzatore. Siamo soliti, in ogni corso di esercizi, dedicare un momento speciale alla penitenza; ciò che sottolineo è precisamente come il nostro bisogno di salvezza, la nostra povertà, risaltano maggiormente di fronte alla considerazione della misericordia di Dio verso di noi, di fronte alla considerazione della sua potenza, della sua bontà. Ogni faticosa introspezione, se non viene compiuta di fronte a questo quadro di apertura che è la potenza di Dio manifestata a Pietro, non soltanto non è evangelica, ma talora, forse, è dannosa. Ora Pietro può dire queste cose con estrema tranquillità e semplicità, senza più paura di nessuno perché è tanto grande quello che gli sta davanti che, anche se gli altri sentono che lui è peccatore, non gliene fa più niente. Ormai ha compiuto un passo talmente decisivo di liberazione interiore, che tutti i timori che prima poteva avere nei confronti di ciò che pensa o dice la gente, sono stati superati. Gesù forma l’evangelizzatore attraverso questi salti di fiducia, con la presentazione della sua potenza; gradualmente fa emergere un vero sentimento penitenziale. L’episodio si conclude con un ultimo rovesciamento di realtà. Pietro si aspettava che il Signore lo confermasse nel suo sentimento di penitenza e invece Gesù dice: “Non temere; da ora, da questo momento sarai pescatore di uomini”. È un rovesciare la situazione. Prima, di un Pietro un po’ borioso di sé, ne ha fatto un uomo che ha saputo buttarsi nella fiducia; di quest’uomo fiducioso ne ha fatto un uomo che ha saputo riconoscere spontaneamente la

propria povertà; ora di quest’uomo umiliato nella sua povertà, ne fa un uomo caricato della sua fiducia. Ecco cosa vuol dire sperimentare la potenza di Dio, ecco la formazione dell’evangelista, colui che viene formato dalle mirabili trasformazioni che la potenza di Dio opera su di noi rovesciando le situazioni umane. Il Vangelo è forza di perdono per chi si affida La guarigione del paralitico: 5,17-26. Vediamo ora brevemente, continuando questo discorso, quale insegnamento possiamo trarre dal secondo episodio, la guarigione del paralitico. Qual è la situazione che si presenta se la confrontiamo con la situazione di Pietro? Anche qui, cinque uomini rischiano il ridicolo perché questo scoperchiare il tetto della casa, questo calare giù l’uomo, senza sapere se Gesù lo vuole ricevere, può a un certo punto finire nel nulla: farà o non farà il miracolo? Cosa succederà: quest’uomo tornerà a casa più affranto e più umiliato di prima? Non è cosa da poco sperare in un miracolo: se poi non avverrà, sarà la morte per quest’uomo. Anche qui c’è stato un atto di coraggio, un momento di non calcolo, un’iniziativa non pienamente ragionevole nella quale sono stati trascinati da una fiducia illimitata verso quest’uomo di cui conoscevano poco. Qual è la conseguenza? Che, a seguito di quest’atto di coraggio e di fiducia, la situazione di quest’uomo viene completamente rovesciata: i suoi peccati sono perdonati, la sua malattia è guarita. Gesù appare come colui che perdona e risana; il kérygma, l’evangelo è forza di perdono e di risanamento per coloro che vi si affidano, che osano questo passo coraggioso, che vi si buttano. Il coraggio che queste trasformazioni operate da Gesù richiedono, mi colpisce molto perché appartiene proprio alla maturazione dell’uomo che scopre che, soltanto in un momento di coraggio, di uscita da sé, riesce a raggiungere ciò che profondamente desidera. Alcuni giorni fa, passeggiando fra le montagne, notavo delle meravigliose cascate dove l’acqua scendeva a picco per decine e centinaia di metri, e in alcuni punti spumeggiava. L’immagine della cascata mi è rimasta impressa perché cercavo, contemplando quella scena, di immedesimarmi nell’acqua e dicevo: se avessi paura di buttarmi, che cosa farei? Resterei là, non seguirei questo istinto che l’acqua ha di buttarsi verso il basso, mi fermerei nella

paura, non prenderei nessuna iniziativa, non sarei ciò che devo essere. Sono ciò che devo essere nella misura in cui seguo questa tendenza a fidarmi. Da questa tendenza insita nell’uomo ad andare al di là di sé, attraverso un atto di fiducia in altri uomini, nasce la società, nasce l’amicizia, nascono l’amore e la fraternità. Se nessuno mai rischia non nasce niente. È in questo fidarsi della parola di Gesù che nasce la possibilità di salvezza; è in un fidarsi particolarmente qualificato che nasce la possibilità evangelizzatrice. L’evangelizzatore getta le reti sulla parola di Gesù, viene formato nell’educazione al donarsi. Il perdono della peccatrice La donna peccatrice in casa di Simone: 7,36-50. Analizzo semplicemente qualche nucleo dell’episodio. Com’è la situazione? È una situazione ambigua. C’è un uomo, Simone, che si crede importante, che ha in mano la situazione, e che non ha rischiato niente: ha ricevuto Gesù, ma col minimo della cortesia perché, così, pensa di riuscire a contentare tutti. Ricevendo Gesù si dimostra uomo aperto, capace di affrontare le nuove idee, un uomo che ha una certa intelligenza e una certa apertura di spirito; non rendendogli però tutti gli onori dovuti può sempre dire di averlo tenuto a bada, di averlo sorvegliato per vedere ciò che diceva. Questo salvarsi con tutti senza però impegnarsi, è esattamente l’immagine dell’agire politico che sempre ci minaccia: sì, facciamo una cosa, ma in maniera che nessuno possa criticarci e così navighiamo, con estremo equilibrio, tra due parti, senza comprometterci. È vero che può essere talora necessario, e la necessità della vita lo esige, però certamente l’uomo che vive così non vive, cioè vive la situazione di Simone il quale prepara un banchetto a Gesù e lascia che l’atmosfera sia tesa, guardinga; Gesù si sente osservato per cui, probabilmente, non parla con molto entusiasmo e con serenità; gli altri si sanno osservati a vicenda e anch’essi azzardano discorsi soltanto generici, che non compromettono nessuno. A un certo punto, ecco che entra una donna e rompe tutte le convenzioni creando un enorme disagio in tutti: tutti si guardano, girano gli occhi, si fanno cenni, chiedono, si tirano indietro e ciascuno dà all’altro la colpa di averla invitata, ciascuno non vuole ammettere di conoscerla. La donna, intanto, avanza imperterrita e, in un gesto di confessione pubblica, compie verso Gesù

quei segni di affetto, di riconoscenza, di venerazione che nessuno aveva saputo compiere. Questa è la situazione. Nessuno di coloro che sono lì intorno rischia; la donna ha invece rischiato molto: che cosa farà Gesù, di chi prenderà le parti? Qui ammiriamo ancora una volta la capacità di Gesù di rovesciare le posizioni: Gesù non rimprovera immediatamente, sa bene che in questi momenti cruciali bisogna agire con una certa prudenza e attenzione. Con un’opportuna parabola raccontata a Simone, e con una domanda finale, fa riconoscere a Simone stesso che la situazione, nella realtà di Dio e nella realtà anche della sincerità umana, è esattamente l’opposto di quello che sembrava a tutti. L’imbarazzato, l’intruso, colui che non ha saputo agire è Simone; la persona che si è comportata in maniera degna della situazione, vera, reale, umana è la donna: è lei che ha capito, è lei che ha vissuto questa realtà. Di nuovo, il modo con cui il Vangelo porta al riconoscimento della colpa, alla via della purificazione: non attraverso i rimproveri amari che mettono la persona in stato di difesa, ma suscitando nella donna il coraggio, l’energia, la libertà di cuore. Tutto questo la rende una perfetta immagine dell’uomo e della donna che percorrono la via della purificazione e ottengono da Dio il perdono in un atto di amore e di trasformazione della loro esistenza. In questo senso mi sembra che questi due episodi illuminano, sotto altri aspetti, ciò che è avvenuto a Pietro – la spontaneità che in lui si è manifestata prima, clamorosa e gioiosa, e poi nella confessione dei peccati – il rovesciamento di situazione per la quale un uomo, che pubblicamente si dichiara peccatore, viene investito della più grande fiducia da parte di Gesù. Ecco che cosa fa il kérygma: rovescia le situazioni umane, le ribalta, mette alla vergogna coloro che credevano di possederle e mette in risalto coloro che hanno agito con umiltà, con verità, con semplicità, seguendo il loro desiderio di donarsi, di fare qualcosa di più, di rischiare qualcosa per amore. In fondo, la parola amore, che non è stata pronunciata nell’episodio di Pietro, viene messa qua al centro: “le è molto perdonato perché ha molto amato”. Anche Pietro ha fatto un atto di molto amore, anche il paralitico, istintivamente, era portato dall’amore, e sono stati rifatti dalla potenza del kérygma. La parola evangelica rende l’uomo alla propria verità, alla propria spontaneità, lo porta là dove egli vuole e deve essere per natura; cioè fiducioso, impegnato, capace di rischiare, capace di amore, di affetto profondo, capace di esprimere anche pubblicamente la propria libertà

raggiunta. Questo è il primo momento della formazione dell’evangelista che insiste su questi aspetti, li mette in luce, li fa scoprire, li porta alla ribalta. Se evangelizzazione significa liberazione dell’uomo dall’interno delle sue potenzialità, della sua capacità di esprimersi, di superare il peso del peccato, tutto questo deve manifestarsi per primo nell’evangelizzatore; e Gesù, con tocchi sapienti, ci mostra come avviene. Il nostro cammino penitenziale Abbiamo detto, all’inizio della meditazione, che il primo momento dell’educazione dell’evangelista è di dargli il vero senso del perdono di Dio; e abbiamo seguito il cammino che ha portato così rapidamente Pietro a dire “allontanati da me, Signore, perché sono peccatore”; che ha portato il paralitico a sentirsi dire “ti sono rimessi i tuoi peccati” e che ha portato la donna peccatrice a sentirsi dire “le è molto perdonato perché ha molto amato”. Ora cerchiamo di riflettere, in modo più particolare, sul nostro cammino penitenziale. Sappiamo che è importante – l’abbiamo spiegato tante volte agli altri – però abbiamo la coscienza, forse poco approfondita, che questo cammino penitenziale, nella Chiesa di oggi, subisce un momento di stasi. Una volta si seguiva la pratica della confessione frequente che è un’espressione del cammino penitenziale; questa pratica ha subìto, soprattutto in alcune regioni, un grande calo; conosco paesi e città nelle quali la confessione è diventata molto rara; è sostituita – ogni tanto – da liturgie penitenziali, che, alla fine, risultano certamente più comode di quello che è lo sforzo di una confessione individuale. Non per niente, Giovanni Paolo II, nell’ultima parte dell’enciclica Redemptor Hominis, ha ricordato il diritto di ogni fedele di poter essere ascoltato e riconciliato nella confessione individuale. Sarebbe troppo lungo parlare della crisi della penitenza – già tanto studiata, in questi anni, nella Chiesa – e, probabilmente, una delle ragioni della crisi è imputabile anche a un certo formalismo penitenziale in cui si era caduti. Tutti noi, almeno i più anziani di ministero di confessione, abbiamo avuto l’esperienza di persone che si confessavano molte volte, ma con poco vantaggio, in maniera abitudinaria… come succede. Ora si è passati all’eccesso opposto: quando una cosa è divenuta abitudinaria si preferisce lasciarla, invece di approfondirla e di renderla più vera.

Siamo, quindi, a una svolta incerta di cui non sappiamo l’avvenire. La Chiesa ha però recuperato un senso penitenziale molto più forte di prima, soprattutto per ciò che riguarda la coscienza dei peccati sociali, dell’ingiustizia, del bisogno di fraternità, anche se rimangono temi ancora abbastanza generici. Non vogliamo occuparci tanto di questo – sarebbe un tema vasto e interessante –, ma di quello che è il cammino penitenziale di ciascuno di noi. A noi, come evangelizzatori, così come a Pietro, viene proposto con insistenza un inizio penitenziale al quale dobbiamo sempre tornare: metterci davanti al Signore con la coscienza di ciò che siamo realmente, della nostra fragilità, del nostro bisogno di salvezza. Il rischio che la Chiesa corre – e, in essa, ciascuno di noi – in questo diminuire il senso penitenziale, il senso del peccato, della colpa e, quindi, del perdono, della riconciliazione, è un rischio certamente grande perché si potrebbe finire per perdere di vista il senso della gratuità della salvezza, il senso del bisogno di salvezza, come dono di Dio che perdona i peccati. La salvezza viene ridotta a un problema di giusta organizzazione dei rapporti tra le persone, il Vangelo diventa un modello di questa organizzazione e non si coglie più quello per cui san Paolo ha lottato, quello per cui Gesù ha proclamato: “Non sono venuto per i giusti ma per i peccatori, non per i sani ma per i malati”. Dio giustifica gratuitamente il peccatore e questa è la salvezza che l’uomo continuamente riceve. L’uomo, incapace di amare davvero fino in fondo, è reso capace di amore vero dalla trasformazione dello Spirito che lo purifica. Se perdiamo questo punto di passaggio – lo Spirito che gratuitamente purifica e rende capace di amore vincendo l’egoismo e la paura della morte – non siamo più capaci di costruire la comunità cristiana, con tutta la buona volontà che abbiamo di instaurare rapporti fraterni fra la gente. La posta in gioco è certamente grave per quanto riguarda il senso della penitenza e del peccato. Che cosa aggiungere, direi a modo di consiglio, per l’esperienza personale nostra? Io distinguerei la nostra esperienza, o meglio l’esperienza della penitenza in due categorie. Vi sono alcuni per i quali la penitenza intesa nel modo antico, cioè come una confessione breve, frequente, nella quale si costituiscono come una serie di pietre miliari che ci aiutano a essere purificati da tutte le colpe quotidiane e a tenere vivo in noi il senso della gratuità della salvezza, ha ancora un preciso significato. Per chi trova facile questa via, per chi vi è abituato e la porta avanti senza problemi, è una grazia; vuol dire che il Signore lo guida e lo

guiderà su questa strada. Ci sono però, talora, sacerdoti, religiosi, religiose, laici che, avendo vissuto l’esperienza del cambio di regime penitenziale, hanno trovato assai più difficile continuare la pratica della confessione regolare; la trovano faticosa, un po’ formale, poco utile, poco stimolante. Vorrei parlare soprattutto per questi: avendo anch’io sperimentato un po’ questo tipo di travaglio, ho cercato di vedere come se ne può uscire. Mi ha aiutato una considerazione semplice e che sembra paradossale. Mi sono detto: se mi è così faticoso fare la confessione breve, perché non provare a farla più lunga? Un po’ un rovesciamento delle situazioni. Ed è nata l’esperienza (che ho poi confrontato con altre esperienze di gruppi, persone, situazioni, anche in diverse parti del mondo) del colloquio penitenziale che vuole salvare i valori della confessione tradizionale, ma inserendoli in un quadro un po’ più personale. Cosa intendo per colloquio penitenziale? Intendo un dialogo fatto con una persona che mi rappresenta la Chiesa, concretamente un sacerdote, nel quale cerco di vivere il momento della riconciliazione in una maniera che sia più ampia di quello che è la confessione breve, che elenca semplicemente le mancanze. Cerco di descrivervi come questo avviene. Il nuovo Ordo paenitentiae5 ammette questo allargamento: se si può, come suggerisce, è meglio cominciare il colloquio con la lettura di una pagina biblica, per esempio un salmo, che uno ha cercato perché corrispondente al suo stato d’animo; si recita poi una preghiera, magari spontanea, che mette subito in un’atmosfera di verità. Segue un triplice momento che sinteticamente chiamo: confessio laudis, confessio vitae e confessio fidei. Confessio laudis: ripete proprio l’esperienza di Pietro in Lc 5. Pietro, per prima cosa, sperimenta che il Signore è grande, che ha fatto per lui una cosa immensa e lo ha riempito di doni inaspettati. Confessio laudis è cominciare questo colloquio penitenziale rispondendo alla domanda: dall’ultima confessione, quali sono le cose per cui sento di dover maggiormente ringraziare Dio? Quelle cose nelle quali sento che Dio mi è stato particolarmente vicino, in cui ho sentito il suo aiuto, la sua presenza? Fare emergere queste cose, cominciare con questa espressione di ringraziamento, di lode, che mette la nostra vita nel giusto quadro. Segue poi quella che è la confessio vitae. Evidentemente trovo molto giusto quello che si insegnava nella pratica della confessione, di confessarsi cioè secondo i dieci comandamenti o secondo un altro schema, ma per questa

confessio vitae io suggerirei – per coloro che hanno una possibilità maggiore di tempo – questa domanda: a partire dall’ultima confessione che cosa è che, soprattutto davanti a Dio, non vorrei che fosse stato? Che cosa mi pesa? Quindi più che preoccuparsi di far emergere una lista di peccati – che ci potrà anche essere quando sono cose molto gravi e precise perché, allora, emergono da sé –, si tratta di vedere le situazioni che abbiamo vissuto e che ci pesano, che non vorremmo che fossero e che proprio per questo mettiamo davanti a Dio per esserne sgravati, per esserne purificati. Qui la áphesis amartión ha il suo senso proprio: toglierci un peso e un peso potrebbe essere, per esempio, che abbiamo vissuto una certa antipatia senza riuscire a liberarcene e non sappiamo vedere esattamente se ci sia stata colpa o no, ma ha pesato sul nostro animo; oppure abbiamo vissuto una certa fatica nel compiere il bene, una certa pesantezza nell’amare, nel servire che magari è stata poi causa di altri difetti, perché è una radice di fondo. Così mettiamo in luce veramente noi stessi, come ci sentiamo. Che cosa avrei voluto che non fosse avvenuto? Che cosa mi pesa particolarmente ora davanti a Dio? Che cosa vorrei che Dio togliesse da me? In questo modo è più facile far emergere davvero la persona con le sue situazioni sempre mutevoli, con la sua realtà di peccato spesso non documentabile e che gli altri riconoscono e vedono più di noi, magari criticano e noi non riusciamo a individuare se non in questo modo. Chiediamo di essere liberati perché la potenza di Dio è per liberare noi, non per liberarci da un punto di vista contabile o moralistico; è per darci spazio, per darci animo, per farci riprendere una nuova spontaneità. Infine la confessio fidei che è la preparazione immediata a ricevere il suo perdono. È la proclamazione davanti a Dio: Signore, io conosco la mia debolezza, ma so che Tu sei più forte. Credo nella tua potenza sulla mia vita, credo nella tua capacità a salvarmi così come sono adesso. Affido la mia peccaminosità a Te, rischiando tutto, la metto nelle tue mani e non ne ho più paura. È necessario, cioè, cercare di vivere l’esperienza di salvezza come esperienza di fiducia, di gioia, come il momento in cui Dio entra nella nostra vita e ci dà la buona notizia: “va’ in pace”, mi sono preso io carico dei tuoi peccati, della tua peccaminosità, del tuo peso, della tua fatica, della tua poca fede, delle tue interiori sofferenze, dei tuoi crucci. Li ho presi tutti su di me, me li sono caricati perché tu ne sia libero. Ecco uno dei tanti modi: a me sembra che questo tipo di colloquio sia più capace di darci un vero aiuto e l’impressione che ne ricaviamo è di volere

ripeterlo volentieri perché ne usciamo un po’ diversi e ci fa del bene. La confessione non è soltanto un dovere: è un’occasione lieta che si cerca. Anche nelle confessioni ordinarie alle quali è presente tanta gente, a volte vedo che è bello fare questa domanda alle persone che si confessano rapidamente: ma lei ha qualche cosa nella sua vita di cui vorrebbe ringraziare Dio? È una domanda che già mette il colloquio su un piano diverso, non soltanto formale, è già un entrare nella vita di quella persona. Vediamo dunque di aiutarci insieme a vivere questo momento penitenziale a cui Gesù tenta di condurre Pietro sin dall’inizio della sua chiamata; chiediamo al Signore che aiuti noi – come Pietro – a comprendere che cosa desidera che facciamo, tutto quello che ci promette e tutto quello che ci dona.

V. GESÙ EDUCA I SUOI DISCEPOLI L’incontro di oggi è una meditazione di sintesi perché non abbiamo tempo di percorrere tutte le pagine di Luca dal cap. 5 in poi. Abbiamo visto qualcosa nel cap. 4 e anche dal cap. 5 in avanti, fino al momento della passione sul quale dovremo ritornare perché è fondamentale per l’educazione dell’evangelizzatore; tuttavia, non potendo appunto percorrere pagina per pagina, vorrei almeno dare uno sguardo sintetico, una chiave di lettura sintetica dei capitoli dal 5 al 18 di Luca. Anche oggi, prima della riflessione ci facciamo una domanda: che cosa mi sarebbe utile per raggiungere ciò che desidero? Nella tranquillità del raccoglimento può già emergere, per ciascuno, qualche cosa: o un po’ più di tempo da dare alla preghiera durante l’anno o un maggior impegno nella direzione spirituale, o la pratica del colloquio penitenziale più regolare, oppure lo scioglimento di qualche nodo comunitario, qualche motivo di perdono, di riconciliazione; e allora notiamola prontamente, perché è proprio questo il momento in cui vediamo meglio cosa il Signore ci chiede. Facciamo una premessa. Si è già parlato dei carismi indicati da Paolo (Ef 4,11) – apostoli, profeti, evangelisti, pastori, dottori –. Ora ricordo brevemente qualche altro passo in cui è descritto il maggior numero delle diaconie, frutto dello Spirito; per esempio Rm 12,6-8: Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della

profezia la eserciti secondo la misura della fede, chi ha un ministero attenda al ministero, chi l’insegnamento all’insegnamento, chi l’esortazione all’esortazione, chi dà lo faccia con semplicità, chi presiede lo faccia con diligenza, chi fa opere di misericordia le compia con gioia.

Oppure 1Cor 12,8-10: A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro, invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio della scienza, ad un altro la fede per mezzo dello stesso Spirito, a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito, a un altro il potere di miracoli, profezia ecc.

E ancora, alla fine del capitolo (1Cor 12,28), con un brano molto simile a Ef 4,11: Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri… ad altri il dono di far guarigioni, il dono di assistenza, di governare, delle lingue.

Prendendo il materiale da queste varie indicazioni propongo una distinzione che è utile per orientarci nella formazione dell’evangelizzatore. Ci sono alcuni servizi nella Chiesa che si possono chiamare diaconiae ex fide. Sono tutti quei servizi che noi rendiamo ai fratelli, a partire dalla fede, quindi dal battesimo, dalla nostra conversione battesimale, ma che possono essere fatti da tanti altri e in collaborazione con altri: il servizio dei malati, handicappati, drogati, il servizio della giustizia, i servizi sociali, il servizio dell’istruzione, l’aiuto ai carcerati, a tutte le forme di emarginazione. Sono, comunque, diaconie, opere di misericordia e di assistenza di ogni genere che per il cristiano provengono ex fide e che, di per sé, possono nascere semplicemente da un desiderio di umanità, di solidarietà col fratello. Per il cristiano però acquistano una particolare caratteristica perché sono frutto della propria fede matura; quanto all’oggetto, non si distinguono invece da altri servizi. Ci sono altri servizi (soprattutto i cinque ricordati in Efesini: apostoli, profeti, evangelisti, pastori, dottori) che sono specifiche diaconiae fidei, in cui, cioè, l’oggetto del servizio è la fede. Sono il servizio della fede le varie forme dell’evangelizzazione, del servizio pastorale, del sostegno della comunità, del chiarimento della speranza. Queste due diaconie sono collegate le une alle altre; le diaconie ex fide si riferiscono piuttosto alla promozione umana, mentre le diaconie fidei riguardano l’evangelizzazione, il servizio nel quale la fede stessa è oggetto del dono comunicato. Certamente, per un cristiano, è la diaconia fidei il servizio più grande che

si possa rendere: se è vero che sono tanti i bisogni dell’uomo, quello fondamentale è però il suo bisogno irrinunciabile di fede, di speranza, di amore senza limiti. Tutti gli altri servizi sono utili, ma acquistano nella visuale cristiana la loro punta di diamante nel servizio dei servizi, nel ministero dei ministeri, quello che dà a un uomo la forza di sperare e di vivere. È importante dare il pane, la giustizia, la possibilità di una vita umana: ma se poi, a quest’uomo non si consegna un motivo profondo per vivere, a che pro sono state date tutte le altre cose? Il cristiano si pone in stato di servizio dell’umanità sapendo che c’è un servizio che è irrinunciabile perché tutti gli altri servizi servano alla piena soddisfazione dell’uomo. Questa distinzione va tenuta presente per capire meglio l’insegnamento di Gesù in Luca (dal cap. 5 al 18). L’educazione dell’uomo cristiano L’esegesi è abbastanza concorde nell’ammettere al cap. 9 una divisione importante a partire dal v. 51. Da quel momento inizia il viaggio di Gesù a Gerusalemme. È una sezione che ha soltanto Luca: in essa l’evangelista ha condensato tutta una serie particolare di parole e detti di Gesù. Quindi i capitoli si dividono chiaramente dal 5 al 9 e dal 9 al 18. Se dovessi dare un titolo a queste due parti le esprimerei così: – l’educazione dell’uomo cristiano (cap. 5-9); – la formazione dell’evangelizzatore propriamente detto (cap. 9-18). Evidentemente con questi due titoli non esauriamo tutto il contenuto di quei capitoli perché il Vangelo è un mondo infinito di ricchezza e quando indichiamo un titolo è solo per dare un certo taglio di lettura e per mettere in luce alcuni aspetti, consapevoli che se ne potrebbero sottolineare molti altri. Esaminiamo brevemente il contenuto dei primi capitoli, dal 5 al 9. Il cap. 4 era l’ouverture, l’introduzione di “Gesù evangelizzatore mancato”, e contiene da solo tutti i temi fondamentali di Luca, compresa la passione e la morte. Col cap. 5 comincia la chiamata dei discepoli, cioè l’attività di Gesù propriamente detta, in pubblico. Il contenuto di questi capitoli si può suddividere così: prima una serie di sette miracoli. Sono per così dire miracoli in crescendo, perché terminano con la resurrezione di un morto. Li ricordiamo brevemente: l’indemoniato guarito, la suocera di Simone, il

lebbroso, il paralitico, l’uomo dalla mano paralizzata, il servo del centurione, il figlio della vedova di Naim. Dopo una breve pausa, un’altra serie di miracoli: la tempesta sedata, l’indemoniato di Gerasa, l’emorroissa, la figlia di Giairo risuscitata, la moltiplicazione dei pani, la Trasfigurazione e l’epilettico guarito. Quattordici miracoli – due volte sette – e quindi il cap. 9 che comincia con: “Allora egli chiamò a sé i dodici e diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie: e li mandò ad annunciare il Regno di Dio e a guarire gli infermi”. È interessante il potere comunicato agli apostoli dopo una prima serie di miracoli. Insieme con questi miracoli abbiamo poi delle parole di Gesù con contenuto diverso: le metterei, sinteticamente, sotto tre titolazioni, anche se è difficile riassumerle a fondo: sono prima di tutto quelle che chiamerei parole di insegnamento fraterno, il cui tema fondamentale è amore, misericordia, esecuzione pratica e coraggiosa di ciò che viene chiesto; parole di polemica contro la mancanza di fede e contro l’inumanità religiosa dei farisei (6,1-11). Infine parole messianiche o di capovolgimento: “Beati i poveri… guai a voi, o ricchi!” Ecco il contenuto globale di questi capitoli. Questo è il tipo di educazione che ricevono Pietro, Giacomo, Giovanni, i discepoli che seguono Gesù, stanno con lui e sono alla sua scuola. Gesù si preoccupa di dare loro l’educazione dell’uomo cristiano, cioè l’educazione a tutti quegli atteggiamenti che formano l’uomo maturo, capace di rendersi conto delle necessità e delle sofferenze altrui. Si pensi al valore educativo dei miracoli a cui i discepoli assistono e che fanno passare in rassegna davanti a loro tutte le sofferenze umane: dalle malattie alle disgrazie, dalle forme di ossessione alla sofferenza fisica e psichica. I discepoli, come spettatori di questi fatti, avvicinano queste persone, vedono quanto male c’è nel mondo, quanta sofferenza, quanto abbandono, quanta depravazione e sono educati ad acquistare per ciascuna realtà un cuore, una sensibilità, una capacità di sintonia. È l’educazione alla bontà, alla beneficenza, alla compassione per ogni male dell’uomo. È l’educazione a quell’apertura del cuore che viene proclamata come caratteristica di Gesù; come quando Pietro riassume ciò che Gesù ha fatto, dicendo: “Passò facendo a tutti del bene, guarendo tutti coloro che erano oppressi” (At 10,38). Gesù fa partecipi i suoi discepoli della sua compassione sensibile, pronta, della sua capacità di vedere le sofferenze e i mali altrui. In secondo luogo, è un’educazione che riguarda anche il rapporto dei

discepoli con Gesù; è l’educazione alla fiducia nella sua missione di Messia. Gli apostoli sono testimoni della bontà di Gesù, del suo successo, della sua capacità di conquistare la gente. Gli apostoli si entusiasmano e prendono fiducia in lui, nella sua onestà, nella sua limpidità, nella sua sensibilità per le situazioni più segrete di sofferenza del cuore umano, e la loro fiducia cresce anche davanti alla capacità che il maestro possiede nel guidarli e nel condurli. In terzo luogo Gesù educa i discepoli a guardare i problemi di fondo dell’uomo. Pensiamo all’episodio del paralitico: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”; alla parola di Gesù: “non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori”; alla parola rivolta alla donna in casa di Simone: “le è molto perdonato perché ha molto amato”. Cioè i discepoli, che probabilmente avevano un’esperienza molto limitata della vita e interessi immediati per i propri familiari, come ogni persona che è immersa nel lavoro e nella fatica, vengono educati a vedere che c’è tanta sofferenza, tanto bisogno di compassione, gente che soffre interiormente, che è lacerata da contraddizioni e bisognosa di una parola di conforto. Ecco quella che chiamo l’educazione dell’uomo cristiano sottolineando la parola uomo, cioè un essere capace di rivolgersi ad altri con fraternità. Dobbiamo dire che è la predicazione più facile di Gesù perché è tutto ovvio e bello: fraternità, compassione, beneficenza; nessun uomo potrebbe dire che non va bene. Sono le pagine del Vangelo più conosciute nel mondo e che fanno apprezzare Gesù come un grande maestro di umanità anche da molti giovani che non credono. Qualche volta noi vediamo impegnarsi in opere di volontariato giovani che non hanno una fede precisa, però si buttano volentieri per aiutare il prossimo, per servire; nessuno può dire che siano scelte inutili o strane. Questa prima scuola, dunque, è importante e l’evangelizzatore deve passare per essa. Il prete, in particolare, potrà capire i bisogni più segreti della gente – quelli più sottili proprio perché più intimi al mistero della persona – se avrà capito i bisogni più immediati come la malattia, la fame, la solitudine, l’alienazione di vario tipo; se avrà potuto farsi un cuore sensibile a queste cose. Sono le diaconiae ex fide che qui vengono in onore, i molti tipi di servizio, di assistenza, di scoperta del povero; diaconie essenziali per arrivare a quelle più profonde. Una comunità cristiana vera e matura è quella che sollecita abbondantemente per i suoi battezzati esperienze di questo tipo, che educa i ragazzi e i giovani in questa linea. Altrimenti corriamo il rischio di offrire alla

gente un nutrimento squisito senza avere colto la loro capacità, il loro bisogno immediato di un nutrimento più pronto e più adatto. È un problema sul quale occorre attentamente riflettere proprio per l’educazione sacerdotale; è bene che il sacerdote sia educato in un certo isolamento che permette lo studio, la preghiera, l’acquisto di una disciplina, di un’austerità di vita che è tanto necessaria e senza la quale non si può resistere nelle difficoltà della vita sacerdotale. È però altrettanto fondamentale e importante che il sacerdote passi per questi esercizi della vita cristiana e non li dimentichi mai. Si trovano, talora, sacerdoti che, volendo riprendere un po’ in mano la propria vocazione, si dedicano per un certo periodo al servizio immediato dei poveri, degli ammalati, e così riscoprono il gusto del Vangelo e il senso della vita concepita come dono. D’altro canto, va detto che tutta la nostra vita è legata a questo tipo di aiuto, di servizio, di comprensione, in particolare poi per i malati, che sono davvero il fiore della comunità, i più bisognosi delle nostre maggiori attenzioni. Non posso, qui, non ricordare che per noi è importantissimo l’aiuto ai sacerdoti malati; anzi, è un punto di riferimento e di verifica per vedere se manteniamo o no questa educazione dell’uomo cristiano, pur essendoci dedicati più espressamente, tra i mille servizi possibili, al ministero evangelico. Proprio in questi giorni mi è arrivata la lettera di un sacerdote anziano, malato, che vive la sua condizione in una maniera singolare, dal punto di vista della fede e dell’accettazione; egli mi scrive, appunto, che prega ardentemente per tutte le intenzioni che, nella mia visita, gli ho raccomandato: la Chiesa, il papa, la vasta diocesi ambrosiana, i sacerdoti. Mi pare utile richiamare che dobbiamo far risplendere la vita di Cristo anche nella carità verso i nostri confratelli malati: non bastano le strutture giuridiche. Ci sono alcuni sacerdoti, come sapete, che a nome di tutta la diocesi sono incaricati di visitare i malati e di rendermi poi conto dello stato di ciascuno; ma la diocesi è così vasta che essi raggiungono solo ogni tanto le persone. C’è anche il vicario episcopale che visita, c’è il vescovo, che cerca di visitare i casi più gravi, ma sono gocce: bisogna che tutti ci mettiamo insieme, occorre che ciascuno pensi – anche se sono tante le cose da fare – a stabilire un momento di pausa per una visita. Spesso i malati sono soggetti a malinconie, stati di timore in cui vedono tutto oscuro e una visita può cambiare la situazione, ridare serenità e pace. Questa educazione non finisce

mai, ciascuno di noi è sempre stimolato a interrogarsi: come vivo, nelle situazioni che mi circondano, la carità, la fraternità, la misericordia che Cristo ha insegnato e alla quale ha educato i suoi discepoli, in particolare verso i malati, verso molte altre forme di povertà? La formazione dell’evangelizzatore Quali sono le caratteristiche di questa seconda parte? In essa i miracoli di Gesù diminuiscono. Non sono più di cinque, di cui però alcuni raccontati molto rapidamente. Dopo il cieco di Gerico (18,35-43) non c’è più nessun miracolo. Dall’ingresso in Gerusalemme poi, cessa completamente questa attività di Gesù. Aumentano invece le parole, e soprattutto le parole riservate ai Dodici, agli evangelizzatori. Appare quindi chiaro che, nella seconda parte della sua vita, Gesù dedica il tempo particolarmente a quelli che gli stanno vicini, per formarli in maniera speciale. È tipico, di questa seconda parte, anche il passaggio di discorso da Gesù alla gente e viceversa. Per esempio, al cap. 12 che inizia così: “Nel frattempo, radunatesi migliaia di persone che si calpestavano a vicenda (nell’ansia di correre da Gesù) Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli”. E, al v. 4: “A voi miei amici dico”; al v. 13: “uno della folla gli disse” e Gesù gli risponde; al v. 22: “Poi disse ai discepoli”. Quindi sembra chiaro, qui, che Gesù un po’ parla alla gente, ma, facilmente e volentieri, si ritira per parlare ai suoi. C’è un’attenzione particolare per i Dodici. E di che tipo sono le parole che Gesù usa in questa seconda parte della predicazione? Sono di tono abbastanza diverso dalle prime, concretamente sono le parole più dure e più intransigenti del Vangelo, quelle che si spiegano, alla gente che è in Chiesa, con fatica. Un tempo, quando si ripetevano sempre ogni anno i soliti brani evangelici, non apparivano quasi mai nella liturgia, mentre ora, nell’anno C, appaiono – dal mese di giugno in avanti – e ci si trova, appunto, in difficoltà. Io stesso ho provato proprio questo imbarazzo, un anno, nel doverle spiegare alla televisione, durante l’estate. “Non sono venuto a portare la pace ma la spada, sono venuto a dividere ecc.” Insomma, le parole della seconda parte di Luca sono per chi ha già seguito un certo itinerario. È quindi normale che, dette così, possono essere fraintese, e uno che non ha mai sentito il Vangelo resta urtato, male impressionato.

Volendo cercare di sintetizzare queste parole di Gesù in momenti fondamentali, emergono tre temi che mi sembrano dominanti. Innanzitutto l’educazione al distacco e alla libertà del cuore: “Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano e un tesoro inesauribile nei cieli dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma, perché dov’è il vostro tesoro sarà anche il vostro cuore; siate pronti con la cintura ai fianchi, le lucerne accese” ecc. (12,33-35). Chi segue Gesù da vicino viene educato, gradualmente, alla libertà del cuore, a non attaccarsi a nessuna di quelle cose che potrebbero distoglierlo dal suo compito: il guadagno, l’interesse, la carriera, le preoccupazioni personali. Con parole forti, Gesù ricorda questa necessità del cuore libero e distaccato. Un secondo tema è quello dell’educazione all’abbandono di sé al Padre. Il discepolo deve sapere che, avendo seguito Gesù, la sua vita è nelle mani del Padre, deve affidarla a lui. Deve affidare a lui il suo presente e il suo futuro. “Quale padre se il figlio gli chiede un pane gli darà una pietra? […] Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito buono a coloro che glielo chiedono” (11,11.13). O ancora: Per questo io vi dico: Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito. Guardate i corvi: non seminano e non mietono, non hanno ripostiglio né granaio, e Dio li nutre. Quanto più degli uccelli voi valete! Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? Se dunque non avete potere neanche per la più piccola cosa, perché vi affannate del resto? Guardate i gigli come crescono: non filano, non tessono; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede? Non cercate perciò che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il Regno di Dio, e queste cose vi saranno date in aggiunta. Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno” (12,22-32).

Già dicevamo, nelle precedenti meditazioni, l’importanza per l’uomo di questo fidarsi. Ora qui, il fidarsi ha un oggetto preciso: è il Padre che non lascerà cadere un capello sulla terra senza che egli vi sia vicino. Il Padre non vi abbandonerà, a lui dovete affidarvi. Questo chiede Gesù a coloro che prepara a essere evangelizzatori. Infine il terzo tema che ricorre sistematicamente: l’educazione al senso della croce. Non appare nei primi capitoli, comincia a venir fuori soltanto a un certo punto, là dove le tre predizioni della passione scandiscono i capitoli dal 9 al 18. La prima: “Il Figlio dell’Uomo deve soffrire molto, essere

riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti, dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno” (9,22). Poi la seconda (9,44) e la terza (18,31). Le tre predizioni inquadrano tutti i nove capitoli, come per dare un po’ il senso generale: Gesù educa i suoi al senso della croce. Questa educazione ha una caratteristica molto importante per tutta l’educazione evangelica. Non è, cioè, un’educazione ideologica: Gesù annuncia dei principi e trae conclusioni, oppure dà un programma e poi espone i punti successivi di attuazione. È un’educazione fatta nella vita: i discepoli vivono con Gesù, vedono come lui reagisce a proposito di una situazione, come parla, come si comporta. Annuncio e vita si intrecciano. Gesù fa e insegna: questo è fondamentale per l’educazione evangelica. Il Vangelo si impone per connaturalità affettiva col Signore e con coloro che lo vivono. Per questo quando si parla di “scuola di discepolato”, nella tradizione della Chiesa, è sempre un discepolato vivo: maestro-discepolo. Le cose si imparano così. Noi stessi, se interroghiamo la nostra esperienza, possiamo dire che ciò che abbiamo imparato ci è venuto soprattutto dai contatti con veri cristiani; la grazia di genitori buoni e santi, l’incontro con qualche sacerdote che ci ha impressionato particolarmente; il loro modo di dire, di fare, di reagire, i loro silenzi, le loro osservazioni al tempo opportuno ci hanno insegnato molto. E così anche gli altri imparano da noi: non è tanto ciò che noi diciamo, ma il modo nostro di vivere, di reagire, di giudicare che è formativo. Gesù stesso ha voluto questo, è lui che ha cominciato questo tipo di scuola pratica; tante forme di iniziativa pastorale che mettono a contatto l’evangelizzatore con la gente sono efficacissime proprio se c’è questa osmosi, questa trasmissione invisibile di valori. Leggevo, alcuni giorni fa, una trattazione teorica sul modo con cui vengono comunicati i significati della vita, e l’autore elencava una serie di elementi attraverso i quali vengono comunicati i significati: l’intersoggettività, il simbolo, la lingua e la vita concreta. Da questa catalogazione si vede come la lingua sia soltanto uno dei modi con cui si comunicano i valori e spesso non il più adeguato. Esiste l’intersoggettività cioè tutte quelle attività che sono inerenti allo stare insieme, che hanno significato anche senza che ciò venga detto. Per esempio, il fatto stesso che noi siamo qui, riuniti in preghiera e in ascolto, ha un valore inesprimibile in parole perché significa comunità di fede, ascolto di un’unica Parola, comunione di presbiterio, relazione tra il vescovo e i suoi sacerdoti, desiderio

di camminare insieme. Tutto questo è comunicato dal solo fatto di essere qui, senza che nessuno abbia bisogno di dirlo; attraverso questa intersoggettività passano moltissimi significati della vita. Per esempio, la madre che tiene in braccio il bambino, assume un significato così grande e ricco che occorrerebbe un volume per esprimerlo. Poi ci sono i simboli; i simboli, i gesti, tutte le forme dell’arte, del canto dicono molto più di quello che la lingua può esprimere. Però la lingua è necessaria, perché altrimenti certi simboli restano ambigui, non chiari. Soprattutto c’è la vita incarnata, le personalità che incarnano i valori: sono queste che trasmettono i significati in maniera eccezionale. Se poi queste personalità sono riunite in una intersoggettività comunitaria e usano simboli ben scelti, l’influsso è ancora più profondo. Pensiamo alle parabole di Gesù, ai suoi gesti, alla croce come simbolo fondamentale del suo amore, inesauribile come capacità di essere significante. Allora possiamo intuire come Gesù ha formato i suoi; ha usato una maniera per cui essi non riescono subito a capire e a esprimere ciò che egli dice e fa. Vorrei ancora fare un’osservazione che ci immette nelle meditazioni successive. L’osservazione è questa: qual è il risultato di questa educazione accurata, ben calibrata, condotta da Gesù secondo tutte le regole? È deludente, e il Vangelo stesso lo dice. Il Vangelo non ci nasconde che tutta questa meravigliosa messa in opera di strumenti educativi è servita ben poco per formare gli evangelizzatori. All’inizio di questi nove capitoli in cui l’evangelizzatore viene formato alla diaconia fidei, a quegli atteggiamenti di distacco, di abbandono al Padre, di senso della croce che sono necessari per poter annunciare liberamente il Vangelo, è scritto: “Mentre tutti erano sbalorditi per le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: ‘Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato in mano agli uomini’. Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento” (9,43). Va notata l’insistenza, quasi un po’ crudele, dell’evangelista, nell’indicare questa incomprensione: non capivano, restava misteriosa, non ne capivano il senso, avevano paura a domandare. È proprio quel blocco in cui le cose ronzano in testa, ma sono talmente al di fuori della propria mentalità che non si osa rompere quell’incanto e quindi rimane la paura. La situazione è paradossale: Gesù parla, annuncia una certa via, i suoi gli vanno vicino senza capire e sono timorosi di interrogarlo. È veramente un

malinteso, di fatto, che si instaura tra Gesù e i suoi: in tante cose si accordano; però c’è un punto, per Gesù fondamentale, che essi invece non accolgono, che cercano di respingere e di soffocare. E Luca è così ardito da riprendere questo tema – nove capitoli dopo – al termine di tutta questa educazione (quindi poco prima dell’ingresso a Gerusalemme e dell’ultimo miracolo), nel miracolo del cieco di Gerico: “Poi prese con sé i Dodici e disse loro: ecco, noi andiamo a Gerusalemme e tutto quello che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’Uomo si compirà. Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e dopo averlo flagellato lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà. E non compresero nulla di tutto questo, quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto” (18,31-34). Per tre volte si insiste di nuovo sul fatto che nove capitoli di vita comune con Gesù non hanno prodotto, su questo punto, alcun risultato. È interessante per noi, perché fa capire che l’educazione dell’evangelizzatore è difficile, urta contro certe resistenze segrete. Finché non le abbiamo ben chiarite e smascherate, le parole ci passano sopra, ci passano dentro, ci riescono fuori per risonanza, ma non sono entrate dentro il cuore. Nell’evangelizzazione dei discepoli di Emmaus, prima dell’incontro con Gesù si vede come le parole erano entrate, ma similmente erano uscite senza “riscaldare” il cuore; di qui la sofferenza, la crisi, la difficoltà dell’evangelizzatore. Ciò che ci si chiede ora, nella fase successiva del Vangelo di Luca, è la risposta a questa domanda: perché tanta difficoltà, come mai veramente si tratta di qualcosa di inaudito, cos’è successo nell’animo dei discepoli perché non potessero capire il mistero di Cristo? Chiediamo, nella preghiera, di essere illuminati su questo punto che è un punto davvero fondamentale e che spiega tante crisi nostre nell’evangelizzazione, tanti momenti di delusione, di scoraggiamento, di blocco, di svogliatezza. Chiediamo al Signore di essere sciolti, non con la forza di un ragionamento e con una volontà che fa stringere i denti, ma con la forza dello Spirito che scioglie il cuore. È la potenza dello Spirito che deve venire invocata come potenza gioiosa e gloriosa di salvezza.

VI. IL CAMMINO DI PIETRO, PRIMO EVANGELIZZATORE Ho pensato di meditare su una figura che riassume, meglio di ogni altra, il

cammino che Gesù fa compiere ai suoi discepoli per renderli evangelizzatori: è la figura di Pietro. Cercheremo insieme di rivivere l’esperienza di Pietro al seguito di Gesù. Sono due i momenti in cui Pietro si confessa peccatore. 5,8: “Al veder questo Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: Signore, allontanati da me che sono un peccatore”; e 22,62: “Uscito fuori, Pietro pianse amaramente”. Ci chiediamo che differenza c’è fra il primo e il secondo momento; quale cammino, quale itinerario spirituale Pietro ha percorso dall’uno all’altro e come mai la verità del secondo momento è molto più grande della verità del primo. Nel primo momento Pietro è chiamato “pescatore di uomini”, ma era ancora abbastanza incapace di comprendere, come vedremo, il mistero del Vangelo. Nel secondo momento Pietro giunge, per così dire, al culmine della sua preparazione di evangelizzatore. Noi vorremmo cogliere questo itinerario tra la chiamata di Pietro e ciò che segue fino alla negazione. Come mai Pietro è giunto a questo punto, per quali tappe è passato? La sua esperienza è importante per tutta la Chiesa, come Gesù stesso afferma: “Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede, e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (22,3132). Quindi, l’esperienza di Pietro, ancora una volta, può essere utile per noi, per confermarci. Ci chiediamo poi perché Pietro ha rinnegato Gesù, come è giunto a tale incomprensione del kérygma da fare peggio dei nazaretani, da respingere Gesù dalla propria vita, in che modo questo rifiuto lo ha, in seguito, abilitato a predicare il Vangelo. Ciascuno è chiamato a rivivere interiormente questi episodi riandando un po’ all’esperienza di Pietro, come i Vangeli ce la presentano. Confessione e incomprensione di Pietro Partiamo da Lc 9,20 ricorrendo al parallelo in Marco, perché Luca ci dà la confessione di Pietro ma non la sconfessione di Pietro quando vuole impedire a Gesù di scegliere la sua strada. In Mc 8,29 Gesù afferma: “E voi chi dite che io sia? Pietro rispose: ‘Tu sei il Cristo’”. Qui Pietro raggiunge il culmine della sua missione, diventa davvero colui che come evangelizzatore, profeta, apostolo, sa riassumere il pensiero degli altri e dargli un’espressione precisa. In questo momento Pietro si sente pieno di gioia, ha dato ragione alla fiducia

che Gesù ha messo in lui. Per questo resta sconcertato quando sente Gesù dire: “Il Figlio dell’Uomo deve molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e dopo tre giorni risuscitare”. Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: “Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,31-33).

Fermiamoci un momento a riflettere sull’impressione che queste parole possono aver suscitato nel cuore di Pietro, riflettiamo sul cambiamento di umore che hanno provocato in lui. Pietro avrà pensato: ma insomma, che cosa ho fatto di male, perché trattarmi in questa maniera? In fondo volevo il suo bene, volevo impedirgli una fine così triste, volevo che fosse onorato come si merita; veramente non lo capisco proprio questo maestro, non gli va bene niente, ha delle idee che vanno al di là di quello che io posso intendere e magari adesso ce l’avrà con me, non mi guarderà più. Pietro vive un momento difficile, sente di capire Gesù, ma non fino in fondo. Questo malinteso è rapidamente sciolto da un nuovo fatto che rimette Pietro in piena euforia: “Circa otto giorni dopo questi discorsi, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare” (9,28). In questo episodio della trasfigurazione, si vede con quanto entusiasmo e con quanto senso di responsabilità Pietro vive la sua chiamata: “Disse a Gesù: Maestro, è bello per noi stare qui, facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia. Egli non sapeva quello che diceva” (9,33). Qui Pietro appare in tutta la sua grande generosità. Infatti non dice: facciamo la tenda anche per me. Pietro pensa a Gesù, a Mosè, a Elia; è l’uomo che, sentendosi investito del Regno di Dio, ne avverte tutta la responsabilità; è pronto a fare, a decidere e a provvedere lui stesso per il Regno. In questo momento si sente esaltato al massimo delle sue forze, delle sue capacità, e possiamo anche pensare che quando il giorno seguente scende dalla montagna (9,37) e vede gli altri apostoli che non sono stati capaci di cacciare il demonio da un ragazzo, probabilmente sente di condividere le parole di Gesù: “O generazione incredula e perversa, fino a quando starò con voi e vi sopporterò?” (9,41). Cioè Pietro pensa: io ho veramente la fede, sto dalla sua parte, questi altri apostoli non hanno ancora capito di che si tratta, non sono all’altezza di quella comprensione della potenza di Gesù che io sto acquistando. Pietro, appunto, sta crescendo nella coscienza delle sue responsabilità, di ciò che grava sulle sue spalle.

Ed ecco, come una nuova doccia fredda, la parola che, dopo tanti altri eventi (tralasciamo quelli intermedi e veniamo subito agli ultimi episodi prima della passione), Gesù gli rivolge: “Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede, e tu, una volta ravveduto, conferma i fratelli. E Pietro gli disse: Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte. Gli rispose: Pietro, io ti dico: non canterà il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi” (22,31-34). Come vive Pietro queste parole, che certamente contengono qualcosa di molto importante per lui: “conferma i fratelli”? Prende lo spunto per pensare che, evidentemente, lui è già molto addentro nel messaggio, lo può possedere e capire fino in fondo: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”. Quando noi sentiamo leggere queste parole diciamo che sono piene di presunzione, ma lo diciamo a partire dagli eventi che conosciamo; perché, in sé, sono parole bellissime, sono parole che ogni cristiano dovrebbe poter ripetere. Che cosa c’è, in esse, di negativo che potrebbe farci capire, anche un po’ psicologicamente come si prepara la caduta di Pietro? Pietro esprime davvero ciò che sente, però, da tutto il contesto, appare chiaro che non ha dato ascolto alla parola di Gesù: “Satana vi ha cercato per vagliarvi come grano. Io ho pregato per te”. Se avesse dato ascolto avrebbe detto: “Signore, ti ringrazio perché hai pregato per me; io mi sento debole, so di potere così poco, stammi vicino”. Invece (e qui si delinea un po’ il problema che già vedevamo nascere a Nazareth) Pietro fa del Vangelo, del compito che gli è dato, un privilegio, una realtà che diviene sua, di cui lui può, ormai, disporre, con forza e non un dono permanente del Signore da chiedere umilmente. Come i nazaretani avrebbero voluto disporre della potenza di Gesù a loro servizio, e si ribellano quando il maestro fa capire che non ci sono limiti per la potenza di Dio e che Nazareth non necessariamente è l’unico luogo designato per i misteri di salvezza, così Pietro, gradualmente, compie una certa appropriazione del compito di evangelizzatore: è suo, appartiene a lui, gli dà certi privilegi, certa forza, certo coraggio; proprio perché è suo, è pronto a prenderne su di sé anche le conseguenze. Sottilmente si prepara per la caduta. Il Vangelo infatti è precisamente il dono gratuito di Dio, è la salvezza che Dio gratuitamente concede al peccatore e, fino a che noi lo riceviamo con animo grato, con riconoscenza, con umiltà, siamo nella posizione giusta; appena però cominciamo ad

appropriarcene, a gestirlo in proprio, arriviamo a capovolgere totalmente la situazione. Allora diventiamo noi i padroni del Vangelo, i padroni della Chiesa, i padroni delle situazioni e non siamo più persone che ricevono il dono e lo trasmettono, ma siamo persone che pretendono di usarlo in proprio. Lo sbaglio nel cammino di Pietro è sottile: già da quando sulla montagna voleva disporre lui le tende per tutti e gli pareva di dover prendere in mano la situazione in qualità di maggiordomo del Regno, credendosi capace di manovrare i misteri di Dio. Proprio per questo viene riservata a lui la lezione della più umiliante debolezza dell’uomo e dell’evangelizzatore, che è l’incapacità di far fronte alle situazioni limite. Ma proseguiamo la lettura di quelle pagine così istruttive nella loro psicologia: Gesù poi disse: “Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?” Risposero: “Nulla”. Ed egli soggiunse: “Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Poiché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: ‘E fu annoverato tra i malfattori’. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine”. Essi dissero: ‘Signore, ecco qui due spade’. Ma egli rispose: ‘Basta!’” (22,35-38).

Certamente dietro ai Dodici c’è, ancora una volta, Pietro, che è sempre preoccupato di salvare la situazione; egli, non avendo inteso bene la parola di Gesù, afferma: “Con la spada ci sarò io a difenderti, lascia fare a me, fidati, agirò in maniera che i tuoi nemici non trionfino su di te”. Pietro non è un codardo, non è un pauroso, non agisce così perché ha paura lui stesso della croce, è davvero sincero. Il suo sbaglio sta nel volere giocare lui la prima parte. In un certo senso, approfondendo teologicamente questa frase, potremmo dire che è lui a voler salvare Gesù, sarà lui il salvatore del Signore. La crisi di Pietro A questo punto troviamo l’episodio nell’orto degli ulivi: Gesù è pieno di angoscia, suda con gocce di sangue e non riesce ad avere la compagnia di nessuno dei discepoli, neppure di Pietro. Pietro non riesce a sopportare la vista di Gesù debole e in lui comincia a crollare il mito del maestro: lo conosceva come il Signore potente, vittorioso, quello che sempre riesce, che sa trovare le parole adatte a ogni situazione, quello che sconfigge con il ragionamento pronto gli avversari capziosi. Qui, per la prima volta, Pietro vede Gesù sopraffatto dalla debolezza e gli

nasce in cuore un’immensa inquietudine: come è possibile che Dio sia con quest’uomo, se quest’uomo ha paura, se quest’uomo mostra tanta fragilità? Pietro era stato educato dall’Antico Testamento a vedere il Dio grande, il Dio potente: Jahweh che vince le guerre, che sconfigge i nemici. Già stava trasferendo in Gesù tutta la potenza di Jahweh, ma adesso che vede questa debolezza, cosa può fare se non chiudere gli occhi e non pensarci? È il gesto di chi dice: non voglio sapere, non voglio vedere, non riesco a capire. La debolezza di Gesù che si sta manifestando, fa interiormente crollare Pietro, perché è del tutto contraria alla sua idea del Regno di Dio, alla sua mentalità di un Regno sempre vittorioso che gli aveva fatto dire, al momento della prima predizione della passione: “Signore, no, questo non ti deve capitare, non avverrà mai, in te è la potenza di Jahweh”. Ora dubita che Dio sia con quest’uomo, pensa che Dio lo stia abbandonando e ne è sconvolto. Viene l’arresto di Gesù. Giuda, le guardie, il bacio del tradimento. Cosa fa Pietro in questo momento? Fa appello a tutte le sue energie: “Signore, dobbiamo colpire con la spada? E uno di loro – Luca non lo nomina, ma lo fanno gli altri evangelisti – colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro” (22,49-50). Pietro torna a essere veramente l’uomo eroico che vuole morire per il maestro, vuole buttarsi nella mischia, vincere a ogni costo, forse morire, pur di salvarlo. Giunge, per così dire, a quello che crede essere l’acme della sua generosità: è il Vangelo che mi chiama a questo, io sono chiamato a dare la vita, dunque devo darla. Immaginiamoci il crollo interiore, ormai totale, che avviene in lui quando Gesù interviene: “Lasciate, basta così!” E toccandogli l’orecchio lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che gli erano venuti incontro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: “Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre” (22,51-53). Dunque Gesù stesso lascia il corso all’impero delle tenebre. Pietro si accorge che è tutto capovolto quello che aveva pensato; voleva combattere con il maestro per il regno della luce e il maestro è là inerme, accetta che l’impero delle tenebre prenda potere su di lui. La sua idea di Dio si frantuma. Dio non è più potenza, non è più bontà, non è più giustizia, non interviene a salvare Gesù. Chi è, allora, questo maestro in cui abbiamo creduto? E Pietro cade in una tremenda confusione interiore che ci fa capire benissimo tutti i suoi rinnegamenti; se li leggiamo così, come ci sono proposti

dal Vangelo di Luca, vediamo con quanta finezza viene alla luce la situazione psicologica di Pietro: non sa più neanche lui che cosa voglia. Pietro segue il maestro ma da lontano. Lo segue perché lo ama; da lontano perché non riesce più a pronunciarsi apertamente per lui, perché non lo capisce: insomma che cosa vuole? Se vuole un atto di coraggio siamo pronti, se vuole qualche altra cosa ce lo dica, si faccia, almeno, capire! Ed ecco la prima domanda: “Anche questo era con lui. Ma egli negò dicendo: ‘Donna, non lo conosco’”. Notate la finezza, forse casuale, forse voluta di questa frase: “con lui”. È la frase che Pietro aveva detto poco prima: “Con te, Signore, sono pronto ad andare in prigione e alla morte”. Adesso, a questo “con lui” non sa più reagire e dice: “Non lo conosco”. In realtà, la negazione “non lo conosco” ha una sua verità nella mente di Pietro, perché Gesù non è più quello che lui credeva, cioè un leader, un capo, un vincitore, un uomo che sa superare le situazioni avverse. Non conosce più, non capisce più quell’uomo abbandonato al potere dei nemici, non sa più cosa voglia il Gesù che è uscito fuori completamente dagli schemi mentali precedenti. Pietro non riesce davvero più a raggiungerlo. Quando gli viene rivolta la seconda domanda: “Anche tu sei di loro!”, Pietro nega anche questo: “No, non lo sono!” Penso che nella risposta ci sia, in fondo, un po’ di disprezzo: loro sono fuggiti, io, almeno, volevo far qualcosa per lui, volevo dare la vita, io l’avrei data se me l’avesse permesso. Non sono né di coloro che, vigliaccamente, hanno avuto paura, e nemmeno sono con lui perché non lo riconosco più. Dice il testo: “Passata circa un’ora”. Possiamo immaginare il dramma di identità che Pietro vive in quell’ora: chi sono io, cosa voglio, cosa è stata la mia vita, cosa mi è venuto in mente di seguire quest’uomo, chi me l’ha fatto fare; eppure io gli credevo, gli voglio bene, non doveva tradirmi in questa maniera. Tutto il rivolgimento di un uomo che ha seguito generosamente una via e, a un certo momento, non capisce più il disegno di Dio su di lui. Che cosa vuole Dio da me, adesso? Prima potevo dirlo, fino a poche ore fa ero pronto a morire con lui, adesso non so più cosa Dio vuole. È senza dubbio un’ora terribile per Pietro. E, dopo quest’ora, “un altro insisteva: In verità anche questo era con lui; è anche lui un galileo. Ma Pietro disse: ‘O uomo, non so quello che dici’”. Non so se è a caso, o se è voluto dall’evangelista che la frase: “Non so quello che dici” è la stessa che, sul monte della trasfigurazione era annotata: “Non sapeva quello che diceva”. Allora credeva di avere in mano lui le chiavi del Regno, di poterne disporre da padrone, adesso è ridotto a dire: “Non so

quello che dici” di fronte a una domanda, così evidente, che lo interroga addirittura sulla sua identità geografica e culturale: se è o non è un galileo. La prova nella quale Gesù ha permesso che Pietro passasse è una delle prove più terribili per cui può passare l’uomo quando viene a dubitare di tutto ciò che è stata la sua educazione religiosa, la sua formazione: è questo quel Dio a cui ho creduto? È veramente questo il volere di Dio su di me, oppure ho sbagliato tutto? Se Pietro è passato per questa situazione, c’è passato per tutta la Chiesa, c’è passato per tutti noi, c’è passato per confermare i fratelli; quindi, è una prova che egli ha vissuto come capo della Chiesa, come primo degli evangelizzatori, sapendo che davvero non è possibile essere evangelizzatori se non ci lasciamo talmente sconvolgere dal disegno di Dio da accettare che sia veramente il suo disegno e non il nostro, il suo Vangelo e non il nostro, la sua salvezza per noi e non la nostra. In fondo, il dilemma di Pietro si potrebbe esprimere molto semplicemente così: Pietro voleva salvare Gesù, ma in realtà era Gesù che doveva salvare Pietro e questi doveva giungere alla convinzione che era lui salvato, era lui perdonato da Gesù, era lui il primo depositario del perdono e della misericordia evangelica. Ciò gli costava moltissimo, perché era molto geloso della sua fedeltà, della sua capacità di essere onesto e leale. Invece il Signore gli fa capire che anche lui può arrivare a un momento di smarrimento totale, e quindi, se vuole evangelizzare, deve avere, per prima cosa, una comprensione senza limiti della misericordia salvifica di Dio e una capacità senza limiti di compassione per i suoi fratelli nella Chiesa. A questo punto, il testo continua: “In quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò”. In questo gallo che canta c’è la denuncia del suo peccato: ecco dove sei giunto, tu che credevi di possedere il Regno, il Vangelo, di essere il difensore del maestro. Questa denuncia fredda, tagliente e accusatrice sarebbe terribile se non ci fosse, improvviso, lo sguardo di Gesù: “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: ‘Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte’. E uscito fuori, pianse amaramente”. L’esperienza di lasciarsi amare Cerchiamo di capire la differenza che c’è tra questo momento e quell’altro in cui pure Pietro aveva detto: “Signore, allontanati da me

peccatore”. Le parole sono, sostanzialmente, le stesse, ma quale diversità di esperienza! Sulla barca Pietro era rimasto come un po’ sorpreso di fronte alla potenza di Dio, che l’aveva gratificato di quella grande pesca; conscio della differenza tra la potenza di Dio e la sua povertà, in fondo, non era convinto di aver bisogno anche lui della misericordia di Dio. Poteva diventare, semmai, un aiutante del perdono di Dio, una persona che poteva seguire Gesù, servire altri: non accettava di essere lui stesso l’oggetto primo di questa misericordia, di essere per primo bisognoso della parola di salvezza. Ecco invece che il Signore lo porta, quasi inesorabilmente, fino al punto in cui Pietro riconosce davvero chi è, e nel suo pianto ci sono parole molto semplici: “Signore, sono anch’io un pover’uomo come tutti, Signore non credevo di arrivare a questo, Signore abbi misericordia di me, Signore tu vai a morire per me che ti ho tradito, tu dai la tua vita per me che non ti sono stato fedele”. Qui, finalmente, Pietro coglie che cosa è il Vangelo come salvezza per l’uomo peccatore, coglie il vero essere di Dio che non è uno che ci stimola a far meglio, non è un riformatore morale dell’umanità, ma è, prima di tutto, l’amore offerto senza limiti, senza confini, il puro amore gratuito di misericordia che non condanna, non accusa, non rimprovera. Lo sguardo di Gesù non è accusatore, né ammonitore; è semplicemente uno sguardo di misericordia e di amore. Pietro, ti amo anche così, io sapevo che tu eri così e ti amavo sapendo che tu eri così. Potremmo dire, concludendo: Pietro fa l’esperienza, che forse è la più facile e la più difficile della vita, di lasciarsi amare. Finora era sempre stato orgoglioso di essere lui il primo a fare qualcosa e adesso capisce che, invece, di fronte a Dio non può fare altro che lasciarsi amare, lasciarsi salvare, lasciarsi perdonare. È un po’ ciò a cui accenna, in altro modo, il Vangelo di Giovanni nell’episodio della lavanda dei piedi: “Tu non mi laverai i piedi; io li laverò a te, non tu a me”. Com’è difficile dover dire grazie a qualcuno! Il Vangelo è, appunto, dire grazie a Dio per tutto, niente escluso, sapendoci accolti potentemente dalla sua misericordia e dalla sua salvezza. Pietro giunge a sue spese a questa intuizione che gli permetterà, poi, di essere il primo evangelizzatore, il confermatore dei fratelli, il primo proclamatore della parola. Voleva morire per Gesù, ora vede che, di fatto, è Gesù che vuole morire per lui e quella croce che avrebbe voluto allontanare dal Signore è il segno dell’amore, della salvezza, della disponibilità di Dio per lui.

Qui si compie quel rovesciamento religioso, così difficile per ogni uomo che, in fondo, crede sempre che Dio esiga qualcosa, che sia addosso per schiacciarci o per rimproverarci e non riesce a cogliere l’immagine evangelica del Dio che serve, del Dio che mette la sua vita a nostra disposizione, immagine che l’Eucaristia ci rimette ogni giorno nelle mani. “Io sono tra voi come uno che serve”; “Ecco il mio Corpo dato per voi”, prima di chiedere qualcosa da voi, vi chiedo semplicemente che vi lasciate amare fino in fondo. Così Pietro è giunto alla genuina esperienza del Vangelo, cogliendo la potenza dell’amore di Dio che avvolge tutta intera la vita dell’uomo. Chiediamo anche noi, insieme con Pietro, che il Signore ci faccia cogliere la sua misericordia che si esprime in tantissimi modi nella vita degli uomini, in maniere estremamente diverse. È stato detto, giustamente, che santa Teresa di Gesù Bambino, nella sua autobiografia, ha colto perfettamente questo spirito evangelico; pur senza essere passata per nessuna esperienza di peccato e di tradimento, ha capito perfettamente che la sostanza del Vangelo è che la misericordia di Dio ci ama, ci previene, ci circonda di un amore senza limiti e, quindi, rende l’uomo sicuro, gli permette di buttarsi in quel cammino di fiducia e coraggio dal quale nasce tutta l’esperienza cristiana. Siamo, perciò, alle radici della comprensione dell’uomo redento di fronte alla parola evangelica di salvezza che svela l’uomo a se stesso. Chiediamo di potere comprendere e predicare, con la vita e con le parole, questa buona notizia di salvezza.

VII. GESÙ, EVANGELIZZATORE NELLA PASSIONE Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede (Fil 3,79).

È questo il punto a cui è arrivato Pietro, nel momento in cui Gesù lo guarda. Sa che non deve più basarsi sulla sua capacità di seguire il maestro ed è attraverso la sua fiducia in Gesù Salvatore, che egli diventa salvato e capace di seguirlo. Il testo continua:

Questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti (Fil 3,10-11).

A partire da questo brano, possiamo pregare così: Ti ringrazio, Signore, perché, rivelando a Pietro la sua debolezza gli hai rivelato la tua bontà, la tua misericordia e gli hai offerto la tua stessa potenza. Ti ringrazio, Signore, perché riveli anche a noi questa tua stessa potenza. Concedici di partecipare intimamente alle tue sofferenze, per poterti conoscere a fondo nella tua forza di evangelizzatore, di salvatore, per poter partecipare alla potenza della tua risurrezione. Signore, noi vorremmo sempre sfuggire a questo cammino, vorremmo giungere subito alla potenza della risurrezione senza la comunione alla tua morte; tu, invece, ci educhi, come hai fatto con Pietro, a passare attraverso questa comunione alle tue sofferenze. Fa’ che noi passiamo attraverso l’esperienza della croce nel modo giusto; cioè fa’ che abbiamo ad accoglierla come un Vangelo, come una buona notizia, come la potenza di Dio per la nostra salvezza, come qualcosa che ci conforta, che ci rende chiaro il senso della vita, che ci dà realismo, verità, coraggio; non come qualcosa che ci opprime, ci schiaccia e ci spaventa. Madre del Signore, tu che hai seguito Gesù nella sua passione e hai dolorosamente partecipato a tutte le sue prove, fa’ che anche noi sappiamo parteciparvi con fede in verità e in semplicità, con apertura di cuore per unirci con te alla gioia del Risorto. Concedici questo, o Padre, Tu che ci hai mandato il tuo Gesù, morto e risorto, e ora ci doni la pienezza dello Spirito, nella gloria del Cristo che vive qui, in mezzo a noi e in tutta la Chiesa, nelle nostre chiese, in tutte le regioni del mondo e in tutti gli uomini. Ora e sempre, per tutti i secoli de secoli. Amen. Ci siamo così introdotti nel tema che propongo per la meditazione. Dallo sguardo di Gesù, Pietro è stato messo, d’un colpo, nella situazione giusta, ha capito veramente chi è lui e chi è Gesù, qual è l’atteggiamento vero da prendere di fronte ai misteri di salvezza. Però Gesù deve continuare ancora la sua opera di evangelizzatore, per Pietro e per tutti noi. E la continua nella sua

passione, dove si mostra come il grande evangelizzatore del Padre. Non per niente san Giovanni, riferendosi alla passione, dice: “Abbiamo visto la gloria di Dio” (Gv 1,14). Un tempo era più frequente la meditazione sulla passione (pensiamo alla Via Crucis tanto diffusa tra la gente); si può riflettere sulle sofferenze del Signore, sulla moltitudine dei suoi dolori, si può porre l’accento su Gesù che soffre per l’ingiustizia del mondo e del sistema che lo schiaccia, realtà divenute emblematiche della situazione ingiusta in cui il povero spesso viene a trovarsi. Noi oggi ci soffermeremo soprattutto su Gesù che nella passione appare come evangelizzatore e redentore. Viene spontaneo pregare con gratitudine dicendo: Ti ringrazio, o Signore, perché mi hai amato fino a questo punto, perché hai fatto questo per me. Si tratta di contemplare ciò che Gesù, evangelizzatore e redentore fa per noi, non con l’intento di accusarci perché siamo pigri, ma con l’intento di rianimarci, di riaprirci il cuore perché il maestro ci ama, perché ci capisce, perché ci è vicino. Di fatto, questa meditazione della passione assume, nella nostra vita, diverse colorazioni a seconda delle nostre esperienze: quanto più entriamo in esperienze difficili, nostre o altrui – di umiliazione, di solitudine, di malattia grave, di situazioni limite – tanto più profondamente comprendiamo che, veramente, la rivelazione di Dio nel Cristo sofferente è una delle chiavi dell’esistenza umana, senza la quale in tante situazioni non sapremmo veramente cosa dire, né a noi né ad altri. Per contemplare Gesù, evangelizzatore del Padre e redentore nostro, leggiamo i capitoli 22 e 23 di Luca. È vero che, nel racconto della passione i quattro Vangeli si avvicinano molto fra loro: infatti, essendo il racconto più antico e più tradizionale, si permettono meno varianti. Tuttavia Luca, pur seguendo lo schema tradizionale, presenta alcune omissioni tipiche, alcune sottolineature che lo caratterizzano e fanno sì che il suo racconto metta al centro Gesù testimone fedele, maestro, evangelizzatore. Per esempio, è proprio di Luca lo sguardo a Pietro, l’invito alle donne, a Gerusalemme, il perdono ai crocifissori, l’accoglienza al malfattore pentito. Sono tutti episodi che mostrano Gesù evangelizzatore per eccellenza proprio nel momento più drammatico della sua vita. Fermandoci un momento in preghiera, viviamo a contatto di ciascuna scena e chiediamo quella partecipazione alla sofferenza di Cristo di cui parla

Paolo in Fil 3,10-11. Come esempio, esamineremo assieme tre passi della passione. Il primo è quello di Gesù umiliato, e si riferisce soprattutto agli insulti che Gesù riceve nel giudizio, durante l’udienza in tribunale. Il secondo passo è quello di Gesù tentato. Infine, la scena per eccellenza, la più bella di tutta la passione, è quella di Gesù che accoglie il ladro pentito; in questo racconto appare nella sua pienezza Gesù evangelizzatore. Gesù ha veramente mostrato, a un uomo disgraziato e perduto, la salvezza di Dio, raggiungendo così il culmine della sua missione. Gesù umiliato Le umiliazioni di Gesù: “Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano, lo percuotevano, lo bendavano e gli dicevano: Indovina chi ti ha colpito. E molti altri insulti dicevano contro di lui” (22,63-65). Purtroppo tanti fatti di persecuzione nella Chiesa e di tortura nel mondo hanno reso questa scena di tremenda attualità: basta seguire qualcosa di quel che si racconta, sempre con grande pudore, da alcuni che hanno vissuto sulla loro pelle queste esperienze. Fermiamoci un momento a meditare su queste persecuzioni proprio per cercare di capire come Gesù le ha vissute. Pietro dà un’interpretazione di ciò che avviene a Gesù nella sua prima lettera: “Egli non commise peccato, non si trovò inganno sulla sua bocca. Oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia” (1Pt 2,22-23). Naturalmente, sullo sfondo di questa citazione c’è Is 53, il canto del servo di Jahweh, che va riletto in questo contesto: l’uomo muto di fronte a colui che lo tortura e lo uccide. Riflettiamo sul significato umano di questa scena. Chi è che offende così Gesù? Sono delle guardie, dei servi, cioè persone a loro volta umiliate e offese; quindi persone abituate anch’esse a ricevere umiliazioni e offese da parte dei loro superiori, abituate a riconoscere che il diritto è del più forte, di chi se lo prende. Di solito gli umiliati sono loro, loro a essere disprezzati, comandati alle corvée più faticose, più inutili, senza potersi ribellare. Ma questa volta si trovano davanti qualcuno più debole di loro, più fragile di loro. Ecco come viene fuori la miseria della condizione umana nella quale gli

uomini, l’uno contro l’altro, scatenano i loro istinti: questi uomini sono stati tante volte oppressi, forse percossi senza ragione, e adesso possono sfogarsi contro qualcuno più debole di loro. La loro vita è amara, pesante, senza nessuna apertura, senza nessuna gioia familiare; essi si esprimono per quel che sono. Non è malvagità, cattiveria pura: è proprio la sofferenza dell’uomo, che vive situazioni impossibili, e qui si sfoga contro Gesù. Cosa fanno contro Gesù? Certamente lo provocano e lo colpiscono in ciò che gli è più caro, nella sua qualità di profeta, lui “Parola del Padre”: “Indovina chi ti ha colpito!”, lo insultano come uomo che può conoscere i cuori, come uomo che può annunciare una parola vera. E che cosa pensano mentre fanno questo? Forse con stupore si chiedono: ma perché quest’uomo non reagisce, che cosa c’è in lui, che non si scuote contro di noi? Non è il profeta che credevamo. Forse, sono anche delusi perché si sarebbero aspettati una reazione violenta e tutto questo li sconvolge e li confonde. Gesù come reagisce? Mentre Luca ci fa capire che Gesù risponde col silenzio, Giovanni ci fa capire che Gesù risponde un po’ col silenzio, e un po’ con qualche parola di chiarimento buono: “Se ti ho fatto qualcosa di male dimmelo, se no perché mi percuoti?” (Gv 18,23). Ecco Gesù evangelizzatore che, nello stesso momento in cui viene così maltrattato, si rivolge all’umanità più profonda di chi l’ha colpito, cercando di farlo ragionare: perché fai questo? Perché sei scontento dentro di te, sei interiormente umiliato, ti senti oppresso, cerca di capire quali sono i desideri più profondi dentro di te. Percuotimi pure, se vuoi, ma chiarisci a te stesso i tuoi desideri, chiarisci a te stesso che cosa vuoi essere come uomo. Questo dice Gesù con la sua parola e, ancora di più, col suo silenzio. Certamente, nel suo cuore scusa questi uomini, li capisce nella loro rozzezza, nella loro brutalità, capisce che, in fondo, ben poco di ciò che fanno è colpa loro e si offre per loro. Si offre per loro come salvezza, come Parola mite del Padre. A noi riesce molto difficile comprendere come mai Dio si riveli in una tale debolezza, perché Gesù lasci che questa malvagità si sfoghi e pensi di poterla risanare con la pazienza più che con il rimprovero e il castigo. Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere davvero questo mistero della debolezza di Dio manifestata in Gesù, questo mistero della debolezza della Chiesa inerme e perseguitata da cui, di fatto, nasce uno splendore di Chiesa incredibile. E lo vediamo intorno a noi, vediamo che da popolazioni come quelle della Polonia6 vengono lezioni certamente meravigliose di

vitalità cristiana, di fede, di impegno; è una Chiesa che, certamente, ha usato anche i mezzi coraggiosi della difesa, della parola, della resistenza, ma sempre mezzi inermi, mezzi deboli, mai l’uso delle armi, mai la contestazione violenta, sempre la serenità, la costanza di fede, il non vergognarsi della croce di Cristo e della sua umiliazione. Soltanto una considerazione di storia della salvezza più ampia ci permette di capire che dalla debolezza nasce una forza immensa, che c’è una testimonianza in cui l’umanità inerme e indifesa grida, con la forza della resistenza, in favore della giustizia. Tutto questo noi lo accogliamo come Parola di Dio, che cerca di illuminarci sul fatto che la potenza del Signore non si mostra soltanto nell’agire, ma anche nel patire, e nel patire con quella umiltà, semplicità, mansuetudine, nella quale però risalta una profonda dignità. Quando guardiamo questa scena ci chiediamo chi è il vincitore, chi rappresenta la vera dignità dell’uomo. Certamente è Gesù a rappresentare il più profondo essere dell’uomo giusto e vero, a capire e superare, con la sua mansuetudine, coloro che si scagliano contro di lui: li confonde, li spaventa con il suo modo di agire così inconsueto. Gesù tentato Le tentazioni di Gesù sulla croce: Il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: “Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio e suo eletto”. Anche i soldati lo schernivano e gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: “Se tu sei il re dei giudei salva te stesso”. C’era anche una scritta sopra il suo capo: Questo è il re dei giudei. Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi” (23,35-37).

Mi sembra di notare un’analogia con le prime tentazioni di Gesù nel deserto. “Se tu sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane; se sei il Figlio di Dio buttati”. Viene qui proposto a Gesù l’uso della sua potenza messianica in proprio favore; dietro a questa proposta, c’è tutta l’idea, che il Vecchio Testamento aveva coltivato, della potenza di Dio: “Se è il Cristo di Dio, salvi se stesso; se è il re dei giudei, scenda”. Cioè: se veramente egli rappresenta l’immagine di Dio che noi abbiamo in mente, di un Dio potente, di un Dio dominatore, lo faccia vedere. Gesù si trova in un momento drammatico. Se ascoltasse i suoi

interlocutori e scendesse dalla croce, tutti gli crederebbero. Ma se scende dalla croce, come mostrerà l’immagine di un Dio che accetta la morte per amore dell’uomo? Darà, è vero, l’immagine di un Dio potente, un Dio del successo, un Dio di cui ci si può servire per nutrire le proprie ambizioni, però non mostrerà più l’immagine, inedita in tutta la storia delle religioni – e che l’uomo da solo non riesce mai a immaginare –, del Dio che serve, che dona la sua vita per l’uomo, che lo ama fino a spogliarsi di tutto per suo amore, e ad accettare l’annientamento di sé. È proprio questa idea di un Dio dominatore, esigente, impaziente, che vuole dall’uomo il proprio vantaggio, che Gesù è venuto a negare. Il Vangelo porta l’immagine di un Dio che è misericordia, che si svuota di sé per amore dell’uomo. A noi, un Dio così, appare sempre un po’ incredibile e sorge un moto di diffidenza, perché è difficile per l’uomo accettarlo: un po’ come per Pietro che non voleva accettare che il maestro morisse per lui, che gli lavasse i piedi. Eppure, è questa immagine rivoluzionaria dell’amore di Dio, così incredibile, che Gesù porta fino in fondo, sul suo corpo, sulla sua carne, sulla croce. Ed è quella da cui gli altri tentano di distoglierlo: salva te stesso, serviti della tua potenza, mostra la tua capacità di dominare. Gesù invece, è venuto a mostrare la capacità di servire. Non contempleremo mai abbastanza questa scena. Qui siamo proprio nel cuore del Vangelo e, grazie a Dio, abbiamo modo di contemplarla sempre, perché questa è l’Eucaristia, il Cristo fatto pane, fatto nutrimento: questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue dato per voi. Fate questo in memoria di me. Naturalmente ne segue tutta una diversa concezione della vita: anche noi dobbiamo essere persone che sanno spogliarsi, dimenticarsi per gli altri. Forse resistiamo sempre un po’ a questo concetto di Dio proprio perché, se lo accettiamo, deve cambiare il nostro modo di essere e di vivere. Dalla contemplazione del Crocifisso nasce l’immagine di Chiesa a servizio non di se stessa, ma dell’uomo, di tutte le sue necessità, in particolare delle più profonde, che sono il bisogno di verità, di amore, di giustizia, di fede, di speranza. Dalla contemplazione del Crocifisso nasce la rivelazione dell’uomo che trova se stesso nel mettersi a disposizione degli altri, nell’amare i fratelli. La parola amore riassume tutto questo, anche se spesso viene intesa in tanti modi facili; abbiamo, quindi, bisogno di questa contemplazione del

Cristo che ci mostra come Dio ama, come Gesù ama, fino a che punto si mette a servizio, fino a che punto rinuncia ai suoi privilegi di potenza (“Pur avendo in sé la potenza di Dio umiliò se stesso”: Fil 2,5 ss.). Dobbiamo fare, della nostra vita, un atto reale di servizio e metterci in stato di disponibilità. Disponibilità che arriva, nella Chiesa, fino alla persecuzione e al martirio: la Chiesa fa risplendere la sua disponibilità quando, di fronte alla contestazione, propone umilmente la parola, e accetta, a un certo punto, anche il silenzio, pur di continuare la sua testimonianza della verità, compiendo così il suo supremo servizio. Soltanto lo Spirito Santo, entrando in noi come dono del Risorto, ci permetterà, giorno per giorno, di integrare veramente nella nostra esistenza questo Vangelo, questo modo di essere di Dio, questa realtà di Dio in Gesù e questa realtà di Gesù in noi. Tuttavia, la contemplazione del Signore crocifisso è estremamente illuminante per noi e per tutto ciò che la Chiesa è per il mondo. Gesù evangelizzatore L’ultima scena che segue immediatamente è quella in cui Gesù si mostra evangelizzatore pieno e ottiene il primo frutto della sua vita e morte evangelizzatrice. Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi”. Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio benché dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso” (23,39-43).

Riflettiamo un momento su queste parole, che soltanto Luca riporta, e che sono una finissima analisi di ciò che l’uomo convertito vive gradualmente in sé. Intanto, pensiamo chi poteva essere quest’uomo: un malfattore, cioè uno che aveva vissuto la legge della violenza, la legge del più forte, e, a un certo punto, aveva dovuto soccombere ad altri più forti di lui. Ora si trova in una situazione nella quale poteva provare soprattutto disgusto, rabbia, ira contro la società; una situazione certamente di estrema confusione e disagio. Invece, contemplando Gesù che soffre con umiltà e mansuetudine, si apre gradualmente alla chiarezza che esiste un mondo

nuovo di valori e di rapporti e che non c’è soltanto la violenza, non c’è soltanto la legge del più forte. Scopre un’umanità che egli non aveva mai conosciuto, che non sospettava nemmeno potesse esistere e che è lì, vicino a lui: scopre un nuovo tipo di uomo che non gioca sui rapporti di forza, che non si avvale della propria potenza, almeno creduta o che gli viene attribuita, e che vive, con abbandono, la sua sofferenza. È davvero qualcosa di incredibile, di inaudito, che lo porta, gradualmente, a capire un po’ la situazione di quel nazareno che ha accettato di mettersi dalla parte dell’ingiustizia: “Noi giustamente riceviamo il giusto per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. Comincia a vedere chiaramente i rapporti delle cose, a giudicare bene sulle persone, e quel fondo di onestà, che certamente c’era in lui, affiora a poco a poco e si manifesta con libertà; c’è differenza tra noi e lui, siamo diversi, egli rappresenta un diverso tipo di umanità. Finora è riemersa soltanto la sua onestà umana; a un certo punto, però, guardando come soffre Gesù e il suo modo di abbandonarsi, nella sofferenza, nelle mani del Padre, compie il passo decisivo della fiducia ed esce in questa preghiera: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Notiamo che per la prima volta nel Vangelo, Gesù è chiamato per nome e con tale familiarità (gli apostoli lo chiamano Signore o maestro). Qui, la comunione nella sofferenza, ha portato rapidamente a quell’amicizia che è capacità di intendersi fino in fondo: sente in Gesù un amico, si sente capito perfettamente e sa di potersi rivolgere con l’appellativo più immediato: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Esprime, in tal modo, la sua amicizia, la sua fede, il suo abbandono alla potenza di Dio che opera in Gesù: è un uomo che ha capito perfettamente il Vangelo, ha capito che in quel crocifisso si manifesta la potenza di Dio, si rivela un modo di vivere diverso da quello che lui ha vissuto, un modo di vivere fraterno che lui stesso, fin da questo momento, può mettere in atto con una parola di amicizia. Se l’amicizia esiste ci si può fidare l’uno dell’altro e se quest’amico è potente mi può aiutare, posso buttarmi in lui. Ecco un uomo che ha rifatto il tessuto di relazioni della sua vita in pochi istanti. È passato da un’esistenza nella quale tutto era sospetto, violenza, farsi del male l’uno all’altro, a una situazione nella quale c’è amicizia, fedeltà, fiducia, abbandono reciproco e chiarezza. Dietro queste cose, c’è Dio che, se si manifesta, non potrà che manifestarsi così, in questo nuovo tipo di umanità amichevole, fiduciosa, dignitosa nella sofferenza, capace di rapporti nuovi.

E allora ecco la risposta di Gesù: “In verità ti dico, oggi sarai con me in Paradiso”. È la prima persona che Gesù accoglie nella sua salvezza, il primo evangelizzato. Evangelizzato senza la risurrezione, evangelizzato dalla gloria di Dio che risplende nel modo con cui Gesù affronta la sua vicenda di sofferenza e di ingiustizia. Sono cose che noi riusciamo a capire appena appena, che facciamo fatica a esprimere a parole, perché comprendiamo che – come per quelle realtà incarnate di vita nelle quali si comunicano i significati più profondi dell’esistenza – non è tanto l’analisi delle parole, ma piuttosto la partecipazione dall’interno a ciò che Gesù vive, che ci permette di penetrare nella sua realtà. Chiediamo al Signore di potere cogliere queste lezioni di evangelizzazione e di forza che ci vengono dalla passione di Gesù. Sono realtà che soprattutto la preghiera ci rivela, e delle quali la Chiesa si nutre continuamente perché sono esse che la rigenerano nel suo vero essere di Chiesa a servizio, di Chiesa disponibile, di Chiesa capace di creare una nuova forma di uomo, un uomo che rappresenti, in mezzo alla storia di crudeltà e di ingiustizia, la gloria e la potenza di Dio.

VIII. LA SALVEZZA CHE GESÙ PROPONE DALLA CROCE Ti chiediamo, Signore, che la nostra preghiera sia partecipazione alla tua nel giardino del Getsemani e sulla croce, a quella di Maria ai piedi della croce, a quella del ladro che si offre a Gesù e vede la sua vita salvata dalla misericordia di Dio. Questa preghiera non è soltanto per noi, è per tutta la Chiesa, per tutti coloro che ci hai affidato e per tutti coloro che faticano a vedere nella loro vita il segno della redenzione. Concedici di essere, per tutti, un aiuto, un sostegno, un momento di luce; concedici di far sentire a tutti – come il ladro sulla croce – che sono amati, capiti, perdonati, e di partecipare a tutti la misteriosa maternità di Maria presso la croce. Te lo chiediamo, Padre, per Gesù Cristo nostro Signore. Amen. Vorrei invitarvi a riflettere, ancora un momento, presso la croce del Signore, per meglio capire la salvezza che Gesù propone, l’immagine di Dio

che ci viene rivelata. Ci fermeremo di nuovo sull’episodio del ladro pentito e poi mediteremo su Maria ai piedi della croce. Significato che Dio attribuisce a ciascuno di noi Luca dà molta importanza all’episodio del ladro pentito e salvato e lo presenta come il culmine dell’attività evangelizzatrice e redentiva di Gesù nella sua passione. Se giudichiamo secondo la nostra maniera umana, ci viene subito spontanea una domanda: è tutto lì? Uno solo! Tanta gente che se ne torna a casa, qualcuno un po’ scosso, ma sostanzialmente senza aver capito il significato di questa scena. Come mai, un tale spreco di sforzo evangelizzatore per ottenere solo questo piccolo risultato? Propongo, allora, di rivedere la scena del ladro salvato, alla luce di un capitolo molto importante di Luca: “Si avvicinarono a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: Costui riceve i peccatori e mangia con loro. Ed egli disse questa parabola…” (15,1-3), e seguono le tre parabole: la pecora perduta, la dramma perduta e il figlio perduto. Tre parabole che vanno lette insieme e sulle quali richiamo la vostra attenzione per indicare come ci permettono di capire il Dio del Vangelo che si rivela nel perdono che Gesù dà al ladro, sulla croce. Intanto notiamo che queste parabole – e non c’era bisogno che lo facessero – insistono tutte sull’uno: una pecora, una dramma, un figlio; nel caso del figlio, è evidente che su due uno è importante; nel caso delle pecore (una su cento), o nel caso della dramma (una su dieci), vediamo che l’importanza che dà la parabola all’uno ci appare spropositata, esagerata. Le parabole di Lc 15 “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova?” (15,4). Noi diremmo: ma perché lasciare le novantanove nel deserto per cercarne una? Per di più il testo non suppone che il pastore le lasci ben custodite! C’è, in questa immagine del pastore, una certa eccessività, quasi un pizzico di follia: se la mette in spalla, tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini perché si rallegrino con lui… Mi pare di avvertire in tutto questo l’importanza che Dio attribuisce all’uno, anche a uno solo, anche al più

piccolo. Tutto ciò non collima affatto, anzi contrasta violentemente con l’immagine pagana di Dio, che pensa sì al mondo, però non perde la testa per uno solo. Le stesse sottolineature valgono per le altre due parabole, quella della donna che spazza attentamente la casa per trovare la moneta, e quella del figlio prodigo, che ritorna alla casa del Padre. Qui entriamo proprio nella rivelazione dell’immagine di Dio, che abbiamo sulla croce, quando Gesù compie la salvezza di un malfattore spregiudicato, disperato, abbandonato da tutti. È il marchio di fabbrica del Dio del Vangelo: uno, uno solo è sufficiente a giustificare tutta la cura, l’attenzione, la gioia di Dio. La gioia è sempre sottolineata: il pastore invita a rallegrarsi con lui e “così ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti”. La donna dice: “Rallegratevi con me”, così vi dico, “c’è gioia davanti agli angeli”. Il padre: “Bisognava far festa e rallegrarsi”. Ecco il senso del Dio del Vangelo. Dio ha in mano tutto, è il Signore di ogni cosa, è il Re che governa cielo e terra ma è capace di perdere la testa per uno solo, non si dà pace, anche per uno solo. A questo corrisponde l’insegnamento che troviamo, più volte, nelle parole di Gesù: “Guai, se uno solo di questi piccoli viene scandalizzato”; “quando l’avete fatto a uno solo di questi l’avete fatto a me” e – notano giustamente gli esegeti – l’insistenza su uno solo è una caratteristica tipica del Vangelo. La gioia di Dio si esprime anche quando una sola persona è stata oggetto della salvezza. Dobbiamo rifletterci molto per il nostro ministero: è vero che noi badiamo a tutti, a tanti, dobbiamo curare una comunità, però soltanto in alcune situazioni privilegiate abbiamo la gioia, la soddisfazione di vedere un frutto pieno di ciò che facciamo. Questa gioia di Gesù esprime la cura piena di Dio per la persona umana, e di fronte al mondo dice il valore della persona, anche di una sola; e allora, se una sola persona vale tanto, molte persone valgono assai di più e nessuna può essere trascurata. Chiediamo al Signore la comprensione della misericordiosa attenzione di Dio, che lui comunica a noi, della quale siamo portatori verso la comunità e che chiaramente differenzia l’impegno cristiano da un impegno politico o di efficienza; questi – in ultima analisi – curano i risultati globali senza troppo badare se l’una o l’altra persona vengono trascurate o non vengono accolte. È vero che questo è solo un aspetto dell’esperienza di Dio: l’esperienza di Dio è, infatti, anche l’esperienza della salvezza di tutti, ma entrare nel mondo

del Dio del Vangelo vuol dire cogliere la possibilità di avere a cuore la salvezza di tutti in modo tale che nessuno venga trascurato, offeso, dimenticato e sia dato pieno valore a ciò che ciascuno rappresenta agli occhi di Dio. Il cammino di Maria Passiamo al secondo momento. C’è una persona che vive in pieno la realtà della redenzione presso la croce, ed è Maria. Essa rappresenta un tesoro immenso per Gesù che la fa depositaria dei suoi doni di salvezza e vede in lei, a nome della Chiesa, la prima risposta umana, piena, alla sua azione di amore senza limiti. Contemplando la Madonna ai piedi della croce, dovremmo cercare di capire cosa è avvenuto in lei in quel momento, in che maniera Dio l’ha educata, gradualmente, fino a permetterle di giungere a quel punto di associazione alla redenzione, che Maria vive presso la croce. Prendendo lo spunto da un brano della Lumen Gentium, dove si dice che “Maria ha camminato nel pellegrinaggio della fede e ha fatto progresso in questo pellegrinaggio”7, possiamo – dall’immagine di Maria presso la croce –, guardare indietro ad alcune tappe della sua esistenza, e così vedere come Dio l’ha preparata. Queste tappe le consideriamo in Luca, innanzitutto al cap. 1,29, quando l’angelo entra da lei e “a queste parole ella rimase turbata”. È il primo impatto di Maria col mondo nuovo di Dio: la parola greca dietaráchthe – rimase turbata – è una parola molto forte e ci stupisce come Luca l’abbia usata in quell’occasione. È la stessa parola che viene usata, per esempio, in Mt 2,3: “tutta Gerusalemme fu turbata con Erode” (Erode si turbò alla notizia dei Magi); oppure in Lc 1,12: “Zaccaria fu sconvolto interiormente” dall’apparizione dell’angelo; o ancora, in Mt 14,26 dove leggiamo che, quando Gesù cammina sulle acque, i discepoli sono sconvolti. Dunque, c’è stato anche per Maria questo iniziale turbamento: dove mi vuol portare Dio, che cosa succederà? Maria si era certamente abituata a un certo tipo di vita di preghiera, di pietà, di impegno, di ascolto della Bibbia, ma ora sente che Dio la trasporta su un piano diverso e che le è necessario lasciare – come per Abramo – le sicurezze precedenti, e abbandonarsi a una diversa azione di Dio.

Da qui comincia la sua educazione a quel piano divino che sarà, in parte, secondo le sue attese e, in parte, contro le sue attese. Tutti e due gli aspetti vengono sottolineati nel resto del Vangelo di Luca là dove si parla di Maria. È sottolineata la perfetta consonanza tra Maria e il piano di Dio, sia quando la Madonna risponde all’angelo (1,38) sia quando Elisabetta le dice: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me”. Siamo nella piena sintonia col piano di Dio, siamo nell’entusiasmo, nella gioia per ciò che Dio ha proposto e per ciò che viene vissuto. Maria vive il primo entusiasmo della risposta alla chiamata, sente che tutto va a gonfie vele, come il Signore le aveva fatto intravedere e si dispone, quindi, con grande cuore ad accettare il disegno di Dio su di lei. Il Vangelo, però, fa notare che presto cominciano per Maria quelli che si possono chiamare gli “anni oscuri”. Luca lo sottolinea in varie occasioni, sia quando, nella visita a Gerusalemme, le viene detto che il suo cuore sarà trapassato da una spada, sia quando, alla risposta di Gesù nel tempio, non capisce più cosa stia succedendo: “Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo” (2,48), e l’evangelista aggiunge: “Ma essi non compresero le sue parole”. È interessante notare come questa frase: “Ma essi non compresero le sue parole”, è la frase che ritorna nelle predizioni sulla passione, quando gli apostoli non capiscono le parole di Gesù sulla croce e sulla risurrezione: “Non capivano ciò che veniva detto e questo discorso restava per loro oscuro”. Anche Maria, dunque, entra in questa oscurità, capisce e non capisce il piano di Dio, vi aderisce intimamente, passa al fondo del cuore (è sempre in perfetta adesione di fede, la sua totalità di adesione non subisce incrinature), però deve accettare che è diverso da quello che, come madre, avrebbe potuto immaginare: una madre, evidentemente, desidera, per il figlio, un piano di successo, di riuscita, un certo risultato. Nel cuore di Maria, avviene una graduale espropriazione – ogni madre vuole possedere il proprio figlio, anzi ha la tentazione della possessività, di far sì che realizzi il proprio ideale –. Nella vita pubblica di Gesù, ci sono dei segni chiari attraverso i quali il maestro afferma la libertà del suo disegno di fronte a qualunque, anche ipotetico, desiderio dei suoi genitori su di lui. Quando, ad esempio, vengono i parenti e non li vuole neppure ricevere, o quando, venendo lodato: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato” risponde: “Beati, piuttosto, coloro che ascoltano la Parola di Dio” (11,27-28).

La beatitudine di Maria, quindi, è quella di conformarsi in maniera totale al piano divino. Non possiamo, certamente, pensare che Gesù non abbia cuore per sua madre: se Gesù sente le lacrime della donna che ha perso il figlio (7,13), vuol dire che ama immensamente sua madre ma, proprio perché l’ama, egli pone chiaramente in primo piano la sua libertà d’azione messianica, con la fiducia che Maria accoglierà, in maniera totale, l’agire di Dio che si compie in lui. È per noi difficile entrare nel cammino che Maria deve percorrere e possiamo coglierne i frutti soltanto quando contempliamo le parole del Figlio dalla croce: là comprendiamo a che punto è giunto il cammino di sua madre. Essa lo ha seguito fino alla croce: ce lo dice lo stesso Luca, e Giovanni ci presenta la scena completa, riportando le parole che Gesù le rivolge. Cerchiamo di immedesimarci, nella preghiera, adorando in silenzio il Signore crocifisso, e chiedendo che cosa succede in quel momento nell’animo di Maria, che cosa avrebbe voluto come madre. Credo sia semplice dire, che, come madre, avrebbe voluto morire lei per il figlio, avrebbe voluto dare la vita lei, avrebbe voluto impedire, a ogni costo, che questo succedesse; invece, il Signore la educa ad accettare in maniera misteriosa, profonda, il disegno per cui è Gesù il salvatore che rappresenta la perfezione dell’amore del Padre. Maria vive qui il culmine drammatico della sua vita, la vera espropriazione del figlio che essa consegna al Padre per l’umanità; e, in quell’istante, riceve in dono dal Figlio l’intera umanità. È il centro della scena di Giovanni che, attraverso la figura del discepolo, ci presenta la Chiesa, che viene messa in intima comunione con la madre del Signore, come frutto e risultato della passione vissuta da Maria insieme con Gesù. Che cosa rappresenta, quindi, la Madonna, in questo vertice del suo cammino di fede e di adesione alla volontà di Dio? Rappresenta l’umanità, la Chiesa. Avendo seguito totalmente il piano di Dio, avendolo accolto pienamente in sé, ed essendo giunta a quella espropriazione di fede – a cui era stato chiamato Abramo –, riceve, come dono, la pienezza della Chiesa. Proprio perché ha messo tutta se stessa nelle mani di Dio e si è abbandonata con tutto ciò che aveva di più caro, il suo Figlio, riceve da Dio ciò che Dio ha di più caro, il corpo del Figlio che vivrà nella Chiesa nascente dalla passione, morte e risurrezione di Gesù.Maria è colei che, più di tutti gli uomini, ha capito il significato dell’offerta sacrificale di Gesù, dell’amore per l’umanità e della pienezza di dedizione al disegno di Dio che questa offerta comporta e,

più di tutti, può ricevere in dono un’umanità nuova. È qui che dobbiamo radicare il nostro amore alla madre del Signore. Se perdiamo di vista il cammino di fede di Maria, non avremo più la capacità di comprendere come Dio ci ha concretamente salvato in Gesù donandoci a Maria, perché in lei si avesse l’inizio della Chiesa. Queste verità possono essere, evidentemente, vissute in molti modi: con la devozione popolare cristiana, con forme più silenziose o più clamorose. Tutte le volte che nella Chiesa viene instaurato un vero senso della presenza di Maria vi è però un rifiorire della vita cristiana, vi sono vigore, serenità, scioltezza, vivacità, proprio perché siamo riportati ai misteri fondamentali della redenzione. Non si tratta di qualcosa di aggiunto o di un lusso: si tratta di metterci ai piedi della croce, e capire in che maniera l’umanità entra nel disegno di Dio, accoglie la redenzione e, in Maria, inizia il cammino di salvezza. Chiediamo, al Signore, di potere davvero comprendere i misteri di Dio nella nostra vita: sarà il rosario, saranno altre forme di devozione mariana che possiamo vivere noi in prima persona e fare vivere ad altri, sarà una contemplazione dei misteri di Maria nel Vangelo: certamente però la presenza della Vergine ha un influsso misterioso e salutare per aiutarci a penetrare il senso della redenzione. Chiediamo anche di essere capaci di aiutare il popolo cristiano, così sensibile a queste realtà, a viverle in maniera vera, efficace, giusta. È una fortuna scoprire che il sentimento di amore alla Madonna è ancora molto grande nella gente, è ancora vissuto: partiamo da esso per stimolare a compiere il cammino che Maria ha compiuto, l’adesione totale al mistero di Dio, alla sua volontà; un cammino che ha avuto una grande fecondità spirituale, una grande capacità di generare figli alla Chiesa e ha, così, reso molteplice l’opera della redenzione che Gesù ha compiuto sulla croce per poche persone, limitandosi, apparentemente, a risultati esigui. Questi risultati, affidati al cuore di Maria, diventano una pienezza di figli per la Chiesa, come ci mostrano gli Atti degli Apostoli. Perseveriamo in questa preghiera, presso la croce, con la Vergine.

IX. LE PAROLE DEL RISORTO Noi ti ringraziamo, Signore, perché Risorto ti sei manifestato a Pietro,

agli apostoli, ai discepoli e hai rinnovato loro la missione di evangelizzare e di pascere. Ti ringraziamo perché hai inviato su di loro il tuo Spirito che li ha riempiti della certezza della tua Presenza viva, ha messo sulla loro bocca le parole giuste e li ha guidati nelle gioie e nelle difficoltà. Ti chiediamo, Signore, di manifestarti, in mezzo a noi, così come ti sei manifestato agli apostoli; ti chiediamo di manifestarti in mezzo a noi con il tuo Spirito, così come ti sei manifestato nel Cenacolo agli apostoli, riuniti con Maria. Metti sulla nostra bocca le tue parole, le tue intenzioni, rendici di nuovo partecipi della tua missione. Fa’ che noi partiamo di qui con una consapevolezza nuova del dono di testimonianza che Tu hai messo nel nostro cuore, per tua misericordia e per l’aiuto di tanti. Lo chiediamo a te Signore che vivi e regni con il Padre e con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen. Oggi mediteremo insieme sulle parole che il Risorto pronuncia di fronte ai Dodici e che sono riportate sia alla fine del Vangelo di Luca (cap. 24), sia all’inizio degli Atti: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). Ci domandiamo, di fronte a queste parole, tre cose: primo, con quale animo Pietro e gli apostoli ricevono le parole di Gesù risorto; secondo, quali sono le parole, qual è il contenuto; terzo, in quale situazione le riceviamo noi e che cosa esse dicono a noi, oggi. Gli apostoli di fronte alle parole del Risorto A quale punto della loro formazione di evangelizzatori sono giunti in questo momento? Qui occorrerebbe un po’ riassumere tutti i vari aspetti del cammino che abbiamo visto percorrere dagli apostoli alla sequela di Gesù, e in particolare da Pietro. Essi sono testimoni, in qualche maniera, della prima sconfitta apostolica di Gesù, che a Nazareth viene respinto ed esce esteriormente sconfitto ma libero nello spirito, perché sa che quella è l’opera del Padre e non l’opera sua. Poi, viene l’episodio della pesca miracolosa di Pietro, là dove Pietro, riconoscendo, di fronte alla potenza che opera in Gesù, la sua povertà e fragilità, si mette con entusiasmo a seguire il Signore. Vengono, quindi, i successivi entusiasmi, l’associazione alla predicazione del maestro che attira

la gente, compie miracoli, guarisce; l’associazione al suo servizio, alle sofferenze della gente, alle diaconiae ex fide, a cui gli apostoli sono esercitati, a cui sono invitati; la loro presa di coscienza di tante miserie, di tante sofferenze, e anche la presa di coscienza successiva di Pietro delle sue responsabilità, della missione che grava su di lui, fino al momento in cui questa missione gli sembra sua personale, quasi un privilegio, cosa di cui egli direttamente è responsabile. Incomincia il cammino della seconda parte di Luca, in cui Gesù educa gli apostoli al distacco, all’abbandono al Padre, al riconoscimento che tutto ciò che possiedono, compresa la stessa missione evangelica, è opera del Padre in loro. Infine la dura lezione della passione e della morte: Pietro impara che la salvezza è dal Signore soltanto e che lui stesso è il primo destinatario di quest’opera di salvezza. Come, analogamente, avviene per Maria, Pietro si sente espropriato di quella che gli sembrava la propria capacità di fare, perché essa gli venga restituita, misericordiosamente, dal Signore, quale opera di Dio in lui: è il momento in cui Pietro e gli apostoli ricevono il mandato per l’umanità. Per riassumere uno degli aspetti importanti di questo cammino formativo degli apostoli evangelizzatori, dobbiamo riprendere il testo da cui siamo partiti, là dove si parla dell’unità del corpo e dei doni che Gesù dà alla sua Chiesa: “Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,4-6). Dunque questa è l’opera che Dio compie nel mondo; questa è l’opera di salvezza, che non è nostra, non è appaltata a noi; Dio stesso la porta avanti, misteriosamente, in tutto e in tutti. Paolo, poi, aggiunge: “A ciascuno di voi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo”. E continua: “è lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il Corpo di Cristo” (Ef 4,7 ss.). L’opera è del Padre, l’opera è di Gesù che l’ha compiuta sulla croce, l’opera è l’amore infinito del Padre che, attraverso Gesù, si riversa su ciascuno; a noi viene data, come grazia, come dono, una partecipazione a quest’opera, secondo la misura del dono di Cristo, e, in tanto essa rimane in noi fresca, sorgiva, libera – non fonte di peso, di tristezza, di amarezza, ma

fonte di entusiasmo e di inventiva –, in quanto la riteniamo grazia e dono che il Risorto continuamente ci fa. Essere evangelisti, pastori, presbiteri è dono di Dio, e finché viviamo questa situazione come dono, possiamo viverla con quella libertà, con quella gioia, con quel distacco sereno dall’efficacia immediata, che non ci adagia – sarebbe esattamente il contrario di ciò che il Signore vuole! –, anzi ci stimola, veramente, a rivedere le posizioni, a ripensarle, a guardarle ogni tanto con occhio nuovo, a domandarci il senso di ciò che facciamo, il perché lo facciamo e come si potrebbe fare meglio. Il cammino a cui sono giunti gli apostoli, al momento in cui è consegnato loro il mandato è, quindi, la possibilità di riceverlo non come un possesso affannoso, da difendere gelosamente, da gestire in forma privata e personale, ma come il dono del Risorto ricevuto proprio quando non se lo aspettavano più, quando temevano che il Signore li avesse abbandonati per la loro infedeltà. Invece, il Signore, che è evangelizzatore buono, proclamatore della misericordia di Dio, rimette nelle loro mani questo tesoro del ministero perché ha fiducia in loro e lo affida al loro cuore libero. Questo punto di arrivo della loro formazione evangelizzatrice ci permette di spiegare come, da questo momento, cominci il libro degli Atti che, in ogni pagina, lascia trasparire la gioia del Vangelo, la libertà, l’inventiva, la serenità malgrado tutto. Basti ricordare, come esempio, la fine del cap. 5 v. 41, dove si legge che gli apostoli bastonati, fustigati e respinti: “se ne andarono lieti di essere stati oltraggiati per amore del Nome”. La gioia e la serenità nonostante le percosse ci fanno capire con quanta libertà vivevano quel dono come cosa di Dio e non loro, con la certezza che Dio stesso, in un modo o nell’altro, stava operando per le loro mani. Credo che come ricordo di questi giorni potremmo portare proprio questo desiderio: che il Signore ci tenga sempre nel segno della sua grazia e ci faccia capire che il ministero, con tutte le sue fatiche, con tutti i suoi momenti pesanti, difficili, duri, ci è dato come dono e non per schiacciarci o per metterci nella tristezza delle preoccupazioni, anche se, concretamente, dobbiamo affrontare molte preoccupazioni e molte tristezze perché partecipiamo alle preoccupazioni, alle tristezze, alle sofferenze, alla morte della gente. Siamo sempre a contatto con tanti casi limite dell’esperienza umana, ma il Vangelo e la capacità di evangelizzare ci rimangono dati come dono, come grazia gratuita. Paolo ripete nelle sue lettere: “A noi è stato dato questo dono, questa capacità; da noi non siamo capaci né di fare né di dire

qualcosa e la nostra capacità ci viene da Dio, il nostro poter fare, parlare, agire ce lo dona il Signore”. Testimoni di Me Quali sono le parole che gli apostoli ricevono nel mandato che ci è presentato all’inizio degli Atti? “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). Cominciamo dall’affermazione centrale: “mi sarete testimoni”. Gli apostoli, quindi, sono chiamati a essere testimoni: chi è testimone? Colui che ha visto qualche cosa e che fa fede di ciò che ha visto. Però, nel linguaggio degli Atti, è qualcosa di più, è colui che si impegna personalmente per ciò che ha visto e ha capito, come in un tribunale si depone a favore di qualcuno. Di che cosa sono testimoni? Testimoni “di me”. La testimonianza degli apostoli riguarda la persona di Gesù, la sua potenza, la sua vita, la sua capacità di costruire un’umanità nuova, di rifare un’esistenza al ladro che, sulla croce, sta per cadere nella disperazione, di ricostituire relazioni nuove basate sul servizio, sulla gratuità, sull’amicizia; è sempre di Gesù che sono testimoni, prima ancora di essere testimoni di un progetto, di un’idea, di qualcosa da costruire. Come sono testimoni? Ce lo dice lo stesso v. 8: “Avrete forza dallo Spirito che scenderà su di voi”. Gesù sa benissimo che la via della Chiesa è lunga e che c’è bisogno non soltanto della memoria del passato, ma anche di un’esperienza e di un dono nel presente: ed ecco il dono dello Spirito, senza il quale non è possibile compiere opera evangelizzatrice. È la forza dello Spirito che è scesa su di noi per l’imposizione delle mani e che, continuamente, ci viene ridonata, attualizzata nella preghiera e nella celebrazione eucaristica. Tutte le volte che lo invochiamo, lo Spirito ci dà questa forza, ci rimette nell’atteggiamento evangelizzatore giusto, riattualizza il sacramento dell’Ordine che abbiamo ricevuto. Qui si sviluppa quella che potremmo chiamare l’ascetica sacerdotale, quell’austerità di vita che mette al primo posto preghiera, attività meditativa, preghiera comune, invocazione a Dio per il nostro ministero, culto attento dell’Eucaristia, con la preparazione e lo sforzo di metterla al centro della giornata.

La forza dello Spirito è descritta, nel Nuovo Testamento, come la forza che dà gioia, pace, serenità, amabilità, fiducia; quando sentiamo che ci manca qualcuna di queste cose, vuol dire che dobbiamo riattualizzare in noi questa forza, senza la quale le sole parole della memoria di Cristo o i soli sussidi delle parole che ripetiamo ci appaiono insufficienti. Il nostro tempo scopre, sempre maggiormente, nella Chiesa, la presenza dello Spirito che si esprime nella vitalità dell’esperienza cristiana. Proprio in questi giorni di esercizi spirituali percepiamo, istintivamente, una forza, una serenità interiore, una calma, una pace, che sono il dono dello Spirito che si riattiva in noi. E lo sentiamo ogni qualvolta facciamo esperienze di questo genere, o anche semplici esperienze di comunicazione nella fede o di vera fraternità sacerdotale: sono tutti momenti in cui diamo spazio allo Spirito e ci viene rinnovata la forza dell’imposizione delle mani. Gesù mette insieme le due cose: “Avrete forza dallo Spirito” e “mi sarete testimoni”. Non c’è l’una senza l’altra: e dobbiamo, per noi e per gli altri, moltiplicare queste occasioni in cui è dato spazio allo Spirito di Dio, lasciandolo agire in maniera fervida, dando libertà alla sua potenza. “Sarete testimoni di me a Gerusalemme, nella Giudea, nella Samaria e fino agli estremi confini, della terra”. Parole che, evidentemente, hanno un significato geografico e segnano un po’ il corso della predicazione negli Atti, però hanno anche un significato filologico. Cioè, questo dono non è soltanto per voi, per un piccolo gruppo, per alcuni iniziati; è un dono per tutti “fino agli estremi confini della terra”. Abbiate fiducia che non c’è situazione umana nella quale non esista una sete profonda di verità, di giustizia, di fraternità e quindi, al fondo, una sete profonda di Dio, a cui voi non siate mandati. Questo ci fa pensare, quando ci guardiamo intorno e vediamo tanta gente, soprattutto nei momenti in cui la città anonima ci circonda (nella metropolitana, alla stazione), al modo in cui Dio si può manifestare in questa città, a questa gente. Mentre ci sentiamo stringere un po’ il cuore di paura il Signore ci risponde, come a Paolo a Corinto: “Non temere, c’è per me un popolo grande, in questa città” (At 18). Dio prevederà i suoi modi per aiutare quelle persone; per ora forse non tutti sono pronti per entrare, subito, in una chiara delimitazione giuridica di Chiesa, ma dobbiamo dire con certezza che c’è un popolo, per il Signore, in questa città; c’è un’inquietudine, un’attesa e noi

siamo mandati a questa attesa, noi o altri – il Signore opera in mille modi – ed egli ci previene con la sua azione. Se siamo attenti, possiamo scoprire il suo desiderio e aiutarlo, magari per poco, e se non potremo far compiere a tante persone un cammino totale e definitivo, potremo però dare una parola di speranza, un momento di luce e poi, altri, faranno il resto. Gesù dice, in Gv 4,38: “Altri hanno lavorato e voi siete entrati nel loro lavoro”; non ci è stata promessa sempre la possibilità di una costruzione completa, dall’inizio alla fine, e molte volte il nostro sarà solo un aiuto, forse importante e decisivo, ma non completo. Continuatori della fede apostolica “Mi sarete testimoni… fino ai confini della terra”. Sono tre i momenti importanti che caratterizzano il modo con cui noi portiamo avanti la missione evangelizzatrice affidata ai Dodici. Lo facciamo nella fede di Pietro e della Chiesa, con la testimonianza dello Spirito, mediante l’apertura delle Scritture. Nella fede di Pietro. Noi non siamo tra coloro che hanno visto e accolto il Signore Risorto; noi siamo tra coloro che hanno creduto e hanno iniziato quella catena di credenti che arriva fino a noi. La nostra vita cristiana, la nostra predicazione, il nostro sacerdozio si fondano sugli apostoli, sulla tradizione viva, sul magistero che deriva dagli apostoli fino a Giovanni Paolo II; si radica sull’indefettibilità della Chiesa che Cristo ha promesso. Noi agiamo e viviamo sempre appoggiati alla Chiesa, alla sua tradizione, alla sua vita, alla sua gerarchia; se ci stacchiamo, anche per poco, da questo corpo, non siamo più niente e la storia ce lo ricorda. Pensiamo alle tante persone o gruppi, che credevano di poter fare qualcosa in opposizione alla Chiesa, che avevano progetti straordinari e poi si sono accorti, man mano che si allontanavano dalla Chiesa visibile, dalla tradizione apostolica e dai papi, che perdevano significato nella società, perdevano vigore ed efficacia. Pur con tutte le critiche che potevano fare alla Chiesa istituzionale, con tutte le idee che potevano proporre – magari buone e interessanti – in tanto in quanto si staccavano da questa matrice perdevano di mordente apostolico, di vigore, di impatto. È la legge comune che ci fa vedere che noi operiamo – anche se non ce ne accorgiamo – sempre strettamente legati alla Chiesa, nell’alveo del fiume della tradizione. Succede, effettivamente, che tanti

problemi sono al di sopra di noi, da soli non riusciamo a capire o a chiarire tante cose e dobbiamo appoggiarci alla Chiesa, a coloro che ci hanno preceduto e che ci seguiranno, alla fede dei santi, alla santità anonima delle persone che, nei secoli, hanno portato avanti questa fede. C’è una santità anonima che si può verificare in situazioni meravigliose: le madri, i genitori dei sacerdoti, i sacerdoti che ci hanno educato, quei parroci da cui abbiamo ricavato degli insegnamenti di vita. Tutto questo è la Chiesa alla quale ci appoggiamo, in nome della quale predichiamo, con la quale proclamiamo la resurrezione. Quando, nella notte di Pasqua, annunciamo il Cristo risorto, non è la nostra persona, la nostra voce sola che si leva nella Chiesa ma è la voce di tutta la Chiesa, che noi interpretiamo. Noi tutti cerchiamo Dio, ne sentiamo profondamente il desiderio – così come Agostino l’ha espresso8 –. Lo vorremmo quasi vedere, gustare, ma comprendiamo che non possiamo andare a lui se non insieme, se non appoggiandoci gli uni alla fede degli altri, alla capacità, all’intelligenza, alla chiarezza di vedute altrui. Sperimentiamo, cioè, la nostra condizione di uomini che, pur pretendendo o presumendo, forse, di risolvere da noi tutti i problemi dell’esistenza, in realtà ci accorgiamo di essere chiamati a risolverli insieme. La Chiesa cattolica esprime anche questa profonda verità: che incontro a Dio si cammina insieme, non solo nel presente ma nel passato e nel futuro. Nel futuro la Chiesa capirà ciò che oggi non capiamo, vedrà meglio le indicazioni universali della salvezza portata da Cristo. Dobbiamo godere di questa futura capacità della Chiesa, anche se adesso, magari, soffriamo per cose non chiarite, non definite, e ci pare che, rispetto all’esperienza umana, non tutto sia stato completamente assunto e valorizzato. Siamo in cammino, e godiamo delle possibilità che si aprono per la Chiesa del futuro. Ha detto chiaramente il Vaticano II che la Chiesa cresce, fino alla fine dei tempi, nella conoscenza di Dio e nella fede. Noi siamo semplicemente un momento di questo cammino di crescita indefinita che il Signore dà alla sua Chiesa; il nostro cuore si apre alla speranza e non pretendiamo di essere noi la sintesi di tutte le cose possibili o buone da farsi. C’è un cammino storico di cui dobbiamo rispettare le leggi sapendo che ne siamo parte semplicissima, umilissima, siamo gocce di questo fiume immenso che va verso Dio. Dunque, nella forza di Pietro, nella tradizione della Chiesa noi viviamo, predichiamo, operiamo, testimoniamo. Con la testimonianza dello Spirito. Qui mi colpisce sempre la frase degli

Atti che spiega e chiarifica ciò che abbiamo detto: “Avrete forza dallo Spirito” (At 1,8). E, ancor meglio, Pietro, di fronte al Sinedrio, spiega cosa significa che lui è testimone, come avviene la sua testimonianza: “E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che gli obbediscono” (At 5,32). Non siamo, dunque, soltanto noi testimoni che, sulla base della testimonianza apostolica, portiamo avanti il messaggio, ma possiamo dire: guardate le opere dello Spirito nella Chiesa. Quali sono queste opere? È tutta la vitalità ecclesiale di fede, di speranza, di carità che lo Spirito suscita e che ogni occhio, non prevenuto, deve saper riconoscere. È vero che un occhio prevenuto può sempre trovare difetti, può sempre riferirsi a un quadro globale non pienamente soddisfacente, però, quando una persona onesta si trova veramente davanti ad atti di fede, di amore, di sacrificio, di dono della vita, di disinteresse portato avanti con costanza, con perseveranza, allora non può non dire: ecco, qui c’è qualcosa che non mi spiego, qualcosa che il puro senso dell’utilità, il puro senso dell’ordinario tran tran della vita non riesce a far comprendere. La Chiesa vive ed è viva nella misura in cui suscita continuamente esperienze di carità, di disinteressato servizio, di coraggio di fronte alle prove, di luminosa accettazione delle sofferenze e della morte, che sono cotestimonianza, cioè testimoniano insieme con noi e con la nostra parola. I giovani, del resto, da quali fatti sono attratti? Sono attratti là dove vedono, appunto, serenità, gioia, disinteresse, spirito di sacrificio. Capiscono che c’è qualcosa, ne cercano le ragioni e le ricevono attraverso il kérygma proclamato, sempre in un contesto di testimonianza dello Spirito nella vita concreta dei cristiani. L’apertura delle Scritture. I due discepoli di Emmaus non dicono “ci spiegava le Scritture”, ma “ci apriva le Scritture”. Sono due le parole usate. In 24,27 si dice che, cominciando da Mosé e da tutti i profeti, Gesù spiegò loro le cose che lo riguardavano e al v. 32 si dice: “non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava lungo la via e ci apriva le Scritture?” Voglio fare notare la particolarità del testo. Noi traduciamo semplicemente: “non ci ardeva il cuore”, ma il testo greco ha un participio presente: “non si andava, forse, gradualmente riscaldando il nostro cuore, mentre lui ci parlava così e ci apriva le Scritture?” Che cos’è l’azione di aprire le Scritture? È mettere alcuni avvenimenti di salvezza – a cui i discepoli hanno partecipato senza capirne il senso –, in un contesto generale di storia di salvezza che fa apparire chiaro il senso. Ecco il

valore di questa apertura delle Scritture. La Scrittura, presentandoci il disegno di Dio sull’uomo e sulla storia, il progressivo svilupparsi, nell’uomo, di questa chiarezza di Dio, della via della giustizia, della verità, della fraternità; presentandoci Gesù al culmine di questa via e la sua risurrezione come la chiave della storia che spiega tutto il desiderio dell’uomo, il suo movimento ascensionale verso la vita, la giustizia, la verità che non ha limiti, permette di inquadrare la totalità di ciò che l’uomo pensa e desidera, nel piano dello Spirito e della Verità e di dare a essa un significato. Nella Scrittura, quindi, troviamo il modo di trarre le fila delle diversissime esperienze umane, nel campo del desiderio del bene e della verità, per riunificarle in un quadro coerente in cui l’annuncio della risurrezione appaia come il sigillo di Dio su un disegno di salvezza e non come un evento strano e inaspettato. Dalla Scrittura mi sento interpretato e capito, la Scrittura mi dice ciò che io desideravo e ciò che temevo, mi dà la chiave di questa attesa e di questa aspettativa. È lo specchio dell’uomo che cerca Dio, che cerca la verità e il significato della vita, che cerca di evadere dalla disperazione e dalla paura che lo colgono quando si ritrova senza ideali e si butta perciò nelle esperienze assordanti o eccitanti che momentaneamente possono aiutare, ma che subito dopo lo fanno ricadere nel vuoto. La Scrittura rivela all’uomo se stesso, i suoi desideri, il suo destino, e gli fa capire come la predicazione del Risorto sia veramente il sigillo di Dio su tutto quanto si è andato operando nella storia di salvezza del mondo. Questi sono i tesori che ci vengono dati: la Chiesa, la sua testimonianza, la sua predicazione, il suo magistero, lo Spirito che, in noi e negli altri, attualizza la gioia di questa vita, e la Scrittura, prolungata nel commento dei Padri, della teologia, del magistero che la esplica e la amplia. Ed è un dono, dobbiamo ricordarcelo, non è un peso, non è un castello enorme e difficile da tenere insieme per le tante cose, le tante realtà complesse; è un dono, è il dono di Dio, è Gesù stesso come dono semplicissimo e, quindi, immediatamente percepibile all’uomo di buona volontà; è però un dono che deve essere spiegato, ampliato, precisato, prolungato in un cammino di fede, che deve essere espresso in un programma pastorale che abbracci momenti, situazioni, attività, desideri, episodi. Occorre sempre partire da questa unità fondamentale che è il dono di grazia, di salvezza. È un dono che riempie il cuore di gioia, proiettando su tutto il resto quella luce fondamentale che è il dono evangelico di Dio.

Chiediamo insieme, al Signore, di unificare così la nostra vita, e di poter portare, nei vari complessi momenti della nostra giornata, nei diversi tipi di servizio che il ministero comporta, uno spirito indiviso. Ci conceda, lo Spirito Santo, quell’unità di vita che tutto semplifica e – come leggiamo negli scritti dei santi – tutto rende facile, tutto chiarisce; a lui, dunque, ritorniamo, ogni volta che il nostro ministero è appesantito o affaticato, perché è in questa semplicità originaria la soluzione che cerchiamo e il dono a cui tanto aspiriamo. 1

Cfr. nota 8, p. 35. Bernard LONERGAN, Il metodo in teologia, Roma, Città Nuova, 2001. 3 Qui il cardinale si riferisce all’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, che provocò 85 vittime. 4 Cfr. nota 44, p. 418. 5 Cfr. nota 17, p. 531. 6 Nella Polonia ancora comunista, il 3 settembre del 1980 nacque il sindacato libero Solidarnosc. 7 Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, promulgata da papa Paolo VI il 21 novembre 1964, n. 65. 8 Martini si riferisce qui alla famosa frase di sant’Agostino, contenuta nelle Confessioni: “Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te” (AGOSTINO, Le confessioni, I,1, in ID., Opere di Sant’Agostino cit., vol. I). 2

QUINTA PARTE IL VANGELO DI GIOVANNI

PREMESSA

Tra il 2001 e il 2002, avvicinandosi alla conclusione del ministero episcopale nell’Arcidiocesi di Milano, il cardinale volle congedarsi dal clero proponendo un ultimo corso di esercizi spirituali. Per incontrare il maggior numero possibile dei suoi preti, lo ripeté in tre occasioni: nell’agosto del 2001, nel gennaio e nell’aprile del 2002. Lo intitolò Il caso serio della fede e decise di incentrarlo sul Vangelo di Giovanni, alla cui lettura aveva dedicato un altro corso nel lontano 1974. Nell’introduzione, precisa che da allora non aveva più osato affrontarlo per intero, “perché è arduo, impegnativo, coinvolgente, e toglie davvero il fiato” (cfr. “Il caso serio della fede”, alle pp. 1007-1153 di questo volume). Riportiamo qui entrambi i testi, nell’ordine cronologico. Innanzitutto quindi “Gli Esercizi ignaziani alla luce del Vangelo di Giovanni”, che raccoglie le meditazioni date da Martini a un gruppo di gesuiti nell’estate del 1974 e poi, in forma più breve, ad alcuni membri della Curia Generalizia della Compagnia di Gesù, che avrebbero partecipato l’anno successivo alla 32ª Congregazione Generale. La trascrizione, pubblicata nel 1976 a Roma dal Centrum Ignatianum Spiritualitatis, fu poi pubblicata nel 1980 dalle Edizioni Borla in versione ridotta, escludendo i riferimenti alla Compagnia di Gesù. In questo volume seguiamo l’ultima edizione, curata nel 2010 da padre Gianni Arledler e pubblicata dalle Edizioni ADP di Roma, che recupera il primitivo testo più completo. Con alcune note, spieghiamo i passaggi che riguardano la spiritualità e le regole dei gesuiti, che inevitabilmente restano un po’ oscuri. Diversamente da altri testi riportati in questo volume, includiamo anche le omelie, dato che Martini sceglieva e commentava in esse un brano del Vangelo di Giovanni, e dunque costituiscono un elemento essenziale del corso. Abbiamo tralasciato solo l’ultima, dedicata invece interamente a un tema interno alla vita dei gesuiti. Il secondo testo, “Il caso serio della fede”, è stato pubblicato dalle Edizioni Piemme nel 2002. Il libro contiene in appendice le 14 omelie che il

cardinale fece durante i tre corsi di esercizi. Seguendo il criterio abituale, le omettiamo.

GLI ESERCIZI IGNAZIANI ALLA LUCE DEL VANGELO DI GIOVANNI

INTRODUZIONE: COSA SIGNIFICANO QUESTI ESERCIZI Uno degli scopi di questi esercizi è di considerare la relazione tra il Vangelo e le Costituzioni della Compagnia di Gesù1. Sono esercizi nei quali deve essere lasciato ampio spazio alla preghiera e alla revisione personale sulla propria vocazione nella Compagnia alla luce dei suoi scritti fondanti. Riguardo a ciò che caratterizza questi esercizi terrò conto di tre livelli di penetrazione della materia: – fondamentalmente vorrebbero essere un ascolto del messaggio evangelico e questo non può essere supplito da nessun altro documento umano; – come messaggio specifico da ascoltare prenderò temi che partano dal quarto Vangelo, quello di Giovanni. Non sarà un’esegesi, nemmeno un’iniziazione alla lettura e neanche una lectio continua del Vangelo di Giovanni, ma un “ascolto” del messaggio giovanneo; – tutto ciò facendo eventualmente attenzione ai collegamenti con il libretto degli Esercizi e il testo delle Costituzioni. Il tema di fondo, quindi, è l’ascolto del messaggio evangelico proposto da Giovanni, inteso come il “Vangelo del presbitero”: cioè quello che Giovanni dice ai suoi presbiteri, tenendo sempre presente la nostra chiave di lettura particolare degli Esercizi che richiede una certa trasposizione del linguaggio evangelico nel linguaggio degli Esercizi stessi. Partiremo di solito da una lettura del quarto Vangelo, chiedendoci poi come ciò si trasferisce nell’esperienza spirituale ignaziana. Oppure, viceversa, qualche volta, potremmo partire da un’esperienza ignaziana chiedendo come questa chiave di lettura ci aiuti a comprendere l’esperienza spirituale del presbitero. Quindi, ancora: primo, il piano di lettura, cioè il messaggio evangelico,

l’ascolto della Parola; secondo, la trasposizione nel linguaggio degli Esercizi; terzo, l’attenzione alle risonanze, alle irradiazioni, ai riflessi nelle Costituzioni. Non ci sarà mai un’esortazione sulle Costituzioni, ma un ascolto di quel particolare messaggio per vedere come si riflette in esse; un metodo in parte filologico, cioè i temi, le parole, la loro presenza in relazione al tema evangelico. Per lasciare largo spazio alla preghiera e alla revisione personale proporrei di fare due meditazioni in cui il tema evangelico “EserciziCostituzioni” entra sempre proporzionalmente. Per aiutare maggiormente la penetrazione del Vangelo di Giovanni si potrebbe anche nell’omelia della concelebrazione prendere ogni sera un brano giovanneo che accompagni le giornate e possa servire per chi lo vuole come punti per il mattino. Spesso nelle meditazioni non prenderemo un brano, ma un qualche punto di vista di Giovanni; invece nell’omelia si potrebbe proporre un brano specifico, che quindi può servire per meditazione anche per il mattino seguente.

I. ESERCIZI PER IL “PRESBITERO” O PER IL CRISTIANO MATURO Questa mattina il programma che propongo sarebbe il seguente: richiamare brevemente lo scopo degli Esercizi, sulla base dei numeri [1] e [21]; domandarci (venendo al nostro tema del quarto Vangelo) a chi è diretta la predicazione di Giovanni; infine, se ci sarà tempo, vorrei parlare in una prima meditazione della preghiera: la preghiera nel quarto Vangelo, nella nostra pratica degli esercizi e nelle Costituzioni. Forse il tempo mancherà, comunque potremo rimandare qualcosa all’omelia della sera, ma mi preme iniziare questo impegno degli esercizi con una meditazione sulla preghiera, sul pregare solito che noi facciamo. L’annotazione [1], nella seconda parte, afferma che si tratta di preparare e disporre l’anima per togliere da sé ogni affetto disordinato e, dopo averli tolti, cercare e trovare la volontà divina nella disposizione della propria vita per la salvezza dell’anima; il numero [21], cioè il titolo di tutto il libretto, che precede il “presupposto” e il “Principio e Fondamento”2, recita: “Esercizi spirituali per vincere se stesso e ordinare la propria vita senza determinarsi per alcun affetto che sia disordinato”. Traducendo in linguaggio nostro, potremmo dire che questi esercizi, come ogni corso di esercizi, hanno un

duplice o triplice scopo: – “liberarci” da tutto ciò che chiude all’ascolto della Parola di Dio, cioè da ogni forma di amarezza, ogni forma di rigidità, di presunzione, illusione o puntiglio, che ci impediscono di conoscere la volontà di Dio. Liberarci in un clima di preghiera, che è anche lotta, “preghiera come lotta”, per vincere; – stabilire in noi un clima di “ascolto della Parola”; – in questa situazione di liberazione mettere ordine nella nostra vita (anche se c’è un ordine sostanziale, ci sono sempre molte cose fuori posto nella nostra vita, specialmente dopo un anno di impegno intenso) e poi cercare la volontà di Dio, su di noi, su di me, “adesso”, cioè in questo momento della Compagnia e della Chiesa, in questa situazione specifica nella quale mi trovo. Questo, dunque, quanto allo scopo che si propongono gli Esercizi; ciascuno dovrà riflettervi per fare delle applicazioni su di sé, sulla base appunto di queste annotazioni [1] e [21]. Ascolto della Parola in un clima di preghiera Come ho detto, ci proponiamo di farlo ascoltando “la Parola”, il messaggio evangelico del Vangelo secondo Giovanni. Questa scelta evidentemente è un po’ ardita, un po’ azzardata, me ne rendo conto, per vari motivi. Prima di tutto perché il Vangelo di Giovanni, a differenza degli altri Vangeli, per esempio di Luca, non presenta molti temi che sono usuali negli Esercizi. Per esempio, negli Esercizi si insiste sulla vita di Nazareth, sulla vita nascosta, e su questo Giovanni non ha nulla. Ancora: nella seconda settimana degli Esercizi3, si fa meditazione su temi specifici, come potrebbero essere quelli legati alla vita religiosa, ossia povertà di Cristo, alcuni momenti esemplari della sua vita. Ora, dai Vangeli ci si attende una completa istruzione ascetica, mentre in Giovanni non si parla né di vizi né di virtù; non si parla di elementi che si possono riferire immediatamente ai voti ecc. Inoltre, come tutti sappiamo, si tratta di un Vangelo difficile, un Vangelo pieno di cose che non si afferrano subito (almeno questa è l’impressione che fa a me). Si legge una pagina, si leggono alcune righe, si capisce globalmente il senso delle cose che sono dette, ma non si capisce perché siano dette a quel punto e quale significato preciso abbiano. Spesso i commenti spiegano cose

ovvie, che già abbiamo capito, ma non rispondono alle domande che veramente uno si fa leggendo questo Vangelo: perché insiste a questo punto su questo tema? Per me almeno, è un Vangelo pieno di cose che non afferro, che non intendo. Un Vangelo che, oltre a essere un po’ aereo e quindi al di fuori dell’esperienza concreta di tipo ascetico, tende a essere inoltre difficile nel concatenamento, nel sorgere di nuovi temi, nel legame che i temi hanno uno con l’altro; suppone un’esperienza spirituale elevata, come subito diremo. E quindi certamente non è un Vangelo per principianti, ma un Vangelo che suppone – e qui vengo alla prima delle due indicazioni che intendo dare – la situazione del “presbitero” (almeno questa è l’ipotesi da cui intendo partire), la situazione del cristiano maturo, o in altre parole, “gnostico”, “perfetto”, del cristiano illuminato, quindi di colui che ha già dietro di sé una lunga maturazione ascetica e perciò non è più tanto interessato alla ripetizione di certi temi evidenti, ma piuttosto a un’ulteriore penetrazione. Esiste questo cristiano maturo, illuminato? Secondo il Nuovo Testamento “deve” esistere, perché questo è lo scopo finale della predicazione neotestamentaria. Cito qualche passo del Nuovo Testamento dove si tratta del cristiano gnostico, perfetto, maturo, illuminato: per esempio in Rm 15,14. “Sono anch’io convinto per quel che vi riguarda che siete colmi di ogni conoscenza”, in greco pepleroménoi páses tês gnóseos, quindi siete cristiani gnostici, cristiani “conoscitori”. Questo è il livello al quale non erano certo pervenuti i cristiani della prima predicazione; ma a questo punto anche Paolo suppone che siano diventati “gnostici”. Anche in 1Cor 1,5 scrive che i cristiani di Corinto sono stati arricchiti di tutti i doni di parola e di scienza, cioè sono stati arricchiti “di ogni gnósis”, di ogni forma di conoscenza superiore. Si suppone che esista questo cristiano gnostico, il quale ha percorso un certo cammino spirituale ed è arrivato a una certa maturità. Altri passi del Nuovo Testamento non ci parlano di ciò sotto il tema di gnósis, ma sotto il tema téleios, “perfetto”. Per esempio, Fil 3,15 recita: “quanti dunque siamo perfetti (téleioi), abbiamo questi sentimenti”. Quindi essa si rivolge a un pubblico che già si suppone possa essere chiamato senza presunzione e senza vanteria téleios. Anche Col 1,28 richiama due volte questo concetto: “Annunciamo lui (Gesù) ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza per rendere ciascuno téleion in Cristo”, perfetto in Cristo. Lo scopo della predicazione è di far giungere i chiamati a questa maturità.

Ancora in Col 4,12: “Vi saluta Epafra servo di Gesù, che è dei vostri, il quale non cessa di lottare per voi nelle sue preghiere (questa lotta nella preghiera che è il vostro lavoro di questi giorni) perché siate saldi, perfetti, téleioi, e aderenti a tutti i voleri di Dio”. Dunque lo scopo della disciplina spirituale, della vita religiosa in particolare, è di avere gente salda, perfetta, compiuta e aderente a tutti i voleri di Dio, e questo è lo scopo specifico della predicazione di Giovanni. Cito ancora un brano in Eb 6,1-2, che ci fa vedere questo grado della perfezione: “lasciando da parte l’insegnamento iniziale su Cristo passiamo a ciò che è più completo”; nel testo greco troviamo: “epí tén teleióteta pherómetha”, “portiamoci a ciò che è più téleion”, che è più pieno, più perfetto, “senza gettare di nuovo le fondamenta della rinunzia alle opere morte, della fede in Dio, della dottrina dei battesimi, dell’imposizione delle mani, della risurrezione dei morti e del giudizio eterno. Questo intendiamo di fare se Dio lo permette”. Ecco dove si situa (almeno così a me sembra), la predicazionedi Giovanni: a questo secondo livello dove ormai sono conosciute molte altre cose e quindi si tratta ormai di giungere al cuore delle situazioni. Il brano che forse fra tutti meglio riassume ciò che nello spirito neotestamentario rappresenta la predicazione di Giovanni lo troviamo nella prima lettera ai Corinti. Consiglierei, appunto, per la vostra riflessione di questa mattina, che prendiate in particolare considerazione 1Cor 2,6-16, soprattutto vv. 6-8. Li leggiamo brevemente, indicando quello che mi sembra essere il ritmo meditativo di questi versetti che ciascuno potrà poi applicare a sé: Tra i perfetti [dunque tra i téleioi] parliamo di Sapienza [quindi è un discorso gnostico], ma di una Sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla. Parliamo di una Sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla.

Quali sono le indicazioni fondamentali, per noi, di questi versetti? Esiste, prima di tutto, una sapienza propria del discepolo fervente e illuminato ed è di questa sapienza che san Paolo intende parlare. Quindi questa sapienza esiste ed è a nostra disposizione, nel senso che Dio ce la vuole donare. Questa sapienza non è di questo mondo. Cioè è una sapienza che non si acquista, neppure a prezzo di letture, di conversazioni, di studi, di ricerche, perché non è prodotta da un’efficienza tipica di azioni umane. Non è di

questo mondo e non a vantaggio di questo mondo. Cioè non è neppure una sapienza che noi acquistiamo per poi parlare bene di fronte agli altri: predicare, dare ritiri… È una sapienza che è al di là dei calcoli che potremmo essere tentati di fare. È una sapienza per noi, ma una sapienza non di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, cioè di tutte le forze – di guadagno, acquisto ed efficienza – che la vorrebbero in noi, per strumentalizzarla come tutte le altre cose di cui possiamo usare. Parliamo invece di una sapienza divina, misteriosa, nascosta. E qui, credo che potremmo riflettere attentamente su questi attributi “misteriosa” e “nascosta”, esiste cioè una sapienza nella vita cristiana che spesso rimane nascosta ai nostri occhi, che non si identifica con nessuna delle azioni che facciamo e con nessuno dei pensieri che mettiamo in opera. Essa è al di là di tutte queste cose; una sapienza misteriosa, nascosta, ma che Dio offre a noi, poveri. C’è dunque una sapienza cristiana, che è la fonte di ogni pienezza di vita, della serenità dello spirito, della capacità di giudicare nelle situazioni difficili, del coraggio di una vita religiosa in situazioni avverse. Questa sapienza, che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria e che da lui stesso ci viene, ci è rivelata dal suo Spirito. Dio ha rivelato queste cose per mezzo dello Spirito. La disciplina spirituale del quarto Vangelo, dunque, vuole “non spiegare” – perché queste non son cose che si spiegano a parole – ma indicare una via per penetrare in questa sapienza che è al di là di tutte le regole ascetiche, di tutte le pratiche, di tutti i pensieri: è il cuore, il succo di una vita cristiana matura. Prendiamo dunque questo quarto Vangelo come una specie di manuale del “terzo ciclo” dell’iniziazione cristiana. Possiamo chiamare “primo ciclo” il catecumenato, per il quale è specialmente adatto il Vangelo di Marco; e chiamare “secondo ciclo” sia l’istruzione sui doveri nella Chiesa, sui comportamenti del Regno, per il quale è molto adatto Matteo, sia l’istruzione (che potrebbe apparire esteriore) sulla situazione del fatto cristiano nella storia e nella società, cioè l’inserzione del cristianesimo nella cultura e nell’ambiente, per cui è molto adatto Luca e gli Atti. Quindi, se prendiamo Marco come primo ciclo, e Matteo-Luca-Atti come secondo ciclo di iniziazione cristiana, cioè “la catechesi”, il terzo ciclo è quello che comporta la formazione mistica del cristiano interiore, cioè l’avvio alla familiarità sperimentabile col mistero di Dio. E questo, nel Nuovo Testamento, è forse il compito di Paolo, in particolare di Giovanni e, da un

altro punto di vista, della lettera agli Ebrei. Trattandosi di un terzo ciclo, esso suppone i precedenti, e quindi non si può dire “perché non parla di questo o di quello”, perché lo suppone già noto e evidente: quindi non è che non dia importanza a certi argomenti ma vuole andare più a fondo. Tenendo presente l’approfondimento, ci lasciamo guidare dal Vangelo di Giovanni. Impedimenti più sottili Ma qui affiora una seconda e decisiva domanda: da dove parte questa predicazione di Giovanni? Giovanni parla, vuole educare il cristiano téleios, il cristiano gnostico, il cristiano pieno di ricchezza, di sophía, di sapienza. Ma a chi parla esattamente? Certamente il suo punto di partenza non può essere il cristiano già téleios, perfetto, altrimenti non avrebbe bisogno di istruzione. Suo punto di partenza è il “presbitero”, cioè quella persona la quale ha già acquistato istruzione, conoscenza, un certo esercizio primordiale – anzi un po’ superiore – delle virtù ordinarie della vita (e naturalmente osserva i comandamenti, almeno nella loro sostanza), ma si trova di fronte a situazioni più sottili, più difficili che lo tengono prigioniero nell’interno. Per concretizzare meglio il punto di partenza della predicazione di Giovanni, facciamo attenzione a due figure, che troviamo nella prima parte del Vangelo, cioè Nicodemo e la samaritana. Nicodemo e la samaritana, infatti, non rappresentano tanto la gente che l’evangelista vuol plasmare, bensì quella che egli trova nella realtà davanti a sé. Indico molto brevemente qualche aspetto tipico di questi due personaggi. A proposito di Nicodemo metto in rilievo quattro elementi del racconto in 3,2-4.9: 3,2: “di notte”; 3,2: “rabbì-maestro”; 3,4: un “vecchio”; 3,4.9: “come può avvenire ciò?” Chi è Nicodemo? È un uomo che è già “arrivato”, cioè un “presbitero” che ha già una carriera alle spalle e quindi certe sue prerogative e certi doveri esterni da salvare: insomma, sente un po’ il peso della sua reputazione, della sua importanza. Perciò ha paura di compromettersi, di affrontare apertamente la parola di Dio: si trova “in situazione”, è sorvegliato, visto e guardato dagli

altri e perciò va “di notte” da Gesù. Quindi il discorso di Giovanni è rivolto al presbitero che avendo già fatto una certa strada ecclesiastica – applichiamo questo aggettivo anche ai laici – ha una certa responsabilità esterna, ha paura di compromettersi: e questa paura gli impedisce di ascoltare le nuove richieste della parola di Dio. Notiamo nel discorso di Nicodemo una grande insistenza sugli elementi intellettuali: “Maestro (rabbì), sappiamo che vieni da Dio come maestro (didáskalos)”, e Gesù, con ironia, di rimando in 3,10: “Tu sei didáskalos, […] ti vanti di essere maestro”. La situazione del presbitero che ha già fatto una certa strada è quella di chi è tentato, ormai, di ridurre il mistero a dottrina: “le so queste cose”, oppure “io voglio saperle, io credo di avere i metodi per saperle”, e quindi la mia situazione ormai è quella di chi o sa e vuole comunicare, oppure cerca di sapere con i metodi ordinari di efficienza, attraverso i quali si afferma il sapere. Nicodemo è in questa situazione, che è situazione di chiusura per la novità misteriosa della Parola. La difficoltà di Nicodemo suona così: “Come può un uomo nascere quando è vecchio?” Per il presbitero che ormai è arrivato a un certo punto, la grande paura è questa: non si può incominciare da capo; di qui tante difficoltà e tanti disagi, perché in realtà la Parola di Dio può chiedere di ricominciare da capo, e questo spaventa. Infine, Nicodemo ha poca fiducia nella potenza di Dio. Egli è un uomo che ha esperienza ecclesiale e conosce le cose che si possono fare e quelle che non si possono fare, e perciò dice: “Certe cose si dicono, ma non si fanno”. Notiamo come le sue due domande – sia in 3,4 che in 3,9 – incomincino con uno stesso interrogativo: “Come può avvenire ciò?” (3,4: “Come può un uomo nascere quando è vecchio?”; 3,9: “Come può accadere questo?”). Si noti infine l’insistenza sul potere e sul non potere nella seconda parte di 3,4: “Come può un uomo rinascere? […] Forse può rientrare nel ventre della madre?” Egli ha ormai stabilito i confini di quello che si può fare e di quello che non si può fare: è un presbitero arrivato, che nel suo punto di arrivo è ormai chiuso alle ulteriori comprensioni del mistero di Dio. Questi è l’uomo a cui si rivolge la predicazione di Giovanni. Problemi personali Nella samaritana vediamo altri aspetti tipici della persona a cui è

indirizzata la predicazione giovannea. Si tratta forse di aspetti più psicologici, ma sono anch’essi molto importanti. Ne noto soprattutto due, che ricavo da qualche elemento del racconto. La samaritana è una persona che ha un problema personale di fondo: una situazione irregolare, che affiora alla fine del colloquio. Come spesso accade, dopo che sono state proiettate tutte le situazioni esterne, a un tratto viene fuori il problema. Gesù le dice: “Hai detto bene: non ho marito; infatti hai avuto cinque mariti e quello che ora hai non è tuo” (4,18). Che questo sia effettivamente il problema affiora poi nella esclamazione della donna: “Venite a vedere l’uomo che mi ha detto tutto ciò che ho fatto” (4,29), e anche leggiamo in 4,39: “molti samaritani credettero in lui per le parole della donna che dichiarava ‘mi ha detto tutto quello che ho fatto’”. Chi è dunque il presbitero a cui si rivolge il messaggio di Giovanni? Una persona la quale può, a un certo momento, avere dei problemi personali di fondo, che possono anche non essere problemi tanto gravi o clamorosi, ma sono dei blocchi per delle situazioni da cui non si vuole uscire, che forse si ama proiettare all’esterno in forme di ogni genere, dato che sono sempre legate a situazioni sociali o ambientali, ma che in realtà sono la proiezione di un blocco interiore, suscitato dall’ascolto della Parola. Una seconda caratteristica della samaritana si rivela in 4,11.12 e 15: “Tu non hai mezzo per attingere, il pozzo è profondo, da dove hai quest’acqua? […] Se hai quest’acqua dammela, perché così non venga più ad attingere”. E qui Giovanni, com’è suo costume, gioca e ironizza su questa incomprensione (propria di una persona che tutto vede in un orizzonte mondano di efficienza), che vorrebbe tradurre le parole di Gesù in puro utilitarismo quotidiano. Si potrebbe, a questo proposito, leggere la stessa ironia in 6,26-27: “Dunque dacci sempre di questo pane”, finalmente possiamo avere il pane assicurato. La samaritana è una persona che, avendo già fatto una certa carriera e avendo calcolato quello che si può fare e quello che non si può fare, tutto traduce in termini pratici di utilità, anche se poi questo pragmatismo viene utilizzato per ricavare il massimo vantaggio per la Chiesa o per la la propria vita spirituale o per il bene degli altri. Essa vive in termini di dare e di avere; il suo spirito è angustiato in una certa gabbia istituzionale, per cui tutto viene tradotto in termini di successo apostolico e ascetico, pastorale e personale: si tratta allora di acquisire nuova chiarezza di idee, di concepire nuove intuizioni, da acquisire per sé e per gli altri, lasciando da parte quello che è il dono e l’arrendersi alla Parola al di là di tutti i tornaconti personali.

II. IL PRINCIPIO E FONDAMENTO NEL VANGELO DI GIOVANNI Il tema delle riflessioni che propongo oggi è questo: “il Principio e Fondamento del Vangelo di san Giovanni”. Divido la materia in due parti, che potrebbero rappresentare due meditazioni e offrire materia sufficiente a chi lo desidera. La prima parte la chiamerei “il punto di partenza della predicazione di Giovanni”, ed è una breve meditazione su alcuni aspetti del prologo di Giovanni, che si adattano per l’inizio degli esercizi. Sarà preceduta da alcune considerazioni generali sui rapporti tra Principio e Fondamento e lo stesso prologo giovanneo. La seconda parte, che ho chiamato “il punto d’arrivo”, è un altro aspetto dell’elemento fondamentale della predicazione giovannea e cioè il punto di arrivo di questa stessa predicazione. Prima però di iniziare vorrei comunicarvi una riflessione, che facevo fra me questa notte, pensando all’inizio di questi esercizi, alla loro impostazione. Mi domandavo: come mai, se accettiamo l’ipotesi che il quarto Vangelo è il Vangelo del cristiano perfetto, dello gnostico, Giovanni non usa mai la parola gnósis e neppure la parola “perfetto” (téleios), cioè parole che – come abbiamo visto in 1 Corinti, Romani ecc. – sono espressioni tipiche per descrivere questa condizione del cristiano? Allora mi sono domandato: quali parole utilizza Giovanni per indicare questa situazione del discepolo che ascolta e la via che deve percorrere? Ci sono due parole fondamentali, a cui se ne aggiunge una terza, sulle quali richiamo la vostra attenzione. Un primo tema, mediante il quale Giovanni riassume la via del discepolo, e che corrisponde al téleios, al perfetto, ossia alla gnósis di Paolo, è certamente il tema della fede e del credere, al quale dedicheremo una meditazione apposita. Il Vangelo di Giovanni termina dicendo: “Queste cose sono scritte perché voi crediate” (20,31); la scena culminante della croce viene raccontata “perché crediate” (19,35); Gesù prega per quelli che “crederanno in lui” (17,20). Quindi questa particolare fede – che non è, a mio avviso, la fede iniziale, ma una fede speciale, cioè la fede perfetta, la fede approfondita, matura – offre a Giovanni uno dei termini per indicare il cammino e il punto di arrivo. È vero che in Giovanni non compare la parola téleios (perfetto): però, come succede anche in altri luoghi nel Nuovo Testamento, dove non c’è il sostantivo, talora c’è il verbo. Per esempio Giovanni usa moltissimo il verbo pistéuo (credo), ma mai il sostantivo pístis (fede): ce ne sono molti di questi

fenomeni linguistici interessanti. Così Giovanni non usa mai téleios (perfetto), però parla in alcuni punti fondamentali di “portare a perfezione”, “portare a compimento”. Lo scopo di tutta l’azione di Gesù è che tutti siano teteleioménoi, cioè “portati a perfezione” nell’unità (17,23). Riappare in altro modo, quindi, questo tema paolino: che tutti siano portati a perfezione, così come Gesù deve “perfezionare”, “compiere” (il verbo è teleioûn) l’opera del Padre (5,36 o 4,34): “Il mio cibo è che io compia l’opera del Padre”, un’opera che Gesù dichiara compiuta (col verbo teleioûn) sulla croce (19,28-30). Quanto al termine gnósis, la conoscenza di cui ci parla invece Paolo, evidentemente non c’è in Giovanni; così non compare neanche il termine sophía (sapienza); c’è però il verbo gignóskein (conoscere) usato in un senso che praticamente equivale a quello di “gnosi”, ossia di “conoscenza superiore”. Mi pare di aver già citato una serie di brani in cui, attraverso l’uso del verbo “conoscere”, Giovanni ci fa vedere quale tipo di conoscenza matura sia lo scopo della sua istruzione. In particolare, possiamo citare tra i molti passi: “Io conosco le mie pecore ed esse conoscono me” (10,14-15): è questa conoscenza intima, terminale, che costituisce lo scopo della predicazione di Giovanni. Prologo come Principio e Fondamento Sant’Ignazio nel Principio e Fondamento, come Giovanni all’inizio del suo Vangelo, offre alcuni punti di partenza, che saranno poi punti di arrivo, sviluppati più avanti, come la scelta di vita. Al cristiano, che vuole percorrere la via dello spirito sotto la sua disciplina, Giovanni propone una premessa teologica amplissima – amplissima perché contiene appunto gli sviluppi successivi –: il prologo che è, in qualche modo, il suo Principio e Fondamento. Uso questa espressione, perché noto alcune analogie tra i due testi. Entrambi sono scritti dopo: sant’Ignazio ha scritto il Principio e Fondamento quando già aveva ormai chiara la struttura degli Esercizi; Giovanni pone il prologo, o lo scrive, o più probabilmente lo riprende da altre fonti, completandolo, quando già aveva ormai chiaro tutto il complesso dell’opera. Noto poi una seconda analogia: questi due testi sono nati entrambi dal

bisogno di un inquadramento iniziale. Di per sé, si potrebbe leggere il libro degli Esercizi di sant’Ignazio e capirlo anche senza il Principio e Fondamento. Ma esso aiuta molto per un inquadramento iniziale, un punto di riferimento per capire e collocare bene le singole cose. Così pure, mi pare, la predica di Giovanni si potrebbe intendere di per sé, anche senza il prologo. Ma il prologo conferisce quell’inquadramento e quei punti di riferimento, che permettono poi di comprendere meglio il perché dell’insistenza sulle cose che vengono dette in seguito. E ancora una terza analogia: come il Principio e Fondamento, così anche il prologo comprende già, in qualche maniera, gli sviluppi successivi. Nel Principio e Fondamento di sant’Ignazio c’è tutto, perché se uno accetta che egli dipende da Dio e che deve tendere a lui e che quindi nelle scelte deve sempre cercare ciò che più l’avvicina a Dio, ha fatto già gli esercizi, cioè ha raggiunto lo scopo fondamentale. Che cosa manca? Manca l’assimilazione cordiale di tutto ciò: assimilazione che avviene partecipando al mistero di Cristo, vita, morte e risurrezione. Sostanzialmente il Principio e Fondamento propone già il punto di arrivo, cioè comprende già in maniera globale gli sviluppi seguenti. E così anche Giovanni quando scrive: “il Verbo abitò fra noi” afferma già tutto ciò che il suo Vangelo dirà. Che cosa manca però? Manca che a questo Verbo, che abita fra noi, si faccia il giusto posto. Perciò tutto il Vangelo è una disciplina spirituale che ci invita a riconoscere le implicazioni derivanti dalla presenza del Verbo tra noi: cosa vuol dire fare posto al Verbo tra noi? Il prologo di Giovanni e le Costituzioni della Compagnia di Gesù Ci si potrebbe qui chiedere a questo punto in cui stiamo intravedendo analogie nella materia – tanto per introdurci nella materia e perché notiamo queste analogie –: quali sono nelle Costituzioni di sant’Ignazio i testi analoghi, cioè che abbiano luogo di Principio e Fondamento, se esistono? Mi pare che – azzardo questa proposta – ci sono tre testi che potrebbero pretendere alla funzione di Principio e Fondamento. E tra questi uno mi pare il più importante. Evidentemente si potrebbe subito pensare alla Formula dell’Istituto4 che è, in qualche maniera, una sintesi che comprende già tutti gli sviluppi delle Costituzioni. Si potrebbe pensare anche al Proemio delle Costituzioni5, il quale dà l’inquadratura fondamentale, lo spirito con cui esse

sono scritte. Si potrebbe anche pensare – e inclino più per questa ipotesi – alla parte X delle Costituzioni6 che, benché venga a conclusione, non è tanto una Summa Societatis, cioè una specie di riassunto, di sommario, ma piuttosto l’enunciazione dei principi portanti di tutto il discorso. Quindi viene elaborata alla fine, proprio come il Principio e Fondamento degli Esercizi, per indicare, dopo che si sono trattati tanti aspetti particolari, quali sono le strutture portanti. Perciò credo che questi tre testi, e più probabilmente l’ultimo, si possano avvicinare meglio al Principio e Fondamento; alla parte X dovremo fare riferimento sovente proprio perché ha questo valore portante per la comprensione di tutte le Costituzioni. Il prologo Dopo queste premesse e questi raffronti, vi suggerisco ora qualche spunto di meditazione sul prologo giovanneo, inteso come premessa all’istruzione del presbitero, una specie di quadro di riferimento del punto di partenza e del punto di arrivo della predicazione giovannea. Come punti di questa riflessione propongo i vari significati che può avere la parola lógos, che è poi l’attore principale dell’azione del dramma rappresentato brevemente nei 18 versi del prologo. Questa parola lógos è una parola disperante, perché forse è la parola greca che ha più significati: la mente, la ragione, il conto della spesa e molte altre cose estremamente disparate. Ci si domanda da sempre perché mai san Giovanni abbia scelto questo termine invece di sceglierne altri più precisi. Per esempio, se voleva indicare la “parola di Dio”, perché non ha scelto réma, che è forse il termine più adatto, più esplicito per indicare la parola creativa di Dio? Se voleva indicare la sapienza, perché non ha scelto sophía o altre parole analoghe? Ci troviamo qui di fronte a una ridda di significati, che mi sembra però non inutile considerare non a livello esegetico, ma per la meditazione sul nostro piano esistenziale. Probabilmente san Giovanni, dando per così dire una visione “telescopica” di questi significati, vuole darci una specie di scala per salire grado a grado fino dove egli ci vuol portare. Dunque i significati della parola sono molti: per un greco, il significato più evidente che egli percepiva nel diffuso contesto filosofico, era, mi pare, il lógos delle cose, cioè la ragione ultima d’essere della realtà. E benché gli esegeti, di solito, non insistano su

questo significato, perché dicono che la derivazione è piuttosto di tipo sapienziale o propria di testi di tipo veterotestamentario, è impossibile immaginare che un presbitero di Efeso di quel tempo non sentisse parlare del lógos in senso assoluto, senza pensare alla ragione ultima delle cose, al perché del mondo, e quindi non cominciasse di qui la sua riflessione. Elenco cinque significati fondamentali: la parola, ragione d’essere della realtà; la parola creatrice (“Dio disse…”), Dio creò tutto con la parola; sapienza che presiede alla creazione; la parola illuminante e vivificante; l’essere personale, il Figlio di Dio che viene tra noi in Gesù, s’incarna, ed è Gesù che rivela il Padre. Tutta questa serie di cinque significati – altri se ne potrebbero aggiungere – sono visti da Giovanni come se fossero infilati ordinatamente l’uno nell’altro e così ora noi li consideriamo anche per ricostruire lo stesso disegno giovanneo. Lógos, ragione ultima delle cose. La ragione ultima della mia esistenza così com’è in Dio. Questo è certamente un primo messaggio, forse implicito, ma evidentissimo, da cui deve partire il presbitero. La mia esistenza così com’è – e tutta la situazione umana – ha una ragione, ha un senso, ha un significato. E questo significato ultimo è in Dio. Lógos, parola creatrice. Dove sta questo significato ultimo di tutta la realtà, di tutte le cose, della mia situazione umana? Sta nella dipendenza da Dio. Dipendenza da riconoscersi, con sant’Ignazio, nella lode e nella riverenza7. Se la ragione ultima di ogni cosa è una parola creatrice di Dio, questo senso di dipendenza totale da Dio, da riconoscersi con riverenza e lode, è il primo atteggiamento sul quale gli altri si possono costruire e senza il quale nessuna disciplina spirituale può essere costruita. Lógos, sapienza ordinatrice. Qui vorrei proporre una riflessione un po’ più ampia: presso Dio è la ragione ultima non solo dell’essere delle cose, ma dell’essere “qui e adesso”. Cioè: tutte le situazioni dell’esistenza, tutto ciò che gégonen (“è avvenuto”) e avviene ora ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio. Tutto il cosmo, di cui si parla nel v. 9, ha questo significato. Questa considerazione è amplissima e chiarificatrice, perché a partire da essa nessuna situazione umana è priva di senso, anche la più strana apparentemente; sia la mia situazione di uomo sia la situazione dell’umanità e del mondo, sia la situazione della Compagnia di Gesù (di crisi o di non crisi, di attesa, di avanzamento o di regresso) sia la mia stessa situazione hanno un

senso nel piano di Dio. Allo stesso modo, la situazione della Chiesa, tutto ciò che avviene nella Chiesa, ha un significato nella sapienza ordinatrice di Dio. È una visione che tutto abbraccia con fiducia: la parola di Dio sta reggendo tutto. Solo se si ha fiducia in questo può iniziare la formazione del presbitero. Se manca questa fiducia, allora prende campo l’amarezza, la deprecazione, l’abbandono. Si rimane preda dello spavento che coglie di fronte al disordine illimitato. Dunque presso Dio è la ragione ultima di tutte le situazioni dell’esistenza, dell’essere il cosmo oggi così. Lógos, phós e zoè. Questa ragione dell’esistenza è lógos, nel senso di phós (luce) e di zoè (vita): tutto ha un senso e questo senso è luminoso e vivificante. Ossia, malgrado le oscurità della situazione presente dell’uomo, malgrado la tragedia umana che ci circonda, malgrado le prove della Chiesa e le incomprensioni, le situazioni quasi assurde nelle quali si trova il mondo e possiamo anche trovarci noi, esiste al fondo di tutto un euangélion (un “vangelo”), che ci assicura che c’è una ragione luminosa e vivificante di tutte queste cose, se solo sappiamo coglierla e lasciarci trasformare da essa. Questo Lógos è Gesù Cristo tra noi che ci parla del Padre. Le parole di Gesù, riportate nella Scrittura, la sua stessa realtà personale, costituiscono il senso luminoso e edificante di tutta l’esperienza umana, così come noi la percepiamo. È questo lo sfondo sicuro, necessario, su cui si innesta tutta la costruzione successiva. Senza questa fiducia di fondo nella sapienza creatrice, che regola le situazioni presenti e si manifesta in Cristo come “vangelo”, non c’è speranza di fare meglio, non c’è speranza di cambiare se stessi e non c’è speranza per il mondo. La nostra speranza, infatti, è in questo radicarsi di ogni cosa nella ragione ultima, che è la creazione divina e la presenza fra noi di Gesù Cristo, che rivela le parole di Dio e crea una situazione di verità e di grazia, nel mondo: “Gesù pieno di grazia e verità” (1,14). Ecco dunque l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Vangelo di Giovanni, del tutto corrispondente a quella solidità di principio e di appoggio, che sant’Ignazio vuole offrire col suo Principio e Fondamento: tutto dipende da Dio e a Dio va, e la nostra azione può inserirsi in maniera sensata, ragionevole, giusta, in questo movimento, qualunque sia la nostra condizione presente. Da servo ad amico

Propongo ora invece alcune considerazioni sul “punto di arrivo” della predicazione di Giovanni. Anche su questo punto di arrivo, essendo molteplice, dovremo ritornare molte volte. Già questa mattina l’abbiamo definito come formazione del cristiano maturo, del cristiano illuminato, gnostico, del cristiano che ha compreso il senso della fede. Vorrei però ora caratterizzare tale “cristiano maturo” in una maniera ancor più giovannea e che quindi, come tale, ci può dare una chiave di lettura più concreta del Vangelo di Giovanni. Per forza di cose, propongo qui un discorso preliminare. Parto da questo concetto: nel Vangelo di Giovanni (che è il Vangelo dei simboli, delle similitudini, delle figure), la seconda parte (capp. 13-21) rende esplicita la prima (capp. 1-12). Soprattutto è nei discorsi, dal cap. 13 al cap. 17 – là dove si dice di Gesù “adesso non parli più in parabole, non parli più in similitudini” –, che dobbiamo cercare e trovare il senso dei segni che precedono. Tra questi discorsi prendo un punto di riferimento (se ne potrebbero prendere altri, ma mi pare che questo dia una certa introduzione al tema), il testo di 15,15: “Non vi chiamo più servi ma vi ho chiamati amici”. Mi sembra che qui si esprima concretamente il punto di arrivo della disciplina spirituale a cui Giovanni sottopone il discepolo; cioè il Verbo viene ricevuto tra noi nell’intimità misteriosa dell’amicizia. Il termine “amico” è raro nel Nuovo Testamento: lo si trova per indicare situazioni profane della vita. Giovanni è l’unico evangelista che usa i termini phílos, philéin per indicare il rapporto con Cristo, perciò può essere interessante approfondire il significato di questa espressione, che indica uno dei punti di arrivo della predicazione giovannea, e domandarci quali sono in Giovanni le figure di amici del Signore, che egli concretamente ci mette via via davanti, per indicarci in maniera plastica dove ci vuole condurre. Ci accorgiamo allora che Giovanni, il quarto Vangelo, ci presenta una galleria di ritratti di amici del Signore, che approfondiscono ciascuno un aspetto di questa intimità col Verbo tra noi. Indico alcune di queste figure non da meditare, ma da contemplare, secondo la proposta ignaziana “guardare, vedere, ascoltare, trarre frutto”. Quali sono questi amici? Ho individuato cinque nomi, ma se ne potrebbero forse aggiungere altri: questi mi sono sembrati importanti o perché vengono esplicitamente riferiti a essi i termini phílos o philéin, oppure perché c’è una situazione evidente, chiarissima, di amicizia con Cristo, sottolineata come punto saliente per spiegare un aspetto del rapporto del

cristiano con Gesù. Qual è il primo amico che ci viene presentato con questo nome? È “l’amico dello sposo”, Giovanni il Battista (3,29), che gode per la vicinanza dello sposo. E gode, anche se non ne vede chiaramente la presenza manifestata, anche se resta fuori dalla porta; ma gode ugualmente perché, come egli afferma “io devo diminuire e lui crescere”. C’è qui un aspetto importante dell’amicizia con Gesù, che sarebbe interessante paragonare con la figura di Nicodemo. Mentre Nicodemo è tutto preoccupato di sé, della propria situazione, della propria raggiunta rispettabilità, Giovanni è colui che gode perché l’altro sale, l’altro cresce, si afferma, e lui diminuisce. Il secondo esempio di amicizia, che precede nel testo (anche se, di fatto, il Battista è nominato già nel prologo), sono i due discepoli di Giovanni che Gesù accoglie nel suo eremo: “Venite e vedete. Vennero e videro e stettero con lui tutto quel giorno” (1,38-39). Qui troviamo espresso ciò che Marco dice di tutti i Dodici: Gesù li elegge perché “stiano con lui” (Mc 3,14). È questo un altro aspetto dell’amicizia con Gesù: lo “stare” con lui, a lungo, volentieri, il godere con lui del suo eremo. Anche la terza figura è duplice: Marta e Maria. Ciascuna esprime un aspetto particolare dell’amicizia. Maria (un po’ contrariamente a ciò che ci presenta Luca) esprime azione in Giovanni: ella è colei che due volte unge i piedi di Gesù. Marta è quella che gli va incontro familiarmente, gli parla con franchezza e semplicità in un dialogo che è tutto pieno di ascolto, di fiducia. E qui anche si potrebbe notare la differenza dalla samaritana. Mentre la samaritana è piena di preoccupazioni e dice le cose soltanto con circospezione, una dopo l’altra, senza scoprirsi, senza toccare i punti fondamentali, Marta immediatamente parla a Gesù con la massima “parresia”, cioè con la massima franchezza: “Signore, se fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Ma ora so che qualunque cosa chiederai la puoi ottenere” (11,21 ss.). Marta gode di un’immediata intesa col Signore, che le consente piena limpidità di trasmissione delle cose che si hanno nel cuore. La quarta figura è Lazzaro, di cui è detto espressamente “hòn phíleis”, “quello che Gesù amava” (11,3; 11,36), “ho phílos”, l’amico di Gesù (11,11). Mentre negli altri casi si può vedere qualche esplicitazione dell’amore per Gesù (Giovanni gli prepara la via, i due discepoli amano stare con lui, Maria lo serve, Marta gli parla familiarmente), in Lazzaro è difficile cogliere l’aspetto dell’amicizia che viene sottolineato, perché Lazzaro non fa niente: non parla, non agisce, non si sa chi sia, non ha un carattere preciso. Ora, se

vogliamo vedere qui un aspetto tipico, dato che Lazzaro non fa nulla, vuol dire che Gesù fa tutto: è Gesù che sceglie gli amici e non c’è bisogno di possedere una qualche caratteristica speciale perché la prima caratteristica dell’amicizia è lasciarsi scegliere, “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (15,16). Il testo segue subito il v. 15, il passo fondamentale sull’amicizia. Lazzaro rappresenta, a mio avviso, la persona che è amata da Gesù, perché Gesù così vuole, e che accetta la sua iniziativa. La quinta figura, che tra tutte è preminente, rappresenta il discepolo, in quanto “presbitero” che ascolta e che fa strada: si tratta del “discepolo che Gesù amava”, ricordato parecchie volte (13,23; 13,25; 21,7; 21,20). Perché questa figura misteriosa? Certamente essa ha nel messaggio del quarto Vangelo il valore di un punto di arrivo. Essa ci fa vedere come la strada di accoglienza del mistero dell’incarnazione ci debba condurre a questa “intimità” col Signore, che viene descritta soprattutto nell’ultima cena e nella scena finale del Vangelo (cap. 21). A queste aggiungiamo almeno un’altra figura, che viene ricordata con verbi come philéin e agapáo: Pietro, che nel discorso del capitolo finale (21,15 ss.) – il luogo neotestamentario dove questi verbi vengono ripetuti più volte – rappresenta l’amore apostolico, cioè l’amore che, avendo intuito il mistero, si dona al servizio apostolico, al servizio ecclesiale (mentre il discepolo che Gesù amava è piuttosto il tipo dell’intimità mistica col Signore, colui che ha capito profondamente il mistero del Verbo). Fin d’ora vediamo come questo messaggio non punti a una teoria, a un insieme di proposizioni logiche o dottrinali bensì verso un’intimità col Signore di tipo nuovo, per discepoli che non erano ancora né il catecumeno né il discepolo del secondo ciclo di istruzione, preoccupati di tante cose da fare, di tante prescrizioni da adempiere. Ora si delinea la possibilità di un rapporto davvero nuovo, che deve essere coltivato, ma che in verità Dio prepara come dono.

OMELIA. IL MISTERO DELLA PREGHIERA CRISTIANA (GV 16,23 SS.) Meditiamo le parole di Gesù ponendoci di fronte alla situazione drammatica della Chiesa del nostro tempo, e anche forse della situazione della Compagnia, sullo sfondo della quale si distende la nostra preghiera durante questi esercizi; perché la nostra preghiera, anche se è rivolta a Dio, è sempre inserita sullo sfondo di una situazione concreta.

La situazione che la Chiesa presenta ai nostri contemporanei è determinata dal rischio, dall’imminenza grave di perdere valori importanti, o almeno creduti tali, senza accorgersene. In altre parole è la situazione di chi, se non sta attento e non sta più che in guardia, si vedrà privato di valori essenziali senza neppure intendere il rischio in cui si trova. È in questa situazione, su questo sfondo estremamente serio e che ci deve sempre accompagnare, che noi ci esercitiamo in questi giorni nella preghiera. Il Vangelo di Giovanni è scuola di preghiera: se esaminato attentamente ci presenterebbe una lunga serie di esempi di preghiere rivolte a Gesù, invocazioni, domande, suppliche, lamenti, grida d’angoscia, professioni di fede, proteste di amore, colloqui sparsi un po’ lungo il Vangelo, che possono servire come esempio per formulare, per modellare il nostro colloquio con Dio. Giovanni ci presenta non soltanto una serie di preghiere rivolte a Gesù, ma anche preghiere che Cristo rivolge al Padre. È il Vangelo che ci presenta la preghiera più lunga di Gesù, quella del cap. 17; e, oltre questa, molte altre invocazioni, domande, lamenti, suppliche, che egli stesso rivolge al Padre. Questa sera, però, dovrei intrattenervi brevemente su un terzo aspetto che caratterizza il Vangelo di Giovanni come scuola di preghiera; consideriamolo, cioè, in quanto ci riporta alcuni insegnamenti di Gesù sulla preghiera. Sono principalmente sei i detti di Gesù a cui è affidato l’insegnamento giovanneo sulla preghiera; e tutti e sei si trovano nei capitoli 14, 15 e 16, cioè là dove, alla parte enigmatica del Vangelo di Giovanni, succede la parte illuminativa, o rivelativa. E anche questo è interessante: la preghiera appartiene al momento della rivelazione, è lo svelamento del vero rapporto con Cristo e col Padre. Quali sono questi sei detti, di cui il più importante è quello che abbiamo ascoltato nella lettura del Vangelo? Eccone le citazioni: “Qualunque cosa chiederete nel mio nome la avrete”; e “se uno di voi mi chiede qualcosa nel mio nome la otterrà” (14,13-14). “Se rimanete in me e le mie parole in voi, chiederete ciò che vorrete e l’avrete” (15,7). “Perché qualunque cosa chiediate al Padre voi la otteniate” (15,16). Infine il brano che abbiamo ascoltato (16,23 ss.). Come ordinare questi detti di Gesù sulla preghiera, in maniera da intenderne in qualche modo il senso? Propongo un ordinamento che, almeno a me, dà qualche luce per capire ciò che Giovanni ci vuol dire su questo fondamentale atteggiamento cristiano. Raccolgo quindi questi detti sotto tre titoli: il mistero cristologico della preghiera; il mistero escatologico; il mistero trasformante.

Sotto il titolo “mistero cristologico” della preghiera metto questi testi: 14,13 ss.; 15,16 e 16,23-24, in cui l’insistenza è del tipo: “chiedete nel mio nome”. La preghiera è qualcosa che si fa “nel nome” di Gesù. Più facile è il passo 16,23-24: “Ciò che chiedete al Padre nel nome mio, ve lo darà”. Più difficile e oscuro il brano 14,13-14, in cui non si parla più di “chiedere al Padre” ma, almeno stando al testo come suona, “di chiedere a Cristo nel suo nome”. È veramente imbarazzante da spiegare cosa vuol dire “chiedere a Cristo nel suo nome”. E questo “chiedere [a me]” è così oscuro, che molti lo hanno criticato o omesso, appunto perché non sapevano spiegare cosa vuol dire “chiedere a me [al Cristo] nel mio nome”. Lo stesso versetto 14 è stato omesso da qualche manoscritto, appunto per le sue difficoltà. Ma è chiaro che anche qui, dove sembrerebbe che non si debba tirar fuori l’idea del nome di Gesù, questo nome è presente, cioè la preghiera è un mistero cristologico, qualcosa che non compiamo noi, ma compiamo nel Cristo, nel suo nome. Che cosa vuol dire “chiedere nel nome di Gesù”? È quanto abbiamo tradotto nella formula, che termina tutte le preghiere liturgiche, “per Cristo nostro Signore”, che è anche una formula, ma una formula che vorrebbe dire qualcosa di più. Per esempio vuol dire fiducia nella sua intercessione: egli è il centro del mistero di salvezza, è il Salvatore, e quindi ogni salvezza viene nel nome suo e chiedendo al Padre in suo nome riconosciamo questa origine del mistero di salvezza. C’è però un mistero ulteriore, che ci manifestano gli altri testi giovannei e che dobbiamo ora prendere in considerazione, notando l’aspetto escatologico della preghiera. Alcuni testi, dunque, sottolineano il mistero cristologico, altri il mistero escatologico, e sono i versetti che abbiamo letto: “In quel giorno chiederete nel mio nome, e io chiederò al Padre per voi”. E ancora al v. 23 un’affermazione che sembra contraddittoria: “In questo giorno non chiederete niente”. Che cosa è “quel giorno”? Quel giorno in Giovanni è chiaramente il giorno escatologico. Lo possiamo intendere se ricordiamo un altro passo in cui appare l’espressione “in quel giorno”, cioè: “In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio e voi in me, come io in voi” (14,20). Che cosa avverrà in quel giorno? Vi sarà una tale identificazione tra noi e il Cristo come tra il Cristo e il Padre, che non si chiederà più in preghiera; oppure se si chiederà, saremo noi stessi nel Cristo che la presenteremo al Padre, e la preghiera sarà con ciò stesso esaudita. Quindi, la preghiera nostra sulla terra appartiene al mistero escatologico in quanto anticipa lo stato di

esaudimento filiale, nel quale la nostra preghiera è quella stessa di Cristo ed è quella che il Padre ci ispira, perché siamo col Cristo in unità al Padre; e quindi la nostra preghiera è lo stesso desiderio, lo stesso respiro – per così dire – di Dio. La nostra preghiera è l’anticipazione escatologica, l’anticipazione nel momento presente di questo stato di esaudimento filiale, che è tipico della situazione escatologica. Possiamo intendere allora anche l’ultimo passo di Giovanni sulla preghiera, dove ci parla della preghiera come mistero di trasformazione o mistero di identificazione: “Se rimanete in me e le mie parole in voi rimangono […] ciò che volete chiedetelo e vi avverrà” (15,7). Che cosa succede nella preghiera? Avviene quella identificazione nostra fin da ora con Gesù che ci fa riprodurre lo stato di unità del Figlio col Padre e quindi rende immediatamente esaudita ogni preghiera, perché la preghiera stessa sgorga da noi come ispirata da Dio, così da essere il respiro stesso di Dio che ci trasforma. Certamente questo insegnamento sulla preghiera costituisce un passo avanti rispetto all’insegnamento sinottico: “Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto, chiedete e otterrete” (Mt 7,7), ma è certamente nella linea sinottica, in quanto ci presenta la preghiera come momento di identificazione con la volontà del Padre e del Figlio attraverso l’adesione della volontà alle parole di Gesù. In altri termini, chi prega riproduce in sé l’atteggiamento di Gesù il quale dice in Giovanni 8,29: “Faccio sempre le cose che sono gradite al Padre” e in 11,41-42: “Ti ringrazio, o Padre, perché sempre mi ascolti”. Gesù ascolta il Padre e così il Padre lo ascolta. Pregare è dunque essere nel Figlio e partecipare alla sua fiducia filiale di chi ascolta il Padre e ne è ascoltato. La preghiera così è fonte di gioia, perché è segno di identificazione, è frutto di unità col Figlio e col Padre. E si manifesta allora, nella preghiera, quella fiducia di cui ci parla il testo odierno evangelico, quella “parresia” (fiducia) che viene spiegata ancora molto più chiaramente in 1Gv 5,14 ss. Questa è la parresia, cioè la fiducia che abbiamo verso di lui: che se qualcosa chiediamo secondo la sua volontà, ci ascolta. E se sappiamo che ascolta ciò che chiediamo, sappiamo che le richieste che gli abbiamo rivolto sono già nostre. La nostra richiesta in tanto è in noi in quanto Dio già ce la dà. E questo spiega più chiaramente una misteriosa parola di Mc 11,24 che dice: “Per questo vi dico: tutto ciò che pregate e chiedete, credete di averlo già ricevuto e vi sarà dato”. “Chiedere”, in questa visione, è già ottenere, è già ricevere perché è respirare il dinamismo della volontà di Dio.

Questo testo di Marco è così oscuro che molti, come si nota nei manoscritti, l’hanno cambiato: non “credete che l’avete già ottenuto” ma “credete che lo otterrete” o “che state per ottenerlo”. Ma così il senso è sovvertito, mentre il vero senso è: “Credete di averlo già ottenuto”. Possiamo concludere: questo insegnamento sulla preghiera è troppo alto o è troppo sublime? Credo di no. E se riflettiamo un momento sulla nostra esperienza, sui nostri desideri, sulle nostre preghiere ci rendiamo conto che, in fondo, nulla veramente chiediamo e desideriamo, quando preghiamo rettamente, se non ci è ispirato dal Padre e se lo Spirito non si muove in noi. E se Dio lo muove in noi è perché ce lo vuol dare. E se lo vuol dare, di fatto ce lo ha già dato: ci deve aver già dato la salvezza, per averla voluta. La preghiera quindi non è più in una situazione di angoscia, quasi di strappare qualcosa a Dio, ma consiste nell’abbandonarsi con fiducia a lui, nella certezza che egli, poiché ci fa pregare, ci salva senz’altro.

III. I NEMICI DI GESÙ II Vangelo di Giovanni non ci parla soltanto di amici, ma anche abbondantemente di nemici del Signore. È un Vangelo realista che fin dall’inizio mette accanto alla luce le tenebre e svolge poi coerentemente questo tema dell’opposizione a Gesù. Quindi dobbiamo riflettere sugli ostacoli avversi alla presenza di Gesù in mezzo a noi, secondo quanto ci dice il quarto Vangelo. Questa meditazione corrisponde, in qualche maniera, alla meditazione degli Esercizi “sui tre peccati” che è la prima meditazione della prima settimana [45-54]. La confessione e le Costituzioni Le meditazioni sono un po’ impegnative da fare. Suggerisco di “aiutarsi” subito con un colloquio penitenziale, cioè una confessione ampia, che serva a trarre fuori noi stessi dall’inedia nella quale di solito ci troviamo. Ordinariamente si suole fare la confessione al termine della prima settimana di esercizi, cioè dopo due o tre degli otto giorni. Alcuni poi ansiosamente preparano questa confessione prolungando il tempo, la rimandano alla fine della settimana. Un suggerimento, che potrebbe essere

utile per qualcuno, sarebbe quello di non preparare affatto la confessione, ma di sostituirla con un colloquio penitenziale, in cui, con una persona di propria fiducia, si espongano non i propri peccati, che sono troppo difficili da cercare, ordinare, ma ciò che dispiace in noi stessi, ciò che non va. Questo è più facile tirarlo fuori, dirlo, anche e proprio perché non si tratta di peccati. Anche nelle Costituzioni (poiché ci siamo ripromessi di portare avanti un continuo raffronto con le Costituzioni) viene trattato questo tema del peccato: la parola “peccato” vi occorre trenta volte, una volta il verbo “peccare”, una volta il sostantivo “peccatore”. Ho cercato di scorrere tutti questi testi (la cosa è stata molto utile per me, perché così ho riletto molte volte le Costituzioni), ma non ho trovato molte cose da aggiungere a ciò che si trova negli Esercizi. Evidentemente sant’Ignazio, che coltiva il metodo di trattare le cose per gradi e a loro tempo, tratta ampiamente del peccato negli Esercizi: la materia, le cose che dice sono molte e interessanti. Per esempio, è molto interessante esaminare l’indice di questa edizione8 di cui mi servo, che riguarda le Opere complete di sant’Ignazio di Loyola. L’indice, alla parola “peccato”, fa vedere come è profondo e ricco l’insegnamento di sant’Ignazio su questo tema, negli Esercizi e anche molto nelle sue Lettere. Quindi è un tema che sente molto e sul quale ritorna spesso. Nelle Costituzioni suppone il tema già trattato, e quindi lo riprende solo dove occorre, e così nell’Esame generale, dove parla più volte dei peccati che impediscono di essere accettati nella Compagnia di Gesù, soprattutto dei peccati enormi9 ecc. Nella I parte delle Costituzioni, trattando dell’ammissione e degli impedimenti, si fa menzione anche qui (Cost 165 ss.) dei peccati che impediscono l’ammissione. Nella II parte, della dimissione, c’è un accenno o due a cause di dimissione, per esempio chi dà occasione di peccare (Cost 215); questo è causa di dimissione. Nelle altre parti ricorre la parola soltanto casualmente, soprattutto nella frase “obbedire dove non si vede peccato” (Cost 602). Quindi l’insegnamento che ci danno le Costituzioni, non in modo molto ampio, ritorna più volte nella parte IX, quando si parla di deporre il preposito generale per causa di peccati (Cost 774), oppure di essere obbligati sotto peccato dal papa ad accettare dignità (Cost 788). Ma come vedete, questo mi pare non aggiunge molto al tema degli Esercizi. È qui dove sant’Ignazio tratta soprattutto a fondo il nostro tema; nelle Costituzioni della Compagnia suppone che il tema sia già stato a suo tempo e a suo luogo affrontato. Veniamo dunque ai brani evangelici che ci proponiamo di meditare

questa mattina. La meditazione sui peccati Ho pensato di dividere la meditazione così: una prima parte consisterà nella lettura di alcuni testi giovannei in cui entrano in scena i nemici di Gesù: Chi sono? Perché sono nemici? Come si presentano? Cosa fanno? Ho preso solo alcuni testi fino al cap. 10, evitando quindi di entrare nel tema della passione. Si tratta di pochi esempi: se ne potrebbero portare altri. Come vedrete, l’elenco comincia al cap. 5, perché è di lì che cominciano le grandi controversie, che sono soprattutto i capp. 7 e 8. La seconda parte vorrebbe rovesciare la materia e vedere la questione non a partire dai nemici di Gesù, ma a partire da Gesù stesso. Dopo aver ascoltato i rimproveri mossi a Gesù dai suoi nemici, si tratterà di ascoltare i rimproveri che Gesù muove agli altri. Come terzo punto – che può servire a chi vuole per una meditazione distinta – propongo un episodio specifico, in cui scoppia l’ira di Gesù contro qualcuno. È l’episodio della purificazione del Tempio, che ci permetterà di concretizzare meglio i nostri pensieri. Chiediamoci, dunque, chi sono i nemici del Signore. Vediamo una serie di testi: li ho raccolti in quattro gruppi. Nel cap. 5 appaiono, prima di tutto, come suoi nemici quelli che lo accusano di violare il sabato: per questo i giudei perseguitavano Gesù, “perché queste cose faceva di sabato” (5,16). Dunque qui abbiamo un gruppo che potremo chiamare degli “integralisti” o, se volete, dei formalisti: questi si scandalizzano di Gesù e, senza ascoltarlo, si mettono a combatterlo. Un secondo episodio di opposizione a Gesù si trova in 7,32 e poi in qualcuno dei versetti seguenti: “Udirono i farisei che la folla mormorava queste cose su di lui e perciò i sommi sacerdoti e i farisei mandarono dei servi per prenderlo”. Qui dunque c’è un’opposizione diretta a Gesù, per la quale si tenta di farlo prigioniero. Da dove parte questa opposizione? Parte dall’ascolto delle parole della gente, riportate in 7,31: “Della folla molti credevano in lui e dicevano: ‘Il Cristo, quando verrà, forse farà segni più grandi di quelli che ha fatto lui’”? Di tale opposizione a Gesù si parla ancora in 7,46 ss., quando i servi, che sono stati mandati per prendere Gesù hanno avuto paura, e non lo hanno arrestato, perciò si scusano “dicendo: ‘Mai ha

parlato così un uomo’. Risposero allora i farisei: ‘Forse anche voi vi lasciate ingannare? Forse qualcuno dei capi ha creduto in lui, o qualcuno dei farisei? Ma questa turba, che non conosce la legge è una razza di maledetti’. Dice a loro Nicodemo (quello che era venuto da lui la prima volta): ‘Forse la legge nostra condanna un uomo, se prima non si ascolta e si viene a sapere ciò che ha fatto’? Risposero e dissero a lui: ‘Forse sei anche tu dalla Galilea? Scruta e vedi che un profeta dalla Galilea non sorge’”. Come possiamo caratterizzare questo tipo di opposizione a Gesù? Abbiamo qui una forma di “invidia”. La gente glorifica Gesù, va dietro a lui e lascia i farisei. Successivamente si verifica una “chiusura” all’opera di Dio, quando si giunge a dire: “Dio non può essere con lui, è impossibile che Dio agisca in questo modo, un profeta non sorge dalla Galilea”. Questi nemici di Gesù sono coloro che, misurando l’opera di Dio con il loro metro di possibilità e di ragionevolezza, non accettano niente che va al di là di questo metro, e quindi condannano Gesù perché non entra nel loro schema mentale. Troviamo un terzo episodio in 8,48.52-53. Nemici di Gesù si manifestano qui coloro che lo accusano di essere indemoniato: Risposero i giudei e dissero a lui: “Non diciamo forse bene noi che tu sei un samaritano e hai un demonio?” […] Gli dicono ancora: “Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto e anche i profeti, e tu dici: Se qualcuno osserva la mia parola non gusterà la morte in eterno. Sei forse più grande del padre nostro Abramo che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi ti fai, chi sei tu?”

È importante per capire questa accusa – così come ce la presenta Giovanni – leggere anche i vv. 44-46, dove Gesù è il primo ad accusare (sono versetti che citeremo anche nella seconda parte della meditazione, ma qui è utile leggerli per capire questo tipo di opposizione): “Voi siete dal padre, il diavolo, e i desideri del padre vostro volete fare. Quegli era uccisore di uomini dall’inizio e non stette nella verità, e non è verità in lui: quando dice menzogna, parla del suo, perché è menzognero, e padre della menzogna. Io vi dico la verità e voi non mi credete. Chi di voi mi può accusare di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Voi non le ascoltate perche non siete da Dio”.

Come si configura qui l’opposizione? L’opposizione nasce dalle accuse di Gesù. Gesù “accusa” queste persone di ipocrisia, di menzogna, e questo suscita tutto il loro sdegno; perciò contrattaccano e si chiudono all’ascolto della sua parola. Si vede qui il disagio e il livore che cresce in una persona quando si vede contestata o criticata; allora, senza più pensare a ciò che ci può essere di giusto e di ovvio nell’accusa subita, si scaglia contro l’accusatore.

Infine vi invito a fermarvi su 8,58-59 e 10,31-33: nemici di Gesù sono coloro che cercano di lapidarlo. Cercano di lapidarlo, perché Gesù parla in una maniera nuova e incomprensibile del suo rapporto col Padre. Qui il tema dell’opposizione si esprime come chiusura al mistero della persona di Gesù e al mistero del Padre, di Dio che si manifesta in lui. Questi episodi ci lasciano sospesi e timorosi in quanto colgono un unico aspetto fondamentale del peccato, quello della chiusura alla “verità”, ossia intolleranza della verità, intolleranza della parola di Dio come realtà nuova, diversa, capace di sconvolgere il nostro pensiero. È un tema che ci deve fare tremare, se lo applichiamo veramente a noi stessi. Non abbiamo queste accuse, queste opposizioni, nei confronti dell’adultera, che pure è peccatrice, oppure nei confronti del paralitico, che pure ha commesso peccati. Qui siamo in tutt’altra linea, nella linea della chiusura all’opera, alla parola di Dio. E – notate – si tratta di opposizioni in relazione alla persona di Gesù e sono concentrate sulla sua persona. Egli è la chiave non soltanto dell’amicizia con Dio, ma anche del rifiuto, del peccato. C’è qui qualcosa di misterioso, che non possiamo spiegare a parole, che però è almeno utile cercare di contemplare, chiedendo nella meditazione di essere illuminati su questi punti fondamentali. Approfondendo l’opposizione a Gesù Possiamo cercare ora di specificare meglio questa opposizione misteriosa a Gesù, rovesciando la prospettiva e chiedendoci: che cosa rimprovera Gesù ai suoi avversari? Quali sono le accuse che egli fa loro? Qualche aspetto è già stato accennato. Partendo dal cap. 5, indico alcuni testi che ho raccolto in tre gruppi fondamentali. Una prima serie di accuse serrate di Gesù ai suoi avversari si trova in 5,37-38 e poi ai vv. 42-44: – vv. 37-38: “Chi mi ha mandato, il Padre, quello testimonia di me. Ma voi la voce di lui non l’avete mai sentita e il suo volto non l’avete mai visto, e la parola di lui non l’avete permanente in voi”. Qui ci si potrebbe chiedere come intendere questo rimprovero: “non avete mai udito la voce di Dio, non avete mai visto il suo volto”; se Dio non si vede, per gli ebrei, come si può rimproverare di non aver visto Dio? Invece l’accusa certamente è gravissima per quanto riguarda l’ascolto della Parola: avete letto la Bibbia, la conoscete a

memoria, e non avete mai sentito la sua Parola; è quindi un’accusa certamente grave che va al cuore dell’atteggiamento dei pii ebrei, con i quali Gesù si sta scontrando. La chiave viene data nella seconda parte del v. 38: “Quello che egli ha mandato, a lui voi non credete”. Dio non si vede, ma lo si vede nella persona di Gesù, e l’atteggiamento preso verso di lui, corrisponde all’atteggiamento preso verso la Parola, che è il disegno, il mistero stesso di Dio. – v. 44: “Come potete voi credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e la gloria che è dal solo Dio voi non cercate?” (Qui il testo è abbastanza tormentato; la versione in italiano della CEI traduce così: “Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” Da notare che molti manoscritti omettono la parola Dio e hanno: “dall’Unico”, “dal Solo”). Il tema è la “vanagloria” di queste persone. Si potrebbe pensare che è un tema banale: come mai dalla vanagloria può nascere un’opposizione totale alla persona di Gesù? Eppure certamente per Giovanni questo è un tema importante. Questa attitudine, così comune nei gruppi, soprattutto nei gruppi arrivati, di sostenersi con la lode mutua (“io lodo te perché tu lodi me”), comune soprattutto, direi, nel mondo accademico, nel mondo scientifico qui è vista come una delle cause fondamentali per non potersi liberare dal condizionamento dell’opinione altrui, e credere in verità a Gesù. Ho detto che questo motivo a noi può sembrare un po’ banale: a noi sembra che, qualche volta, la vanagloria possa anche dare un certo aiuto per andare avanti; qui, invece, è vista nelle sue radici più infette e distruttive, tanto che in 12,41-43, riassumendo tutta l’opera di Gesù, si ritorna proprio su questo tema: “Queste cose disse Isaia quando vide la gloria di Dio e parlò di lui. Ma dei capi del popolo molti credevano in lui, ma a causa dei farisei non lo confessavano, per non essere messi fuori dalla sinagoga”. E qui l’ultima parola: “Amavano infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio”. Ciò vuol dire che questo tema, che sembra riferirsi soltanto a un’ingenua vanità, è di fatto un tema che tocca profondamente il nostro rapporto con Dio e con gli altri. Ed esso è soprattutto un tema del presbitero, perché chi comincia, non avendo fama, non ha vanità, non ha niente da difendere, e allora può perdere facilmente ciò che non ha. Ma quando, a un certo punto, si è formata una certa rete di relazioni, di convenienze, di opinioni già formate, si è schiavi di questa rete di opinioni e c’è il pericolo che sia soffocata la libertà di ascoltare nella verità la parola di Dio. Per questo penso che Giovanni insista tanto su questo tema,

a cui riconduce l’accecamento dei nemici di Gesù, alcuni dei quali pensavano: “forse ha ragione: però nessuno lo dice, nessuno si pronuncia, dunque anch’io sto zitto”. – vv. 44 e 47: già li abbiamo letti, in parte; sono terribili requisitorie: “Voi siete dal padre, il diavolo, e i desideri del vostro padre volete compiere. Egli fu uccisore di uomini dall’inizio”. Ritorneremo su questo testo quando, seguendo padre Mollat10, lo applicheremo al primo punto della meditazione dei peccati di sant’Ignazio. Qui basta notare la parentela che Gesù indica tra l’invidia e la menzogna, che sono due cause fondamentali di peccato. Questo testo viene preso precisamente dal libro della Sapienza dove si legge: “Per causa dell’invidia del diavolo venne la morte” (Sap 2,24) e quindi il diavolo per invidia uccise. È dall’invidia che nasce il desiderio di schiacciare gli altri, causa di molti peccati; così è dalla mancanza di sincerità, di verità, cioè dalla menzogna che deriva tutta una serie di confusioni e di chiusure, da cui nasce l’opposizione a Gesù. E infine un ultimo testo, che mi pare anche importante per determinare l’opposizione a Gesù, così come viene lamentata da Gesù stesso. Lo cito, benché si trovi già nella seconda parte del Vangelo di Giovanni, perché mi pare un testo conclusivo su tutto ciò che Gesù ha da dire sui suoi nemici: “Chi odia me odia anche il Padre mio. Se non avessi fatto le opere che nessun altro ha fatto, non avrebbero peccato. Ora hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Ma perché si compia la Scrittura scritta nella loro legge mi hanno odiato senza ragione” (15,23-25 ss.). Qui troviamo un elemento di radicale importanza per afferrare ciò che Gesù ha da dire dei suoi nemici: “Mi odiano senza ragione”; cioè significa che tutta la loro opposizione è frutto di un odio insano, ed è causa, per coloro che la compiono, di tristezza e di morte. Si tratta di quell’incapacità ad aprirsi all’amore di Dio, a credere all’amore di Dio, che si cristallizza nel rifiuto a credere che Dio con la sua Parola vuol davvero fare di noi qualcosa di meglio, tirandoci fuori dalla nostra situazione presente e trasformandoci. Rifiutare il suo invito, chiuderci in noi stessi, diventa un odio gratuito contro Dio e contro se stessi, che è già una forma di autodistruzione, di inferno vissuto nella propria persona. Riassumendo, dunque, per quanto riguarda questi testi, vediamo che decisivo è il rapporto verso la persona di Gesù. Il Verbo si è fatto carne, ed è verso la sua persona che si concentrano le opposizioni e i rifiuti. Il vero rapporto verso Gesù si attua nell’aprirsi alla sua voce e nell’ascoltare il suo

invito. Invece il rifiutarsi, il chiudersi di fronte a esso porta a una serie di situazioni menzognere e false, che alla fine si ripercuotono in odio contro Dio e quindi in odio contro se stessi. L’ira di Dio E ora veniamo al terzo punto, alla terza parte della meditazione in cui ci occuperemo di un esempio specifico della collera di Gesù, cioè dell’ira di Dio manifestata in Cristo (2,13-22). Il tema dell’ira di Dio è un tema di cui si parla poco; eppure meriterebbe un ampio approfondimento. Ho dato, nel maggio scorso, un’esercitazione a un piccolo gruppo dell’Università Gregoriana, che segue l’istituto di psicologia, attenti allo studio della psicanalisi e a problemi psicologici. Il tema era: “Peccato, penitenza, castigo; ira di Dio nel Nuovo Testamento”. Abbiamo esaminato insieme il tema dell’ira di Dio, non soltanto nel Vecchio Testamento ma anche nel Nuovo; ricordo, appunto, la sorpresa di tutti nel considerare l’ampiezza di questo tema, soprattutto per il fatto (c’erano sacerdoti con una certa esperienza teologica) che anche il Nuovo Testamento insiste fortemente sull’ira, sulla collera di Dio. È dunque un tema che non va trascurato, anche se va interpretato bene; non possiamo metterlo da parte troppo facilmente, semplicemente tagliando dai salmi tutto quello che riguarda l’ira di Dio: non è così che possiamo avere una visione equilibrata e completa del messaggio biblico. Abbiamo qui, dunque, un episodio tipico della collera di Gesù. Il fatto è noto. Il testo si può dividere facilmente così: all’inizio (2,13) la “situazione”; nei tre versetti 14, 15 e 16, il “fatto”; nei seguenti, da 17 a 22, le “riflessioni” sul fatto, rispettivamente dei discepoli, dei giudei e di Gesù. Quanto alla “situazione” (v. 13), notiamo l’importanza che Giovanni dà a questo episodio: è il primo episodio della vita pubblica di Gesù. È vero che prima precede Cana, però Cana è un episodio a metà, di passaggio: Gesù opera, ma in qualche modo ancora nascostamente. Questo invece è il primo episodio con cui Gesù entra ufficialmente in scena. Ed entra in scena in un momento importantissimo per la vita giudaica: “Era vicina la Pasqua dei giudei”. Giovanni collega volutamente questo episodio con la Pasqua: come sapete, il Vangelo di Giovanni è ritmato secondo il succedersi delle feste, di cui la principale sarà l’ultima Pasqua di Gesù. Qui troviamo il

primo accenno a questa serie di feste, che inaugura lo sviluppo liturgico della vita di Cristo. Era, dunque, vicina la Pasqua dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme: è la prima volta che vi si reca ufficialmente, e Giovanni quindi fa di tutto per mettere questo episodio in grande rilievo. È un episodio ricchissimo di simboli e di significati, che non possiamo certamente approfondire qui: a me interessa indicare qualche considerazione che va nel senso del nostro attuale momento esistenziale di riflessione. Come si svolge la scena? Gesù trova nel Tempio gente che vende buoi, pecore, colombi, e i cambiavalute seduti per terra; fatto un flagello, di un materiale che è difficilissimo determinare, caccia fuori tutti e rovescia i tavoli. Non so come tradurre schoiníon in 2,15, potrebbero essere funi o canne: la parola di per sé ha un significato molto dubbio. L’idea però è questa: Gesù agisce qui un po’ come un pazzo, cioè come un invasato, che prende ciò che trova e butta a terra. È una scena veramente drammatica, forse anche un po’ disgustosa. L’unico punto dove Gesù riprende a ragionare è quando parla ai venditori di colombe, e a essi spiega: “Portate via queste cose di qui, non fate la casa del Padre mio casa di commercio”. Le riflessioni su questo fatto sono tre. I discepoli ricordano la Scrittura: “Lo zelo della tua casa mi ha divorato” (2,17); quindi in fondo i discepoli fanno un’applicazione: Gesù purifica il Tempio che dovrebbe essere luogo di preghiera (qui chiamato non “luogo di preghiera” come nei sinottici, ma “casa del Padre”). I giudei chiedono un segno, e Gesù interpreta la scena facendo riferimento al segno del suo corpo – come spiega Giovanni – che sarà il Tempio definitivo (2,19-22). Quindi qui c’è tutto un incrociarsi di simboli molto complessi, che sarebbe lungo sceverare l’uno dall’altro, perché si intersecano praticamente l’uno dentro l’altro. Riflettendo con padre Mollat Ma è proprio a questo punto che vorrei leggere brevemente l’applicazione che ne fa il padre Mollat, in un corso di esercizi dato su san Giovanni nell’anno 1972, in una sua meditazione sulla purificazione del Tempio. Vi leggo qui qualche frase, che mi pare utile per meditare attentamente su questo brano, applicandolo a noi nel momento presente e lasciando da parte molte altre possibili indicazioni che il brano potrebbe avere. Parto da questa affermazione che per padre Mollat è messa in fondo, ma è la chiave di tutto,

cioè 1Cor 3,17: “II tempio di Dio è sacro, e questo tempio siete voi”. Questa è la prima affermazione di padre Mollat. La seconda si appoggia a 1Gv 5,21: il peccato è sempre una profanazione del tempio di Dio, nel quale si pongono degli idoli. Sulla base di questi due testi, padre Mollat applica il concetto di profanazione del tempio al peccato degli angeli, dei progenitori, al peccato di Israele e a ogni peccato, secondo la scansione ignaziana11. Il peccato degli angeli: pur essendo tutto di luce, l’angelo si è chiuso a Dio, è divenuto un essere devastato, un tempio sconsacrato e profanato, dove l’idolo di un mostruoso orgoglio ha preso il posto di Dio. Qui si cita Gv 8,44, cioè l’accusa fatta da Gesù di essere dal diavolo, il quale fu fin dall’inizio uccisore d’uomini, cioè profanatore dell’opera di Dio nell’uomo, perché egli stesso l’aveva profanata in sé. Il peccato dei nostri progenitori (cioè il secondo punto della meditazione ignaziana) visto ancora come profanazione. La Bibbia presenta la creazione come un tempio, il giardino di Dio, l’Eden (Gen 2,10-12); l’uomo viveva in esso nell’armonia e nella pace: armonia nell’uomo, nella coppia umana, tra l’uomo e la natura. Violando l’ordine divino, l’uomo profana la creazione e profana se stesso. Cacciato dall’Eden, diventa un esiliato che vive su una terra devastata. Il peccato di Israele è sempre una profanazione. Israele è nazione consacrata (Es 19,6). Peccando, il popolo eletto profana l’alleanza e profana se stesso (Is 5,1-30; Ger capp. 2 e 7). E infine, il testo che mi sembra forse ancora il più ricco. Ogni peccato è profanazione dell’opera divina: profanazione dell’uomo e della donna, del bambino, del lavoro, dell’amore, della natura. Lo stesso appetito del godimento, lo spirito di avarizia, la volontà di potenza prendono il posto di Dio nel suo tempio. Tutto questo può essere visto come applicazione al tempio profanato, secondo 1Cor 3,17: “II tempio di Dio è sacro e questo tempio siete voi”. E quindi la collera di Gesù si esercita per la profanazione di ogni tempio: del suo tempio, di ciascun tempio che siamo noi. Padre Mollat conclude richiamandosi alla conclusione di questo cap. 2 di Giovanni. Il corpo di Cristo risuscitato sarà il tempio nuovo, fondamento e centro di un mondo nuovo e dell’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e santità della verità (Ef 4,24). Cioè Gesù ricostituisce la santità del tempio in se stesso. Vi leggo anche il colloquio, molto ben fatto, molto bello, che parafrasa il colloquio di sant’Ignazio alla fine della prima meditazione: “Colloquio col

Cristo inchiodato sulla croce, profanazione suprema, che ha voluto ricevere sulle sue spalle i colpi di frusta della purificazione del tempio. Considerando me stesso, profanato dai miei peccati e profanatore dell’opera divina, mi domanderò ciò che ho fatto per il Cristo, ciò che faccio per lui, ciò che debbo fare per lui, per l’edificazione del tempio nuovo” (Cfr. [53]). Ecco come possiamo, volendo, riflettere ampliamente su questa meditazione, richiamandola alla nostra situazione presente e al desiderio che abbiamo di purificazione.

IV. PECCATI, TENEBRE, MENZOGNA, SCHIAVITÙ, MORTE La meditazione che ora propongo corrisponde nella struttura degli Esercizi al secondo esercizio della prima settimana: la “meditazione sui peccati” [55-61]. E soprattutto corrisponde – o almeno dovrebbe corrispondere nella nostra esperienza – all’importantissimo terzo esercizio, cioè la “ripetizione del primo e secondo… col triplice colloquio. Il primo colloquio con Nostra Signora, perché mi ottenga grazia dal suo Figlio e Signore per tre cose: perché senta interna conoscenza dei miei peccati e aborrimento di essi; perché senta il disordine delle mie azioni, del mio modo di agire, e aborrendolo mi emendi e mi riordini; terzo, chiedere conoscenza del mondo perché aborrendolo allontani da me le cose mondane e vane” [63]. Questo stesso colloquio si ripete poi al Figlio e al Padre. Questo colloquio sarà il tema specifico della nostra meditazione e credo che ci sarebbe gran vantaggio ad approfondirlo e a farne una lunga riflessione, perché questi tre punti, queste tre domande, contengono, credo, tutto ciò che possiamo approfondire per un fruttuoso esercizio penitenziale. Riflessi nelle Costituzioni Quale riflesso hanno nelle Costituzioni le considerazioni che propongo? Due punti soprattutto si potrebbero indicare. Il primo riguarda l’esercizio della confessione: di questo diremo qualcosa domani, perché è un tema assai importante. L’altro, che cito solo brevemente e che ricorre in diversi luoghi, riguarda gli affetti disordinati, cioè quanto non ben dominato e che crea disordine, divisione, incostanza, tutto ciò che appunto sant’Ignazio chiama

“interno disordine del mio modo di agire, disordine delle mie azioni” [63] (Cost 359, 434 ss.) Questi passi si trovano nelle Costituzioni in vari luoghi, sotto due punti di vista. Alcune volte si insiste sulla necessità di un ordine interno dei sentimenti e degli affetti e, soprattutto, in tre casi: anzitutto nella I parte (Cost 143). Chi deve ricevere i candidati deve avere quell’equilibrio, quel dominio di sé, che appunto gli permetta di giudicare in cose gravi con prudenza e con ponderazione. Poi nella IV parte (Cost 423) si raccomanda molto, come qualità del rettore del Collegio, il dominio di sé, dei movimenti interni, di ciò che può confondere il giudizio e le decisioni. Il dominio di sé è particolarmente raccomandato nella parte IX per il padre Generale (Cost 725 e 728); anzi, al n. 728 sant’Ignazio dà la descrizione più bella e più completa di questo dominio di sé, come si potrebbe attendere da una prima settimana di esercizi fatta anche in questa forma12. L’opposto, cioè il disordine dell’operare, dell’agire, dei sentimenti e degli affetti è nominato anche alcune volte: una volta nella I parte, come cosa che può impedire in alcuni casi l’ammissione (Cost 179); un’altra volta nella II parte, come possibile causa di dimissione (Cost 210); una terza volta – forse il punto più importante – nella parte VIII (Cost 657), come uno dei più gravi danni per l’unione degli animi tra i membri della Compagnia di Gesù. È un passo ben noto, dove si dice: “Non si ammetta […] una grande turba” e per “turba” si intende una folla di gente, cioè gente che viene senza essere ben mortificata nei propri vizi e passioni, perché questa gente non sopporta né ordine né unione ed è quindi causa di disordine e di disunione. Un ulteriore punto infine, interessante, potrebbe essere Cost 582, che mette in evidenza i modi in cui questi disordini interiori sono pronti a infiammarsi: lasciando l’orazione, la meditazione, ogni forma di pratiche (di cui si parla di per sé in quel numero, perché siano moderate, non troppe); dice anzi che, lasciandole, sorge di nuovo questa confusione interna. Meditare sui peccati Noi vogliamo occuparci dell’argomento sulla base di cinque parole dal Vangelo di Giovanni: solo alcune parole, che ho scelto come rappresentative della realtà che ci è ricordata da sant’Ignazio. Il contesto lo abbiamo indicato stamattina quando si parla dei nemici di Gesù o dei rimproveri che Gesù

muove quando vengono fuori atteggiamenti sbagliati. L’insistenza e il collegamento di questi cinque termini è pressoché unico in tutto il Nuovo Testamento. Ho scelto dunque questi cinque “temi”, che sono intrinsecamente collegati, come vedrete, nel testo: per esempio, menzogna è collegato con morte, peccato con tenebre e così via. La meditazione di questi temi è certamente un po’ difficile perché san Giovanni suppone un’esperienza spirituale già piuttosto elevata, un’esperienza di semplificazione, un’esperienza di unificazione interiore; egli suppone, infatti, che si sia già passati per l’esperienza del molteplice, che si sia già fatta una lotta seria nel primo e secondo ciclo di formazione, contro i peccati più gravi, esterni, i vizi, le passioni più evidenti, e che si sia già fatto un certo sforzo per l’osservanza dei precetti. L’evangelista non parla né di peccati, né di vizi, né di passioni, né di precetti, né di ordini, né di prescrizioni, ma, come vedremo, tutto riassume entro alcune tematiche globali che, a prima vista, possono sembrare un po’ generiche, se non addirittura astratte. Quindi lo sforzo da farsi è di tradurre queste parole in una possibile esperienza nostra. Qui il maestro è certamente Rudolf Bultmann13, nella sua capacità di tradurre parole come “menzogna”, in termini esistenziali quali “inautenticità”, spiegati dal punto di vista psicologico. Il più possibile rimarremo legati al commento giovanneo: io darò qualche testo e qualche idea, qualche suggerimento mio personale. Il peccato Dunque, cominciamo col tema del peccato, che espressamente ho messo al singolare. Noi diciamo nella Messa: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo”, ma in realtà, come sappiamo, Giovanni parla del “peccato” del mondo (1,29), e in un testo terminale riassuntivo dice che lo Spirito “convincerà il mondo di peccato” (16,8). Che cosa è questo “peccato”, cioè l’atteggiamento sbagliato fondamentale? Evidentemente Giovanni sa che esistono anche dei peccati singoli, per esempio quando in 20,23 dice: “A coloro a cui riterrete i peccati saranno ritenuti”, quindi giustamente sa che ci sono diversi e molteplici atteggiamenti sbagliati. Tuttavia, se egli li riassume in un unico atteggiamento, è perché per lui una cosa soprattutto conta, come spiega in

16,8-9: “Convincerà il mondo di peccato” e poi spiega: “[…] di peccato, infatti, perché non credono in me”. Quindi il peccato fondamentale per Giovanni è non accettare il Figlio di Dio tra noi, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Non possiamo esprimere ora tutte queste conseguenze, perché ci porterebbe troppo in là; tuttavia, seguendo appunto la parola di Giovanni, incominciamo con l’accettare questi dati, che poi svilupperemo in seguito. È evidente che qui già si intravede la soluzione, almeno si intravede un inizio di soluzione, per quella difficoltà ovvia, che forse sarà già affiorata questa mattina in voi leggendo questi versetti, nei quali l’insistenza sul rapporto decisivo con Gesù, sembra dire che sono meno importanti i rapporti degli uomini tra di loro, per cui Giovanni non avrebbe alcuna sensibilità per i peccati sociali… tutto si ridurrebbe a un intimismo quasi assoluto, radicale. La risposta a questo problema non è facile, perché è tutto il Vangelo di Giovanni che deve aiutarci a darla, ma penso che, all’inizio, dobbiamo pur accettare questo messaggio, questa visione telescopica di Giovanni, che tutto fa dipendere dal rapporto di accettazione del Verbo, di Cristo tra noi, dal credere in lui. Le tenebre Seconda parola e tema: le tenebre. Occorre nove volte in Giovanni (otto volte come skótia, una volta come skótos) e per lo più in senso teologico. Appare fin dal prologo: “Le tenebre non hanno compreso”, che viene tradotto variamente “non hanno compreso”, “non hanno afferrato”, “hanno soffocato la luce”, “non l’hanno capita”. Comunque è chiara l’opposizione, che emerge in 3,19, come simbolo di opposti atteggiamenti degli uomini: “preferiscono le tenebre alla luce”. Tutto ciò è esplicitato in 8,12, anche qui in relazione a Gesù: “Chi segue me non cammina nelle tenebre”. Ancora una volta abbiamo una riduzione radicale di tutto al rapporto con la persona del Verbo incarnato. Che cosa sono queste tenebre, come si può tradurre questo concetto? Cominciamo col dire (e forse è più facile) che cosa non sono. Mi pare che Giovanni qui non intenda per “tenebre” ciò che noi intendiamo con “potenza delle tenebre” e “potenze tenebrose”, quindi qualcosa di esterno e di macabro. E neppure qualcosa di specificamente inerente all’uomo, come la concupiscenza o le passioni. Che cosa si intende piuttosto per “tenebre”? Semplicemente il buio, cioè

l’assenza di luce; cioè quella situazione in cui si cammina malamente e inciampando. L’immagine è appunto quella di chi va per una strada, e nel buio non sa dove mettere i piedi, li mette male, inciampa… Abbiamo un passo che mi pare illuminante a questo proposito: “Ancora per poco tempo la luce è in voi: camminate finché avete luce, perché le tenebre non vi sorprendano; chi cammina nelle tenebre non sa dove va” (12,35). In 11,9-10, a proposito della chiamata fatta a Gesù dalle sorelle di Lazzaro: “Dodici sono le ore del giorno e bisogna camminare nel giorno, finche c’è luce, altrimenti nelle tenebre non si sa dove si va”. Se volessimo tradurre queste tenebre in linguaggio nostro, potremmo forse parlare di “disorientamento interiore”, cioè quello stato di disordine per cui non si sa dove si deve andare e come. Questo disorientamento interiore, che oggi è un fenomeno certamente molto sentito, forse a livello dei presbiteri ancora più che non ad altri livelli nella Chiesa. È tale disorientamento interiore, che quando non è semplicemente sofferto, e quindi con il desiderio di uscirne, ma è eretto a sistema di vita, fa sì che ci si lasci trascinare dagli impulsi e dalle situazioni empiriche, senza affrontare il vero perché delle cose. Questo è, mi pare, ciò che viene indicato principalmente come tenebre: quel camminare a casaccio e male, che è tipico di chi non ha un punto di riferimento. Ora, Giovanni ci dice: il non riconoscere Gesù, fatto uomo tra noi, come senso ultimo della realtà che dà valore a ogni cosa, è un permanere nelle tenebre, senza punti di riferimento. Si procede a casaccio, a tentoni, con continue oscillazioni da un estremo all’altro, senza mai sapere bene che cosa si fa e perché lo si fa, con tutte le conseguenze disastrose di questo disorientamento, e con quel “disordine delle operazioni” di cui parla sant’Ignazio nel colloquio indicato [63]. Un’altra osservazione mi pare importante per chiarire di più questo concetto, e la trovo in 3,20: “Chi fa il male, odia la luce”. Questo significa che coloro i quali hanno di proposito generato una situazione di confusione, spesso giungono al punto di non volerne più uscire; allora pongono problemi su problemi e non sono mai soddisfatti di nessuna soluzione, perché in realtà non fanno che proiettare sulle cose e sulle situazioni la loro mancanza di orientamento interiore; e allora nessuna soluzione proposta, né teorica né pratica, è mai sufficiente, perché in realtà si ama questo stato di confusione, di disorientamento un po’ amaro, un po’ scettico, in cui tutto è possibile o plausibile; ogni scelta viene in qualche modo giustificata e nulla si impone come veramente valido, e nulla come veramente disdicevole o obbrobrioso o falso o sbagliato. Questa è la situazione delle tenebre. Da essa deriva un’altra

conseguenza, che mi pare bene espressa in 9,4: “Bisogna compierele opere di chi mi ha mandato finché è giorno: viene la notte, quando nessuno può lavorare”. Cioè, quando manca questo orientamento interiore, gli succede l’inerzia, oppure un’attività molteplice, che però copre una vera inerzia per le cose essenziali, perché non si sa più distinguere ciò che vale da ciò che non vale, e allora tutte le cose si equivalgono. In questo caso l’affannosa molteplicità delle azioni e delle operazioni equivale in fondo all’inerzia, al non fare nulla, alla pigrizia, perché tutti e due i comportamenti sono causati da un identico disorientamento. La menzogna Terzo elemento, che Giovanni fa entrare nella descrizione degli atteggiamenti negativi di chiusura al Cristo: la menzogna. Questo tema ricorre, soprattutto, in 8,44 e ancora in 8,55. Come tradurre, anche qui, o almeno come cercare di tradurre (seguo, come ho detto, almeno in quanto mi ricordo, le indicazioni di Bultmann)? Chi è nelle tenebre, chi è nel disorientamento e non sa ammetterlo (cioè non vi è un discernimento sofferto, in cui si cerca una soluzione, ma si accetta che ormai in fondo tutte le cose un po’ si equivalgono, e non c’è vera distinzione tra ciò che è più importante e ciò che lo è meno), è uno che ha accettato questa situazione di disorientamento, e non sa ammettere che l’ha accettata e che è in colpa, allora odia la luce, e la sua vita diventa inautentica: è l’esistenza inautentica di chi non si è messo veramente di fronte alle ultime vere responsabilità, e le sfugge ricorrendo a pseudodoveri o diritti di cui si pasce di giorno in giorno. In quanto vita inautentica, è anche vita rosa dall’invidia nei confronti di chi, invece, questa autenticità sembra averla. Qui tocchiamo il fondo della meditazione (8,44): il demonio è uccisore di uomini (sulla base di Genesi e Sapienza), cioè per invidia e nella menzogna. Ora credo che qui, sulle indicazioni del colloquio di sant’Ignazio [63], dovremmo chiedere grazia di sentire questo disordine in noi, perché certamente sempre qualche cosa di inautentico cresce in noi, si fa strada e, in qualche modo, si manifesta. Tutto ciò che in noi è dualismo – per esempio tra fede e mondanità – e comunque ogni mancanza di unità interiore, ogni mancanza di corrispondenza tra desiderio e realtà – tra ciò che vorremmo essere e ciò che siamo – sono tutte forme di inautenticità, che rodono

gravemente il nostro intimo, e che hanno appunto quelle conseguenze indicate dai termini giovannei: inautenticità, disordine (il termine di sant’Ignazio, cioè contraddizione nella vita e nei sentimenti). S’incontrano, soprattutto nella vita di persone consacrate, contraddizioni enormi tra certi modi di parlare e certe azioni anche sante, da un lato, e certi modi disonorevoli di agire, dall’altro. Forse è proprio nel mondo religioso che le contraddizioni, non solo tra pensiero e azione, ma anche tra azione e azione, sono più palesi e più vistose. Contraddizione nei sentimenti, quindi passaggio da sentimenti a sentimenti opposti senza possibilità di dominarli o di vederne la ragione di fondo. Debolezza nell’agire che nasce dalla mancanza di certezza, paura di affrontare le situazioni difficili, ritrarsi quindi dalle situazioni impegnative. Abbiamo oggi, come sapete, nel clero secolare (almeno per esempi che conosco, abbastanza numerosi) persone che chiedono di ritirarsi dal ministero, non per un difetto di fede, ma perché non se la sentono più di affrontare le difficoltà concrete: è diventato troppo stridente il loro disorientamento, la mancanza di coerenza tra le cose che dovrebbero pensare, fare, portare avanti e la difficoltà a giudicare soluzioni valide. Perciò la paura di affrontare le situazioni difficili – e quindi persino l’incapacità a ordinare le proprie giornate in maniera vera secondo Dio – li induce a ritirarsi. La schiavitù Termine seguente, “schiavitù”. Giovanni non ne parla molto, ma ne parla nello stesso contesto di 8,33 e 8,34-35. Potete vedere come i termini siano tutti collegati prendendo come punto di riferimento 8,34: “Chi fa il peccato è schiavo del peccato”. Come potremmo tradurlo (anche qui seguendo una linea bultmanniana)? Chi non si apre all’esistenza autentica, è schiavo di tutte le contingenze quotidiane. E se esaminiamo la nostra giornata, soprattutto chi è impegnato nella vita attiva, credo che non sfuggiremo all’impressione di essere un po’ schiavi delle cose: non soltanto schiavi delle passioni (questo può esserci, può non esserci in maniera palese), ma schiavi delle incombenze, degli orari, delle scadenze, delle urgenze, delle pressioni, del telefono, senza che alla fine si sappia bene, tra tante cose, che cosa si sta facendo e perché è più importante o meno. Sappiamo ciò che urge, sappiamo ciò che gli altri si aspettano da noi, ma non riflettiamo mai se tutto ciò sia importante; oppure se

ci sia qualcosa di più importante da fare e che nessuno fa. Ecco, questa è la confusione (“disordine delle operazioni” la chiama sant’Ignazio, come abbiamo già visto) che spesso rode la nostra esistenza quotidiana e rende faticosissima la nostra giornata, proprio perché manca di autenticità, di riflessione sui veri valori. Quando poi questa schiavitù si allarga (come succede comunemente a ciascuno di noi), in schiavitù rispetto a elementi esteriori spesso occulti, come la pubblica opinione, le idee correnti, le antipatie o simpatie, i modi di dire, gli slogan verbali, allora ci accorgiamo quanto la mancanza di punti di riferimento autentici ci rende schiavi, burattini, dipendenti da mille cose incontrollabili, le quali però, di fatto, regolano tutta la nostra esistenza e le danno un certo ritmo faticoso e snervante: in realtà con poco merito, in quanto faticoso e snervante non per ragioni validamente accettate, per ideali ai quali ci sacrifichiamo, ma per una serie di ingranaggi in cui siamo dentro e di cui non riusciamo a motivare il funzionamento. La morte L’ultimo termine di Giovanni è “morte”. Anche qui tre punti di riferimento, soprattutto in 8,24, poi ancora 8,21 e 8,51-52 e inoltre in 5,24. Qui vorrei soprattutto sottolineare ciò che abbiamo in 5,24 e 8,51-52: due testi che si corrispondono. Leggiamo 5,24: “In verità, in verità dico a voi, che chi ascolta la mia parola, e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non entra in giudizio, ma è passato da morte a vita”. Dunque, qual è lo stato di morte? Lo stato di chi, non ascoltando la parola di Gesù e non regolando la sua vita secondo la presenza del Verbo incarnato tra noi, vive un’esistenza inautentica, schiava, divisa in se stessa, uno stato di frattura interiore. Che cosa ci fa passare da morte a vita? L’ascolto con fede della parola di Gesù. Quindi Giovanni sembra dire di nuovo, radicalizzando il discorso: in quanto la parola di Gesù non è l’anima della nostra vita, siamo tenebre, menzogna, schiavitù, morte. È la parola di Gesù, essa sola, che ci libera da questa situazione. Non possiamo liberarci da noi, perché se tentiamo di farlo con uno sforzo nostro, ricadiamo in una forma nuova di inautenticità, che è ancora tenebra, menzogna, schiavitù e morte. Possiamo concludere, come propone sant’Ignazio, con il colloquio con

Dio Padre, con Gesù Cristo, con Maria, chiedendo a Gesù, che è la vita, che ci faccia accedere all’esistenza autentica, attraverso l’ascolto della sua parola. Possiamo dire a Gesù che la minaccia che egli fa (riportata in 8,21.24): “Morirete nel vostro peccato”, “morirete nei vostri peccati”, la sentiamo rivolta a noi perché l’inautenticità dell’esistenza ci minaccia e ci limita talmente, perfino nei nostri stessi sforzi di migliorarci, che ci sentiamo prigionieri. Soltanto la sua parola ci può liberare da quelle forme di inautenticità risorgenti, che ci chiudono in una visione del mondo che non ammette aperture di carità, di dono, di servizio autentico, ma soltanto di affanno e di amarezza prolungati che si succedono l’uno sull’altro. È questa una visione certamente radicale, forse potremmo dire estrema: dovrebbe essere contemperata con quella che è tutta la nostra esperienza quotidiana. Però val la pena, una volta tanto, considerare fino in fondo questo tipo di visione e domandarci quanto essa ci tocca, per vedere come lo Spirito ci chiede di uscire da questa situazione oscura, dalla quale Gesù viene a liberarci con la sua parola e con il suo dono14.

V. GESÙ TOGLIE IL PECCATO DEL MONDO Questa meditazione corrisponde negli Esercizi al cosiddetto “colloquio di misericordia” [61], che si fa al termine della meditazione sui peccati15. È in relazione anche, come diremo subito, a [44]: “Confessione generale e comunione”. Il tema teologico sarebbe quindi: “Gesù toglie il peccato del mondo”. Questo è così il titolo della meditazione, perché nell’esame di queste tre situazioni umane – il paralitico, il cieco nato, la morte di Lazzaro – vedremo come Gesù avvicina personalmente i singoli con la forza della sua amicizia. Il titolo ampliato esprime il ritmo dei racconti, così come si colgono dal testo stesso. Naturalmente vedremo anche nei testi come questo trasformare le situazioni umane è chiaramente messo in relazione col peccato, in maniera esplicita nel primo e secondo testo, implicita nel terzo: Lazzaro-morte, perché il tema morte-risurrezione è chiaramente usato anche qui da Giovanni in senso simbolico, dimostrativo: morte del peccato e Cristo che fa risorgere. Quindi il tema del peccato è certamente presente in tutte le tre narrazioni

e va meditato come sfondo teologico di tutte e tre. Ancora Esercizi e Costituzioni Ho detto che esse corrispondono, negli Esercizi, per una certa parte al tema della confessione generale, cioè l’apertura di sé all’azione riconciliante, salvante di Gesù. E qui conviene dire una parola su come questo tema dell’apertura alla riconciliazione e salvezza, che Gesù porta, è ampiamente presente nelle Costituzioni. Ho citato alcuni testi importanti delle Costituzioni sulla confessione e su una serie di temi connessi, perché è interessante vedere come, nello svolgimento delle Costituzioni, c’è una connessione interna, una relazione interna e successiva tra questi elementi: confessione (in particolare confessione generale), cioè piena manifestazione di sé in vista della riconciliazione, apertura di coscienza, manifestazione di sé al di fuori dell’apertura di coscienza, manifestazione fraterna degli uni agli altri, correzione fraterna, trasparenza reciproca, comunicazione e comunione di cuori. È tutta una serie di elementi che sono in fila l’uno dopo l’altro e si sostengono mutuamente, e vanno a terminare in quella comunione dei cuori a cui è dedicata la parte VIII delle Costituzioni e che viene richiamata come estremamente importante nella parte X, quale uno dei pilastri della vita della Compagnia. Ora, il cammino, l’itinerario per giungere a questa comunione dei cuori e degli spiriti parte appunto dalla confessione e riconciliazione, passa per l’apertura di coscienza, si allarga nella manifestazione fraterna e nella correzione fraterna, e diventa trasparenza reciproca che ama la comunione delle cose, delle notizie, delle situazioni, e fonda la comunione dei cuori. E qui vediamo quanto siamo lontani da questo ideale della Compagnia, e che dobbiamo cercare di riformarci almeno nel primo gradino, cioè nella confessione, che è l’inizio di tutto questo processo. Sarebbe troppo facile desiderare la comunione dei cuori, senza accedere a tutti i gradi intermedi che vi conducono. Quanto al tema della confessione, nelle Costituzioni vi sono vari passi, soprattutto al n. 41 dell’Esame generale (Cost 98). È interessante questo numero, perché fa vedere come la Confessione generale, cioè questa apertura cordiale, spontanea di sé in vista della riconciliazione col Cristo e con la

Chiesa e con la Compagnia ritma la vita del novizio ogni sei mesi. E in questa confessione si attua quel procedere di purità, di perfezione, di grandi desideri, che è appunto il ritmo della formazione. Perciò sant’Ignazio, che aveva sperimentato – come leggiamo nell’Autobiografia16 – l’importanza di queste confessioni ampie, larghe, le prescrive come ritmo della vita del novizio; e poi le vuole anche continuate ordinariamente, soprattutto nei momenti importanti, per esempio prima della Professione17. Quindi vede in esse un mezzo molto importante di apertura di sé a Dio, tramite la trasparenza e la purificazione. I punti importanti sono soprattutto in Cost 94-98 e altri che poi vedrete citati. Sull’apertura di coscienza sono esattamente, nello stesso contesto dell’Esame generale, Cost 91-93 tutti al cap. 4. Nel n. 91 si enuncia l’importanza di questa pratica con parole che sant’Ignazio, nella sua sobrietà, usa molto raramente: “Dopo matura riflessione nel Signore nostro, ci è apparso, davanti alla divina Maestà, della più grande importanza che i Superiori abbiano intera conoscenza degli inferiori, perché così essi possano meglio reggerli e governarli e, riflettendo meglio sulla loro situazione, indirizzarli meglio nella via del Signore”. È un preambolo che fa vedere l’importanza di questa apertura di coscienza per tutta la vita della Compagnia. Poi, nel seguente (Cost 92) si espone lungamente cos’è questa apertura di coscienza e come si deve fare; ne sottolineo il punto centrale che riguarda l’ampiezza di questa comunicazione di sé: “Abbia piena notizia, il superiore, delle inclinazioni, mozioni, come pure dei difetti o peccati verso i quali sono stati o sono inclinati”. Quindi è cosa che non riguarda le azioni fatte o non fatte, ma la persona così com’è, come dicevamo ieri: che cosa va in me, che cosa non va, che cosa non mi piace di fronte a Dio. Questa apertura dovrebbe essere la base, appunto, di una comunicazione di mutua fiducia. Molti altri brani, come Cost 97, raccomandano la confessione ogni anno per tutti. Di qui si passa alla manifestazione di sé anche agli altri e all’amorosa correzione fraterna reciproca, che ci si attende gli uni dagli altri (Cost 63 e 263) e a tutte le forme di comunicazione reciproca esposte nella parte VIII (Cost 663 e 671) e nella parte X (Cost 821), come la comunione dei cuori, che cementa la fraternità e la vita della Compagnia. Ecco dunque la linea ideale dalla quale, riflettendo, ci sentiamo immensamente lontani. Certamente una delle cause della crisi della Compagnia mi pare va trovata proprio nell’abbandono di tutto questo, naturalmente anche a causa di abusi, di interpretazioni forse errate o troppo

ristrette; ma naturalmente lo spirito ne è venuto molto a risentire. Rivivificare la confessione Cosa possiamo fare, come possiamo vivificare questo? Almeno per quanto dipende da noi, credo, si tratta di riprendere l’uso della confessionericonciliazione; la parola “riconciliazione”, usata dal nuovo Ordo paenitentiae (1973)18, la troviamo anche in sant’Ignazio, che chiede che chi entra nella Compagnia, si riconcili e si comunichi ed entri nella casa e nella conversazione della Compagnia. Quindi la confessione, che è riconciliazione con Dio e con la Chiesa, è la porta d’ingresso della Compagnia. Come attuarla, come rivivificarla? Un mezzo l’ho indicato ieri e lo ribadisco quest’oggi. Credo che è molto difficile oggi, quando la confessione si è rarefatta in spazi sempre più distanti tra di loro, ritrovare la gioia della confessione, che molti hanno perduto (sacerdoti e religiosi), senza qualche esperienza di queste confessioni generali, che potremmo meglio tradurre nel nostro linguaggio in “colloquio penitenziale”, che preciserei così: colloquio e preghiera con un fratello, cioè con i fratelli della comunità concreta in cui vivo, in vista della riconciliazione con Dio, con la Chiesa e con la Compagnia. Non si tratta soltanto della pura confessione dei peccati, ma di un colloquio fraterno, nel quale può entrare, se si vuole, la stessa preghiera fatta insieme. Il nuovo Ordo paenitentiae permette questa libertà di svolgimento, anzi la consiglia in qualche maniera. Quindi per questo ampliamento della confessione in colloquio penitenziale siamo pienamente in accordo anche con le regole stabilite. Concretamente sottolinerei due punti, legati alle parole confessione-riconciliazione. “Confessione”: che cosa mi sembra importante nella confessione in questo clima? Direi, in latino: Confessio laudis e Confessio vitae. Confessio laudis: intendo la confessione nel senso latino, prima di tutto, di lode: “Confiteor tibi, Domine, quia abscondisti haec a sapientibus et prudentibus” (Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti). “Ti lodo”, nel senso di sant’Agostino. Cioè mi domando: perché (è una semplice proposta che faccio) questo colloquio penitenziale non può cominciare con una lode a Dio e un ringraziamento per quanto ha fatto per noi? Quindi prima di confessare i

nostri peccati potremo lodare e ringraziare Dio. Ciò è pienamente nello spirito dell’Esame generale delle Costituzioni, in cui il primo punto è il ringraziamento. Quindi la confessione, in quanto colloquio penitenziale, prima di tutto come lode e ringraziamento per quanto Dio ha fatto per noi finora. Confessio vitae: cioè non la ricerca calibrata dei peccati, mortali, veniali ecc., ma la manifestazione semplice di ciò che non va in me, di ciò di cui mi sento scontento davanti a Dio, in un clima di preghiera. L’accusa può essere fatta benissimo in forma di preghiera, prendendo come modello le Confessioni di sant’Agostino, cioè non necessariamente come affermazione, ma come richiesta di perdono, oppure richiesta di grazia; e allora diventa una preghiera. Riprendendo il filo delle meditazioni In un primo progetto, avevo aggiunto a quanto ho detto il miracolo di Cana, poiché mi sembrava che così si sarebbero prese in considerazione le quattro parole spiegate ieri, parlando del peccato: tenebre, menzogna, schiavitù, morte. La situazione che Gesù risana a Cana è una situazione di inautenticità, di imbarazzo conviviale e di menzogna pratica (è stata invitata la gente, non c’è più niente da dare e allora si incominciano a trovare delle scuse). Similmente, la situazione del paralitico può essere pensata in relazione al tema della schiavitù: il paralitico è colui che è tenuto legato, non si muove, non ha la potenza di fare ciò che vuole. Per quanto riguarda il cieco nato, Giovanni è esplicito nel mettere in rapporto questo episodio con le tenebre. Qui l’applicazione “il cieco nato - luce e tenebre” è chiaramente fatta nel Vangelo stesso. Per quanto riguarda Lazzaro, il tema “morte-vita” è anche chiarissimo in tutta la struttura del capitolo. Vediamo che Gesù risana situazioni di menzogna, di schiavitù, di tenebre, di morte. Vorrei far notare che avevo progettato queste meditazioni in fila, diciamo, prendendo la logica di Giovanni; ma poi ho visto che anche un esegeta come Schürmann19, che è forse il migliore esegeta cattolico vivente oggi, in un magnifico libro di meditazioni sul Vangelo di Giovanni, segue lo stesso ordine: Cana, i capp. 5, 9, 11, cioè è la struttura stessa del Vangelo che presenta la successione di questi tre elementi, appunto legandoli al tema della situazione del paralitico, che è di luce e tenebre, di morte-corruzione-vita20.

Leggeremo anche qualcosa di queste meditazioni che mi pare illuminino appunto il tema del paralitico. Su questi tre passi non intendo dare se non qualche indicazione di lettura, perché ognuno di essi occuperebbe giorni e giorni di esegesi accurata, in quanto in essi si ripete ciò che abbiamo già detto per l’episodio di Cana; in parte il cap. 5, ma soprattutto i capp. 9 e 11, sono costruiti con un’arte sopraffina, con un senso del contrasto, che talora porta al ridicolo, talora al drammatico, con situazioni di qui pro quo, di malintesi, superati successivamente nei diversi piani di senso: tutto ciò richiederebbe, per essere accuratamente esaminato, un’analisi amplissima, che però ci porterebbe a sfociare nell’esegesi e non è ciò che vorremmo ottenere da questa prima settimana di esercizi. Ciascuno potrà comunque, nel leggere il testo, notare tutti questi aspetti, io voglio ancora soltanto far risaltare che “Gesù trasforma le situazioni umane con la forza della sua amicizia”. Il paralitico guarito Vediamo dunque il cap. 5 dando qualche indicazione di lettura. La guarigione di un infermo alla piscina di Betzaetà. Il contesto è una festa dei giudei (5,1); quindi siamo nei grandi momenti della manifestazione di Gesù che, come abbiamo detto, in Giovanni sono sempre legati a delle feste. Gesù sale a Gerusalemme, che è di nuovo al centro della sua attività pubblica, come lo sarà per l’ultima cena e per la morte. Che cosa trova Gesù in questa sua andata a Gerusalemme? Un paralitico incurabile. Il testo sottolinea questo aspetto (v. 5): un uomo che da trentotto anni era malato, cioè un uomo che non ha più nessuna speranza, mentre nei primi anni della malattia uno può ancora sperare e desiderare ansiosamente di guarire, a un certo punto viene abbandonato, dagli uomini e anche da se stesso. Che cosa fa Gesù di fronte a questo malato senza speranza (v. 6)? “Gesù, vedendolo disteso e sapendo che da molto tempo stava così, gli disse: ‘Vuoi guarire?’” Qui possiamo contemplare Gesù che prende l’iniziativa, si avvicina. In quella folla immensa, “gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici” (v. 3), Gesù individua colui che gli sembra forse il più bisognoso: mentre gli altri sanno aiutarsi, questi è talmente malato che ha perso il coraggio. Gesù comincia col fargli rinascere una fiammella di speranza: “Vuoi guarire?” Gli

rispose il malato: “Signore, io non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, qualche altro scende prima di me” (v. 7). Dunque, la situazione di quest’uomo è quella di chi, non potendo aiutarsi, è condannato a restare schiavo della sua malattia, cioè non può fare l’unica cosa che potrebbe salvarlo. Si tratta davvero di una situazione paradossale: quest’uomo di per sé è materialmente vicino alla salvezza – rappresentata dalla virtù miracolosa, curativa dell’acqua – ma è talmente malato che non può superare quel passo che ancora mancherebbe; è questa una situazione di assoluta privazione di iniziativa. Che cosa fa Gesù? Gesù gli viene incontro amorevolmente, gli fa riconoscere la sua situazione di impotenza, gliela fa confessare, e poi sovranamente lo guarisce, dicendogli: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. E sull’istante quell’uomo guarì, prese il suo lettuccio e cominciò a camminare” (v. 8). Chi non era capace neppure di portare se stesso, adesso porta il suo letto: avrebbe desiderato trascinarsi sull’orlo della piscina, e Gesù gli dà molto al di là di ciò che pensava; porta non solo se stesso, ma il suo letto, è un uomo che può vivere, può lavorare, può operare pienamente. Gesù lo risana con la forza della sua amicizia: lo dimostra quel suo avvicinarsi cordiale, discreto, questa scelta dell’uomo più bisognoso, e quel fargli venir fuori gradualmente la sua sofferenza, in maniera che il suo desiderio si chiarisca… e poi, infine, questo dono regale che Gesù compie. E Gesù fa tutto questo tendendo a risanare il cuore. Ciò avverrà pienamente più tardi (v. 14): “Poco dopo Gesù lo trovò nel Tempio e gli disse: ‘Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio’”. Dunque chiaramente Gesù è voluto andare fino in fondo con quest’uomo, guarirlo interamente. E Gesù stesso pagherà di persona questa guarigione, perché proprio a partire da qui (la guarigione avviene in un sabato e l’uomo porta il letto nel sabato) comincia l’ostilità dei giudei, che lo porterà alla morte. Difatti, la prima menzione della volontà di ucciderlo si trova qui: “Proprio per questo i giudei cercavano ancor più di ucciderlo” (v. 18). C’è in questo risanamento una nota triste, che Schürmann fa presente: è guarito veramente? Sembra guarito, ma sembra anche che Giovanni voglia dire che in realtà non lo è, cioè non ha capito il significato profondo del segno, di quanto gli è capitato. Scrive Schürmann: “Colui che è diventato sano è in realtà rimasto malato. Quanto egli fosse malato fin nella sua profondità viene a manifestarsi dopo la sua guarigione: non conosce Gesù e non conosce il suo peccato”. Difatti subito dopo Giovanni rimette in scena questo paralitico che

non sa come rispondere ai giudei che gli dicono: “Chi è stato a dirti: ‘Prendi il tuo lettuccio e cammina’? Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse”. Egli “non conosce Gesù, non conosce il suo peccato”, che poco dopo Gesù dovrà manifestargli con parole ammonitrici e gravi (v. 14). Il malato dunque se ne va sano, ma per nulla liberato della sua mancanza di salvezza: propriamente non viene alla luce. “In verità quest’uomo non sa neppure ‘chi fosse colui’ che lo ha guarito (cfr. v. 13). Però senza questo sapere, senza la ‘conoscenza’ di Gesù, non c’è vera salvezza, non c’è vita eterna. È questo il vero male incurabile: non conoscere lui. I beni terreni sono solo segni della salute promessa. Chi conosce Gesù, non solo è sano, ma ha la salvezza. ‘Conoscerti’, infatti, è già ‘la vita eterna […]’ (17,3)”21. In questa maniera, dunque, commenta Schürmann, vedendo nel colloquio che segue la guarigione (vv. 10-18) questa situazione ambigua dell’uomo che non ha capito il segno, che anzi diventa il primo traditore di Gesù. Perché, in realtà, se comincia qui la persecuzione dei giudei contro Gesù, è perché quest’uomo lo indica loro: “Ecco l’uomo che mi ha fatto camminare di sabato”. Di qui tutta l’opposizione. Quindi è anche un tema che può essere interessante – almeno mi sembra abbia degli agganci nel testo – per vedere come Giovanni presenta sempre le realtà in maniera molto sfumata: presenta un aspetto, ma non tutto va avanti gloriosamente; si hanno situazioni contrastanti, che mostrano la complessità dell’opera di salvezza. Il cieco nato Vediamo brevemente le indicazioni del cap. 9, sul cieco nato. Anche qui abbiamo un’indicazione iniziale sullo stato disperato di un uomo che si trova nelle tenebre: un cieco dalla nascita. Situazione senza speranza, a cui lui stesso e gli altri si sono accomodati. E dopo un discorso sul peccato (i discepoli chiedono: “Ha peccato lui? Hanno peccato gli altri?”) Gesù, superando tutta questa casistica, prende l’iniziativa. Di nuovo è lui che inizia l’opera, non è il cieco che chiede. “Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: ‘Va’ e lavati nella piscina di Siloe’” (v. 6 ss.). Gesù prende l’iniziativa, ma gli fa fare qualcosa. È il suo modo tipico di venire incontro: non regalando, non buttando dall’alto le cose, ma muovendole. Come col paralitico, che non poteva muoversi ed egli cerca di

muoverlo dall’interno, col desiderio, stimolandolo con domande e favorendo un’analisi dei suoi desideri profondi, così col cieco nato: gli dà da fare qualcosa, in maniera da dargli una speranza graduale, così da smuoverlo. E poi, attraverso questo gesto, lo guarisce. Infatti, quegli “andò, si lavò e tornò che ci vedeva”. Da questo v. 7 per gran parte del capitolo, si scatena una nuova ondata di polemiche che si sviluppa fino al cap. 10. Di nuovo, come nel cap. 5, Gesù che si avvicina con benignità e compie un’opera di salvezza, si espone a una nuova serie di polemiche e di guai, incontrando la reazione naturale dell’uomo che non vuole aprirsi alla fede, che cerca continuamente nuove scappatoie, nuovi rifugi per non aprirsi all’azione di Dio. Ciò che ci interessa soprattutto è vedere come alla fine del capitolo, analogamente a quanto è avvenuto per il paralitico, Gesù si rivela a quest’uomo. Quest’uomo però, a differenza del paralitico, confessa con semplicità e umiltà le opere di Cristo, riconosce che è un profeta; e con la sua dabbenaggine (qui Giovanni lo coinvolge in un confronto ironico) quest’uomo, che non sa quasi niente, che usa parole semplicissime, dice le cose più evidenti, riesce a confondere i ragionamenti degli altri: “Non ho mai sentito che Dio ascolti un peccatore” (9,31). Con frasi di evidenza immediata, quasi popolare e banale, confonde tutte le osservazioni dei dotti, di coloro che invece vogliono sostenere che non è successo nulla, che non può essere così. Quell’uomo fa davvero del suo meglio, anche se non conosce ancora a fondo Gesù. E Gesù, alla fine (v. 35) gli si rivela: Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori (quindi quest’uomo ha sofferto per Gesù) e incontrandolo gli disse: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?” Egli rispose: “Chi è, Signore, perché io creda in lui?” Gli disse Gesù: “Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui”. Ed egli disse: “Io credo Signore”. E gli si prostrò innanzi. Gesù allora disse: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” (9, 35-39).

Qui sta tutto il senso dell’opposizione tra i farisei e Gesù; ma questo è anche il senso che interessa noi: c’è un segno del Signore che si conclude con un incontro di fede, che è il termine dell’azione di Gesù. Gesù attraverso il segno di salvezza voleva portare quel tale fino a questo punto, e al momento giusto ve lo porta. E quella persona, avendo capito che non aveva soltanto ricevuto un beneficio per goderselo, ma lo aveva ricevuto da una bontà profetica, ascolta l’invito e si apre a Gesù. E Gesù gli fa questo dono affrontando tutta l’ostilità che ne viene. Infine la conclusione: “Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” è l’applicazione a nostro vantaggio di

tutto questo episodio. In quanto noi crediamo di vedere, o presumiamo di vedere, ci illudiamo e siamo ciechi; in quanto sappiamo di non vedere e chiediamo luce, ci lasciamo avvicinare dalla potenza del Verbo incarnato, così come Giovanni intende presentarcela, e ci lasciamo illuminare da lui. La risurrezione di Lazzaro L’ultimo episodio è quello di Lazzaro. Anche qui un episodio molto ampio, tutto fondato sul tema morte-vita, morte-risurrezione. Come negli altri casi, anche qui, essendo morto Lazzaro da quattro giorni, ormai ci si comincia ad abituare, non c’è più speranza, ci si adatta alla situazione. Gesù si reca da lui di sua iniziativa, con un atto di amicizia personale che lo spinge ad affrontare un pericolo (cfr. 11,8) che i discepoli gli dicono grave. E Gesù, poi (v. 55 ss.), compie il miracolo in un clima di forte emozione: Maria dunque quando giunse dov’era Gesù, vistolo, si gettò ai suoi piedi dicendo: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”. Gesù allora quando la vide piangere, e piangere anche i giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: “Dove l’avete posto?” Gli dissero: “Signore, vieni a vedere”. Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i giudei: “Vedi come lo amava”. Ma alcuni di loro dissero: “Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?” Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro. Era una grotta e sopra vi era posta una pietra. Disse Gesù: “Togliete la pietra”. Gli rispose Marta, la sorella del morto: “Signore, già manda cattivo odore, perché è di quattro giorni”. Le disse Gesù: “Non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?” Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: “Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato” (11, 32-42).

Più che in tutti gli altri miracoli, qui è sottolineata una profonda tensione degli animi, delle persone, e nello stesso Gesù. Perché questa sottolineatura di tensione così profonda, che non notiamo altrove nei Vangeli? Gesù è di fronte al segno fondamentale della sua missione: la morte da restituire a vita attraverso la propria morte. Il suo gesto compie la pienezza della sua opera, che egli affronta con una compassione e aderenza umana tremendamente incisive: Lazzaro era suo amico, Lazzaro è morto. Nella descrizione giovannea risulta veramente mirabile la perfetta fusione tra aderenza alla vita di tutti i giorni – la tragedia di un amico morto – e la percezione che in questa tragedia è presente il mistero di Dio e il mistero di salvezza. Ed è proprio in forza di questa fusione che Gesù ci chiama ad avvicinarci a lui, in quanto egli trasforma non il peccato o le situazioni sbagliate in generale, ma le situazioni umane concrete. È la forza della sua amicizia, che qui si mostra in maniera

veramente impressionante: nessun altro evangelista ha osato descrivere Gesù così profondamente legato a qualcuno, da rimanere intimamente scosso dalla morte dell’amico. Di fronte a questa immagine così grave, così solenne e insieme drammatica di Gesù, facciamo scorrere in noi il colloquio di preghiera. Potremmo riassumere così ciò che ci dicono questi brani: le situazioni in cui si trovano gli uomini, in cui si trova l’uomo, in cui talora ci troviamo noi – menzogna, schiavitù, condizionamento, inautenticità, disorientamento, morte che sempre ci minaccia, come paura della morte e come possibilità di ribellarsi alla morte –, sono di per sé situazioni insuperabili. Uno solo ci viene incontro, insperatamente e gratuitamente, come amico, prendendo l’iniziativa: è il Verbo di Dio fatto uomo, il quale, amichevolmente, si muove verso di noi per soccorrerci, per elevarci, per purificarci, per prenderci là dove siamo – e con quel poco che possiamo dargli in quel momento – e sovrabbondantemente, regalmente ci trasforma. Ci è chiesto in questa meditazione di affidarci alla sua potenza e di lasciarci interpellare, richiamare e trasformare da lui in ciò che egli vuol dirci in questa meditazione.

VI. L’OPERA DI GESÙ, LA MESSE, I DISCEPOLI Ho intitolato la meditazione di questa sera “L’opera di Gesù, la messe, i discepoli”: sono alcuni temi che appaiono nel brano di 4,31-38, che segue il racconto dell’incontro di Gesù con la samaritana. Esso si inserisce tra la fine del dialogo con la samaritana, quando la donna va a chiamare quelli del suo paese e questi stanno venendo, e il loro arrivo. Tra questi due momenti c’è un altro dialogo di Gesù e i suoi, i Dodici; è su di esso che vorrei proporvi di meditare nello spirito della meditazione della “Chiamata del Re” [91-98], che apre la seconda settimana degli Esercizi22. La chiamata del re temporale La chiamata del Re, così come sant’Ignazio la presenta, ha risonanze molto più immediate nelle scene di chiamata dei Dodici, che troviamo in Mc 3,13-18 e testi paralleli, e poi ancora nella scena della missione ai Dodici (Mc 6,7-13). Nei Vangeli sinottici, in particolare in Marco, la chiamata dei Dodici

costituisce uno dei momenti fondamentali dell’azione di Gesù. Giovanni invece non ha una chiamata dei Dodici altrettanto solenne; soltanto all’inizio del cap. 1 ci fa vedere il modo con cui Gesù fa le prime conoscenze, si crea i primi amici. Di una di queste chiamate tratterò questa sera nell’omelia. Il brano che ora vi propongo mi sembra adatto per riflettere sul tema “chiamatamissione”, essendo l’opera di Gesù affidata poi ai suoi discepoli. Si tratta di temi connessi, anche se non identici. Ricordiamo che in Giovanni si sviluppa un insegnamento che riguarda i presbiteri, e quindi più che una prima chiamata si suppone già un essere associati all’opera di Gesù. Prevale il senso della responsabilità di Gesù verso l’opera del Padre, verso il mondo e, conseguentemente, dei discepoli verso il mondo e, tramite Gesù, verso il Padre. Per questo poi il tema della messe entra qua direttamente. Questo brano, dunque, molto breve, comprende solo sette versetti ed è anch’esso composto, secondo lo stile di Giovanni, tenendo conto di differenti livelli di discorso. Mi sono un po’ divertito anch’io nel cercare di rappresentare graficamente questi livelli (non so se ciò chiarisce qualcosa oppure l’oscura; comunque può servire almeno come distensione). Ho indicato tre livelli, che di per sé vanno letti cominciando dal basso: primo, il livello del pane, il livello immediato, dove si parla del cibo, una serie di domande e risposte. A esse se ne intersecano altre a un secondo livello enigmatico, perché possono essere intese sia a livello immediato, sia a livello spirituale. Alcune altre affermazioni, poi, raggiungono subito il livello superiore. Possiamo fare una prelettura del testo, per cogliere sommariamente questi aspetti, e intanto renderci sensibili a ciò che il testo contiene. “I discepoli lo pregavano: ‘Rabbì, mangia’ (e qui siamo al livello immediato della necessità quotidiana). Ma egli rispose: ‘Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete’ (la risposta è enigmatica, potrebbe valere del cibo o di altra cosa che il cibo significa; ma i discepoli ritornano di nuovo al livello precedente). E i discepoli si domandavano l’un l’altro: ‘Qualcuno forse gli ha portato da mangiare?’ (Siamo di fronte a un malinteso: essi parlano di una cosa, Gesù parla di un’altra). Gesù disse loro (qui viene un’affermazione diretta al livello spirituale): ‘Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e di compiere la sua opera’”. Finisce così la prima parte del dialogo. La seconda (4,35-38) comincia con un nuovo enigma: “Non dite voi ‘Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura’? (può trattarsi di un proverbio oppure di un modo di dire, che di fatto riguarda però la mietitura,

cioè la situazione presente, o forse anche il periodo dell’anno; ma immediatamente si passa al livello enigmatico): “Ecco, io vi dico: levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura” (il problema è: di quali campi e di che cosa si sta parlando?). Sembra che parli di ciò che ha detto prima, ma in realtà è già un altro discorso. “E chi miete riceve salario e raccoglie frutto (fin qui il discorso può parere ambivalente) per la vita eterna (siamo già nel nuovo tipo di discorso), perché ne goda insieme chi semina e chi miete”. Qui infatti si realizza il detto: “Uno semina e uno miete” (qui siamo di nuovo nel campo del proverbio, dell’enigma a molti significati). Ecco finalmente la specificazione a livello superiore: “Vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato: altri hanno lavorato, voi siete subentrati nel frutto del loro lavoro”. Qui, benché siamo già al livello del discorso diretto (infatti il v. 38 l’ho messo al terzo livello), tuttavia si gioca con enigmi, perché in fondo l’applicazione potrebbe anche riguardare la situazione immediata, quella dei samaritani. Chi legge il discorso potrebbe pensare: Gesù sta prevenendo i discepoli che sta per venire una turba di gente, i samaritani, che essi accoglieranno senza aver fatto nulla per attirarli. Però il discorso, come vedremo, è molto più ampio: è una visione profetica, in cui Gesù prevede tutto il futuro. Questo dunque il testo, sul quale possiamo ora riflettere. I pensieri che propongo seguono appunto le varie fasi del testo. Riflessioni e punti sul testo Prima di tutto l’enigma, cioè i vv. 31-33, poi il v. 34 (Gesù rivela il segreto della sua vita) e, infine, i vv. 35-38, un nuovo enigma sul tema degli apostoli e della messe. Dunque, il primo enigma si innesta su un malinteso; una domanda in merito al pane quotidiano da mangiare, riceve da Gesù una risposta enigmatica. Gesù dice: “Io ho un cibo da mangiare che voi non sapete”; la risposta dei discepoli rimane al livello della comprensione immediata: “Forse qualcuno gli ha portato da mangiare?” C’è, dunque, una situazione di distanza, di incomprensione tra Gesù e i suoi: Gesù non è capito. Uno degli aspetti che ho colto maggiormente dal film Jesus Christ Superstar23, forse quello più felice – almeno a mio avviso – è proprio questo:

il fatto che Gesù, in fondo, non era capito da nessuno, c’era sempre una distanza tra lui e gli apostoli. E questo è sottolineato assai sia nel Vangelo di Marco sia in quello di Giovanni. E credo contenga un insegnamento importante per noi, cioè non capiamo mai abbastanza il Signore, non riusciamo mai a renderci conto di ciò che in fondo veramente gli importa. Anche i presbiteri, anche coloro che gli sono vicini, spesso non capiscono ciò che a lui veramente interessa, e gli mettono davanti una cosa mentre egli ne vuole un’altra. Facciamo come Marta, che invita Gesù a casa e si affanna per preparargli molte cose, ma Gesù a quelle cose non è interessato, è interessato ad altre; e quindi, pur con buona volontà, ci si sbaglia nel modo di trattarlo: non conosciamo il mistero di Gesù, che ci sfugge, perché ci chiama più in alto. E questo credo ci deve far riflettere per la stessa nostra vita spirituale: facciamo noi veramente ciò che Gesù chiede da noi? Già riflettevamo ieri, trattando del tema delle tenebre, sul disorientamento: che cosa compiamo veramente di valido, che piaccia a lui? Ciò che facciamo è veramente ciò che egli ci chiede, oppure è un’altra cosa? Gesù risponde con una parola enigmatica, che però già comincia a spiegare il suo mistero. Gesù afferma che c’è qualcuno che lo nutre segretamente, e spiega anche il perché di ciò che compie. In realtà, la parola dei discepoli è una richiesta implicita (che viene enunciata nei versetti precedenti, ma non esposta): “perché stai parlando con questa donna? Che cosa le stai dicendo?” I discepoli si meravigliano che Gesù parli con una donna in questa situazione e che stia spiegando a una donna i segreti del Regno; pensano addirittura che abbia detto a lei qualcosa che non ha detto loro. Allora Gesù riporta, orienta, gradualmente e pazientemente, il loro disappunto, il loro disagio al segreto della sua vita, che qui viene comunicato per la prima volta, al v. 34 (anche se poi ritornerà molto ampiamente in tutto il Vangelo). Dice loro Gesù: “Il mio cibo è di fare la volontà di colui che mi ha mandato, e che io compia l’opera di lui”. Dobbiamo esaminare un po’ attentamente questo versetto, perché è molto importante. Compiere la volontà di chi mi ha inviato Abbiamo qui la menzione di qualcuno che manda e della sua volontà: c’è uno che manda, c’è una sua volontà che si compie, e questa volontà è cibo per Gesù. Chi è che manda? È il Padre. Qui è la prima menzione in Giovanni

– mi pare – di questo verbo specifico “mandare” (il Padre che lo invia). Da qui in avanti abbiamo tutta una serie di passi – ne ho contati 29 – in cui il Padre ha come titolo specifico “Colui che manda, colui che invia”. Quindi Gesù rivela qui il segreto della sua missione, del suo essere tra noi, come un mandato del Padre. Questa serie di indicazioni l’abbiamo di nuovo in 5,23 ss., e via via fino a 20,21: “Come il Padre ha mandato me così io mando voi”. Quindi in tutta la sua vita, Gesù presenta se stesso come “Colui che è mandato dal Padre”. Mandato dal Padre, per che cosa? Perché faccia la sua volontà. Che cosa è questa volontà di Dio, che Gesù è mandato a fare da parte del Padre? La parola “volontà” è importante, perché il versetto si ripete quasi identicamente in 6,38, poi anche in altri brani fino al v. 40 e ritorna in 7,17. Leggendo questi versetti potrete riflettere: che cosa è la volontà di Dio che Gesù viene a compiere? Concretamente è il disegno di salvezza. Come viene specificato in seguito, ancora più chiaramente, l’opera da compiere è il disegno di Dio per la salvezza del mondo. Questa è la volontà di Dio, che è designata come “opera da compiere”, un’opera che ha una gradualità di momenti, che è faticosa e difficile da compiere, che dev’essere portata a termine fino alla fine. Questa è l’opera di Gesù, il disegno completo di salvezza. Questa è la volontà di Dio. E in questa volontà di Dio siamo chiamati, ciascuno di noi, a inserirci in Gesù. Che cosa vuol dire per noi “compiere la volontà di Dio”? Vuol dire entrare nel disegno di salvezza che Gesù compie, accettando la sua presenza tra noi con tutte le implicazioni che essa comporta. La volontà di Dio, che Gesù compie come mandato dal Padre, è il cibo della sua vita. Che cosa vuol dire? Certamente qui Gesù si richiama a tutta la tradizione giudaica, che “ha per cibo l’ascolto della parola di Dio” (Dt 8,3 e molti altri passi analoghi). Questa è l’essenza della sua vita, è ciò che ne costituisce l’anima, che lo definisce. Quindi Gesù si presenta a noi come “obbediente al Padre”, e questa è la definizione del suo essere tra noi. Dovremo vedere poi più chiaramente che cosa implica questo concetto di incarnazione, ma già fin d’ora possiamo intendere come la presenza di Dio tra noi sia posta da Gesù proprio attraverso questo atto di obbedienza che egli realizza nel mondo. Ed è qualcosa che ci deve far pensare, perché certamente noi non ce l’avremmo messa, questa realtà, sulla quale Gesù tanto insiste, di “mandato dal Padre”: non è qualcosa che può venire in mente, se non attraverso una rivelazione dell’essenza stessa del mistero di Dio. Ragionare così ci è un po’ ostico, un po’ difficile, ma è tutt’uno con l’accettare la parola

del Signore. Oltre al verbo pémpo, cui appunto si ricollegano questi passi (il Padre è “ho pémpsas”, “colui che manda”, quasi come definizione del Padre rispetto a Gesù), ci sono ancora altre voci (mi pare da 20 a 25 passi) in cui compare il verbo apostéllo, con cui Gesù definisce ugualmente la sua missione. Questo uso inizia a 3,17 (il Padre ha mandato, apésteilen, il Figlio) e continua fino al termine del Vangelo. Con questi due verbi, abbiamo quasi una cinquantina di luoghi in cui con insistenza l’opera di Gesù è definita come “ricevere un invio, ricevere un mandato”. Che cosa significa questo per noi? Dobbiamo rifletterci attentamente, contemplando nella meditazione la persona di Gesù; e io suggerirò un’applicazione riflettendo sulle Costituzioni, e sul tipo del nostro apostolato e della nostra missione. La messe è molta… Terzo momento del brano, dal v. 35 al v. 38: gli apostoli e la messe. Qui ritorna un nuovo enigma: “Non dite voi forse: già sono quattro mesi e viene la mietitura? Ecco io vi dico: alzate gli occhi, vedete i campi che sono bianchi per la mietitura (vedete le regioni davanti a voi che sono bianche, che sono ormai pronte per la mietitura)” (v. 35). Che cosa avviene qui? Probabilmente siamo di fronte a qualcosa che non va, dal punto di vista logico, perché se sono quattro mesi – e la mietitura si fa verso giugno – siamo nel mese di febbraio-marzo e siamo ancora molto, molto indietro: in Palestina può ancora fare molto freddo, e quindi non c’è alcuna “imminenza” da contemplare. La cosa si spiega piuttosto come una visione profetica di Gesù. Gesù, posto di fronte a questo primo episodio del suo apostolato (la samaritana è venuta, stanno per venire altri del villaggio), che è forse un episodio modesto e un po’ banale, intravede la sua missione e quella dei discepoli: la messe quindi è grande, immensa, e i campi sono pronti (probabilmente Gesù pensa alla raccolta messianica, come è descritta nei profeti, per esempio in Amos 9,13). Credo che qui noi potremo riflettere sul modo in cui sant’Ignazio presenta il mondo nei preludi della “contemplazione dell’incarnazione” [101-109]: “Vedere l’immensità del mondo, con tutte le persone nelle loro diverse situazioni: chi piange, chi ride, chi soffre, chi muore, chi va all’inferno…” Ecco una visione analoga a quella che Gesù qui ci presenta, uno sguardo sull’immensità dell’opera del Padre, alla quale Gesù vuole cominciare ad

associare i discepoli. Fino a ora era in scena lui soltanto; da questo momento egli cerca di fare entrare in qualche maniera anche nell’animo dei discepoli questo senso di ansietà e di responsabilità, che incombe su di lui per la missione ricevuta del Padre. E quindi Gesù già vede profeticamente che c’è un raccolto, si raccoglie il frutto della messe, si porta in casa, e ci si rallegra. Questa sua gioia interiore, nella quale egli anticipa la più grande visione messianica del raccolto finale, cerca di comunicarla ai suoi, di farli partecipare a questa sua grande responsabilità che è l’opera che il Padre gli ha affidato. A questo punto incontriamo un salto tipico nel modo di parlare di Giovanni, che del resto ha una sua rispondenza immediata anche nel brano analogo di Mt 9,37: “La messe è molta…” Dopo che Gesù ha cercato di partecipare ai suoi le sue ansie, la responsabilità e anche la gioia di questo immenso lavoro che il Padre gli ha dato da compiere, ricorda che questo lavoro non è unicamente affare degli apostoli. Sembra cioè compensare nelle parole seguenti quel senso di paura, di timore, che può prendere chiunque di fronte a questa opera immensa: “In ciò si avvera la parola che uno è colui che semina e l’altro è colui che miete. Io vi ho mandato a mietere ciò che voi non avete lavorato: altri hanno lavorato, e voi siete entrati nel frutto del loro lavoro” (v. 37 ss.). Che cosa vuol dire Gesù con questo parlare simbolico, parabolico, che tra l’altro sembra riferirsi a un brano del Vecchio Testamento, del profeta Michea, che di per sé è un brano di tristezza: “Colui che semina non mieterà” (Mi 6,15)? Gesù prende la parola in altro senso: uno semina e un altro miete; voi raccogliete ciò che altri hanno seminato. Mi pare che qui Gesù stia introducendo gli apostoli a un aspetto molto importante della sua opera: c’è infatti l’opera del Padre, che Gesù deve compiere, alla quale Gesù associa i suoi gradualmente, mano a mano che questi divengono capaci di sostenerla per la crescente maturità del loro cuore, del loro spirito, senza però mai scaricarla addosso a loro, come se ne fossero gli unici responsabili. Gesù vuole indicare loro (e Giovanni vuole indicarlo alla sua comunità dei presbiteri) che si tratta di un’opera situata nell’ambito di una lunga tradizione viva, di cui essi non sono né l’inizio né la fine, di cui non sono quindi gli unici gestori o responsabili; anzi, come si riceve la missione, così anche se ne riceve la collocazione in questa ampia tradizione, di cui ciascuno di noi è una parte e in cui fa qualcosa, senza che nessuno sia il responsabile, il gestore o il dominatore assoluto. Lo stesso concetto lo notiamo nel passo di Matteo: “La messe è molta, gli

operai sono pochi”, che è un grido di gioia e di angoscia insieme; infatti, mentre di impulso si sarebbe portati a concludere: “Dunque, andate presto a mietere”, la conclusione è: “Pregate il padrone della messe…”, quasi a dire: “Non siete voi i responsabili finali dell’opera di Dio!” Questa opera è di Dio: Dio l’ha affidata al Figlio e il Figlio la partecipa a noi, ma essa rimane opera lunga, ampia e di molti. Cominciamo così a intravedere una delle tipiche linee ecclesiali del Vangelo di Giovanni, cioè quella di illuminare il discepolo, il presbitero a comprendere la presenza di Gesù nella tradizione viva della Chiesa e a inserirsi in essa, accettando che l’opera di Dio venga e si compia in questa maniera; e quindi togliendo dal cuore dei discepoli e dei presbiteri quel senso di angoscia, di ansia, secondo cui tutto dobbiamo far noi, quasi che tutto nasca con noi e con noi muoia. No, noi entriamo sempre in un lavoro che altri hanno già fatto, raccogliamo l’eredità di altri, prepariamo la via per altri che vengono. È questa, direi, una visione che anche umanamente tranquillizza, e rende più semplice, più concreta, più umile la nostra azione. Non c’è da stupirsi che Gesù vi faccia un accenno specifico là dove comincia la formazione ecclesiale dei suoi discepoli. Possiamo concludere la nostra riflessione. Per il colloquio e la preghiera finale potrei suggerire principalmente due o tre passi biblici. Uno è il passo con cui termina il racconto della samaritana (4,42): “Noi abbiamo visto che costui è veramente il Salvatore del mondo”. Questo “parere”, l’unico nel Nuovo Testamento in cui Gesù è chiamato Salvatore del mondo, è posto a conclusione dei due episodi di Nicodemo e della samaritana, che costituiscono una specie di sezione unitaria, ed è come una sintesi di ciò che è stato presentato. Gesù ha parlato sia ai giudei che ai samaritani e da ciò risalta, si vede la sua apertura universale. Pregare quindi Gesù “Salvatore del mondo”, che ci faccia comprendere le necessità di tutto il mondo, è il modo con cui dobbiamo comportarci in quanto mandati al mondo. Un altro passo potremmo trovarlo in 6,57, dove il segreto dell’attività di Gesù viene direttamente comunicato ai suoi: “Come il Padre ha mandato me – colui che vive, il Padre, che ha mandato me e io vivo per il Padre (questa è l’attività di Gesù) – così colui che mangia di me vivrà per me”. E quindi, attraverso la comunione di fede ed eucaristica con Gesù, si continua la missione dal Padre affidata a Cristo e che da Gesù, il Cristo, passa a ciascuno di noi.

Riflessi nelle Costituzioni e in altri documenti Possiamo ora fare una riflessione su come ciò che abbiamo visto si rifletta nelle Costituzioni della Compagnia. Credo che tocchiamo un tema molto importante delle Costituzioni e di tutto il modo con cui sant’Ignazio concepisce la partecipazione all’opera di Cristo. Noi sappiamo l’importanza che aveva per sant’Ignazio il tema della “missione”. Cioè, egli concepiva il servizio alla Chiesa come una missione, che gli era trasmessa passando per una certa serie di canali, di tradizioni ben precise e chiare, nelle quali egli tendeva a inserirsi. Abbiamo due testi fondamentali su questo tema: il primo nella Formula dell’Istituto24, dove si definisce fin dall’inizio il rapporto della Compagnia con la Chiesa, in particolare col Sommo Pontefice; e poi tutto il n. 4 della stessa Formula, che presenta come momento centrale della Compagnia questo vivere di missioni ricevute, alle quali ci si obbliga con voto particolare, e che quindi costituiscono l’essenza, il modo specifico di definire la vita del gesuita. Tra questi brani del n. 4, che sarebbe da leggere per intero, ne ho notato soprattutto qualcuno, dove questo rapporto è evidente. Per esempio quando sant’Ignazio scrive: “E perché non possa entrare tra noi la pretesa o la scusa di queste missioni e di questi incarichi, o la pretesa di averli o la scusa di non averli, nessuno deve occuparsi, né per sé né per altri, ma deve lasciare tutta la cura a Dio (quindi la missione che viene da Dio), al papa come al suo Vicario, al Superiore della Compagnia”. Quindi sembra chiaro che sant’Ignazio riflette in qualche maniera questa idea del mandato – che è così presente in Giovanni e che del resto costituisce una delle strutture portanti anche del Vangelo di Marco, la missione di Gesù ai suoi – e vuole inserire la sua opera in questo mandato. Come questa inserzione avvenga, e quali condizionamenti spirituali essa rappresenti per la Compagnia, e come essa supponga tutto un certo modo di essere e di pensare, è esposto nella parte VII delle Costituzioni, la quale è tutta dedicata alle missioni, cioè a definire come il gesuita può e deve intendere la sua attività in quanto “mandato”. Su questa parte VII ho citato il commento di padre de Aldama, che ha per titolo le parole con cui inizia questa parte VII: “Ripartendoci nella vigna di Cristo nostro Signore”25. È un commento storico, esegetico, di grande valore, che raccomando senz’altro per poter capire questa parte, che è uno dei nuclei fondamentali delle

Costituzioni, uno dei punti – diciamo – che sono stati scritti già assai prima, per essere in seguito inglobati dove si trovano dopo varie vicende. E di questa parte, che penso sarebbe da leggersi tutta con attenzione, in questi giorni, richiamo soprattutto Cost 603, che definisce i vari nostri modi di dividerci nel mondo per lavorare nella vigna di Cristo, inviati per ordine del Vicario di Cristo, oppure mandati dai Superiori (Cost 973) in qualche luogo, senza però che sia determinato il modo di agire; oppure, quando già si è in un certo luogo, come in una casa o collegio, confermati per una missione particolare. È chiaro come tutta l’attività, nel suo complesso, è vista sotto questo aspetto della missione. Inoltre, vediamo Cost 618, che afferma come dalla natura missionaria della Compagnia, intesa in questo senso, cioè legata alla missione di Cristo attraverso la Chiesa, derivano tutte le forme di scelta, di determinazione, e soprattutto, in particolare, la preghiera intensa per trovare la volontà di Dio, cioè, in concreto, come servire veramente l’opera per la quale siamo stati inviati.

OMELIA. I PRIMI DISCEPOLI (GV 1,35-51) E veniamo ora alla seconda lettura di questa sera, cioè l’incontro di alcuni discepoli con Gesù, in particolare il primo di questi incontri (1,35-51). Dove si svolgono? Giovanni non lo dice, quindi sono scene un po’ sospese nell’aria. E Schürmann commenta a questo proposito (non so se è ardito il commento, ma lo faccio mio): Giovanni non pone luogo (più o meno dice così) per questi avvenimenti, perché sono avvenimenti che succedono sempre nella Chiesa: il Cristo passa e chiama26. Giovanni, però, dà un tempo per questi avvenimenti, l’indomani; è il secondo domani dopo la prima manifestazione, cioè il secondo giorno della prima settimana di manifestazione. Nel primo giorno, Giovanni Battista parla egli solo; nel secondo giorno coi discepoli e incomincia a mandarli a Gesù: Giovanni diminuisce, Gesù cresce. Abbiamo nella presentazione della scena i discepoli con il Battista. Sono con lui; il Battista vede Gesù, parla, e i discepoli vanno dietro a Gesù. Anche qui, Schürmann nota come Gesù passeggia, non si sa donde venga, dove vada, volendo riferire questa indeterminatezza circa la presenza di Gesù nella sua Chiesa: Gesù agisce così, parla, passa e alcuni lo seguono. Che cosa fa il

Battista? Agisce conformemente allo schema di molte vocazioni o chiamate: qualcuno indica la strada, si va dietro a Gesù e poi viene finalmente la conoscenza personale diretta. Qui Giovanni è colui che indica la strada: ripete le parole che aveva detto prima sull’Agnello di Dio, e i discepoli lo abbandonano (questo abbandono è un po’ doloroso, sorprendente per Giovanni che forse non si aspettava tanto), lo abbandonano e seguono Gesù. Perché lo seguono? Forse la parola di Giovanni, “uno che toglie i peccati del mondo”, ha destato in loro qualche cosa. Per gente che sente il disagio e la sofferenza del peccato nel mondo, questa parola, pur nella sua oscurità, attrae immediatamente. Colui che è presentato come “Agnello di Dio”, può misteriosamente trasformare, pagando di persona, la situazione degli altri, e questa possibilità è qualcosa che attira a seguire immediatamente Gesù. È curioso che negli altri Vangeli di solito sia Gesù che dice “seguimi”; qui sono i discepoli che cominciano, di loro iniziativa, a seguire Gesù. Eppure non osano parlargli. La scena si svolge appunto in questa forma un po’ misteriosa, quasi nebulosa: lo seguono, ma non dicono nulla, e a un certo momento Gesù stesso prende la parola: “Che cosa cercate?” Questa domanda è importante, perché è la prima parola che Gesù pronuncia in Giovanni. E certamente l’Evangelista ha cercato di caricarla di un particolare significato. Gesù domanda: “Che cosa cercate?”, cioè fa appello al desiderio profondo di queste persone perché emerga e prenda forma concreta. Formula dell’Istituto Mi viene qui in mente un riferimento all’inizio della Formula dell’Istituto, che comincia appunto così: “Se qualcuno desidera seguire Dio nostro Signore sotto il vessillo della Croce…” Cioè da questo desiderio – che corre anche nella Regola di san Benedetto: “Se davvero cerca Dio” – ecco qui le conseguenze. Gesù qui fa anche sorgere i desideri più profondi di queste persone, perché possano venire alla luce e passare alla sequela concreta. È una domanda semplice, cortese, diretta, ma che va fino in fondo. La risposta sembra un po’ goffa, a prima vista. Aspetteremmo in risposta una domanda più solenne, del tipo: “Maestro, che cosa fare per ottenere la vita eterna?”, oppure “Maestro, qual è il principale comandamento?”, cioè delle grandi parole, che indicano in chi domanda grande intelligenza e grande profondità. Invece la domanda è molto semplice, imbarazzata: “Dove stai?” Non senza

motivo Giovanni pone queste semplici parole da persona timida; in fondo ciò che è importante è conoscere dove sta Gesù, per stare con lui. In fondo, nonostante la parola rabbì, maestro, al di là di ogni desiderio di conoscenza intellettuale, ciò che essi vogliono non è sapere “qualche cosa”, ma “stare con lui”. L’oggetto della domanda è questo: vorremmo stare con te, vorremmo starti vicino, vorremmo venire alla tua scuola, una scuola pratica, scuola di vita, di presenza. E Gesù risponde non indicando dove sta, ma semplicemente dicendo: “Venite e vedrete”. Anche qui le parole sono pesate, Gesù non dice di fare, o di cercare qualche cosa, ma: “Venite e vedrete”, cioè fate l’esperienza di me. Questa frase, “Venite e vedrete”, viene ripetuta in seguito, alla fine del capitolo, ai vv. 50-51, dove Gesù dice a Natanaele: “Ti stupisci di queste cose? Ne vedrai ancora di più”. E aggiunge: “In verità, in verità vi dico: vedrete i cieli aperti e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo”, in altre parole, se avrete il coraggio di fare questa prima, semplice esperienza, vedrete molte cose, la vostra esperienza si allargherà nel contatto con me. L’esperienza che i discepoli fanno è di andare, di vedere dove sta e di rimanere con lui quel giorno. Notiamo qui l’insistenza sui termini che esprimono la “presenza”; già la domanda dei discepoli suonava: “poû méneis” (dove stai)? Ecco, ora, come viene descritta la scena: andarono, videro dove stava e rimasero (“émeinan”) tutto il giorno. Anche qui, data la cura con cui Giovanni costruisce questa prima scena di incontro, la frase “rimanere con Gesù” invita a riflettere. Giovanni individuerà nel “rimanere con lui” l’ideale della raggiunta maturità finale. Da notare la differenza delle preposizioni: qui “rimangono presso di lui”; a un certo momento Gesù chiederà “Rimanete in me”. Attraverso la familiarità esterna con lui si prepara la familiarità intima con la vita del Figlio di Dio e con la Trinità. L’ora decima Giovanni conclude questo breve racconto dicendo: “Era l’ora decima”. Cosa vuol dire quest’ora decima? Di per sé all’ora decima è già abbastanza tardi nel pomeriggio, per cui si potrebbe concludere che rimasero poco. Schürmann propone un’altra possibilità: era l’ora decima, l’ora delle scelte perfette27. Cioè l’ora in cui si conclude (secondo alcuni computi apocalittici, il decimo secolo, il decimo periodo era il periodo conclusivo) la prima ricerca

dei discepoli, in quanto hanno trovato, per la prima volta, il contatto col Signore. Da questo momento i discepoli seguono Gesù non più per impulso altrui, ma perché ormai l’hanno conosciuto e cominciano a chiamare altri. Di qui tutta una serie di chiamate: Andrea chiama Pietro, poi Natanaele viene chiamato da Filippo. Tutto questo episodio nel suo complesso manifesta i diversi modi con cui si sviluppa la chiamata del Signore: una volta che di essa ci si è appropriati, può passare ad altri; e questo passaggio avviene con gioia, con senso di pienezza, perché si comunica un tesoro che si è trovato. Notate tuttavia la varietà di queste indicazioni: alcuni seguono Gesù perché un altro – il Battista – li ha sollecitati; Filippo, subito dopo, è chiamato direttamente; alcuni lo seguono senza paura; Natanaele, che sembra piuttosto un intellettuale, uno che legge molto, dev’essere prima convinto, ma essendo un uomo retto, alla fine anche lui cede. Abbiamo qui un’ampia varietà di approcci, che però si concludono tutti accettando la presenza di Gesù e giungendo a una conoscenza di lui fondata sull’esperienza personale. Dato che Giovanni insiste tanto su questa esperienza personale, mi viene in mente un racconto dei Padri del deserto, che mi è rimasto impresso, perché la prima volta lo lessi dovendolo tradurre dal copto, e in seguito vidi che era degno di essere ricordato anche per altri motivi. Un monaco incontra un altro e gli chiede: “Come mai tanti lasciano la vita monastica?” (già nel secolo III c’era questo problema degli abbandoni della vita monastica!). E il secondo monaco risponde: “Avviene nelle vita monastica come di un cane che insegue una lepre: quando ha visto una lepre, le corre dietro e in questa corsa grida e abbaia; molti altri si uniscono e corrono tutti insieme, ma a un certo momento tutti quelli che non vedono la lepre si stancano e uno dopo l’altro si perdono; solo quelli che la vedono continuano fino in fondo”. E conclude il racconto: “Solo chi ha messo gli occhi nella persona del Cristo crocifisso può perseverare fino in fondo”28. Questo non risolve evidentemente tutto il problema degli abbandoni, che è molto più complesso, ma serve a ciascuno di noi per riflettere su questo passo evangelico. Che cosa ci è chiesto all’inizio della vita religiosa? Probabilmente abbiamo fatto la scelta per motivi profondi, veri; ma certo anche per molti motivi, perché in parte condizionati dall’ambiente, da persone che ci hanno spinto, aiutato, portato avanti. Tutto questo va bene per un certo tempo. Viene poi il momento della maturità, in cui soltanto ci può guidare l’esperienza di Cristo. Questo vale non soltanto per la vita religiosa, ma anche per tutta l’esperienza di preghiera, l’esperienza di vita quotidiana.

Spesso preghiamo bene perché abbiamo letto un buon libro sulla preghiera che ci ha entusiasmato, e dopo per due o tre mesi siamo legati a questo entusiasmo; oppure abbiamo letto qualche libro sull’obbedienza, sull’impegno apostolico e ormai sentiamo quasi di averle noi queste doti decantate. Ma la maturità mostra che quanto abbiamo visto in altri o sentito lodare da altri non rimane. O meglio rimane ciò che è acquisizione nostra (ricordiamo il “Venite e vedrete”), ciò di cui abbiamo fatto la prova noi stessi. Chiediamo in questa Eucaristia di trovare, di sperimentare – non per volontà nostra, perché è impossibile, ma per dono di Dio – la ricchezza dello “stare con lui”, cosicché diventi un bene nostro, che possiamo trasmettere ad altri con gioia e senza fatica.

VII. IL MISTERO DI DIO TRA NOI Questa meditazione corrisponde, nell’itinerario degli Esercizi, alla “Contemplatio de Incarnatione” [101-109]. Benché sant’Ignazio svolga questa meditazione, come è naturale, “secondo Luca”, cioè facendoci contemplare la scena evangelica lucana, ci sono due accenni a un tema giovanneo fondamentale sia in un “preludio” sia nel “colloquio”29. Nel terzo preludio [104], sant’Ignazio fa chiedere “intima conoscenza del Verbo che per me si è fatto uomo perché lo ami e lo segua”. Quindi conoscenza interna del mistero dell’incarnazione. Ed è appunto questo tipo di meditazione che vogliamo ora fare: chiedere cognizione interna del Cristo Gesù, del Verbo di Dio che per me si è fatto uomo. Nel colloquio [109] sant’Ignazio riprende questo tema, quando ci mette in adorazione di fronte al “Verbo da poco incarnato” (qui è chiaro che riprende il vocabolo giovanneo), dicendogli ciò che mi si offre, ciò che mi viene in mente, ciò che mi sale come desiderio profondo dal cuore. Così dobbiamo inquadrare questa e le altre successive meditazioni, in quanto tutte strettamente pertinenti al mistero dell’incarnazione. E sebbene sant’Ignazio dica che bisogna pensare soltanto alla meditazione che si sta facendo e non alle altre che seguono, vorrei prevedere in qualche modo queste meditazioni. Dobbiamo contemplare il Verbo “ita recens incarnatum” – dice sant’Ignazio – da poco incarnato per me; e contemplarlo, come ce lo fa contemplare

sant’Ignazio da poco incarnato nel seno di Maria (non accenneremo al testo, perché seguiamo direttamente san Giovanni). A partire da queste premesse, indicheremo prima il mistero di Dio tra noi; poi, in una successiva meditazione, le implicazioni ecclesiali dell’incarnazione; in un’altra, le implicazioni secolari di essa; quindi, in un’ulteriore meditazione, i malintesi, i modi errati di intendere l’incarnazione, il “Dio fra noi”. Faremo dunque, più che una contemplatio mysteriorum vitae Christi, come fa sant’Ignazio sui singoli misteri, una contemplatio mysterii vitae Christi, cioè dalla vita stessa di Cristo come mistero, quindi più nella linea giovannea. Sono meditazioni più difficili: è più facile contemplare la scena di Betlemme, dei pastori, di Nazareth, che non contemplare il significato dell’intera vita di Cristo. Ma san Giovanni, facendoci contemplare questo significato, suppone che uno sia già familiare coi misteri precedenti, e quindi nulla vieta che la nostra meditazione cominci con un preludio – come direbbe sant’Ignazio – di “composizione di luogo”30 su uno di questi misteri: in concreto, in questa meditazione, l’Annunciazione; nelle altre, Betlemme o Nazareth, anche se il pensiero va sempre a ciò che significa questo essere di Cristo. Perciò non si conclude affatto, anzi si suppone, che il presbitero abbia già questo contatto affettivo con i singoli momenti concreti della vita di Gesù, e lo si inviti a una riflessione contemplativa sul significato di queste realtà. Così vanno prese queste meditazioni. Una prima meditazione Presento la prima di queste meditazioni in maniera un po’ embrionale e confusa, perché non riesco a mettere bene insieme i temi che vorrei proporre o esporre. Mi ispiro un po’, non tanto nelle cose che dico quanto nel taglio della ricerca, ad alcuni scritti di Madeleine Delbrêl, due libri pubblicati qualche anno fa31. Non ho conosciuto questa persona direttamente (è morta alcuni anni fa, nel 1964), ma dalle indicazioni datemi da padre Loew, domenicano, ho letto questi libri, che mi hanno interessato immensamente, perché ho visto l’esperienza di una persona che non ha scritto (tutte le sue opere sono postume, eccetto qualche articolo), ma ha “vissuto” piuttosto che scrivere. Da giovane ha fatto una esperienza di ateismo; poi ha avuto un fortissimo senso di Dio, mistico, altissimo – almeno come risulta dagli scritti – e nello stesso tempo ha esplicato un servizio sociale in un sobborgo

comunista di Parigi, a continuo contatto col quel mondo e insieme riflettendo sul tema “L’assolutezza di Dio e l’ateo”. A me, almeno, questi due testi hanno aiutato: mi sono molto sentito in consonanza, mi hanno offerto vari pensieri e varie indicazioni. Questo forse spiega anche l’oscurità delle cose che cercherò di esprimere. Inoltre come vedrete, citiamo soprattutto passi della seconda parte di Giovanni, cioè passiamo dalla parte enigmatica alla parte rivelativa. E forse anche questo aumenta la difficoltà. La nostra situazione attuale Qual è il punto di partenza di questa riflessione? Nei presbiteri di Efeso potremmo vedere questo punto di partenza: l’ambiente, il mondo in cui vivono, profondamente religioso, che vede ovunque la presenza di Dio e desidera vederla. Però vorrei allargare questo punto di partenza, considerando prima di tutto l’ardore dei mistici di ogni religione, di ogni credo religioso, il loro desiderio di vedere Dio, di vedere la gloria di Dio. Cito qualche passo caratteristico del Vecchio Testamento, che esprime questo anelito, per esempio Es 33,13-20. Vi invito a leggere questi passi. Mosè disse al Signore. “Se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, indicami la tua via, così che ti conosca”. Il primo desiderio: “Indicami la tua via”, dimmi cosa debbo fare, in questo disorientamento in cui mi trovo. Ma dietro a questo ce n’è un altro: “Che io ti conosca”. Poi nel v. 18, si fa strada: “Gli disse: ‘mostrami la tua gloria’. Rispose: ‘Farò passare davanti a te tutto il mio splendore, proclamerò il mio nome – Signore – davanti a te. Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi’”. Possiamo leggere il Salmo 63,2: “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora ti cerco. Di te ha sete l’anima mia. A te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua”. Davvero, potremmo dire che qui c’è probabilmente, al primo livello, nella situazione di difficoltà, la ricerca dell’aiuto di Dio: “A te che sei stato il mio aiuto. Esulto di gioia all’ombra delle tue ali”. Però è evidente che, dietro a questo desiderio – già nella lettura primordiale, ma ancor più nella lettura approfondita – c’è il desiderio di Dio stesso: “Ti cerco. A te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua”. Oppure il Salmo 42,2-4, e poi tutto il passo: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente. Quando verrò e vedrò il volto di Dio? Le lacrime sono mio pane giorno e

notte, mentre mi dicono sempre: dov’è il tuo Dio?” È chiaro, anche qui, al primo livello il bisogno dell’aiuto di Dio: Dio si manifesti col suo aiuto. Ma è evidente che l’espressione è troppo personale per non indicare il desiderio di Dio stesso come persona. Egualmente il Salmo 16, tutto quanto, ma principalmente l’inizio: “Ho detto a Dio: sei tu il mio Signore, senza di te non ho alcun bene”. Quindi, addirittura gli aiuti che Dio dà non sono niente senza di lui. È vero che lui è negli aiuti che dà, ma “Il Signore è mia parte di eredità, mio calice. Nelle tue mani è la mia vita. Benedico il Signore. Io pongo sempre innanzi a me il Signore: di questo gioisce il mio cuore, esulta la mia anima”. L’anelito appunto dei mistici di ogni religione è vedere Dio, di vedere la sua gloria. Nella meditazione dovremmo leggere questi brani, sentendo ciò che si muove in noi quando li leggiamo, cioè specchiandoci in questi desideri profondi, perché suppongo che è proprio questo l’anelito di ogni uomo, nella sua componente religiosa: la visione, il desiderio di Dio. Ambiguità dell’aspirazione religiosa Una volta attualizzata in noi questa realtà (in quanto essa esiste e in quanto riusciamo a percepirla come realtà pura, come principio primo, esistenziale, trascendente) possiamo riflettere così: questo desiderio di vedere Dio, che è l’anelito di ogni uomo in quanto religioso, è anche il principio di ogni aberrazione religiosa. Cioè, tutta la tentazione di darsi degli idoli nasce dal desiderio di vedere Dio, di possederlo, di averlo. Intendo questi idoli non tanto nel senso di perversione morale (adorare le proprie passioni), ma nel senso di costringere finalmente nelle proprie mani la presenza Dio. Di qui anche la frenesia di assolutizzare i valori in maniera da avere qualcosa di assoluto tra le mani. Qui le tentazioni perenni nell’umanità, che dovremmo però considerare non negli altri, ma in noi, in quanto sono presenti in noi stessi. Da una parte, per gli uomini attivi, tesi all’azione, tentazioni di tipo messianico di crearsi degli assoluti, di tendere verso ideali assoluti; tipici messianismi del mondo occidentale, farsi degli ideali assoluti: giustizia, libertà, liberazione, pace. All’opposto, nel mondo orientale e in un altro tipo di persone, ma sempre come aberrazione del fondamentale desiderio di vedere Dio, tentazioni di panteismo, che è forse la tentazione più raffinata

dell’uomo religioso, cioè di sacralizzare tutto, di vivere con sacro rispetto in un mondo divino, perché allora Dio è tutto, è toccato continuamente, vi sono immerso. Queste due tentazioni suggerisco di analizzarle in noi, non sociologicamente o nella storia, perché tutti le abbiamo, in quanto abbiamo delle tendenze di carattere assoluto, che si esprimono, talora si toccano, per esempio in una forma di pan-umanesimo: l’uomo, questo Dio che si vede, l’unico che si può vedere è l’uomo, siamo noi. E allora siamo noi l’assoluto. L’inquietudine di vedere il volto di Dio è dunque la molla continua, il motore, che muove tutte le forme di assolutizzazione, sia messianica, sia panteistica, in tutte le loro varietà che, come dicevo, ciascuno di noi dovrebbe imparare a riconoscere in se stesso. Questa inquietudine, credo, si esprime anche disperatamente nelle visioni atee, e principalmente nell’ateo che è in ognuno di noi, cioè in tutte quelle forme di incredulità che portiamo in noi stessi. Quando recitiamo il salmo sull’insipiente “Dixit insipiens: non est Deus”, in fondo, anche questa frase esprime una qualche analisi del proprio essere, una qualche componente propria, che continuamente cerca di riaffiorare. Per questo, dico, non darei questa meditazione a principianti, a persone che ancora lottano con i primi rudimenti della fede; ma credo che il presbitero maturo, come deve sapere analizzare in sé le componenti erotiche, sessuali, politiche della propria esistenza, così deve anche saper analizzare in sé le componenti atee, e quindi tutto ciò che ne deriva come tendenze profonde del proprio essere, che si esprimono solitamente o nella forma panteistica: sacralizzare tutto, o nella forma messianica: darsi con assolutezza ad alcuni valori. Qui evidentemente prendo l’uomo nella sua caratteristica di uomo impegnato, l’uomo che si dona. Perché c’è anche in noi certamente la componente dell’ateo scettico, cioè quella che ci lascia continuamente amari. Ma noi sentiamo che, vicino a questa, c’è anche la componente dell’impegnato, di colui che vuole vedere qualcosa di assoluto e sentirselo vicino. È appunto da questa analisi che nasce la riflessione sul messaggio di Giovanni. In altre parole, vorrei dire che il messaggio di Giovanni si coglie in un’attitudine di profonda religiosità, in un’attitudine che deve far appello in noi a tutte le forze di assoluto, di desiderio della trascendenza, di adorazione, di desiderio di Dio. In altre parole, la domanda di Gesù ai discepoli “che cosa cercate?”, “ti zetéite?”, deve essere attualizzata in noi in tutti questi livelli, per capire ciò

che domandiamo nel primo preludio: “Dammi, Signore, di conoscere Gesù che per me si è fatto uomo”. Il messaggio di Gesù sul Padre Passiamo ora al secondo momento di questa riflessione: il messaggio di Gesù sul Padre. Ho citato due testi, ma se ne potrebbero aggiungere altri. Che cosa dice Gesù al termine della sua vita, quando comincia a parlare non più in similitudini, ma apertamente: “Vi parlerò apertamente del Padre” (16,25) e “Padre, ho manifestato il tuo nome” (17,26). Potremmo dire che il messaggio di Gesù ha in Giovanni un oggetto solo: Dio, il Padre, il Padre suo. Tanto è vero che Bultmann ha potuto affermare che il Vangelo di Giovanni non ha nessun “oggetto”, dice soltanto di credere in Dio senza offrire un vero messaggio. Si tratta certamente di un modo esagerato di esprimersi, perché in fondo Giovanni contiene un messaggio oggettivo e uno solo, che consiste nel manifestare il nome di Dio, cioè parlare del Padre. Devo subito aggiungere che a noi questa essenzialità fa paura perché, se dobbiamo parlare solo di Dio, ci sembra di perdere il contatto col mondo reale, con le cose, con l’uomo di tutti i giorni: il contatto col vino di Cana o col pane della moltiplicazione. Perciò, di fronte a questo messaggio così essenziale: “Vi parlo del Padre, vi parlo di Dio”, noi usiamo categorie come “intimismo”, “alienazione”. È questo certamente un rischio gravissimo, che non pochi temono di affrontare, cadendone vittime, restando sempre al di qua di questa rivelazione, e contentandosi della prima parte di Giovanni, quella cioè dei segni, segni che poi vengono assolutizzati in una maniera o nell’altra, perché non si può stare senza un assoluto. È proprio qui, di fronte a questa essenzialità del messaggio di Gesù, che mi viene in mente una frase di Madeleine Delbrêl, che tuttavia viveva in una situazione di continuo servizio sociale e di sensibilità acutissima per i fratelli: “Dio pesa più di tutto il mondo messo insieme”32. Una frase che in certo senso sembra condannare il mondo, ma che esprime, se vista in una certa maturità religiosa, il salto nella trascendenza, dal quale soltanto è possibile ricostituire l’unità dei nostri desideri profondi, e rispondere, parlare alla nostra visione del mondo. Per chi accetta questa assolutezza di Dio, Dio solo è grande; per chi fa questo salto, che tutto il Vecchio Testamento ci invita a fare, Gesù rivela il mistero. Gli si chiede: “Mostraci il Padre” (14,8), cioè “Facci vedere il volto

di Dio” (è la grande domanda di Mosè, la domanda dei salmi). E Gesù risponde: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9); Gesù è presenza del Dio unico e inaccessibile a noi, cioè Dio fatto visibile e messo a nostra disposizione. Ma naturalmente queste parole sono estremamente banali per chi non è passato attraverso il crogiolo del perfetto desiderio di Dio: esse rimangono un qualcosa di cui non si vede il significato profondo. Ed è per questo che solo Giovanni tra gli evangelisti parla del Verbo fatto carne; gli altri più semplicemente parlano di Gesù uomo, che si mostra Figlio di Dio. Giovanni suppone già un’altra religiosità più matura, più pensata, che abbia acquisito il senso di assolutezza. Quali sono le conseguenze di questa parola di Gesù: “Chi vede me vede il Padre”? Le conseguenze sono che Giovanni può dire: “Abbiamo visto la sua gloria, gloria come dell’Unigenito del Padre” (1,14). Cioè, ogni atteggiamento di Gesù è rivelazione del Padre. Possiamo allora contemplare tutta la vita di Gesù, adorando il mistero del Dio tra noi, del Dio manifestato. Gesù, che accoglie Nicodemo, è il Dio invisibile che ci accoglie come amico. Gesù, che ai discepoli che gli chiedono: “Dove stai?” dice fraternamente: “Venite e vedrete”, è l’Eterno, colui che desideriamo dal più profondo del cuore, che ci dice di amare la nostra compagnia, di amarci. Gesù, che trasforma le situazioni umane, l’imbarazzo di Cana, l’incapacità a muoversi del paralitico, è Dio, l’Eterno, il Trascendente, che si ricorda della nostra miseria e ci fa dono liberamente della sua potenza. Gesù, che dissipa le tenebre del cieco nato, è Dio che illumina benevolmente il nostro cammino. Insomma, Gesù è il “Dio tra noi” e, nel suo volto, contempliamo l’amabilità di Dio stesso. Sant’Ignazio suggerisce di più: ci chiede di ricordare non soltanto Gesù che si è fatto uomo, ma Gesù che “per me” si è fatto uomo, cioè Gesù (e qui mi riferisco, tra i vari testi, principalmente a 15,13) che dà la vita per i suoi. Non prendiamo ancora queste parole nel senso della passione (Gesù che affronta la morte per i suoi), ma prendiamole prima di tutto nel senso dell’incarnazione e della vita; egli dà la vita, cioè vive per noi suoi amici. E quindi ci manifesta non soltanto il volto del Padre, il volto di Dio – quel Dio che vogliamo vedere – ma ci manifesta Dio che è Dio per noi, Dio che vive per noi (se è possibile affermarlo), Dio che dà quanto ha di più caro per noi: Dio che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, e da darlo non soltanto al momento della croce, ma darlo come vita fra noi. Si svela allora tutto un senso della realtà, profondissimo e semplicissimo

insieme. Qual è il senso della nostra situazione umana rivelatoci da Gesù: Dio tra noi e Dio per noi? È che noi siamo amati da Dio. Amati da Dio qualunque sia l’oscurità e l’insignificanza della nostra situazione presente. È questo il significato globale di tutta la realtà, di tutte le cose, di tutte le situazioni: siamo amati da Dio, malgrado la miseria, l’abbandono nel quale pensiamo di essere. Ecco il messaggio trasformante, che pur non cambiando niente all’esterno, cambia il significato del mio essere: benché mi senta abbandonato e disperso in un mondo senza senso, nel quale sembrano dominare caso e necessità, io sono amato da Dio e Dio si dà per me e dà per me quanto ha di più caro. Questo è il messaggio di Gesù, il messaggio essenziale della sua presenza fra noi. Gesù ci chiama a essere in lui Questo messaggio evidentemente si allarga; e qui possiamo indicarne solo qualche aspetto; altre indicazioni dovremo approfondirle in seguito. Gesù non è solo Dio tra noi, ma ci chiama a essere noi in lui. Non soltanto quindi ciascuno di noi è amato da Dio, è cercato, è accolto, è chiamato, è desiderato, è percepito nella sua solitudine, dove nessuno ci può aiutare. Ricordo una frase di Russell33 – forse una delle esperienze prime della sua vita, da cui poi è nata tutta la sua riflessione – quando assisteva una parente che stava morendo e si accorse dell’assoluta solitudine di questa persona, disse così: “Era in una situazione nella quale più nessuno poteva far nulla per lei”34. Ora, proprio questa situazione della “derelizione” umana – che si prova nei momenti supremi, ma che ci può accompagnare, come una delle situazioni possibili dell’esistenza – non solo è riscattata dal Dio “tra noi, con noi e per noi”, ma è anche riportata a una comunione e comprensione feconda tra noi in Gesù. E qui mi riferisco al testo di 11,51-52: “Gesù viene per radunare i figli di Dio dispersi”, cioè per darci un senso anche comune di essere amati da lui, non soltanto come singoli derelitti, ma come gruppo di uomini sbandati e tuttavia raccolti in unità. Noi, quindi, amati da lui e insieme chiamati a vivere in lui. Noi in lui e, come dice poi Giovanni in 14,20 e 17,21-23 (sono testi che lascio alla riflessione di ciascuno), lui nel Padre; e perché siamo in Dio, la nostra vita sulla terra si rivela come vita filiale, fraterna: riconoscendoci amati da Dio, ci possiamo amare gli uni gli altri. In altre parole, l’opera del Verbo tra noi è

una comunione di persone, tra loro e con lui, nel Padre, che si concreta in forma privilegiata nella Chiesa. E qui già intravediamo le implicazioni ecclesiali del Vangelo di Giovanni. C’è ancora un aspetto del mistero del Verbo fatto uomo per me, che possiamo meditare, ed è il mistero del servizio. Qui possiamo riferirci al testo fondamentale con cui si inizia il capitolo rivelatore di Gv 13: “Sapendo che il Padre gli ha dato tutto in mano (cioè la pienezza della sua unione col Padre, e il suo potere), si alza da tavola e comincia a servire”. Si apre qui tutta una serie di riflessioni e di implicazioni, inerenti all’umiltà dell’apparizione del Dio tra noi. Sant’Ignazio la coglie perfettamente, al termine della meditazione del Regno quando, dopo aver presentato un grande re che va a una grande conquista, e averci entusiasmato per seguirlo, come una doccia fredda finale, scrive “nelle fatiche… nella pena… nel sopportare ogni ingiuria e vituperio…” [93 ss.]. Sant’Ignazio ha colto perfettamente questo rapporto tra la gloria del Dio tra noi e l’umiltà dell’apparizione umana di Gesù. Umiltà che Giovanni di per sé non teorizza se non in questo cap. 13 e poi nella passione; infatti, per il resto, tutta l’azione di Giovanni è azione di gloria, è l’azione del Dio glorioso tra noi, che sana, illumina, discute, ribatte e vince. Però, se esaminiamo più da vicino come si mostra questa gloria di Dio, vediamo che Giovanni ci presenta concretamente una piccola vita, a contatto con piccola gente, tra episodi di meschinità e di contese, conclusa poi con una morte oscura: in tutto questo, egli dice, “Ho visto la gloria di Dio”. Sta proprio qui il mistero del servizio – del nascondimento, se volete –, il Dio tra noi si rivela come Dio nascosto e servitore. Qui si contempla la gloria di Dio, qui il nostro desiderio che invoca: “Mostrami, o Signore, il tuo volto, mostrami la tua gloria”, contempla un uomo che conversa con gente semplice, in una situazione di insignificanza sociale e politica veramente scandalosa. Non c’è solo lo scandalo della croce, ma lo scandalo della vita intera di Gesù: “Che cosa può venire di buono da Nazareth?” (1,46). Ecco il significato – alcuni aspetti del significato – del mistero di Dio tra noi. Colloquio finale

Suggerisco alcuni spunti per il colloquio finale. Qual è l’importanza di questo mistero per la visione che abbiamo definito “atea”? Non intendo di nuovo socializzare questo concetto, ma solo personalizzarlo. Per le tendenze atee che sono in me – cioè per tutte le tendenze scettiche o assolutistiche di messianismo, di panteismo, che in varie forme si rivelano nella mia esistenza – come tu, Gesù, uomo tra noi, sazi e rispondi, non in maniera ideologica, ma con la tua realtà, con la tua verità di incarnazione, a queste mie tendenze? Tale colloquio non è da farsi sul piano logico, domandandosi come le tendenze atee che sono in me possano venir colmate, ma sul piano reale: “Gesù, che vivi ora tra noi nel nascondimento assoluto dell’Eucaristia e nel nascondimento misero del servizio ecclesiale, manifesta in me la gloria di Dio, mostrami il volto del Padre, mostrami la via per conoscerlo attraverso la partecipazione alla tua vita, lo stare in te e lo stare tra noi con te”. Infine, chiediamo che Gesù, incarnato nel seno di Maria – come ce lo fa contemplare Ignazio –, ci dia, di tutti i messianismi occidentali, la forza e la totalità dell’impegno; mentre di tutto il panteismo orientale il rispetto sacro per ogni realtà, cioè la capacità di renderla “trasparenza del divino”, attraverso l’adorazione della sua presenza tra noi e di tutto ciò che prolunga e attualizza la sua presenza in mezzo a noi. Chiediamo che tutti i nostri desideri siano colmati dalla presenza reale tra noi del Verbo di Dio.

OMELIA. L’ACQUA, LA SETE E LO SPIRITO (GV 7,33-39) Il brano evangelico coglie due momenti di un unico episodio, la festa dei tabernacoli nella quale, in processioni solenni, si portava l’acqua al tempio. Mi hanno colpito in questo brano alcuni temi, che vorrei esporre in forma non tanto esegetica quanto omiletica, cominciando dal secondo momento, la finale del passo. Ma prima occorre chiarire che ci sono due letture possibili del penultimo versetto, come sapete. Io seguo quella che è stata letta in questa traduzione e che è anche quella della versione critica preparata in comune da protestanti e cattolici. Cioè: “Chi crede in me, come dice la Scrittura, dal ventre di lui usciranno fiumi di acqua viva”. Questo è riferito qui al credente. È possibile, e così fanno altre versioni, riferirlo al Cristo. Ma rimane ugualmente vera l’affermazione dell’acqua, che nasce dal Cristo, poi nel credente zampilla, come dice Gv 4, come fonte perenne; e quindi mi muovo in questa linea di lettura.

È notevole un altro aspetto del testo: Gesù sta in piedi e grida. Non è tanto frequente questo gridare di Gesù. Ha gridato già nella stessa festa, pochi versetti prima, in 7,28: “Gridò Gesù insegnando nel tempio: e me conoscete e conoscete donde sono”. Ora grida, un grido solenne, al termine della festa. Poi, nel cap. 12, quando, dopo la riflessione dell’evangelista sull’incredulità, dirà le ultime parole che riassumono la sua missione e pongono chiaramente la divisione tra chi crede e chi non crede in lui. “Chi crede in me – gridò Gesù – non crede in me, ma in colui che mi ha mandato e chi vede me vede colui che mi ha mandato”. Anche questo è un momento solenne e grave della vita del Signore. Fuori di questi gridi di Gesù, viene menzionato soltanto un grido di Giovanni, all’inizio del Vangelo, quando fa la sua testimonianza (1,15). Ci sono quindi tre momenti: Giovanni, Gesù al centro della sua predicazione, il cap. 7, Gesù alla fine. Perciò c’è qualche mistero, in questo gridare di Gesù. L’acqua viva Nel brano parecchi elementi, come ho detto, mi colpiscono. Anzitutto l’ultimo: l’acqua viva, l’acqua che scaturisce da chi crede in Gesù. “Fiumi d’acqua”; sia che Gesù stesso li comunichi, come nell’altra lettura, o che nascano da chi crede in Gesù. Poi quello che prepara l’acqua: la sete, unitamente alla ricerca. E un altro tema che prepara la conclusione: la partenza di Gesù. E infine il dono dello Spirito. Sono quattro aspetti del testo che voglio brevemente proporre alla vostra riflessione: prima di tutto l’acqua viva. “Chi crede in me, come dice la Scrittura, del suo ventre usciranno fiumi di acqua viva” (7,38). La spontaneità dell’atteggiamento religioso, cioè l’essere giunti a un punto di maturità e conoscenza di Dio, cioè di esperienza spirituale, per cui ciò che diciamo esce veramente dall’interno e l’aver raggiunto la piena autenticità è certamente un desiderio nostro, di tutti. Tutti sentiamo (ne abbiamo già accennato quando parlavamo della verità, dell’autentico, dell’inautentico) quanto è duro per noi accorgerci che spesso, nella nostra predicazione, parliamo di cose che non sgorgano dal nostro interno pienamente, ma sono cercate, studiate, pensate. E tutti aneliamo quindi a questo dono dello Spirito, che faccia sì che diciamo soltanto cose che veramente sgorgano da noi e non dai libri che abbiamo letto o dalle cose che abbiamo ascoltato.

Ricordo che facendo una volta a San Francisco un corso di Zen, all’inizio l’istruttore disse: lo scopo di questo corso si può esprimere con la frase evangelica “Quando vi porteranno davanti ai tribunali, non pensate a ciò che avete da dire: vi verrà nel cuore, vi verrà dato, lo Spirito ve lo darà”. È appunto l’autenticità piena per cui, per usare un’altra espressione biblica, “non si insegnano più a vicenda”, cioè ciascuno ha nel suo cuore l’esperienza viva di Dio e la esprime spontaneamente e semplicemente. Ce la ricordiamo, sì, a vicenda, ci aiutiamo a vicenda, ma in realtà l’esperienza propria l’ha fatta ciascuno. Ed è questo dono di acqua viva che tutti ardentemente desideriamo che sgorghi da noi. Possiamo contemplare in questa festa con riconoscenza come essa è sgorgata da Maria, cioè come la Madre di Gesù, con pochissimi gesti e pochissime parole ricordate nel Vangelo, ha avuto e ha il potere di saziare spiritualmente generazioni di credenti; poche parole e pochi gesti, ma perfettamente autentici. E possiamo ringraziare Dio perché anche sant’Ignazio, attraverso quel suo durissimo, lungo tirocinio spirituale, ha raggiunto tale autenticità che le pochissime parole degli Esercizi saziano generazioni di oranti; le saziano, perché ciascuna di esse ha quella forza che viene dalla piena autenticità, dall’essere pensata dall’interno con il dono dello Spirito. Ed è questa una delle grazie forse più grandi che noi possiamo chiedere per il nostro apostolato, per il nostro ministero, giacché troppo spesso ci accorgiamo di dover recitare una parte, di dire delle cose che vorremmo sentire sì, ma che non siamo ancora riusciti a fare nostre; allora non reciteremo più una lezione, ma diremo qualcosa che ci viene dalla nostra esperienza diretta. Di questa esperienza di Dio noi abbiamo “sete”. Ebbene: “Chi ha sete – dice Gesù – venga a me e beva” (7,37). Nel nostro brano, comunque, vengono messe a confronto due forme di avvicinamento a Gesù: la “ricerca” e la “sete”. La “ricerca”: di cosa si tratta, in questo brano? È quella dei farisei che vogliono impossessarsi fisicamente di Gesù e mandano dei servi per prenderlo. E Gesù risponde con una serie di parole enigmatiche: “Ancora per un poco sono per voi; me ne vado da chi mi manda; mi cercherete ma non mi troverete, perché dove sono io voi non potete venire” (7,33-34). Allora la parola dei giudei si fa confusa e impacciata: “Dove va? Va dai greci? Cosa significa questa parola ‘mi cercherete e non mi troverete’?” (7,35) Esiste, dunque, una ricerca sbagliata di Gesù, che qui è messa in atto dai farisei: è la ricerca del Cristo nella carne, del Cristo nel suo aspetto, nella sua presenza

quasi esteriore, fisica; per noi ciò vuol dire, per esempio, fermarsi al Cristo dei segni. “Mi cercate – dice Gesù – perché avete visto il pane, non perché cercate me”. E ci accorgiamo, se esaminiamo la nostra ricerca attentamente, che spesso – se non sempre – vogliamo vedere qualcosa, sentire qualcosa, mostrare qualche risultato. Cerchiamo un certo successo apostolico, cerchiamo forse la cura di nostre personali difficoltà, e tutto questo si mescola alla nostra ricerca di Gesù. Autenticità e credibilità Con questo tema si connette anche un altro tema che può essere oggetto di riflessione, perché valido, ma anche carico di ambiguità: il tema della “credibilità”. Vogliamo essere credibili, vogliamo che la Chiesa sia credibile. Ma che cosa c’è dietro questa ricerca? C’è una ricerca di autenticità, cioè vogliamo essere noi stessi evangelici fino in fondo? Oppure c’è una ricerca di segni? Farsi vedere, farsi sentire, avere qualche risonanza, avere qualcuno che risponda, perché è troppo duro essere soli… Ci sono parole, all’inizio di questo cap. 7, che ci fanno riflettere: il confronto di Gesù con i fratelli, quando i fratelli insistono: ma perché non ti mostri, perche non ti fai vedere, perché non ti rendi credibile a tutti con segni inequivocabili? Ciò che dobbiamo cercare e ciò che ci viene richiesto di cercare è soprattutto l’autenticità del nostro abbandono al disegno di Dio, dal quale nascerà certamente una credibilità che sarà, come quella di Gesù, disponibile per chi vuol credere. E molti non hanno creduto nello stesso Gesù! Se la preoccupazione di credibilità è buona in quanto ci induce a un continuo esame di coscienza, quando diviene ossessiva e ansiosa essa mostra forse in noi un bisogno di rispondenza, di risonanza, che è appunto un ricercare Gesù per prenderlo e per farne lo strumento di qualche personale successo. È proprio a questo tipo di ricerca di Gesù che si oppone la sete: “Chi ha sete venga a me e beva” (7,37). “L’anima mia ha sete di Dio”, diceva già il Salmo 42,3 che abbiamo incontrato questa mattina. Qui l’argomento della nostra preghiera si approfondisce, diventa ancora più difficile e faticoso, fino ad assumere il carattere di una vera e propria lotta, interna alla stessa preghiera. Possiamo chiedere a Dio, pregando: “Desidero, Signore, avere sete di te”. Ma questa sete passa necessariamente attraverso alcuni segni. La sete che abbiamo di Dio si manifesta nella sete di cose esteriori: la stessa

preghiera; la lettura della Bibbia; il contatto con gli altri, il parlarne agli altri, il sentirne parlare, l’apostolato. Quindi, mentre da una parte è possibile ipotizzare una sete di Dio allo stato puro, tale che non sia incarnata o presente in segni, dall’altra noi sentiamo che è possibile confondere questa sete di Dio con la ricerca esteriore, sociale, in una situazione concreta che non tenga più conto dell’assolutezza e trascendenza del desiderio con cui Dio ci chiama. E in questo dovremo chiedere molto l’aiuto della Madonna, che è il modello di questa ricerca di Dio, assoluta ma nello stesso tempo calata nei segni; perché anch’essa ha avuto gioie e dolori e ha vissuto una vita comune e quotidiana, passando per esperienze ordinarie, ma in esse ha trasfuso quella perfetta sete di Dio, che Dio solo può infondere. Gesù parte per compiere l’opera del Padre Gesù ci aiuta in questa vera sete di lui, perché se ne va. È questo il terzo elemento che colpisce nel testo: Gesù parte, Gesù vuol partire. Questa partenza di Gesù, che qui viene fraintesa dai farisei (7,35), è in fondo il grande scandalo di tutti coloro che lo cercano in maniera umana. Si ha un bel dire: “Abbiamo il Vangelo”; è ben altro che avere la presenza di Gesù. Se l’avessimo, lo ameremmo di sicuro, lo seguiremmo. Adesso invece ci si chiede di fare uno sforzo di reminiscenza, di immaginazione. Gli apostoli hanno visto la gloria di Dio nel Cristo. Il Cristo però non è più tra noi, come lo era con gli apostoli. Ed ecco che qui comincia l’istruzione di Gesù ai suoi sulle forme di presenza nelle quali egli si fa cercare e trovare. Tanto importanti e tanto reali queste forme di presenza, che la stessa partenza di Gesù diventa certezza di salvezza per noi. È infatti certezza di trovarlo in quel dono nel quale egli si presenta oggi a noi, cioè nel dono dello Spirito, con cui termina il brano evangelico (7,39). Quando Gesù viene glorificato, ci sarà dato lo Spirito: quando si è passati per l’esperienza della vita, morte e risurrezione del Signore, allora si può capire il suo modo di presenza spirituale nella storia e nella vita di ogni giorno. Noi siamo sempre nella nostra vita in questo esercizio di riconoscimento della presenza di Gesù e ora in questi esercizi in un cammino che, con san Giovanni, ci vuole condurre in maniera speciale a riflettere su questa presenza, dove è possibile trovare Gesù in tutte le realtà che ci circondano. Chiediamo quindi di saper purificare la nostra ricerca, di farla

diventare sete vera di Cristo, di osare di compiere il passo della fede, perché ci si riveli la gloria di Dio nelle cose nascoste di questo mondo.

VIII. TRE MODI DELLA PRESENZA DI GESÙ Dobbiamo iniziare ora l’analisi, la meditazione di alcune dimensioni dell’incarnazione. Dovremo farlo con pazienza, con pace, con calma, perché ci accorgiamo, io e voi, che quanto più si va avanti, tanto più ci appare ricco il messaggio di Giovanni; ed è poco, pochissimo, quello che riusciamo a recepire. Quindi chiediamo nella preghiera di poter toccare almeno un lembo della veste del Signore, di poter mangiare alcune delle briciole che cadono dalla mensa giovannea. Sulla difficoltà di leggere Giovanni, può essere utile l’osservazione di Erik Peterson35: “Il segreto del cristianesimo nel suo significato più profondo, un tempo non era riposto nella filosofia e nella dogmatica, ma stava, celato sotto il velo delle allegorie e dei simboli, nell’interpretazione delle Sacre Scritture, per rivelarsi a chi possedesse intelletto spirituale”36. E qui, mentre prendiamo in considerazione il Vangelo di Giovanni, ponendoci alla ricerca dei simboli e delle indicazioni – anche indirettamente – a proposito della presenza di Cristo nel tempo, appare molto essenziale la nostra disposizione ad avere un intelletto spirituale del Vangelo e delle cose che dice. Come preludio di questa meditazione37 – dato che queste sono meditazioni piuttosto astratte ed è meglio concretizzarle mediante un preludio che ci aiuti a meditare – suggerirei la scena della moltiplicazione dei pani. Immaginiamo di vedere Gesù che moltiplica il suo dono, in mezzo alla gente numerosa e varia, venuta da ogni parte. E chiediamo la grazia di capire questo dono di Gesù, e come esso venga moltiplicato nella storia e nel tempo. O se volete (non è che una variazione del preludio suggerito da sant’Ignazio), chiediamo di conoscere il Verbo incarnato in tutte le dimensioni della sua presenza, per poterlo amare e seguire, là dove egli si trova, in tutte le realtà in cui egli mi si manifesta [104]. La presenza di Dio tra noi La domanda a cui vuole rispondere questa meditazione è la seguente: la

presenza del Dio tra noi, con noi e per noi, chi riguarda? Riguarda soltanto coloro che hanno incontrato Gesù fisicamente, e di cui ci sono descritte le vicende nel Vangelo di Giovanni? Certamente no. Sappiamo che Giovanni in tanto ci presenta Nicodemo, la samaritana, il paralitico, il cieco, gli stessi discepoli attorno a Gesù, in quanto essi sono tipi, sono modelli tipici in cui si legge un’azione permanente di Dio nel Cristo tra noi. Eppure Gesù Cristo non è davanti a noi come lo era di fronte a Nicodemo, alla samaritana, al paralitico; anzi, egli ritorna al Padre e insiste nell’affermare la necessità del suo ritorno. Come avverrà dunque il nostro contatto col Dio fra noi in Gesù? Sarà soltanto un contatto mediante il ricordo o la lettura del libro o la proclamazione del libro tra noi o la predicazione che ne racconta i fatti? E questo sarebbe già qualche cosa, perché porterebbe tra noi almeno lo spirito di Gesù, intendendo il suo “spirito” (con l’iniziale minuscola), come la continuazione della sua opera; sarebbe questo, in altre parole, il modo in cui Marco imposta la risurrezione: l’opera di Gesù va avanti, la sua carica ideale continua in mezzo all’umanità. Ma Gesù ci dice qualcosa di più nella sua predicazione. Prendiamo per esempio la conclusione dell’apparizione a Tommaso: “Beati coloro che non vedono e credono” (20,29); e, ancora, nel discorso di rivelazione: “È meglio che io me ne vada” (16,7). Dunque, la scomparsa fisica di Gesù induce modi permanenti – e in qualche misura migliori – della sua presenza: modi per noi più utili. E perché? Perché più universali nello spazio e nel tempo, e più adatti a educare alla vera ricerca del Cristo nelle realtà del mondo. Vogliamo quindi meditare su alcuni di questi modi di presenza di Gesù; e li scelgo tali che inducano a riflettere su altri ancora. Su qualcuno di questi altri modi ci fermeremo di proposito in futuro, ma non potremo certamente esaurire questo tema. I tre modi scelti sono: l’“economia sacramentale”, l’“economia comunitaria”, l’“economia dello Spirito”. Parlo di “economia”, perché non mi piace parlare di presenza di Gesù nelle cose e trovo anche qualche difficoltà a parlare di presenza di Gesù in persone, perché tutto questo tende un po’ a forme di idolatria o di mistificazione. Parlando, invece, di “economia” (cioè dei rapporti tra cose, persone e situazioni) si allude a una presenza di Gesù che è più adatta a purificare lo spirito, dato che investe significati attivi e dinamici, da cui siamo sottratti dalla tentazione sempre in agguato di chiuderci in atteggiamenti di tipo idolatrico. Nel Vangelo di Giovanni Gesù manifesta dei modi di presenza e di operazione salvifica, che il cristiano illuminato, in particolare il presbitero –

che ha ormai un’esperienza di queste cose – riconosce nei gesti che si compiono per ordine di Gesù nella comunità. Infatti, il Vangelo di Giovanni (questa è ormai una convinzione esegetica comune) mentre ci presenta gesti, modi, azioni di Gesù in realtà ci indica, in trasparenza, gesti, modi, azioni che riguardano la vita della comunità. E quindi il messaggio è la stessa presenza di Gesù letta e vista in questi gesti comunitari. Esempi di economia sacramentale Vediamo qualche esempio, riferito precisamente a quella che abbiamo chiamato “economia sacramentale”. In 3,5 Gesù parla a Nicodemo di una rinascita dall’acqua, che compie in noi l’opera della rigenerazione. Questa parola, così come è detta, è del tutto misteriosa. Ma se leggiamo tutto il discorso a Nicodemo (3,1-21), pensando che si tratta di una catechesi battesimale, allora abbiamo la chiave interpretativa: si parla qui di una rinascita dall’acqua, nella comunità, la quale manifesta la presenza di Dio relativa a quella trasformazione che Gesù annuncia a Nicodemo. Allo stesso modo, in tutto il racconto del cieco nato (9,1-39) si può scorgere un’istruzione sul battesimo, inteso come un’illuminazione del cristiano attraverso tappe progressive, in cui addirittura si potrebbero individuare precisi momenti catecumenali. Il racconto del paralitico (5,114.24 ss.) descrive a sua volta il momento del battesimo come risurrezione. Analogamente si può ricercare per quanto riguarda il tema del pane. Tutto il cap. 6 ci parla di un misterioso “mangiare il pane”, che è un nutrirsi di Cristo accogliendo la sua potenza in noi. In realtà, tutto il cap. 6 può essere letto come una grande catechesi eucaristica, che si riferisce ai gesti compiuti nella comunità in cui si accoglie Cristo, con la sua potenza e la sua presenza. Tali gesti sono accolti da parte di tutti quelli che si nutrono del pane eucaristico. E venendo al tema del “perdono”, Gesù annuncia una remissione dei peccati, una purificazione per la sua parola (15,3) e una remissione dei peccati a coloro a cui saranno rimessi (20,23): in queste remissioni continua l’opera salvifica di Gesù, come quando ha detto al paralitico “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. E così quando parla alla donna samaritana, rovesciando la sua situazione umana, portandola da una situazione di tenebre e di oscurità verso

una situazione opposta, di luce. Tutta la vita di Cristo è presente nella comunità attraverso il dispiegarsi molteplice dell’economia sacramentale. Noi incontriamo Gesù sotto la presenza salvifica di segni misteriosi. Ciò che è avvenuto al paralitico, al cieco nato, all’adultera, avviene ora nel contatto col segno sacramentale. Questa è quindi una delle forme privilegiate della presenza salvatrice del Verbo incarnato tra noi. C’è ancora di più. Se leggiamo l’episodio della fuoriuscita di acqua e sangue dal costato di Cristo (19,34), abbiamo un testo circondato da una cornice redazionale che insiste sul valore dello stesso testo: “E chi vide ne dà testimonianza, e la sua testimonianza è vera” (19,35). Anche qui c’è un significato di riflesso comunitario. L’acqua e il sangue rappresentano quei segni sacramentali che sono l’essere rigenerati dall’acqua battesimale e il bere il sangue eucaristico di Cristo: sono la presenza tra noi del “Dio per noi”, del Cristo che dà per noi la sua vita. Quindi, abbiamo tra noi non soltanto il Cristo che perdona l’adultera, che guarisce il paralitico e il cieco nato, ma il Gesù che muore per noi e ci dà la sua vita e la sua morte, nei sacramenti. Possiamo così vedere come è vasto questo campo della presenza di Cristo nell’economia sacramentale. Volendo fare una semplicissima applicazione alla spiritualità della Compagnia, possiamo ricordare qui lo zelo di sant’Ignazio per la Messa: come cioè sant’Ignazio vedesse nella Messa, nella Eucaristia celebrata, il momento culminante della sua giornata, momento in cui egli rivedeva, ripensava, tutta la propria azione di fronte a Dio. Il Diario spirituale è testimonianza di come la Messa fosse un centro in cui la sua stessa azione apostolica veniva ripensata, riportata alle sue sorgenti38. Quindi credo che qui abbiamo molto su cui riflettere. Ricordando ciò che abbiamo detto ieri, di quelle indicazioni venute dalle varie province, mi par certo si debba dire, a questa luce, che il lasciare la Messa quotidiana, anche se in casi particolari può essere giustificato da motivi storici e liturgici, tuttavia non corrisponde a quella centralità che sant’Ignazio attribuiva alla Messa, e soprattutto a quella funzione “impetratoria” propria del gesuita (che abbiamo ricordato ieri parlando dell’orazione), che appunto si attua nella Messa, nella quale viene portato a Cristo il mondo, per pregare per la salvezza di tutti gli uomini.

L’economia comunitaria Il secondo modo della presenza di Cristo in un’economia, in un sistema di relazioni e di valori, è l’“economia comunitaria”. Gesù dice di essere venuto “per radunare i figli di Dio dispersi” (11,52). Egli prega “per quelli che crederanno, per la parola degli apostoli, in lui; affinché siano uno, come egli col Padre, e tutti siano consumati nell’unità” (17,20-23). Quindi Gesù prevede e prega efficacemente per questa unità dei credenti. Perciò Gesù opera in noi e continua a operare con la sua preghiera efficace presso il Padre, non soltanto come operava col paralitico e col cieco, cioè come forza di risanamento, di risurrezione, di trasformazione dei singoli, ma come elemento e forza di unità e di unificazione comunitaria. E potremmo qui citare altri due testi: “La mia pace sia in voi, vi do la mia pace” (14,27) e “La mia gioia sia in voi”(15,11). Gesù opera tra noi come elemento di unità, di amore, di gioia e di pace, costituendo noi, salvati attraverso l’economia sacramentale, dopo aver accettato lui con la fede, in unità. Gesù è la forza di questa unità, perché con la sua preghiera e la sua azione sacramentale continuamente la ricostituisce. Chiediamoci ora quali siano le leggi di questo stare insieme con Gesù, enunciate nel Vangelo di Giovanni, come leggi permanenti della comunità, che garantiscono la sua continua presenza tra noi. Sono principalmente due. La prima è indicata nel commento alla lavanda dei piedi (13,12-17): è la legge del servizio reciproco, umile e disagiato. Lavarvi i piedi gli uni agli altri come io, il maestro, ho fatto a voi. La seconda legge, che varia solo per la forma, è il “precetto nuovo”: “Amarvi come io vi ho amato” (15,12); un amico dà la vita, cioè occorre donarsi gli uni agli altri, pagando di persona. Queste sono le leggi – un’unica legge, in fondo – che regolano l’unione comunitaria. Evidentemente qui Giovanni va all’essenziale e cioè suppone tutte le indicazioni del cap. 18 di Matteo sulle regole della vita comunitaria, dello stare insieme nella Chiesa, ma sceglie, tra tutti questi precetti, l’elemento essenziale, fondamentale, cioè Cristo presente tra noi come forza di unità, e noi che desideriamo essere presenti in lui attraverso l’accettazione e la vita nell’unità. Notiamo qui, a proposito del precetto dell’amore, che esso è l’unico precetto che troviamo nel Vangelo di Giovanni, è l’unica volta che Gesù parla di un comando preciso e specificato; ma esso è tanto importante che

viene ripetuto due volte in 13,34 e in 15,12.17. Secondo padre Lyonnet39, ciò che in Giovanni sostituisce la istituzione eucaristica – che l’evangelista suppone, ma non esplicita – non è, come pensano alcuni esegeti, la lavanda dei piedi, ma piuttosto il precetto nuovo. Il significato che Giovanni dà all’istituzione eucaristica è l’amore reciproco, un’eucaristia vissuta. Padre Lyonnet si appoggia per questo anche a una tradizione delle chiese orientali – almeno di alcune liturgie – nelle quali si proclama, al momento centrale della Eucaristia, il comandamento nuovo, autorizzando appunto un’esegesi che pone insieme Eucaristia e precetto della carità40. Questo precetto tuttavia, se lo consideriamo attentamente, ci può forse stupire. Che cosa intende questo precetto? Mi sembra che esso riguardi la carità mutua intraecclesiale, cioè tra coloro che hanno riconosciuto Gesù, credono in lui, sono suoi amici, e quindi si amano tra loro vicendevolmente, come Gesù li ha amati. Siamo appunto nel contesto di un discorso ai discepoli, uniti a Gesù e amici suoi, e nel contesto di un amore reciproco e reciproco servizio tra persone che si riconoscono mutuamente debitori dell’amore al Cristo. Potremmo quindi chiederci: è contenuto in questo brano il precetto dell’amore universale, cioè dell’amore per l’uomo, dell’amore per il prossimo? Credo che direttamente non si tratti di questo. E appunto questo ci può stupire, perché talora si cita appunto questo testo per affermare: il cristianesimo è amore e amore per tutti gli uomini. Ciò è certamente vero, ma qui viene comandato un aspetto particolare dell’amore, che è appunto l’amore intraecclesiale tra coloro che hanno ricevuto la salvezza dal nome di Gesù. Evidentemente anche il Vangelo di Giovanni allarga lo sguardo a tutti gli uomini, perché in 3,16 si dice “che Dio ha tanto amato il mondo (cioè tutti gli uomini, tutta l’umanità) da dare il suo Figlio”. E quindi anche l’amore dei discepoli si rivolge a tutto il mondo. E a tutti i discepoli devono portare per amore il Vangelo: “Come il Padre ha mandato me così io mando voi” (20,21). Si deve, dunque, diffondere l’amore del Padre verso tutti. Ma rimane il fatto che in questo testo l’aspetto specifico è quello dell’amore tra noi all’interno della comunità. Questo è ciò su cui il Signore insiste. Da qui deriva l’assurdità di dividerci tra noi, nelle tecniche apostoliche – per esempio – o nei vari modi di “fare Chiesa” o di “fare la Compagnia”, quando l’unico modo di “fare Chiesa” è quello di farci servi gli uni degli altri, e la prima tecnica apostolica è la bontà di cuore tra noi. Ci accorgiamo allora che questa insistenza di Gesù ci spaventa e ci

giudica, appunto perché non si tratta semplicemente di una sorta di amore universale (“amiamoci tutti”), ma esige qualcosa di molto specifico. Da questa carità intraecclesiale vissuta nasce la carità verso i figli di Dio dispersi, quindi la forza di creare amici di Dio e di riconoscerli in cammino verso Dio, in qualunque parte essi si trovino. Questa carità non è da confondersi col generico sentimento di benevolenza, anche se lo suppone, naturalmente. Essa dà già per scontata l’esistenza di un affetto con cui gli esseri umani si riconoscono, affetto che non è specificamente cristiano, ma – grazie a Dio – è anche ateo, laico, nel senso che tutti gli uomini come tali si possono riconoscere e amare, e debbono essere aiutati a farlo: forse, se si togliessero certi ostacoli, tutti si riconoscerebbero spontaneamente fratelli. La carità è, dunque, frutto di un’azione specifica di Dio, che si inserisce nella storia per ridare vivacità a questo affetto universale già esistente, così che divampi a mostrare un aspetto specifico della salvezza. Ritengo importante però, dal punto di vista teorico, distinguere le due sfere, senza confonderle in maniera generica. L’unione degli animi nelle Costituzioni Come si riflette questa carità, quest’unione di animi, nelle nostre Costituzioni? Credo che, appunto, uno dei temi più “rigidamente cari” a sant’Ignazio sia quello dell’unione degli animi. Dico “rigidamente cari” perché egli è molto rigido, severo su questo punto, e ha delle prescrizioni veramente dure per quanto riguarda la custodia di questa unione, che egli vede come un elemento essenziale per il mantenimento della Compagnia di Gesù. Dei vari passi delle Costituzioni vorrei citare soprattutto Cost 671, cioè il n. 8 del cap. 1 della parte VIII. Voi sapete che sant’Ignazio ha dedicato questa intera parte all’unione degli animi: quindi, per lui, è uno dei pilastri portanti della Compagnia. Egli comincia con l’osservare che l’unione degli animi è molto difficile da mantenere nella Compagnia, dato che i compagni sono sparsi in diverse parti del mondo: devono andare, girare, muoversi. E tuttavia la Compagnia non può reggersi né giungere al suo fine, senza che ci sia un’unione stretta del capo coi membri e di tutti fra loro. E quindi tratta estesamente delle cose che aiutano questa unione. E ne fa un elenco: non ammettere alla Compagnia

di Gesù “turba di gente”, ma solo gente mortificata, perché quella non mortificata non sopporta né ordine né unione; mantenere il vigore dell’obbedienza, scendendo a questo scopo a molte determinazioni particolari; osservare la debita subordinazione, anche nei gradi superiori; procedere (ecco qui dove vien fuori la durezza) duramente contro gli autori di divisione; che il preposito generale sia fornito di qualità che facilitino l’unione; della stessa importanza che sia a Roma la residenza del Generale. Ma ciò che è più importante viene adesso, appunto al n. 8. Vi si dice: “Il vincolo principale di tutti per l’unione dei membri tra sé e col capo è l’amore di Dio nostro Signore. Perché, stando il Superiore e gli inferiori molto uniti con la sua divina e somma Bontà, si uniranno facilmente tra loro, per il medesimo amore che da questa bontà divina discende, e si estenderà a tutti i prossimi, in modo speciale al corpo della Compagnia”. Qui vedo chiaramente l’idea giovannea: questa carità non è semplicemente la benevolenza e la stima che abbiamo tra tutti, ma è il frutto dell’amore che discende da Dio in Cristo, si diffonde nel corpo della Compagnia, e crea la carità apostolica, la quale vuole creare nuovi amici di Dio. La presenza nello Spirito Veniamo ora al terzo punto, al terzo modo della presenza di Cristo, che si attua mediante quella che chiamiamo l’“economia dello Spirito” nella storia. Solo attraverso la morte drammatica di Gesù e la risurrezione lo Spirito può esercitare la sua forza. Vi sono, nel Vangelo di Giovanni, molte menzioni dello Spirito; particolarmente importanti sono cinque passi presenti nei discorsi di rivelazione, nella seconda parte del Vangelo di Giovanni (capp. 13-16): cinque menzioni che si potrebbero, secondo uno schema di padre de la Potterie41, dividere come segue. C’è, in primo luogo, una menzione introduttiva in 14,16-17: Gesù promette lo Spirito. Ed è interessante notare la differenza tra le preposizioni contenute nei due versetti. “Pregherò il Padre, e vi manderà un altro Paraclito che rimanga con voi in eterno” (si tratta dunque di una presenza permanente dello Spirito con i suoi) e “Lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce. Voi lo conoscete, perché presso di voi rimane e in voi sarà”. Padre de la Potterie interpreta: “Lo Spirito è

presso di voi ora, nella presenza del Cristo; sarà in voi quando vi sarà dato pienamente”: si tratta di una presenza permanente che prende il posto del Cristo, una presenza interiore, che vivifica tutta l’esistenza. C’è qualche difficoltà riguardo a questa interpretazione, ma l’ho riportata perché padre de la Potterie è un grande competente di Giovanni42. Dopo questo testo introduttivo, ci sono altri quattro passi che sono legati a due a due. Due riguardano lo Spirito come dottore e guida (14,26; 16,13); due lo Spirito come testimone e difensore (15,26; 16,8-10). Si suppone, cioè, che i cristiani operino in un ambiente di contestazione, che si oppone alla fede; in tale contesto lo Spirito è colui che li aiuta, stimolandoli e proteggendoli. Oltre a questi cinque passi fondamentali, si potrebbero ricordare i “fiumi di acqua viva” che sono esplicita allusione al dono dello Spirito (7,38 ss.), come pure l’affermazione secondo cui “lo Spirito vien dato senza misura” (3,34). Il passo qui non è chiaro: la Volgata dice “Non enim ad mensuram dat Deus Spiritum”; ma il testo greco non mette “Deus”, lasciando incerti su chi dona lo Spirito se Dio o il Cristo; comunque lo Spirito viene dato, senza misura. A noi non interessa tanto adesso fare l’esegesi di tutti questi passi, potete considerarli per vostro conto. Dal canto mio, comunque, vorrei tentare di rispondere a una domanda, direi più nel clima degli esercizi: non tanto chi sia lo Spirito, la terza Persona della santissima Trinità, di cui sant’Ignazio era devotissimo, bensì che cosa significhi concretamente la presenza dello Spirito nella vita ecclesiale, come presenza continuata di Cristo e come forza di Cristo in noi. Indico le seguenti piste: lo Spirito è forza orientativa, forza unitiva e costruttiva, forza della novità e dell’invenzione, forza di consolazione. Prima di tutto, lo Spirito è forza orientativa: “Vi guiderà in ogni verità”, all’interno di tutta la verità del piano di Dio (16,13; cfr. 14,26). Cioè vi guiderà in ogni retto ordinamento delle cose, nel piano di Dio. Qui possiamo ricordare l’inizio degli Esercizi che si intraprendono per ordinarsi interiormente, e quindi cercare e trovare la volontà di Dio nella disposizione della propria vita [1.21]. “Ordinare” o “ordinarsi”, è una delle parole che ricorrono più frequentemente nelle Costituzioni e si riferisce all’ordine retto delle cose, che è la alétheia, cioè la verità del piano di Dio riconosciuta e ricevuta in noi, e concretamente nel nostro modo di vivere; quindi, anzitutto, scelta dello stato o del modo di vivere.

Ora, questo è appunto il compito precipuo dello Spirito, il quale mette in noi quell’orientamento delle cose che è proprio di Gesù, e che si potrebbe esprimere ricordando ciò che fu detto ieri sera a proposito dell’ascensusdescensus riferito al Cristo: “tutto dal Padre, verso il Padre”: “ek toû patrós, pròs tòn theón” nell’unità e servizio tra noi. Questa è, in qualche modo, la sintesi di ciò che costituisce l’ordinamento di Cristo e la sua alétheia, la sua verità. Vengono qui a proposito i suggerimenti di due esegeti. Uno è di Henry van den Bussche43, nel suo commento a Giovanni: dare il senso cristiano della storia, far scoprire in ogni cosa le tracce del piano divino, la “pâsan tèn boulén toû theoû” (“tutta la volontà di Dio”) di At 20,27. Proiettare su ogni avvenimento, in ogni epoca, la luce della rivelazione: tale è la missione dello Spirito nei confronti dei discepoli. Cioè, quel chiederci talora: ma se Cristo fosse qui, cosa farebbe? Una domanda in fondo oziosa, perché è lo Spirito che ce lo dice, che ha la missione di dircelo, di portare in noi lo Spirito di Cristo, nel momento concreto. L’altra citazione è di padre Mollat: “Il Paraclito ci darà l’intelligenza del nuovo ordine di cose che è uscito dalla morte e dalla risurrezione di Cristo”. È quell’orientamento, alétheia, che si oppone al disorientamento, tenebre, che abbiamo meditato all’inizio di questi esercizi. Questa forza orientativa è forse quella che maggiormente sant’Ignazio ha sottolineato nelle Costituzioni, quando parla dello Spirito, precisamente come di colui che non solo sostiene tutta la legge della carità propria della Compagnia, come si dice nel Proemio delle Costituzioni, ma che deve esser guida in tutte le scelte più difficili. Si potrebbero citare in proposito molti passi delle Costituzioni. Ma l’espressione stessa “discrezione dello spirito” e “discrezione nelle singole cose” che, come sapete, è un tema vastissimo, fa vedere quanto sant’Ignazio vivesse di questa presenza del Cristo nello Spirito che orienta. Citiamo solo Cost 624 relativo alle “missioni”, quindi siamo nella parte VII: “Benché sia la Provvidenza suprema e la direzione dello Spirito Santo a far prendere efficacemente la scelta per il meglio, come in tutto il resto, e così nel mandare in un luogo le persone più adatte e indicate per gli affari a cui vengono inviati, tuttavia…” Quindi questa è la regola generale, dopo cui seguono le regole particolari. Sempre sant’Ignazio pone questo primo principio: la somma Provvidenza di Dio, la direzione dello Spirito Santo, cioè lo Spirito come forza orientativa. Lo Spirito come forza unitiva e costruttiva. Qui mi permetto di citare,

uscendo dal Vangelo di Giovanni, un testo che è forse il più ricco del Nuovo Testamento su questo tema, cioè il testo di Gal 5,22, che, volendo appunto rispondere alla domanda: dove si trova, nella vita quotidiana comunitaria, lo Spirito?, afferma: là dove c’è il suo frutto. Sono tutte parole greche difficili da tradurre perché molto comprensive: “Amore, gioia, pace, longanimità, benignità, bontà di cuore, fedeltà, dominio di sé”. Questo è ciò che lo Spirito produce nella Chiesa e là noi possiamo vederlo; e quindi, quando ci sono queste realtà, là è presente Cristo, lo Spirito lo fa agire. Oltre a questa forza unitiva e costruttiva, attraverso amore, comprensione, pazienza, benevolenza, fedeltà, lo Spirito è nella Chiesa (e qui mi appello appunto alla nostra esperienza) quale forza della novità e dell’inventiva. È, cioè, quell’acqua viva che continuamente si rinnova e che continuamente fa trovare le soluzioni più semplici per le situazioni più intricate, con una novità e una semplicità che portano appunto il segno delle cose che vengono dall’alto. Papa Giovanni XXIII44 è stato forse una delle migliori indicazioni di questa forza semplificante e trasformante dello spirito, che è sempre assolutamente necessaria in noi, altrimenti ci sclerotizziamo e ci affidiamo alle formule; ciò era precisamente quello che sant’Ignazio assolutamente non voleva, ponendo lo Spirito e l’amore di Dio all’inizio di tutte le Costituzioni45. È un tema, questo, che potrebbe essere molto sviluppato, perché nella storia della Chiesa è sempre stato vissuto in maniera “pendolare”: cioè, in un senso, da movimenti di carattere spirituale, che vedevano l’epoca dello Spirito come assoluta novità rispetto al Cristo e, nell’altro, da movimenti di letteralismo, di rigidismo, di tradizionalismo, che volevano fermarsi soltanto alle parole e alla legge. A questo proposito, in un suo articolo padre de la Potterie cita una frase di padre de Lubac46, che riassume molto bene questa tendenza della storia della Chiesa: “Vi sono due maniere ugualmente funeste di separare il Cristo dallo Spirito. La prima sogna un regno dello Spirito che condurrebbe al di là del Cristo (sono tutte le forme di illuminismo e di spiritualismo: Gioacchino da Fiore47 e le altre tendenze che si ricollegano a questa maniera). L’altra immagina un Cristo che si mantiene sempre al di qua dello Spirito; cioè il letteralismo di tipo giudaico”48. Questi sono i due estremi tra cui si muove la storia della Chiesa, e si muove pure la storia della Compagnia. Quarto elemento: lo Spirito è colui che consola, che sostiene, che sta a

fianco nella prova. La situazione del secolo, del mondo, cioè il contatto della fede con la non-fede, con la contestazione della fede, è fonte di grande tristezza. Non c’è forse cosa più triste che offrire la fede e vederla respinta, oppure dovere continuamente fare i conti con interpretazioni riduttive della fede, che tentano pertanto di spogliarci da noi stessi e di “atterrarci”, di ridurci a terra, cioè di mostrare che la nostra fede non è niente. Quindi la condizione del discepolo, che deve proclamare la fede, è esposta alle contestazioni continue e alla tristezza: “Voi avrete tristezza” (16,20) dice Gesù. Chi è allora lo Spirito? Colui che continuamente ci consola ridandoci il senso del piano di Dio, cioè la alétheia, la verità della presenza dell’amore di Dio nel mondo, e quindi del suo piano in noi, nella Chiesa e nell’umanità. Perciò Gesù afferma: “Non si turbi il vostro cuore” (14,1). Egli stesso, in vero, si è turbato alcune volte: si è turbato al momento in cui ha pensato al dramma oscuro della passione (12,27) e si è turbato di fronte al rifiuto di Giuda (13,21). Non dobbiamo stupirci se il nostro cuore cade talvolta nel turbamento e tuttavia Gesù ci invita a non rimanere vittime del turbamento perché lo Spirito ci aiuta a contrastare, a rimettere a posto tutte le cose. Abbiamo tutte le regole [del discernimento] degli spiriti della seconda settimana [328-336]; ma anche gran parte di quelle della prima [313-327]49, che sarebbe bene rileggere, in cui si vede questa azione dello Spirito che dà consolazione, pace, quiete, e capacità di riconoscere la propria situazione, forse dolorosa, come momento del piano di Dio, e quindi presenza del Cristo in noi. Possiamo dunque concludere la nostra meditazione, riassumendo il messaggio di Giovanni. Che cosa dice a noi e al presbitero questa parola di Dio, adesso? Gesù riempie il mondo, i secoli, con la sua presenza e quindi il messaggio di Giovanni dice: “Apri gli occhi e guarda verso Cristo che ti viene incontro nella tua vita di ogni giorno, nella tua vita sacramentale, nella tua vita comunitaria, e particolarmente in tutte quelle attività nelle quali percepisci lo Spirito che muove te, che muove altri, che vi unisce insieme, e che forma la vita ecclesiale. Cioè: Cristo è presente per te”. Vale ugualmente un’altra espressione di Gesù: “Se mi ami, osserva i miei comandamenti”, che si potrebbe tradurre, in questo contesto, “entra in questa economia della realtà, riconoscimi nella realtà presente a te”. Possiamo, perciò concludere col colloquio suggerito da sant’Ignazio [104]: chiediamo di conoscere maggiormente il Verbo incarnato per noi, riconoscendolo

nell’economia sacramentale, nella vita fraterna, nell’economia dello Spirito, per poterlo amare e seguire in queste realtà così come egli si presenta a noi.

IX. LA FEDE E LE SUE IMPLICAZIONI Propongo quest’oggi una meditazione su: “La fede e le sue implicazioni”. Con essa scandaglieremo un po’ il vasto tema della fede; alla fine, nella linea della meditazione sulle implicazioni dell’incarnazione, ci domanderemo in particolare le implicazioni “secolari” dell’incarnazione, cioè quelle che riguardano le cose del mondo. Vogliamo farla questa meditazione, questa ricerca, tenendo conto di un aspetto che nel Vangelo di Giovanni è molto importante e non può essere trascurato. Come dicevo stamattina, non possiamo afferrare che qualche lembo della veste del Signore, ci sfuggono cioè molti temi giovannei; ma almeno questo tema della fede mi pare non possa essere trascurato. Il titolo dato alla meditazione “La fede e le sue implicazioni” non è esatto, propriamente Giovanni non parla mai della fede: questo sostantivo “fede” non esiste nel suo Vangelo; compare soltanto il verbo “credere”, presente ben 98 volte (mentre soltanto 54 volte lo troviamo in Paolo, che pure è l’apostolo della fede; ma va anche detto che se Paolo ha solo 54 volte il verbo “credere”, la parola pístis, “fede”, ricorre nelle sue lettere almeno 150 volte, esclusa la lettera agli Ebrei; la proporzione quindi è ancora a favore di Paolo). Tuttavia è sempre altamente notevole che Giovanni abbia ben 98 volte il verbo. Perché poi non abbia mai il nome, è uno di quei misteri del Nuovo Testamento che è difficile indagare; perché tutto il Nuovo Testamento è percorso dalla parola “fede”. Se Giovanni non la usa è segno che la evita espressamente: la usa una sola volta, nella prima lettera, quando afferma: “Ciò che vince il mondo è la nostra fede” (1Gv 5,4). Questo verbo credere, inoltre, compare molte volte proprio nei luoghi privilegiati, nel senso che quasi ogni episodio ha questa struttura: manifestazione di Gesù / risposta di fede o di incredulità. Per esempio, Gesù incontra / si manifesta a Natanaele che crede per le sue parole “poiché ti ho visto […] tu ‘credi’” (1,50). Alla fine del miracolo a Cana i discepoli “credettero” (2,11). A Gerusalemme, Gesù opera dei segni e molti “credettero” (2,23). E così via. Anche dai pochi passi che vi ho citato si può dire che questo verbo ha dei sensi abbastanza fluidi: non significa sempre soltanto un atto dello stesso tipo, cioè non solo la fede perfetta, ma pure una serie di gradazioni; in altre parole, è un verbo che sfugge a una definizione precisa. Ciò accade anche per altri vocaboli in Giovanni; né c’è troppo da

meravigliarsi. Ricordo che a una settimana ecumenica a Napoli, il rabbino Di Segni, che aveva parlato di un tema messianico, nel rispondere alle domande insistette su questo concetto: “L’ebraismo non esprime mai, sui temi fondamentali, delle soluzioni precise. Per esempio – spiegava – domandate a dieci ebrei cos’è l’ebraismo e vi daranno dieci risposte diverse. La ragione è che noi non amiamo definire ‘questo è il nostro modo di pensare, di sentire’ e così non arriviamo a definizioni chiuse”. Giovanni è un po’ in questa linea: benché si possa chiarire che cosa significa per lui credere, è difficile formulare una definizione che racchiuda il tutto. Cercheremo contemporaneamente di riflettere su questo tema della fede, così come appare in sant’Ignazio. Si direbbe, a un primo sguardo, che esso non abbia per lui tanto rilievo: infatti, vivendo egli in un tempo in cui si abusava molto della parola fede, aveva qualche reticenza a parlarne; e il motivo lo esprime egli stesso nelle “regole per sentire con la Chiesa”50, alla fine degli Esercizi, soprattutto nelle regole 14 [366] e 16 [368]. La 14 dice: “Benché sia perfettamente vero che nessuno può salvarsi senza essere predestinato e senza aver fede e grazia, bisogna molto considerare il modo di parlare e comunicare tutte queste cose”; la 16: “Allo stesso modo bisogna avvertire che per molto parlar della fede con molta intensità, senza alcuna distinzione o spiegazione, non si dia occasione al popolo di essere lento e pigro nell’operare, sia prima quando la fede non sia radicata dalla carità che dopo”. È vero quindi che sant’Ignazio non insiste direttamente su questo tema della fede. Però è anche vero che tale tema giovanneo è in lui ben presente. Insiste infatti su altre parole di sapore giovanneo imperniate sul tema del credere. Il preludio di domanda della prima contemplazione nella seconda settimana “chiedere conoscenza interiore del Signore che per me si è fatto uomo” [104] è, in fondo, precisamente nella direzione della fede giovannea: conoscere, donarsi, accettare, rispondere alla parola di Gesù. La nostra meditazione, dunque, praticamente, potrebbe considerarsi una riflessione su tale preludio. Sono moltissime le cose che si potrebbero ricordare a proposito della fede, ma mi limito ad alcuni aspetti. Prima di tutto vedremo brevemente l’importanza della fede nel Vangelo di Giovanni. Poi esamineremo che cosa essa è: darò qualche indicazione per comprendere che cosa significa, che cosa comporta soprattutto, cioè quali atteggiamenti, modi, condizioni e frutti. Quale è il frutto fondamentale della fede. Vorrei poi esaminare brevemente la

fede come illuminazione sul senso della realtà e dell’uomo, e infine fermarmi un poco sulla formula “vedere Dio in tutte le cose”. Ecco dunque il programma della meditazione o considerazione. L’importanza della fede L’importanza della fede nel quarto Vangelo appare non soltanto dalle molte volte in cui essa è menzionata, ma perché è l’“ergon tou theou”, è lo scopo dell’opera di Dio. Abbiamo già in 6,29: “Questa è l’opera di Dio: che voi crediate”. Quindi tutta l’opera di Dio, quell’opera che abbiamo meditato in 4,34: “Io sono stato mandato per compiere l’opera di Dio”, e lo scopo di tutta l’opera di Dio è che si creda. Ed è anche lo scopo di tutto il Vangelo: “Queste cose sono scritte perché voi crediate che Gesù è il Figlio di Dio” (20,31). Qui forse è interessante notare un’indicazione di padre Mollat, che è sempre un esegeta acutissimo. Egli dice: il senso esatto di questo versetto “affinché crediate che Gesù è il Figlio di Dio” (20,31) è discusso. Sembra più probabile (come stiamo meditando noi) che Giovanni abbia scritto anzitutto per confortare, approfondire e illuminare la fede. Quindi lo scopo del quarto Vangelo non è direttamente una prima espressione apologetica, ma è un approfondimento della fede già ricevuta; cioè quel versetto va preso in senso globale: non “perché veniate alla fede”, ma perché “crediate che Gesù è il Figlio di Dio”, con tutte le implicazioni che ciò comporta; e quindi, abbracciando queste implicazioni di buon animo, con tutto cuore, abbiate la vita piena in lui. Questo lo scopo della meditazione proposta al presbitero. La fede, per Giovanni, è anche già la vita eterna; perché fede è conoscere il Figlio che il Padre ha mandato, e questo conoscere è vita eterna (17,3). Tentare di descrivere questa fede Come si può descrivere questa fede, quali indicazioni ci dà Giovanni per poterla comprendere? Potremmo prendere due tipi di indicazioni; una dalla considerazione dell’oggetto della fede; l’altra dalla considerazione dei sinonimi di questa fede che si trovano in Giovanni. Due vie filologiche; cioè esame di un certo numero di passi, che ci permettono di farci una certa idea di che cosa Giovanni intende col verbo “credere”. Qual è l’oggetto della fede? Nel Nuovo Testamento l’oggetto della fede è

sempre, in senso più o meno uniforme, il mistero di salvezza. In Paolo prevale, nel mistero di salvezza, l’aspetto della morte e risurrezione di Gesù; in Giovanni soprattutto quello di “Gesù Figlio di Dio e Salvatore”. Quindi l’unico oggetto centrale del credere è Gesù, nella concretezza nella sua venuta dal Padre come Figlio e nella sua iniziativa di salvezza per cui ci riporta al Padre. Il verbo “credere” ricorre in Giovanni 33 volte, 12 volte in contesti del tipo “credere a Gesù o credere alle sue parole”, 36 volte in contesti del tipo “credere in lui”. Quindi la nota specifica del credere consiste in questo: è un atto che ci mette in relazione immediata con la persona di Gesù e col suo mistero. Un’altra indicazione di ciò che significa il credere ce la possono dare i molti sinonimi che usa Giovanni (sarebbe interessante leggerlo facendo attenzione a tutti i sinonimi del credere). Quali sono questi sinonimi? Enumero i seguenti, anche seguendo padre Mollat: “ricevere Gesù”, “venire a Gesù”, “cercare lui”, “ascoltare lui”, “custodire la parola”, “dimorare in lui”. Sono tutti i sinonimi di questo atto complesso che è la fede. Ma come si dimostra che sono sinonimi? Si dimostra notando che in Giovanni sono usati in parallelo l’uno per l’altro. Per esempio: “Voi non mi ricevete: come potrete credere”? (cfr. 5,43-44), cioè il ricevere e il credere sono in consonanza, sono non identici, ma sinonimi, l’uno è compreso nell’altro. Oppure “Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete” (6,35), quindi venire a Gesù, credere a lui, sono sinonimi. Ancora: “Non credete perché non siete delle mie pecore; le mie pecore ascoltano” (10,26), quindi credere e ascoltare sono operazioni spirituali analoghe riguardo a Gesù. In altre parole, si potrebbe concludere con una frase di padre Mollat, che mi pare molto ben studiata a questo proposito: “L’oggetto unico della fede in san Giovanni è Gesù, in ogni suo aspetto, sia più concreto sia più sublime: Gesù che viene, Gesù che insegna, che opera, che chiama a sé tutti gli uomini, che se ne va da questo mondo, ma che vive e dimora nei suoi discepoli, inviando loro il suo Spirito che lo manifesta e lo glorifica; cioè tutti gli aspetti della presenza di Gesù, della sua venuta dal Padre, della sua presenza tra noi, della sua glorificazione nella morte e della sua presenza continuata dallo Spirito nei discepoli, sono l’oggetto della fede”. La fede quindi è richiesta non soltanto agli apostoli che s’incontrano con Gesù, che vengono a lui, che lo ascoltano, che lo ricevono, ma a tutti coloro che continuano nella Chiesa questa attività di ascoltare, ricevere, mettersi in sintonia, in comunicazione con Gesù, continuamente presente nella Chiesa. La fede è l’attività fondamentale del

credente, del cristiano, quella che lo fa libero. Il “credente” è colui che continua, di fronte alle presenze misteriose e continuate del Cristo, l’attività dei suoi discepoli, quando lo ricevevano, lo ascoltavano, lo accettavano. Da questi sinonimi, ricevere, venire, cercare, custodire la parola, si vede che le tre domande del preludio citato “conoscere, amare, seguire” [104] non sono che un modo di esprimere la fede, cioè esprimono un atteggiamento di totale accettazione e dedizione al mistero di Gesù, così come si presenta a noi. In altre parole, per concludere questa prima indicazione sull’oggetto della fede, potremmo dire che prevale in Giovanni l’aspetto illuminativo della fede, mentre Paolo ama insistere sull’aspetto dell’oscurità della fede, della contrapposizione tra la debolezza umana e la strapotenza di Dio, su cui si fonda la fede: “Contro la speranza ha creduto Abramo […] vedendo il suo corpo ormai necrotico e credendo nella vita” (cfr. Rm 4,18 ss.). Giovanni forse non usa il termine pístis (“fede”) proprio perché non vuole sottolineare direttamente questo aspetto paolino, bensì l’aspetto illuminativo della fede. Cito ancora padre Mollat: la fede come “cammino dentro e verso la luce divina”, come aumento di conoscenza e di chiarezza. Perciò i verbi che in Giovanni determinano il cammino di fede sono da mettersi l’uno di seguito all’altro. Giovanni parla di “vedere”, “ascoltare”, “conoscere”, “sapere”, “comprendere”, “venire alla luce”. Il credere è un po’ lo sbocco e – direi – l’unificazione di tutti questi atteggiamenti di illuminazione. In quali comportamenti si manifesta la fede Che cosa comporta questa realtà? Forse per chiarire questo aspetto illuminativo della fede, potremmo domandarci: a che equivale il contrario? Il contrario della fede è chiudere gli occhi, non voler vedere, non voler accettare, respingere i segni. Ma su questo torneremo parlando di alcuni comportamenti precisi. Che cosa comporta questo atteggiamento verso Gesù? Molti elementi si potrebbero ricavare da Giovanni: la fede comporta, naturalmente, soprattutto docilità e capacità a riconoscere la voce del pastore (10,26), la voce dell’inviato di Dio: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio” (8,47). Quindi essere disponibili all’ascolto quando abbiamo bisogno di Dio e sappiamo che Dio ci viene incontro: apriamo le orecchie per ascoltarlo. Un’altra caratteristica sottolineata da Giovanni in 5,44 è quella della prontezza a gettare la nostra reputazione e vita per la parola del Cristo: “Non

potete credere, voi che cercate la gloria gli uni dagli altri”; quindi per credere ci vuole questo superamento. Ma soprattutto vorrei insistere su un comportamento che mi pare importante per credere. La fede, il credere, così come Giovanni ce lo descrive, non raggiunge il suo oggetto se non attraverso testimonianze o segni; perciò richiede, nella sua struttura essenziale, due cose: capacità di interpretare i segni come tali e capacità di andare oltre i segni, che è compresa nella prima, ma indica un salto di volontà. Interessante esaminare a questo proposito quali sono gli ostacoli che si oppongono a questa capacità di interpretare i segni e di andare oltre. Giovanni ce ne indica molti, ma ne ho scelti tre, che mi sembrano caratteristici della sua spiritualità, della sua mentalità. Due sono nel cap. 6 e uno nel cap. 9. Nel cap. 6, in cui troviamo tutta una discussione sul valore e significato del segno e su ciò a cui il segno deve portare, abbiamo due atteggiamenti che impediscono la fede: per superare il primo ostacolo occorre concentrare l’attenzione sulla cosa che è “segno” (6,26). Segno qui è la moltiplicazione dei pani: cercano Gesù, con ansia, lo trovano di là del lago e gli dicono: “Rabbi, come sei venuto qui?” Qui c’è l’ansia di una ricerca di Gesù positiva, ma… rispose loro Gesù e disse: “In verità, in verità vi dico: mi cercate non perché vedete i segni, ma perché avete mangiato dei pani e vi siete saziati” (6,25 ss.). E qui c’è già un ragionamento complesso: si sono saziati dei pani; il pane era un segno; essi hanno ricevuto la cosa, ma non hanno capito il segno come tale, non hanno visto nel segno il valore significante; e allora cercano Gesù per un motivo diverso da quello da lui voluto nella moltiplicazione dei pani. Un altro, secondo impedimento è quello che chiamerei “l’ossessione messianica”; lo vedo descritto in 6,14. Anche qui si tratta di una interpretazione sbagliata del segno; dopo la moltiplicazione dei pani, questi uomini, vedendo il segno fatto, dicono: “Questi è veramente il profeta che deve venire nel mondo”. E Gesù, sapendo che venivano per rapirlo e farlo re, se ne va solo sul monte. Questa ossessione di trovare il Messia a ogni costo, dovunque, vuole, rende incapaci di capire il significato di ciò che Gesù ha fatto. Il terzo atteggiamento che mostra la nostra incapacità di comprendere e interpretare i segni, lo troviamo presente in vari altri passi, ma soprattutto in 9,41. Si tratta dell’autosufficienza religiosa, cioè credere ormai di sapere tutto. “Disse loro Gesù: ‘Se foste ciechi non avreste peccato. Ora voi dite: noi ci vediamo. Il peccato vostro rimane’”. È questo un impedimento che chiude

ogni discorso di fede, perché credere di vedere, credere di essere autosufficienti, in virtù di un nostro sistema già fatto, rende impossibile capire il significato di ciò che sta avvenendo. Troviamo qui alcuni particolari drammatici della cosiddetta “ironia giovannea”. Sarebbe interessante leggere tutto il cap. 9 e anche altri passi sotto questa luce: quando non si vuol vedere, nessun segno basta, anzi è il segno stesso che acceca. Il culmine dell’ironia è forse in una frase paradossale di Gesù: “Poiché vi dico la verità non mi credete” (8,45). A un certo punto, lo stesso mostrare la verità diviene occasione di accecamento. Un altro (quarto) aspetto di questa ironia giovannea è nel rovesciarsi delle posizioni; cioè mentre all’inizio, in 2,18, i giudei chiedono segni – quando Gesù cacciò i mercanti dal tempo gli dissero: “Che segno ci dai tu che fai queste cose? Come mostri la tua autorità?” –, ora, dopo che Gesù ha fatto dei segni, la conclusione in 11,47 è di un’ironia drammatica: “I sommi sacerdoti e i farisei radunarono il Sinedrio e dissero: ‘Che cosa faremo? Questo uomo fa molti segni’”. La richiesta iniziale diventa poi il motivo della morte di Gesù. Qual è l’opposto di questa incapacità a vedere il significato della realtà? Lo abbiamo meditato nella scena dei due discepoli che vanno da Gesù: “Venite e vedrete” (1,39); lasciate da parte i pregiudizi e provate. E anche in seguito, quando alla notizia di avere incontrato Gesù, Natanaele esclama: “Che cosa può venir di buono da Nazareth?”, la risposta è, la risposta sarà: “Vieni e vedi”. E qui possiamo citare il passo in cui Gesù chiede, in modo generale, questo atto di buona volontà: “Se qualcuno volesse fare la volontà del Padre, conoscerebbe riguardo alla dottrina se essa è da Dio o se io parlo da me stesso” (7,17). In altre parole Gesù chiede che si entri coraggiosamente in questa dinamica dei segni e si faccia la prova, senza richiedere continuamente nuove testimonianze, nuovi supertestimoni; ciò che in fondo dimostrerebbe come non si voglia veramente, coraggiosamente, ascoltarlo. I frutti della fede Vediamo ora brevemente soltanto qualcosa riguardo ai frutti di questo atteggiamento di fede richiesto da Gesù. Anche a questo proposito Giovanni è ricco di indicazioni e ne cito solo alcune. Innanzitutto ricordiamo quel frutto che permette di capire la parola di

Gesù quasi per connaturalità (10,26 ss.). I credenti ne riconoscono la voce e capiscono ciò che egli dice (il senso del Vangelo, della Scrittura) come la pecora riconosce la voce del pastore e comprende ciò che vuole per istinto. Un altro frutto è quello di uscire fuori dalle tenebre: “Io sono la luce e sono venuto nel mondo perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” (12,46). Ciò non vuol dire che si è totalmente liberati da ogni difficoltà e incertezza, ma almeno dal grande “disorientamento”. Infine per Giovanni deriva dalla fede il vero senso dell’uomo che viene dal Padre e ritornerà al Padre in Cristo (3,16). E l’uomo è veramente amato da Dio. Il vero senso della vita In questa apertura sul vero significato dell’esistenza umana, in quanto amata da Dio e chiamata a trasformarsi – grazie all’amore di Dio – nella fede nel Cristo, si colloca il tema ultimo che mi ero proposto di trattare, cioè l’apertura al senso delle cose; in altre parole, vorrei invitarvi a riflettere sulle “implicazioni secolari, cosmiche, dell’incarnazione”. Questa mattina abbiamo dato alcuni esempi di implicazioni che riguardano piuttosto il livello ecclesiale. Qui vorrei almeno invitarvi a riflettere sulle implicazioni di tipo secolare cosmico, che si potrebbero esprimere con la formula: vedere Dio nelle cose. Questa formula potrebbe essere presa in senso sbagliato, qualora evocasse una materialità, e non una direzione o un senso. La parola a cui ci riferiamo è quella delle Costituzioni (Cost 288) nel cap. 1 della III parte, dove sant’Ignazio tratta del modo di conservare e far profittare quelli che sono entrati nella Compagnia e che sono in probazione, quindi all’inizio della vita nella Compagnia. La regola è molto conosciuta: a noi interessa propriamente l’ultima parte: Tutti si sforzino di avere l’intenzione retta non solo nello stato della propria vita, ma anche in tutte le cose particolari, sempre desiderando di servire e piacere in esse alla divina Bontà per se stessa, e per l’amore e i benefici tanto singolari con i quali ci ha prevenuto, più che per timore di pene o per speranza di premi, anche se con questo debbano aiutarsi.

Segue poi la parte che ci interessa di più: Siano esortati in particolare (proprio con un’esortazione che li aiuti caso per caso) a cercare in tutte le cose Dio nostro Signore, staccandosi quanto è possibile dall’amore di tutte le creature per porlo nel Creatore di esse, amando lui in tutte e tutte in lui, secondo la sua santissima e divina volontà.

Passo estremamente difficile da spiegare, e che richiederebbe un’esperienza contemplativa molto ardua, tanto da stupire vedendola proposta da sant’Ignazio come ideale a chi comincia. Ci sono, credo, due vie per giungere a comprendere il significato di questo testo. C’è la via della spiegazione logica, razionale, cioè che cosa vuol dire vedere, cercare Dio in tutto. Notate tra l’altro che il testo parla di cercare, non di vedere Dio, quindi un cercarlo attivamente, anche se vederlo sembra essere l’oggetto della contemplazione d’amore negli Esercizi [230-237]. I due termini comunque si collegano e sono vicini l’uno all’altro. La via della spiegazione logica è molto complessa: in che modo si può vedere Dio nelle cose? Una via, quasi disperante per la sua molteplicità, è un’esperienza estremamente molteplice, che non può essere ridotta in formule semplici. E tuttavia vorrei dare almeno qualche spiegazione sulla base dell’esperienza giovannea. Ma la via, credo, unica per giungere a questa capacità di trovare Dio è quella indicata in maniera più generale da sant’Ignazio, ossia la via della mortificazione e del dono: soltanto chi passa attraverso la rinuncia evangelica ottiene come dono questa esperienza di cercare e trovare Dio nelle cose. Non è qualcosa che possiamo suscitare in noi, né con sforzi di fantasia, vedendo, immaginando; né con ragionamenti che ci riportino a certi collegamenti logici; né localizzando la presenza di Dio qua o là; piuttosto è seguendo le mozioni dello Spirito, attraverso la rinuncia a noi stessi, la rinuncia evangelica, che si può realizzare qualche progresso in questa via. A ogni modo, io vorrei almeno presentare qualche indicazione derivante dal messaggio giovanneo, per mostrare come, essendo così complessa tutta questa materia, non può essere ridotta in formule troppo semplici, che poi portano sempre a mistificazioni o a forme idolatriche o di fanatismo. In che modo una situazione umana ci offre la presenza del Signore? Intendo la “situazione umana” in tutta la sua vastità, cioè quella relativa alle nostre persone e a tutte le altre situazioni che sono in qualche modo parte della nostra esperienza (non esistono persone statiche, ma persone in azione con noi e noi con loro). Ritengo che si debba moltiplicare, specificare questa ricerca della presenza di Dio nelle situazioni umane: persone, relazioni, cose, in maniera molto differente. Perché nelle varie situazioni talora Dio ci si presenta come dono. Per esempio, la situazione del sacramento: è Dio che si dona; oppure la situazione di incontro: è il dono di Dio che muove ed è presente in questa realtà che mi incontra, e io, incontrando direttamente

questa realtà, posso percepire e ringraziare Dio come fonte di questo incontro. Oltre che come dono, talora Dio ci si presenta come luce, guida, direttiva. Altro esempio, ancora, la presenza di Dio nella Bibbia, come luce; la presenza di Dio nel magistero della Chiesa come guida. Talora Dio si presenta nelle situazioni come illuminazione interiore, nelle varie forme di grazia interiore, o come incitamento e come stimolo esteriore. Altre volte si presenta come appello, come chiamata di fraternità, di comprensione, di soccorso, di dedizione. In altre occasioni si presenta come tenebra da illuminare, come menzogna da confutare. Cioè tutte le situazioni di servizio e carità, che prolungano l’opera del Padre creatore e del Figlio a servizio del mondo, sono situazioni in cui variamente possiamo contemplare e gustare la presenza di Dio. Evidentemente un quadro estremamente vasto e multiforme, in cui vale il principio dell’analogia, nel senso che non tutte queste presenze sono identiche, altrimenti si cade in una forma di panteismo. Ciascuna ha una direzione e un senso. Altra è la presenza di Dio come tenebra da illuminare, altra è la presenza di Dio come incitamento, come stimolo, come appello. Per non cadere in un panteismo pratico (tratteremo in una meditazione, parallela a quella dei due Vessilli, degli errori d’interpretazione dell’incarnazione) occorre continuamente ricordarsi di questa analogia di presenza. Per questo motivo credo sia disperante riassumere questa esperienza di cercare Dio in tutte le cose in formule teoriche. Ma dobbiamo avere la fiducia che Dio ci darà questa grazia, che non è qualcosa di assolutamente mistico e irraggiungibile; altrimenti sant’Ignazio non lo proporrebbe ai principianti. E forse ci siamo dentro più di quanto non pensiamo. Se allarghiamo la nostra vita e la nostra esperienza, senza lavorare di fantasia, senza vani castelli mentali, tocchiamo in realtà continuamente la presenza di Dio nella nostra azione, in ciò che dobbiamo fare e facciamo, nelle persone che ci arricchiscono continuamente, in quelle a cui noi cerchiamo a nostra volta di comunicare il dono che abbiamo.

OMELIA. LA VITA NASCOSTA SECONDO SAN GIOVANNI (GV 7,40-53) La lettura del Vangelo riguarda un aspetto della presenza di Gesù nella nostra vita, cioè la sua presenza negli aspetti oscuri e banali dell’esistenza. L’ho scelta soprattutto per quella frase ripetuta due volte: “Viene dalla

Galilea […] cosa può venir di buono dalla Galilea?” (7,41-52), quasi per condensare ogni cosa in un quadro di affermazioni negative verso Gesù. Uno dei motivi per cui Gesù non è stato compreso da molti è stata l’oscurità della sua origine, la semplicità della sua vita a Nazareth. Per ciò mi sono proposto, in questa riflessione, di dare qualche indicazione sulla vita nascosta di Gesù a Nazareth partendo da quelle pochissime che Giovanni ci dà. Come sapete, per sant’Ignazio ha grande importanza la meditazione di Nazareth. È la meditazione del terzo giorno della seconda settimana, che precede immediatamente quella del ritrovamento al Tempio [134]; due meditazioni, Nazareth e Tempio, che introducono alla scelta, all’elezione51. In Giovanni non si trova nulla direttamente sulla vita di Gesù a Nazareth: tutta la materia Ignazio l’ha attinta in Luca. Vi si trovano però alcuni accenni importanti, che credo conviene sottoporre alla nostra riflessione. Il significato della vita a Nazareth Quale significato si può ricavare dalla lunga vita di Gesù a Nazareth nel Vangelo di Giovanni? Mi pare soprattutto due aspetti. Dagli accenni che Giovanni vi fa, Nazareth significa la vita oscura e monotona di tutti i giorni, cui Gesù si è adattato per santificare la nostra vita, che ordinariamente è, anch’essa, oscura e monotona. In secondo luogo, Nazareth significa anche il tempo della crescita paziente e dell’attesa: momento anche questo molto importante della nostra vita. Dunque, prima di tutto, Nazareth significa la vita di tutti i giorni, in una situazione oscura ed esteriormente insignificante, cioè la vita della maggior parte degli uomini; anzi, la vita di tutti gli uomini, perché sebbene alcuni, visti da lontano, sembra che compiano azioni prestigiose, quando li guardiamo da vicino la loro giornata è composta di azioni in gran parte molto semplici e povere. La massa dell’umanità vive questa vita oscura, che non fa notizia sui giornali, che non lascia alcun ricordo di sé, per cui si nasce e si muore senza che nessuno se ne accorga, eccetto una ristretta cerchia di persone. Ora Gesù ha vissuto la sua vita a Nazareth, in un piccolo villaggio senza importanza e senza prestigio: “Che cosa può venire di buono da Nazareth?” (1,46), da una regione trascurata come la Galilea: “Mai un profeta viene dalla Galilea” (7,52). Gesù non soltanto ha vissuto questa vita in un luogo lontano da ogni

forma di prestigio e teatralità, ma l’ha vissuta anche in mezzo a persone ottuse e non facili a capirlo, in una situazione di incomprensione che è il retaggio di moltissimi nel mondo, i quali vivono a contatto, nell’ambiente di lavoro o in famiglia, con persone che appena li capiscono, che hanno altri interessi, che si preoccupano delle proprie cose. Gesù vive così in questa situazione di pazienza, di lavoro umile, sconosciuto. Giovanni lo nota in 7,5: “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”; probabilmente lo “snobbavano”, lo lasciavano da parte, non lo capivano, perché non riuscivano a intendere che cosa veramente volesse; forse non gli davano grande importanza oppure volevano da lui cose che non poteva, non voleva fare. Gesù vive una vita in cui non c’è posto per lo studio; ce lo dice anche Giovanni quando osserva che i farisei si meravigliano: “Come sa leggere, se non ha studiato?” (7,15). Questa frase non è facile da interpretare, letteralmente sarebbe: “Come mai sa le lettere?” Cioè “Come mai sa leggere e scrivere?” Alcuni traducono: “Come fa a conoscere le Scritture?”, in quanto l’insegnamento veniva fatto leggendo e trascrivendo la Bibbia. Appunto, Gesù è uno che non ha studiato, e se non ha studiato, vuol dire che ha lavorato. Giovanni non accenna al lavoro di Gesù, però accenna alla sua stanchezza. Gesù ha conosciuto la stanchezza, e l’ha conosciuta in quelle forme pesanti, come la conoscono tutte le persone che lavorano fino a esserne completamente assorbite. Giovanni ricorda che Gesù si siede presso la fontana, stanco dal viaggio (cfr. 4,6), come molte volte sarà stato stanco per i lavori che probabilmente gli venivano affidati. Se lavorava come artigiano, doveva farlo non solo in casa, ma anche presso altri: forse nelle costruzioni che proprio in quel tempo si facevano a Sefforis, dove probabilmente andavano gli artigiani per offrire la loro opera. Gesù si stancava, come si stancò in quel viaggio attraverso la Samaria. Il testo di Giovanni è abbastanza duro: dice che Gesù era kekopiakós, cioè quasi sfinito. È una parola che Gesù ben conosce, questa della stanchezza per il lavoro; la usa anche nel discorso del cap. 4, che già abbiamo meditato. Noi lo abbiamo tradotto semplicemente, come fanno molti, con il verbo “lavorare”: “Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato; altri hanno lavorato, e voi siete entrati nel loro lavoro” (4,38). Forse si potrebbe meglio tradurre: “Io vi ho mandato a mietere dove voi non avete penato; altri hanno fatto questa dura fatica, e voi siete entrati nella loro pena”. Questa connessione verbale tra il lavoro della messe e la fatica dura mostra come il peso del lavoro quotidiano,

che esaurisce e che logora, sia sentito profondamente. In altre parole, si potrebbe dire col grande esegeta Lagrange52, che riassume così la vita di Nazareth: “Gesù non fa niente di straordinario” se non questa cosa inaudita, di essere uno di noi in una vita oscura e segnata dalla quotidiana stanchezza, con tutte le difficoltà e i disagi che comporta, senza neppure il conforto di essere capito a fondo dalle persone che lo circondano. I tempi della crescita Si può dire, anticipando ciò che Gesù dirà alla fine della sua vita (12,24), che a Nazareth il seme nascosto è come morto nell’oscurità, ma sta maturando. Nazareth significa non solo che Gesù ha santificato la situazione di chi è impegnato nel lavoro quotidiano, perché si viva e si sopporti col suo stesso spirito e col suo coraggio (credendo che siamo amati da Dio e così amiamo gli altri anche nelle situazioni quotidiane) il tempo della crescita lenta e paziente. Di questa lunga vita di Gesù senza attività esterna non c’è un accenno diretto in Giovanni, però ci sono molti accenni importanti che ce ne fanno comprendere il significato. Quando, per esempio, i suoi fratelli gli dicono di andare alla festa per mostrarsi in pubblico e dare un segno: “Nessuno cerca di essere conosciuto e poi fa niente allo scoperto: tu devi mostrarti al mondo” (7,4), Gesù risponde: “Il vostro tempo è sempre pronto, il mio tempo non è ancora venuto” (7,6). Ci sono tempi nella storia della salvezza che richiedono calma, crescita, pazienza e attesa. Mi pare che in questo testo viene appunto messa in contrasto la calma di Gesù – che aspetta (e a Nazareth aspetta anni) finché non sia chiaro il momento voluto da Dio – con la fretta di chi vuol fare qualcosa subito. E qui possiamo veramente contemplare la necessità del tempo della crescita, che fa parte della condizione umana perché c’è un tempo per ogni cosa. Il valore, il rispetto del tempo ci viene insegnato da Gesù con questo suo riferirsi paziente all’ora, al “momento” di Dio, che non è ancora giunto, ma verrà gradualmente e si manifesterà al tempo opportuno. Si tratta di un insegnamento molto delicato che, come dice sant’Ignazio parlando della fede e predestinazione, non dev’essere occasione di pigrizia: deve insegnarci il rispetto dei tempi nella vita spirituale, nella vita della Chiesa, nella vita di ciascuno di noi. E credo che l’esperienza del presbitero, mano a mano che progredisce nella conoscenza delle situazioni e delle

persone, sia proprio questa: i tempi degli uomini sono enormemente diversi. Alcuni raggiungono in pochi giorni una certa situazione spirituale, che altri per anni e anni non riescono nemmeno a toccare e che raggiungono poi molto faticosamente. Noi stessi lo costatiamo talora nella nostra esperienza: anche a voi, forse, sarà capitato di stupirvi nel vedere persone che sembravano principianti, o troppo giovani, e che pure hanno raggiunto in poco tempo cognizioni, chiarezze e quel possesso di sé, che a noi è stato negato per anni. Sono infinitamente diversi i tempi di crescita, di progresso nella via della salvezza. Certe cose che alcuni capiscono subito, altri le capiscono dopo anni, dopo decenni, dopo una vita intera. C’è in tutto questo una strana saggezza, che sembrerebbe fatalismo, ma il fatto che Gesù ha vissuto e ha accettato queste maturazioni lente ci deve far riflettere: ogni cosa al tempo suo! Non che per questo dobbiamo intenzionalmente ritardare i tempi ed evitare un impegno totale, ma si tratta di riconoscere che ci sono leggi misteriose che governano lo sviluppo, nella natura come nello spirito, come nei popoli, nei gruppi e nelle società. E a queste leggi occorre fare attenzione, perché da una parte non ci sfugga il tempo giusto a causa della nostra pigrizia, ma perché, dall’altra, neanche crediamo di poter affrettare e produrre rapidamente ciò che invece richiede maturazione profonda e personale. Quindi, ciò che è realizzato fuori dal tempo, rimane artificiale, non viene assorbito e prima o poi è respinto da un organismo che non ha potuto integrarlo in sé. Tutte queste forme di rispetto e di fiduciosa attesa e umiltà ci insegna la vita di Gesù a Nazareth; rispetto per la nostra vita e per quella di tutti gli uomini, nella sua banalità quotidiana, in cui pure la gloria di Dio si manifesta; rispetto per questo sviluppo paziente e faticoso, che è il tempo della Chiesa, della storia delle singole persone e dei popoli. Abbiamo fiducia che, aderendo a questo disegno di Dio, potremo fare infinitamente di più di quanto faremmo se i tempi fossero stabiliti da noi. Questa dottrina certo può risultare difficile, come è difficile e incomprensibile tutto l’esempio dei trent’anni di Nazareth. Ma dobbiamo chiedere a Gesù che anche questo suo modo di presenza tra noi divenga fonte di insegnamento e di trasformazione interiore.

X. LE “DUE BANDIERE” IN SAN GIOVANNI Nel quarto giorno della seconda settimana degli Esercizi sant’Ignazio

propone la meditazione delle “due Bandiere” o dei “due Vessilli”, la prima che apre il tempo dell’elezione53 [136-147]; a questa meditazione Ignazio premette il “preambolo per la considerazione degli stati” [135], che ricorda, dopo le meditazioni di Gesù a Nazareth e al tempio (e mentre si continua a contemplare la vita del Signore), come si debba ormai cominciare a investigare e domandarsi “in quale genere di vita o stato si vuol servire di noi la Sua Divina Maestà”. In che modo una tale elezione può entrare nell’ottica delle riflessioni del presbitero? Non certamente, almeno di solito, come elezione di un nuovo stato di vita, ma come ricerca di un nuovo modo di vivere lo stato in cui ci si trova. Questo ci viene proposto sotto il tema “periodo di elezione”. Cioè ci sono diversi modi di vivere la nostra esperienza, per lo più legati a certe decisioni pratiche, che al limite possono anche consistere nella semplice decisione – talora però decisione eroica – di riconciliarci con la nostra situazione così com’è, oppure in una scelta di quelle cose che Dio concretamente ci chiede. Le meditazioni seguenti, negli esercizi, aiutano o dovrebbero aiutare a ponderare le mozioni che sono in noi, per determinare ciò che Dio ci chiede di abbandonare e ciò che invece ci chiede di favorire o promuovere. Qual è, in questa ottica, lo scopo della contemplazione dei due Vessilli? Sant’Ignazio lo presenta principalmente nel terzo preambolo della contemplazione stessa: “Domandare, prima di tutto, conoscenza degli inganni del capo maligno e aiuto per guardarmi da essi; poi conoscenza della vita vera che ci mostra il Sommo e vero Capo; e infine grazia per imitarlo” [139]. Questa “vita vera” ci ricorda chiaramente alcuni temi giovannei: Gesù viene perché abbiano la vita (10,10); tutto il Vangelo è stato scritto perché credendo abbiano la vita nel nome di lui (20,31). Ignazio parla di vita vera in quanto suppone che ci siano modi errati di vivere la nostra esperienza religiosa. E appunto in questa meditazione vorrei dare qualche indicazione, data l’importanza che ha negli Esercizi, su alcuni modi errati di intendere l’incarnazione. Prima però vorrei riflettere un momento con voi sulla meditazione classica dei due Vessilli in sant’Ignazio, che qualcuno può prendere direttamente come oggetto per la riflessione. Se vogliamo dividere in due parti questa meditazione, possiamo prendere nella prima parte i punti classici di sant’Ignazio e nella seconda parte i modi errati di intendere l’incarnazione come sono presentati in Giovanni. In ogni caso, questa meditazione rimane un punto privilegiato di riferimento della nostra

esperienza religiosa. I temi classici in sant’Ignazio Quali sono i temi di questa classica meditazione ignaziana? Primo. Il nemico opera nella confusione mentale e con imposizioni autoritarie, tra le quali sono da annoverarsi anche quelle che vengono dagli slogan dell’ambiente, da quel plagio sociale a cui spesso siamo sottoposti, anche in campo ecclesiastico. Secondo. Il nemico opera non solo nelle persone, cioè in me, ma anche nelle situazioni, ambienti, gruppi, nessuno escluso. Sant’Ignazio insiste su questo nel secondo punto: Satana chiama a sé innumerevoli demoni e li sparge gli uni in una città, gli altri in un’altra, e così per tutto il mondo, non lasciando province, luoghi, stati, persone. È interessante che l’enumerazione non comincia dalle persone, ma da “città, province, luoghi, stati”, cioè mentalità, ambienti, situazioni; le persone vengono per ultime, come schiave di queste mentalità, ambienti e situazioni. E aggiunge: “nessuno escluso”, cioè compresi “frati, monache, preti, religiosi, gruppi ecclesiastici, gerarchie ecc.”. Terzo. Il nemico opera secondo la linea del “gusto del possesso”, anche del possesso intellettuale, che dà gusto, è una ricchezza e oggi rende denaro; spinge alla ricerca del successo o del prestigio, della posizione, dell’autosufficienza, da cui deriva ogni altro vizio. Come opera invece il “Capo della vita”, espressione che si potrebbe ricavare da At 3,5, “Gesù come Capo della vita”? Gesù opera in maniera opposta, cioè non come chi plagia servendosi dell’ambiente esterno, ma tramite una persuasione personale, agendo da persona a persona, attraverso uomini, che non impongono con arbitrio o imperio, ma propongono all’intimo della coscienza e suggeriscono gradualmente distacco, accettazione cordiale della propria insignificanza; e da questa umiltà. Lo scopo della meditazione è dunque scoprire le mozioni diverse che sono in me; non quindi di fare un’analisi della Chiesa o della Compagnia o dell’ambiente in cui vivo, ma di sentire queste mozioni così come sono in me, concretizzandole in casi e situazioni mie, e chiedendo, nel colloquio finale, con forza e insistenza, il coraggio di seguire la via difficile. Questa meditazione conserva tutta la sua attualità ed è per noi un punto essenziale di

riferimento. Questa meditazione come si ritrova nelle Costituzioni? Si ritrova soprattutto nei due temi molto cari a sant’Ignazio. È facile individuarli: custodia della povertà e fuga da ogni ambizione. Si potrebbero citare molti passi nelle Costituzioni, ma per limitarsi ai temi fondamentali, prendiamo Cost 816, nella parte X, che sembra una trascrizione di questa meditazione. L’azione di Satana negli ordini religiosi conduce a opporsi all’impegno per la povertà. Sappiamo quanto il padre Generale abbia a cuore questo punto: la povertà è come il baluardo delle religioni, quindi di tutte le situazioni di vita religiosa, le conserva nel loro essere e le difende da molti nemici. Di qui la grande necessità di essa. Così pure il numero seguente (Cost 817) è la trascrizione della parte che riguarda l’ambizione, riferita alla Compagnia: “Sarà di somma importanza per perpetuare il benessere della Compagnia escludere con grande diligenza l’ambizione, madre di tutti i mali in qualunque comunità o congregazione, chiudendo la porta […] per la ricerca di dignità o prelatura”. Chiaro il richiamo al secondo e terzo gradino degli inganni del nemico. Potrei citare due altri numeri della stessa parte X, che però verranno più a proposito nella meditazione che proporrò partendo da Giovanni, cioè quelli relativi alla “moderazione nel lavoro spirituale e corporale e ricerca del giusto mezzo”, naturalmente nelle Costituzioni. E vedremo come gli errori di intendere l’incarnazione sono per lo più forme di esagerazioni in un senso o nell’altro. Sant’Ignazio teneva moltissimo a questo giusto mezzo, nei lavori come nello stesso rigore della Regola, “perché non si vada – dice – a un estremo di rigore, oppure a troppa libertà” (Cost 582). E anche Cost 825: “Usare discretamente e moderatamente dei favori concessi dalla Sede Apostolica”, con tutto lo spirito che c’è dietro, cioè non premere, non farsi forza del proprio conquistato prestigio, sociale e anche religioso, di gesuiti, ma usarne sempre con estrema umiltà e cautela, fa anche parte delle cose che vedremo nella meditazione giovannea. Quindi questo punto delle Costituzioni si situa a metà tra gli Esercizi e le indicazioni che troveremo in Giovanni. Per chi, dopo aver fatto la meditazione sui Vessilli nella maniera classica, volesse approfondirla dal punto di vista giovanneo, propongo la ricerca di qualcosa di analogo nel messaggio del quarto Vangelo. Si potrebbero trovare delle analogie nel cap. 8, dove si parla di Satana, ma credo che le analogie più vere e più sottili siano in altri punti. Come già ho detto, Giovanni si situa al di là dell’istruzione ascetica; quindi i temi “povertà” e “ambizione” sono accennati

qua e là, ma non nella forma ascetica in cui li vede sant’Ignazio. Pericoli per il discepolo nel quarto Vangelo Il quarto Vangelo mi pare che guardi a pericoli ancora più sottili, che può essere utile considerare ed esporre, cioè i pericoli del terzo stadio di formazione; per questo ho detto che è sempre valida la meditazione ignaziana, in qualunque situazione della vita ci troviamo, in qualunque tempo; però san Giovanni, nella sua visione contemplativa, ci presenta alcuni elementi, in un certo senso più profondi e più difficili a determinarsi, in forma chiaramente ascetica. Come propongo di fare questa meditazione? Prendo come punto di partenza 6,66-69, cioè la parte finale del discorso di Cafarnao: Dopo di ciò molti dei suoi discepoli se ne tornarono indietro e non volevano più camminare con lui. Disse dunque Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?” Risponde Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna – quest’ultima frase fa pensare a Gesù “Capo della vita”, in At 3,5, come lo presenta sant’Ignazio nella meditazione dei Vessilli –, e noi abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Santo di Dio”.

Mettiamoci di fronte a questa scena e riflettiamo; chiediamo al Signore di farci comprendere come è difficile capire il suo mistero e come è facile sbagliarsi. Ne sono prova gli apostoli coi loro continui malintesi di ogni tipo. C’è un malinteso vivente, che è Giuda. E difatti, proprio subito dopo che Pietro ha detto: “Abbiamo creduto e sappiamo che tu sei il Santo di Dio”, Gesù dice: “Non ho forse io eletto voi dodici, e di voi uno è un diavolo”. Il malinteso è quindi all’interno stesso della predicazione di Gesù, lo accompagna giorno e notte. Perfino quando Giuda è partito – cioè durante il grande discorso di rivelazione, in cui Gesù manifesta senza più veli e parabole la sua vita, la sua unione col Padre, il suo desiderio di unire gli uomini a sé per riportarli al Padre – continuano ad accadere malintesi di ogni tipo. In 14,5 Tommaso dice: “Non sappiamo dove vai”; poi Filippo: “Mostraci il Padre” (14,8), e Gesù gli deve spiegare che l’ha già visto; infine l’altro Giuda: “Perché non ti mostri al mondo?” (14,22). Persino negli ultimi, solenni, momenti il malinteso accompagna Gesù. Volendo tentare una qualche indicazione di questi malintesi, che accompagnano la predicazione di Gesù e la comprensione del senso dell’incarnazione, ho cercato di dividerli sotto due categorie, una divisione un

po’ arbitraria evidentemente: in primo luogo, i malintesi dei discepoli, che si situano non al primo livello di formazione, quello del catecumenato, ma al secondo, al livello dell’istruzione (sono i discepoli che in 6,66 abbandonano Gesù), e, in secondo luogo, i malintesi dei presbiteri, cioè dei discepoli del terzo livello di formazione (tali malintesi si manifestano in occasione degli ultimi discorsi di Gesù). E notiamo anche che questi malintesi non sono assolutamente negativi, come di chi non vuole seguire Gesù, di chi lo contrasta, di chi gli si oppone: qui si tratta invece di persone che lo seguono con entusiasmo. Tra i malintesi dei discepoli della prima categoria, indico soprattutto i due seguenti. Per il primo, mi rifaccio all’esempio in 6,14 ss. Lo chiamerei “la tentazione del messianismo politico” o, in altra forma, “del clericalismo politico”, che è lo stesso, cioè la tentazione di profittare delle forze di pressione e di dominio sociale, che può offrire l’appartenenza a Gesù e al suo movimento: “Questi uomini, vedendo il segno fatto, dicono: ‘Costui è veramente il profeta che deve venire nel mondo’. Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo e farlo re, si ritirò di nuovo, solo sulla montagna” (6,14). È davvero drammatica questa solitudine assoluta di Gesù di fronte a una massa che s’è lasciata infatuare e massicciamente e velocemente plagiare per una fallace mentalità. Un secondo malinteso dei discepoli è quello che si potrebbe chiamare “l’interpretazione materiale delle parole di Gesù”, l’interpretazione “letteralistica” o “fondamentalistica” che corre lungo tutto il cap. 6, soprattutto nei vv. 52-57. Qui in ogni versetto si parla del mangiare e del pane, ma continuamente in sensi diversi, e con malintesi sovrapposti che si intersecano e che presentano da una parte una interpretazione materiale e dall’altra uno sforzo di spiegare il senso profondo delle parole di Gesù. Combattevano dunque tra loro i giudei dicendo: “Come ci può costui dare la sua carne da mangiare?” Disse dunque loro Gesù: “In verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita e lo risusciterò nell’ultimo giorno. La mia carne è veramente cibo, il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come mi ha mandato il Padre, e io vivo per il Padre, chi mangia di me vivrà per me. Questo è il pane che scende dal cielo. Non come i vostri padri mangiarono e morirono, non così: chi mangia questo pane vivrà in eterno”.

Ogni versetto insiste sul tema del mangiare, passando continuamente dal significato materiale al significato più profondo che Gesù vuol dare alle sue parole. Il risultato è che molti finiscono con dire: “Questo discorso è duro” (v. 60) e molti se ne vanno (v. 66). Dunque c’è un malinteso permanente, che

si attua soprattutto al secondo livello dell’iniziazione cristiana ed è appunto dovuto all’interpretazione fondamentalistica, ossia materialistica delle parole di Cristo. Facciamo ancora qualche esempio. Forse ricordiamo come, anni fa, fossero diffuse delle direttive ascetiche ispirate alle parole “Chi mi mangia vivrà per me”, che orientavano alla comunione frequente, anzi alla comunione quotidiana che è certamente mezzo sicuro per la santificazione. Di qui una prassi pastorale che, fermandosi alle cose (alle quali si dà praticamente un valore quasi magico) e attaccandosi a una parola di Gesù, crea tutta una serie di malintesi. Gesù non intende “chi mi mangia” nel senso di “chi fa la comunione”, ma intende piuttosto “chi riceve me con fede sotto il segno sacramentale, chi accetta in senso ecclesiale il dono della mia morte e risurrezione, e lo accetta nelle sue conseguenze facendosi obbediente alla mia parola…” Se non si interpreta in questo senso la parola di Gesù “Chi mangia di me vivrà per me”, ma la si prende materialmente, questo consiglio non è affatto valido, da solo, per trasformare una persona. Lo stesso vale per le preghiere e per molte altre pratiche di pietà che, basandosi su una frase evangelica materialmente interpretata, diventano formule magiche; si crede di ottenere chissà che cosa, con delusioni infinite, solo perché si è messa in pratica una certa parola di Gesù o un certo suo consiglio: le delusioni sono poi infinite quando non se ne sono visti i frutti. Questo errore o malinteso equivale a credere che la salvezza sia nelle cose e che le cose ci salvino di per sé: per esempio, si crede talvolta che per il fatto stesso che il Cristo si è incarnato l’uomo si salva e quindi basterebbe essere uomini per essere salvi, perché il Cristo è nell’uomo; eppure il Cristo si è fatto uomo, compiendo una carriera di obbedienza e rivelando un preciso messaggio di servizio e di amore. Per concludere questa parte, potremo ricordare un versetto fondamentale su cui meditare: “Lo Spirito è quello che vivifica, la carne non giova a niente. Le parole che io vi ho detto sono spirito e vita” (6,63). Le parole di Gesù sono da interpretarsi in una dimensione spirituale: alla luce della presenza dello Spirito trasformante. Notiamo ancora che questi malintesi non sono assolutamente negativi, come di chi volesse assolutamente contrastare Gesù, ma sono invece di gente che intende seguirlo con entusiasmo, forse con eccessivo entusiasmo.

Malintesi nei presbiteri Passiamo ora ai malintesi di coloro che si trovano nel terzo stadio di formazione, cioè dei “presbiteri”, di coloro che ormai sono molto vicini a Gesù e ne ascoltano il discorso di rivelazione (cfr. 13,31-14,31). Osserveremo le figure dei tre apostoli che intervengono nel grande discorso: Tommaso, Filippo e Giuda. Le frasi dette da ciascuno potrebbero essere applicate a ognuno di noi, senza pretendere con questo che l’applicazione da me suggerita sia esegeticamente l’unica possibile. Leggiamo il primo testo: “Se vado, vi preparo il posto. Tornerò di nuovo, vi prenderò con me, perché dove io sono anche voi siate, e dove vado, voi sapete la strada”. Dice a lui Tommaso: “Signore, non sappiamo dove vai: come possiamo sapere la strada?” Gli dice Gesù: “Io sono strada, verità, vita. Nessuno viene al Padre se non per me. Se conoscete me, avete conosciuto anche il Padre” (14,3-6).

Che cosa leggo in questo atteggiamento di Tommaso? Mi pare di leggere la fatica che facciamo per raggiungere quella sintesi cristologica a cui Giovanni ci invita. Noi siamo ancora dispersi nelle pratiche, negli strumenti (libri), nei mezzi e vogliamo sempre sapere cosa dobbiamo fare, qual è la via, che libro leggere ecc., mentre invece Gesù dice: “Sono io via, verità, vita”. Non si tratta di rinunciare tout court alle pratiche, ai libri e ai mezzi ma, a un certo punto, è Gesù che deve farci capire il senso di tutti questi segni, pratiche, libri, mezzi, considerazioni, aiuti: tutto si deve unificare nella sua persona, che ci viene continuamente incontro, in una visione appunto da terzo stadio o livello della formazione cristiana, ossia contemplativa, unitiva, la sola che può dare appunto valore alle pratiche, ai mezzi, ai libri, alle situazioni, agli esercizi, alle forme di rinnovamento. Senza questo approdo saremo sempre alla ricerca di nuove forme, nuovi mezzi per rinnovare le comunità, rinnovare la Compagnia, dimenticando che Gesù è via, verità e vita, cioè unica fonte di rinnovamento, non immediatamente disponibile nelle nostre mani, ma alla cui azione è necessario che ci apriamo. Facciamo, insomma, mille cose marginali dimenticando l’essenziale. Ecco, poi, il malinteso di Filippo: “Gli dice Filippo: ‘Signore, mostraci il Padre e ci basta’” (14,8). Qui abbiamo quel desiderio immenso di vedere Dio, vedere il Padre, che esprime un’ansia religiosa profonda. “Gli dice Gesù: ‘Da tanto tempo con voi io sono, e non mi hai ancora conosciuto, Filippo?’” (14,9). È interessante questa ripetizione “Filippo”, che suona come quando

noi gesuiti diciamo “Caro padre” e invece vogliamo esprimere un rimprovero. “Chi vede me vede il Padre; come tu dici: mostraci il Padre” (14,9)? Qui il malinteso è la difficoltà di vedere il rapporto tra il mistero di Gesù, come ci appare, e il mistero di Dio. Potrei tradurre altrimenti le parole di Gesù: “Non sai che il Padre è in me, e chi vede me vede il Padre?” Per noi, poi, la frase potrebbe diventare questa: “Non sai che chi vede la Chiesa vede me?” ossia: “Non sai vedere attraverso i segni?” Non sai aprire gli occhi e vedere nella tua vita Gesù, e in Gesù la presenza e la volontà di Dio?” È la difficoltà di chi non sa aprire gli occhi per scoprire la grazia di Dio nella propria opaca e, talora, anche melanconica, triste esperienza. Questo è l’invito che Gesù ci fa, ora: aprire gli occhi per vedere e capire che afferma con insistenza “È tanto tempo che sono con te e non sei riuscito a conoscermi”. L’ultima indicazione è quella del malinteso di Giuda. Gesù ha appena detto parole molto belle: “Chi ha i miei comandamenti e li osserva è colui che mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, io lo amerò e gli manifesterò me stesso” (14,21). Siamo a un livello di estasi mistica – “gli manifesterò me stesso” – e improvvisamente si scende: “Gli dice Giuda, non l’Iscariota: ‘Signore, come mai tu stai per manifestarti a noi e non al mondo?’” (14,22). Certo sono parole che nascono dal desiderio ardente che Gesù, come si manifesta a Giuda e agli apostoli, si manifesti anche a tutti: “Perché non ti manifesti al mondo?” Eppure, in questa espressione, c’è qualcosa di inesatto tant’è vero che Gesù non risponde a tono, ma anzi ripete alla lettera la frase precedente: “Rispose Gesù e gli disse: ‘Se qualcuno mi ama, osserva la mia parola, e il Padre lo amerà, verremo a lui e faremo dimora presso di lui’” (14,23). Gesù ripete la frase precedente, come per dire: “non hai toccato il punto della questione”. Che cosa leggo, almeno io, sotto la domanda di Giuda? Mi pare che indichi la difficoltà di non saper accettare le condizioni della fede, la quale, appunto, non è una manifestazione sfolgorante, come forse vorremmo, che in poco tempo si conquista e si mantiene, ma procede di manifestazione in manifestazione: Gesù ai suoi, i suoi ai loro amici, questi agli altri, gradualmente. In altre parole, non è la tentazione crassa e volgare (che abbiamo già meditato ieri) dei fratelli di Gesù: “Gli dissero dunque i suoi fratelli: ‘Parti di qua, va’ in Giudea perché i tuoi discepoli vedano le opere che fai. Nessuno rimane nascosto, e cerca di essere conosciuto palesemente. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo’”. Al che Giovanni conclude melanconicamente: “Neppure infatti i suoi fratelli

credevano in lui” (7,3-5). L’atteggiamento dei fratelli di Gesù a Nazareth è l’atteggiamento di chi vuole – in fondo sono suoi fratelli – ottenere qualche beneficio personale attraverso la fede, cioè attraverso il fatto che Gesù sia conosciuto. È quanto è avvenuto anche nella Chiesa primitiva: sembra infatti che a Gerusalemme, in tutto il primo secolo, vi sia stata la pretesa di una certa posizione sociale da parte dei fratelli di Gesù. E ciò ci mostra ancora l’aspetto umano dell’inserimento di Gesù nel mondo. Questa tentazione è pure quella di chi è fuori, di chi non crede, e tuttavia vorrebbe usare della Chiesa, del nostro prestigio di uomini di Chiesa per ricavarne un qualche vantaggio; e allora ci lusinga, tenta di adularci: “Voi, i migliori, i più intelligenti esponenti della Chiesa e del prestigio degli uomini, cosa dite su questo…?”, per poi ottenere qualche cosa, un certo vantaggio sociale, politico, personale ecc. La tentazione di Giuda Taddeo è più sottile. Non si tratta di ottenere un successo attraverso la fede, ma “del” successo della fede: si vuole che la fede stessa trionfi. E si vuole anche il successo “nella” fede, cioè si vuole che la propria inserzione nel Cristo sia trionfalmente conosciuta, dimenticando le caratteristiche proprie della stessa fede, che è diffusione e accettazione attraverso una proposta personale, da uomo a uomo, è accettazione, come un seme gettato nel cuore che matura a suo tempo, e quindi non segue le leggi di altri tipi di diffusione o di proposta, che si possono imporre attraverso processi di persuasione globale. Non si vuol dire che la fede non debba diffondersi anche attraverso mezzi che raggiungono molte persone insieme; il problema è di discernere quali sono i mezzi adatti allo scopo. E comunque dobbiamo ricordarci che, in realtà, è il rapporto personale l’ultima istanza nella quale la fede si propone. E quando, poi, si è proposta la parola a molti, niente si è fatto, se ciascuno nel Signore non prende una decisione in proprio. La fede ha i suoi modi di diffusione, proprio perché è fede, non è opera umana, ma opera di Dio, “érgon toû theoû”; ha modi di diffusione non comprensibili e non paragonabili con i modi di diffusione di altre dottrine. Osservazioni conclusive Potremo forse fare un’osservazione conclusiva su questo tema dei “malintesi dell’incarnazione”, che esprimerei così, in quattro pensieri. “Dio rimane un grande mistero”, occorre sempre ricordarlo, un mistero trascendente, che chiede riverenza per la realtà divina e umiltà nel riceverla

come e quando Dio ce la vuol dare. Dobbiamo anche ricordarci che c’è sempre il “pericolo di rappresentazioni mitologiche dell’incarnazione”: siamo tentati di banalizzare miticamente la presenza di Dio tra noi, o la presenza di Dio in noi, o la presenza di Dio negli altri. “Tra noi”, quasi fosse un essere celeste, un oggetto in più tra gli altri, che merita adorazione e trasforma magicamente le condizioni del mondo. “In noi”, quando crediamo di essere trasformati automaticamente da questa presenza e dalla fede. “Negli altri”, quando facciamo degli altri degli idoli o ci appoggiamo a essi con la scusa di questa presenza, o ne dipendiamo eccessivamente. Il Cristo tra noi, il Dio tra noi, “non cambia ordinariamente la condizione umana all’esterno”, cioè nella sua miseria e povertà, ma ci apre gli occhi della fede perché impariamo a leggere – in tale condizione e attraverso la mediazione del Cristo, povero, crocifisso e risorto – la presenza dell’amore di Dio che ci trasforma interiormente. “Questa presenza è energia”, cioè ha lo scopo di far fare. Anzi, potremmo dire, forse paradossalmente, usando termini estremi, che è una presenza da farsi: essa è una risposta a un’offerta. Dio è presente come offerta e come dono e attende di essere fatto presente come risposta. Soltanto a queste condizioni possiamo meglio intendere quella formula paradossale coniata da padre Nadal54: “Contemplativo nell’azione”, che suppone una percezione molto fine e raffinata del mistero dell’incarnazione, come energia di Dio che opera e che ci fa operare, e che dobbiamo vivere tra noi seguendo le mozioni dello Spirito. Chiediamo al Signore, che ha parole di vita eterna, di farci comprendere lo spirito e la vita che sono nelle sue parole, perché possiamo comprendere il vero senso della realtà in cui viviamo.

XI. I “TRE BINARI” IN SAN GIOVANNI Alla sera del quarto giorno, in cui si è fatta a mezzanotte la meditazione dei Vessilli o delle due Bandiere (e dopo ben tre ripetizioni al mattino, a mezzogiorno e al pomeriggio, con particolare insistenza sul colloquio finale, per chiedere povertà e disprezzo), viene proposta negli Esercizi la meditazione dei “tre Binari”55 o delle “tre classi di uomini” [149-156]. Questa meditazione, dopo il primo preambolo, ne ha un secondo, che è

singolare, piuttosto grandioso, insolito in sant’Ignazio: “Vedere me stesso di fronte a Dio nostro Signore e a tutti i Santi, con desiderio di conoscere ciò che è più gradito alla divina Bontà” [151]. Un linguaggio che richiama direttamente il Principio e Fondamento [23] (“ciò che è più gradito alla Divina Bontà”) e anche richiama il colloquio del Regno [98], che si fa di fronte a Dio, a Maria e a tutti i Santi. Quindi c’è un legame tra queste tre meditazioni; quest’ultima (revisione di vita più che meditazione) ci pone veramente al centro degli Esercizi, prima dell’inizio del lavoro per l’elezione. Anche il terzo preambolo richiama il Fondamento, in quanto ciò che si chiede non è più conoscenza di Gesù, ma “grazia per eleggere ciò che è di maggior gloria della Sua Divina Maestà e salvezza della mia anima” [152]. Quindi i temi del Principio e Fondamento (che, dicevamo all’inizio, contengono già tutti gli Esercizi), rimbalzano di nuovo qui, per essere poi al centro dell’elezione, in cui ritornano gli stessi elementi: la gloria di Dio e la salvezza dell’anima, nello spirito della sequela di Cristo. Liberarsi dagli attaccamenti… Questa meditazione, com’è noto, ha come argomento tre diversi atteggiamenti riguardo al problema di liberarsi da un attaccamento a una certa somma di denaro. Può essere tradotta evidentemente, questa somma di denaro, con qualsiasi altro possesso inquietante. Vi sono molti possessi che noi abbiamo e che non ci inquietano, non fanno problema, anche se ci dispiacerebbe che ci venissero tolti: possediamo la vita e ci dispiace perderla, ma solitamente ciò non ci fa problema; abbiamo la salute, ci dispiace perderla… Invece il tema proposto da sant’Ignazio riguarda un possesso inquietante, cioè qualcosa di cui mi accorgo che sono preoccupato al perderla, o mi sto eccessivamente crogiolando perché non l’acquisto o non la lascio andare… e così sono inquieto. Perché sant’Ignazio vuole che si concentri l’attenzione su situazioni del genere? Perché sono quelle che impediscono la libertà di scelta; sono elementi inerenti al nostro modo di vivere, di lavorare, che ci tolgono la libertà. Per questo ci invita, in questa sorta di revisione di vita, a domandarci: quali possono essere i nostri possessi inquietanti in questo momento? Sia nella linea della nostra cultura, quella che vorremmo avere o vorremmo sfruttare, sia nella linea delle posizioni di prestigio raggiunto.

In certi, anzi in molti ambienti laici, e anche in quelli ecclesiastici, c’è l’idea che non si può tornare mai indietro; quindi una certa posizione di prestigio non può essere mai sacrificata: si va sempre e solo avanti, anche sbagliando. E questo, appunto, è un possesso inquietante: non poter rinunciare, per la pressione dell’ambiente, a certe posizioni acquisite, e quindi non poter mai ammettere di aver sbagliato, perché questo ci mette – diciamo – in una situazione di crisi di fronte a quelle posizioni, che si crede di dover mantenere a ogni costo; e, per usare il linguaggio di Paolo in Fil 2,6, si ritiene come un “bene ormai rapito per sé”, ciò che Gesù non ha fatto della propria potenza divina. … e dai possessi inquietanti Altri possessi inquietanti: un’immagine di noi, che ormai si è creata nel pubblico e che non vorremmo sacrificare. Tante altre situazioni che, in forma più sottile, ci possono mettere in questa situazione di stallo, anche se l’attaccamento al denaro rimane sempre una forma molto universale e valida. È vero che sant’Ignazio non domanda a chi fa gli esercizi annuali di sforzarsi di trovare qualche attaccamento: forse non abbiamo nulla, grazie a Dio, niente affiora nella nostra situazione che abbia questa caratteristica; allora in questo caso gli Esercizi sono, come dice padre Ledrus56, “cultura e devozione”, cioè approfondimento della prontezza a darsi a Dio nella preghiera e nella vita; hanno lo scopo fondamentale di capire quale è il nostro essere davanti a Dio, di rinnovare il nostro modo di pregare. Però se, nella preghiera e nell’esame di coscienza di questi giorni, affiora qualcuno di questi atteggiamenti riguardo al modo di compiere il nostro ministero, l’ufficio, il tipo di lavoro, allora è evidente che dobbiamo concentrare l’attenzione sull’argomento. Potrei dare un consiglio per trovare questi attaccamenti inquietanti, queste cose a cui non rinunciamo volentieri o che desideriamo troppo: tener conto dei giudizi degli altri su di noi e delle critiche che riceviamo. Esse spesso ci aiutano, più di quanto non faccia l’introspezione, a vedere le cose che in noi non vanno bene. La meditazione termina, dopo aver passato in rassegna vari atteggiamenti, e indicato l’atteggiamento più idoneo, quello che rinuncia nell’affetto per trovare la bontà di Dio. Non quello che rinuncia di fatto, ma rinuncia nell’affetto, in modo da essere disposto a scegliere con tutta libertà, facendoci

ripetere il colloquio della meditazione del Regno [98], ripetuto già in quella dei Vessilli, ma qui con maggiore insistenza, come dice la nota a [157]: Quando sentiamo affetto o ripugnanza alla povertà attuale, quando non siamo indifferenti verso la povertà o la ricchezza, è molto importante, per estinguere questo affetto disordinato, chiedere che il Signore ci elegga alla povertà attuale, e protestare che ciò si vuole, si chiede e si supplica purché di servizio e lode di Dio.

Questo dimostra quale dev’essere la forza dell’impegno nella richiesta di liberazione. Liberarsi dagli affetti disordinati nelle Costituzioni Ci possiamo anche chiedere: nelle Costituzioni si considerano situazioni analoghe nella vita della Compagnia? All’inizio degli esercizi, quando parlavamo degli affetti disordinati, abbiamo notato punti delle Costituzioni in cui tali affetti sono presenti. Qui sarebbe da ripetere il discorso, ma cito soprattutto tre passi. Nella I parte, quando si tratta di decidere se accettare o no un candidato, sant’Ignazio ricorda lo stato d’animo sopra accennato con parole simili a quelle degli Esercizi; è una situazione nella quale considerazioni umane di relazioni pubbliche, di ambiente, potrebbero indurre troppo facilmente ad accettare una persona. Interessante è Cost 143: Chi deve ammettere, come chi lo coadiuva, deve conoscere le cose della Compagnia ed essere zelante, senza alcun rispetto, senza che alcun’altra intenzione lo possa rimuovere da ciò che giudichi nel Signore nostro essere più conveniente per il servizio nella Compagnia. Per cui dev’essere moderato nello stesso desiderio di ricevere (quindi questo desiderio può togliere la libertà) ed essere libero da ogni passione che potrebbe darne occasione, cioè verso parenti o verso amici.

Si insiste qui su questa libertà di spirito, da procurarsi attraverso un attento esame di sé. Nella II parte, in Cost 222 ritorna lo stesso discorso riguardo alla dimissione. Anche qui occorre che colui che la dà agisca del tutto libero da passioni, tendenze, situazioni acquisite e non più messe in discussione: “Liberandosi da ogni affetto e tenendo davanti agli occhi la gloria divina” (sono le stesse parole, in questo contesto, dell’elezione). Ancora nella parte VII, quando si tratta di scegliere i ministeri. Anche qui, per esempio, in Cost 618 che è molto ampio, e in vari altri punti, si insiste che questa scelta dev’essere fatta con tutta libertà da opinioni preconcette, o da decisioni già fatte, o da paure di persone che lo impediscano. Un tema questo su cui certamente devono riflettere coloro che

sono in situazioni di decidere. Potrei consigliare, per chi lo desidera, di fare questa revisione di vita come sant’Ignazio la propone, che conserva tutta la sua forza psicologica penetrante e pungente (sant’Ignazio qui è profondo psicologo). Le tre categorie di persone in Giovanni Per chi desidera invece meditare una situazione analoga, anche se di altro tipo, la proposta giovannea, che presenteremo, è più nella linea di un’adesione generale di fede. Esiste, infatti, in Giovanni una situazione molto analoga, che può essere interessante approfondire, perché ci mette di fronte a un messaggio evangelico, che ha una notevole similitudine con la revisione di vita proposta da sant’Ignazio; ossia le discussioni intorno al miracolo del cieco nato, nel cap. 9. Abbiamo già visto qualcosa di questo capitolo, la prima parte e l’ultima: il cieco guarito, il cieco che va verso Gesù. Tra queste due parti ce n’è un’intermedia lunghissima, in cui Gesù non appare, mentre appare un groviglio di situazioni di persone che tutte lavorano e parlano prendendo posizione rispetto al segno offerto da Gesù. Notiamo in questa parte intermedia dell’episodio (praticamente dal v. 8, quando il miracolo è già avvenuto e Gesù scompare dalla scena, fino al v. 35, quando Gesù ritorna in scena) un processo al segno avvenuto, che divide gli uomini in tre categorie: quelli che dicono di no al segno, che per opinioni preconcette non possono accettarlo e fanno di tutto per non accettarlo; quelli che hanno capito il segno, ma non si vogliono compromettere; e quelli che invece si decidono. In queste categorie c’è un’analogia abbastanza stretta con le tre classi proposte da sant’Ignazio. Vediamo brevemente ciascuna di esse. Chi è che dice di no al segno? Sono principalmente i farisei, come vedremo, ma in genere il gruppo dei farisei. Perché dicono di no? Perché non possono accettarlo? Che cosa sottolinea san Giovanni nel loro atteggiamento? Mi pare, le seguenti caratteristiche: giudizi già fatti su Gesù, sui quali non si vuol più ritornare. Per esempio al v. 16: “Quest’uomo non osserva il sabato: non è dunque da Dio”. Quindi non si può accettare ciò che egli ha fatto. Oppure al v. 24, quando i farisei chiamano una seconda volta il cieco guarito e gli dicono: “Rendi gloria a Dio: noi sappiamo che quest’uomo è peccatore”. Quindi, hanno già deciso chi è Gesù, parlano con giudizi già fatti, parlano con sufficienza, insistendo su questa forma verbale, “noi sappiamo” due volte

al v. 29: “Noi sappiamo che Dio ha parlato a Mosè; ma quest’uomo non sappiamo donde venga”. Quindi, sufficienza in ciò che ormai si conosce, si è acquisito, senza capacità di ascoltare, di vedere la situazione così com’è. Poi gli chiedono una terza volta, al v. 26: “Che cosa ti ha fatto, come ti ha aperto gli occhi?” Il cieco risponde spazientito: “Ve l’ho già raccontato, ma non mi avete ascoltato: perché volete ascoltarlo ancora una volta? Forse volete farvi suoi discepoli?” E qui si vede quell’insistenza, per cui si vuole risentire le stesse cose, ma per negarle ogni volta; un sentire senza ascoltare. Questo atteggiamento è presentato da Giovanni come frutto di zelo per la legge. Quindi sono uomini zelanti della legge: “Noi sappiamo che Dio ha parlato a Mosè”; uomini che non vogliono fare il male: “Noi siamo discepoli di Mosè” (v. 28), e accusano Gesù di avere mancato al sabato. Quindi in essi opera uno zelo buono, religioso. Che cosa dice a noi tutto questo? Certo ci fa riflettere sull’accecamento di chi non vuol sentire. Quando c’è un partito preso, nulla vale a smuovere la persona che emotivamente si è legata a una certa posizione. Ma allora potremmo dirci: dobbiamo esser pronti a rinunciare a ogni posizione, anche alla fede, alle regole, alla vita nella Compagnia, a tutte le posizioni che abbiamo conseguito, alla nostra cultura? Chiaro che sarebbe ridicolo mettere continuamente in gioco tutto: nessuno resisterebbe a una simile diffrazione, lacerazione totale di sé. Ciò che ci è domandato è molto meno. Ci è domandato di liberarci dai possessi inquietanti, ossia da quelle cose che asseriamo con emotività eccessiva e una sicurezza ostentata. Le cose che Dio ci dà per suo dono e che possediamo veramente, possiamo affermarle tranquillamente, con calma; possiamo anche vederle messe in discussione senza sentirci messi in discussione, perché Dio ce le dona con tranquillità e noi le possediamo tranquillamente: tutto ciò che riguarda la fede, la nostra cultura fondamentale, tanti valori che abbiamo acquisito con la tradizione. Dov’è invece il punto pericoloso, rischioso? Quando le cose vengono affermate con un’emotività superiore alla posta in gioco e con un’ostentazione di sicurezza che mostra l’insicurezza, cioè mostra che in realtà la cosa non la si possiede. Se i farisei avessero avuto veramente la certezza che il Cristo non poteva fare miracoli, non avrebbero interrogato più volte il cieco, domandando ansiosamente: “Ma chi? Ma come?” Il fatto di questa insistenza e di queste opposizioni così emotive mostra che c’è già un’insicurezza, che c’è un possesso inquietante da mettere in questione. Un’applicazione più generale forse la possiamo fare alla situazione

esistente della Compagnia riguardo ai ministeri, che ricavo da quel rapporto che già una volta ho citato. Parlando dei generi di apostolato, il rapporto espone alcune opinioni; secondo molti, gli apostolati tradizionali sono stati abbandonati rapidamente in favore dei ministeri personali; altri insistono: non c’è abbastanza creatività e coraggio per impegnarsi in nuovi apostolati che i tempi domandano, non si investe abbastanza per cercare nuove maniere di realizzare gli antichi apostolati. Qual è ordinariamente la causa di questo? Io la vedrei in quel “noi sappiamo” dei farisei ripetuto due volte: cioè già sappiamo come si deve fare, gli altri devono seguirci. E quando questo atteggiamento non è una forma tranquilla di possesso ricevuto, ma un’insistenza un po’ troppo, diciamo, forzata, calcata, allora vuol dire che questo “sappiamo” è insicuro, e in fondo richiede un ripensamento. La seconda categoria è delle persone che non si vogliono compromettere. Sono persone semplici, oneste, che vedono, che capiscono, che non hanno posizioni, almeno apparentemente, da mantenere, e quindi la prima reazione è sana. Per esempio in 9,8 ss.: “La gente che stava lì vicino e quelli che avevano l’abitudine di vederlo mendicare dicevano: ma non è forse lui che era a mendicare? Gli uni dicevano sì, gli altri dicevano: ma forse è un altro. Ma lui diceva: sono io. E allora gli dicono: ma come ti ha aperto gli occhi? Risponde: l’uomo che si chiama Gesù ha fatto questo, mi ha mandato a Siloe e mi ha aperto gli occhi”. Qui c’è un’accettazione semplice, ovvia, che però, quando interviene una paura imposta dall’esterno, una pressione sociale, allora incomincia a ritrarsi. Perciò, come si vede dal v. 13, si rimettono ai farisei: tocca a loro giudicare, loro sanno; noi abbiamo paura a pronunciarci, non vogliamo grane, non vogliamo noie. Questo atteggiamento appare più nei parenti, i quali rispondono da gente semplice e onesta, ai vv. 20 e 23: “Noi siamo certi che è nostro figlio e che è nato cieco. Come egli veda, non lo sappiamo. Chi gli ha aperto gli occhi? Non si sa. Interrogatelo: è grande, si spieghi”. E Giovanni conclude: “I suoi parenti parlarono così perché avevano paura dei giudei. Questi infatti erano già d’accordo di escludere dalla sinagoga chiunque confessasse il Cristo”. Ecco perché i parenti dissero: “È grande, ha l’età: interrogatelo”. Abbiamo qui una situazione causata dalla pressione sociale, la paura di trovarsi in situazioni difficili, a causa di persone o di opinioni che sono al di sopra di noi, paure che appaiono insuperabili, perché non c’è niente di più tremendo che una pressione sociale che circonda da ogni parte: certe volte bastano otto,

dieci persone per fare ambiente e per chiuderci. Credo che avremmo motivo di riflettere su ciò che può accadere anche a noi. Una delle cose che più mi hanno colpito negli Stati Uniti, nel contatto col movimento pentecostale, è il coraggio semplicissimo, dato da un clima di preghiera, dal dono dello Spirito, di superare ogni pressione sociale con estrema facilità, di cambiare anche la propria situazione, la propria immagine pubblica, senza alcun timore, e ricordavo, come dice la prima Lettera di Giovanni 4,18 che “l’amore mette fuori il timore”. Se la pressione sociale, vista nelle sue realizzazioni concrete, talora fa una paura tremenda all’uomo, che cade senza accorgersene, la grazia dello Spirito fa trovare il modo di superare con estrema semplicità questa pressione. Non è dunque considerandola, ripensandola, cercando i modi di superarla, modi forse anche prudenti o occulti, che noi ci liberiamo; ma attraverso uno sguardo al Signore, chiedendo la grazia di quella liberazione semplice, che solo Dio può dare, e che è molto più facile di quanto non si immagini, quando si è sotto la pressione di questo ambiente divino. Il terzo tipo di persone, purtroppo pochissime in questo brano, sono coloro che si decidono per Gesù. Chi sono? Alcuni farisei, almeno come disposizione di onestà nell’accettazione del regno. Lo dice Giovanni al v. 16: “Tra i farisei alcuni dicevano: questo individuo non osserva il sabato: non è dunque da Dio. Ma altri dicevano: come potrebbe un uomo peccatore operare tali segni? Ed erano divisi tra loro”. Ma chi soprattutto si decide per Gesù, e Giovanni ce ne mostra le tappe successive, è il cieco guarito, il quale, proprio di fronte alla contestazione, si eleva a una comprensione sempre più chiara, sia del senso dell’evento, sia di ciò che gli è capitato, rimanendo tranquillo, dando le risposte ovvie, e quindi lasciandosi guidare dalla naturalezza delle cose che gli capitano, aprendo gli occhi ai segni così come sono. E così giunge a comprendere il significato dell’evento e a conoscere chi è che l’ha beneficato; cioè non soltanto il nome, ma anche il significato di quest’uomo per lui; un uomo che tanti contestano, ma di cui egli ha provato la bontà e l’amicizia. Abbiamo qui l’onestà che riconosce l’azione di Dio in sé, lo riconosce nei suoi segni, e passa da questa alla conoscenza dall’amicizia che Gesù mostra in questi segni, a quella vicinanza con Cristo che vince la paura. È questo il principio fondamentale che sant’Ignazio indica nella seconda settimana: per liberarci da tutti i nostri legami, non vale il principio di

affrontarli direttamente, ma piuttosto quello di metterci a contatto con la povertà, la vita umile, la persona amabile di Cristo. Perché, dopo aver acquistato familiarità con lui, allora possiamo prendere in mano (come egli fa fare in questa meditazione al suo esercitante ideale) i punti difficili delle nostre scelte, e trovare tutto più facile. Dopo la conoscenza del Cristo, dopo che, come al cieco, ci ha detto in chi e perché credere: “Credo, Signore!”, allora possiamo passare a una scelta, che abbia anche il carattere della semplicità spontanea, una scelta che forse verrà fuori con fatica, non forzata dall’esterno, ma che sgorga dall’interno. Potremo chiedere nel colloquio finale, secondo le parole che ho già citato della 1Gv 4,18: Tu, o Signore, che dai quella perfetta carità che mette fuori ogni paura, donami questo dono perfetto, in maniera che ogni timore della mia vita, del presente e del futuro, possa essere, se non superato gloriosamente, che spesso è difficile, vinto coraggiosamente attraverso l’unione alla persona di Gesù.

OMELIA. SULLA TERZA MANIERA D’UMILTÀ (GV 8,46-59) Il testo evangelico che ho scelto ci permette una riflessione che mi pare opportuno fare a questo punto, al termine della considerazione della vita pubblica di Gesù e prima di passare alla passione. Chiamerei questa riflessione: “Gesù sotto critica, Gesù criticato”. È interessante vedere come Gesù si comporta sotto i colpi della critica, della contestazione, e rifletterci può essere anche per noi utile. Tutti siamo spesso sotto critica, talora addirittura scorticati come san Bartolomeo. Passiamo nella nostra vita, gradualmente, dalla posizione più facile di criticanti a quella di criticati, e più andiamo avanti, più si accumulano fardelli di critiche sulle nostre spalle. Giova quindi meditare come Gesù si è comportato di fronte a queste situazioni. Tutto questo ha anche una relazione specifica col punto a cui siamo giunti degli Esercizi, cioè: “i tre gradi di umiltà”57 [165-168], e in particolare con la richiesta, che sant’Ignazio fa fare all’esercitante, di non fermarsi al primo e al secondo grado, ma di spingersi in qualche maniera al terzo, cioè al desiderio

e all’accettazione di qualche umiliazione. Questa richiesta delle umiliazioni, come sapete, ha inizio dalla meditazione del Regno e arriva fino alla proposta dei tre gradi di umiltà. E ha anche importanza nelle Costituzioni, alla fine del cap. 4 dell’Esame, il capitolo nel quale sant’Ignazio propone al candidato le cose più importanti che dovrà fare, dandogli un quadro della vita della Compagnia e conclude con quella che è la Regola 11, desiderio delle umiliazioni, a cui segue la raccomandazione di un esame accurato: “Si chieda al candidato se ha questo desiderio” (Cost 101, 102), oppure (frase che ci ha tanto sorpreso quando l’abbiamo sentita) se ha almeno il desiderio del desiderio delle umiliazioni; e infine l’altra frase che mi ha colpito molto e adesso mi colpisce ancora di più: se è deciso a entrare nella Compagnia, nella quale vuole obbedire ed essere umiliato e conseguire la vita eterna. Questa frase mi è sembrata molto indicativa e molto utile in tanti momenti della nostra vita: se veramente vogliamo obbedire, essere umiliati e giungere alla vita eterna, allora abbiamo colto ciò che sant’Ignazio propone al candidato. Questa frase mi ha doppiamente colpito, perché praticamente è una trascrizione ignaziana del principio fondamentale che Gesù risorto enuncia in Lc 24,26: “Non doveva forse il Figlio dell’uomo soffrire e così entrare nella Gloria?” Quindi è la trascrizione nella nostra vita di quello che Gesù ha dato come chiave della sua attività. Il valore dell’umiliazione E quindi è utile riflettere su questa realtà della critica, anche come preparazione della passione, che sarà poi la grande crisi del Signore. Come sapete, sant’Ignazio è stato ampiamente sotto critica in tutta la prima parte della sua vita e anche dopo: e perciò ha sentito il valore dell’amore all’umiliazione, come momento importantissimo della sequela di Cristo. Ho scelto questo brano di Giovanni (8,46-59) come uno dei brani culminanti, in cui le accuse e gli insulti a Gesù sono più tremendi, e che riassume molti altri brani in cui vengono fatti insulti e critiche a Gesù. Quali sono questi insulti? Sono molti. Gesù viene accusato qui di essere un samaritano, cioè un eretico; di essere posseduto dal demonio; di bestemmiare; di essere presuntuoso: “Chi ti credi di essere? Sei maggiore di Abramo?”; di essere peccatore; di non aver studiato; di venire dalla Galilea: “non sappiamo donde venga”; di non osservare il sabato; di non aver testimoni in suo favore

se non lui stesso. Tutta questa serie di critiche che troviamo nel Vangelo di Giovanni ci fanno vedere che Gesù non piaceva a tutti e anzi dispiaceva a parecchi. Ed è interessante domandarci: come si comporta Gesù sotto queste critiche molto aspre e talora veramente distruttive? Prima di tutto, mi sembra che Gesù non si stupisce di queste critiche, perché le prevede. Come ammonisce Giovanni fin dall’inizio (2,24-25), quando cominciò a farsi i primi discepoli: “Gesù non si fidava, perché sapeva cosa c’è nell’uomo”; cioè Gesù non si aspetta che tutti stiano a bocca aperta ad ascoltarlo, soltanto perché è lui che parla e perché dice la verità. Anzi Gesù stesso aveva previsto (e lo dice Giovanni in 4,44) che “un profeta non è onorato nella sua patria”; Gesù non si aspettava di essere onorato sulla terra, quindi non si stupisce delle reazioni nei suoi confronti. Qui però siamo ancora a un livello un po’ sapienziale; a un livello forse un po’ amaro, che risente di un certo pessimismo sulla natura dell’uomo. Gesù però non solo non si stupisce (perché conosce gli uomini, conosce noi), ma ascolta. Ordinariamente, in Giovanni, Gesù non si sottrae alla critica, ma ascolta, e per lo più risponde quando si tratta di critiche molto pesanti e molto dure. Quando gli dicono: “Perché fai queste cose di sabato?”, Gesù risponde: “Mio Padre opera e anch’io opero”. Non solo risponde, ma anche si difende. E qui bisognerebbe citare quasi per intero i capp. 5, 7 e 8 e parte del 10, che contengono difese di Gesù contro le critiche; difese forti, difese abbastanza temperamentali dal punto di vista della commozione che dimostra. E questo ci fa pensare: Gesù aveva ragione, mentre noi abbiamo più facilmente torto; quindi, dopo avere ascoltato la critica, l’importante è di rifletterci. Calma e dialogo Tuttavia Gesù ci dà anche un esempio di risposta e difesa. Che cosa vedo in questo atteggiamento di Gesù in quanto è un esempio per noi, che pure sbagliamo e sappiamo che spesso le critiche fatte a noi sono giuste? Vedo questo: che talora noi, sotto la critica, troviamo più comodo il ritirarci o il tacere, ma in fondo nel nostro atteggiamento c’è un po’ di orgoglio, un po’ di superbia, “gli altri non mi capiscono, non capiscono nulla”; e così ciò che sembrerebbe umiltà, in realtà è un ripiegarsi su di sé e un disprezzare gli altri, non volendo scendere al loro livello.

In questo, mi pare, Gesù ci è di esempio, perché scende veramente al livello degli altri e cerca di dialogare. Anche se, dobbiamo riconoscerlo, proprio perché ha questa calma e tranquillità, Gesù, sa anche attaccare e contrattaccare in maniera vigorosa così quando dice: “Voi giudicate in maniera solamente umana”; e quando c’è la controversia su Abramo: “Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo”. In tutto questo però, dal modo di comportarsi di Gesù, mi sembra che, leggendo il Vangelo, sentiamo trasparire tra le righe una calma straordinaria. Cioè una capacità di ascoltare pazientemente, rispondere, difendersi anche con calore, quando è necessario attaccare, ma sempre con una calma profonda. Lo intuiamo dietro il giro della frase, dietro il modo di esprimersi. Né si può dire: “Questo è scritto a tavolino” perché riflette un’esperienza di Gesù così come è stato conosciuto da Giovanni e quindi è la sua stessa figura, la sua persona che si presentava così. Qual è la radice di questa calma di Gesù, anche sotto le critiche più distruttive, quelle che toccavano il senso della sua opera; quando lo chiamavano “posseduto dal demonio” o giudicavano “bestemmia”, lui che veniva da Dio, che parlava del Padre, e la cui missione veniva stravolta completamente? La radice della calma di Gesù la troviamo in ciò che egli ripete più volte in questi discorsi di controversia. Quando, per esempio, lo accusano di essere l’unico che testimonia a suo favore, Gesù risponde: “Il Padre che mi ha inviato, lui mi dà testimonianza”. Sotto il peso di queste critiche violente, Gesù si appoggia alla missione del Padre. E quando gli lanciano insulti più gravi: “Sei posseduto dal demonio”, risponde: “Io non sono posseduto dal demonio, ma io onoro il Padre; e voi disonorate me”. “Il Padre che mi ha mandato”: ecco la chiave di questa calma, di questa capacità di Gesù di ascoltare, giudicare, riflettere e rispondere senza mai passare la misura, ma neanche senza stare al di sotto della misura. Questa calma e abbandono al Padre ci prepara poi all’esempio supremo di Gesù, sul quale dovremo meditare, quando a un certo momento non risponde più, ma si abbandona al Padre e tace: la stessa forza che gli permette di parlare è quella che gli permette anche di tacere e di accettare. Nell’esperienza spirituale di sant’Ignazio, c’è un elemento di aiuto in più. Oltre la fiducia nella missione di Dio, che è l’unico rifugio quando siamo sommersi da critiche di ogni genere – e quindi nella disposizione di cercare di rivedere la situazione e di rifarla in quanto ci è possibile – sant’Ignazio ci indica un altro aspetto, che è possibile a noi grazie a ciò che Gesù ha fatto per

noi, cioè l’amore a Gesù che si è umiliato. Sant’Ignazio, come dice nel suo Diario58, in tante situazioni trovava l’intima gioia di avere una qualche lontana somiglianza con le umiliazioni di Gesù. Questo spiega in sant’Ignazio anche la sua capacità di ascoltare, di ricevere critiche, di difendersi, quando era necessario, e anche di contrastare vigorosamente; ma sempre con quella misura, che appunto ricorda quella di Gesù.

XII. LA PASSIONE DI GESÙ SECONDO SAN GIOVANNI Vogliamo dedicare questa giornata alle meditazioni sulla passione di Gesù. Personalmente trovo sempre grande difficoltà a esporre queste meditazioni, perché se c’è una meditazione da farsi in silenzio è proprio questa; cioè c’è sempre il pericolo, parlando di queste realtà, di banalizzare il mistero. Quindi, non sapendo come presentare le singole meditazioni, vorrei limitarmi piuttosto a dare, per una riflessione personale, qualche indicazione di lettura del testo di Giovanni. Lo scopo che sant’Ignazio propone per queste meditazioni è esposto nei preamboli, che variano leggermente a seconda della materia. Per esempio, nella prima meditazione della Cena si legge: “Domandare dolore, sentimento, commozione e confusione, perché il Signore va alla passione per i miei peccati” [193]. Nella meditazione seguente, la seconda della giornata: “Domandare ciò che desidero, ossia ciò che è proprio della passione: dolore con Cristo addolorato, schianto con Cristo schiantato; lacrime, pene interne, per tanta pena che Cristo ha sofferto per me” [203]. L’insistenza è soprattutto su due elementi: dolersi con Cristo; e ciò che il Cristo ha fatto per me. Possiamo riassumere questo desiderio dell’esercitante nella frase di Giovanni 12,26, in cui si fa previsione, si accenna alla passione: “Se qualcuno mi serve mi segua, e dove sono io anche il mio diacono, il mio servo, sarà”. Sotto queste parole Schürmann colloca tutte le meditazioni della passione, cioè: “essere dove lui è”, “essere con lui”, “[…] e dove lui è per me”59. E questa è anche la visione di sant’Ignazio. Indicazioni generali di lettura Come accennavo, intendo dare soltanto alcune indicazioni generali di

lettura, avendo presente ciò che sant’Ignazio propone alla fine della terza settimana, cioè di dedicare un giorno intero, dopo avere meditato alcune scene della passione, a tutta la passione congiuntamente, in uno o in diversi esercizi, come parrà meglio e come sarà di maggior frutto per colui che medita [209]. Vorrei perciò questa mattina dare uno sguardo introduttivo a queste meditazioni, che chiamo “intelligenza spirituale della passione” per entrare nella mentalità con cui Giovanni tratta questi temi. Proporrò nel pomeriggio il tema centrale di 18,26-19,16, che è la parte a cui Giovanni dedica più spazio, e forse anche brevemente la parte finale, cioè Gesù sulla croce. Per la sera, invece, nell’omelia della Messa, ho riservato ciò che di per sé dovrebbe andare all’inizio; ma siccome conosciamo bene il senso di questo passo, lo mediteremo nella celebrazione eucaristica, perché è tipicamente legato all’eucaristia, cioè la lavanda dei piedi. Quali indicazioni di lettura vorrei dare? Prima di tutto un aspetto generale del racconto giovanneo in quattro temi introduttivi; poi indicare quali sono, a mio avviso, le scene in cui si può dividere la passione, tenendo presente come i temi di Giovanni vengono sottolineati via via in maniera diversa. Quali sono gli aspetti generali che possiamo rilevare nella passione secondo Giovanni? Valgono anche per questa narrazione due leggi ordinarie dello stile giovanneo, cioè la “compenetrazione dei piani” e lo “stile ieratico”. Come già stiamo vedendo da giorni, Giovanni ci presenta una grande visione unitaria, contemplativa, in cui i diversi piani non solo di tempi, ma anche di realtà, sono compenetrati l’uno nell’altro. Cioè, come se allo sguardo mistico del veggente il piano della vita terrena di Cristo, della sua vita gloriosa, della vita della Chiesa presente (alla quale l’apostolo sta parlando) e della vita della Chiesa futura, fossero di fatto compenetrati e visti tutt’insieme. Visione che quindi comprende presente, passato e futuro, e perciò, nel caso nostro, comprende croce e gloria, la croce nella vita umile del cristiano e la sua glorificazione. Tutti questi aspetti sono visti insieme, quasi telescopicamente, nella visione giovannea. È quindi un racconto che va meditato facendo attenzione a questa compenetrazione di piani. È un racconto che va anche letto tenendo conto dello stile ieratico, maestoso, lento nel procedere, talora prolisso, soprattutto nella scena centrale (18,28-19,26), la scena di Pilato. Leggendolo, si ha un po’ l’impressione di una certa, direi, impietosità di Giovanni; cioè, i fatti, pur restando quali sono nella loro crudezza – ingiustizia della condanna di Gesù sofferente, schiaffo

inflittogli ingiustamente, la flagellazione, la crocifissione –, vengono tuttavia trasfigurati alla luce della realtà profonda che essi contengono. Si potrebbe quasi accusare Giovanni di mancare di sentimento, addirittura di indulgere ai giochi verbali nella descrizione della passione. L’ironia giovannea qui non manca, anzi aumenta, si acuisce con contrasti, ora drammatici ora goffi, di situazioni che non si intendono a vicenda. Dobbiamo dire, tuttavia, che gli stessi sinottici, se li consideriamo attentamente, ci appaiono talora un po’ impietosi nella raffigurazione della passione: cioè, se ci pensiamo bene, non hanno né una esclamazione né una interrogazione del cuore. Se si pensa alla drammaticità degli eventi, questi autori rappresentano le scene con un’oggettività sconcertante. Dobbiamo però pensare che il racconto, quando fu composto, era già stato lungamente assorbito e meditato amorosamente: cioè il dolore si è trasfigurato in contemplazione; gli autori ci presentano una riflessione già molto avanzata di questi misteri. Di questi aspetti dobbiamo tener conto, nel leggere la passione giovannea. Quali sono i temi che ci permettono di introdurci più direttamente nel racconto? Prima di tutto un’affermazione generale, cioè che la passione, essendo un dramma umano estremamente complesso e insieme un dramma divino, può essere vista sotto molti aspetti. Primo tema: le sofferenze umane Al primo livello si può vedere, soprattutto, uno scontro di passioni umane, un brutto caso giudiziario, che sporca le mani di tutti quelli che vi sono venuti a contatto, e quindi una tipizzazione delle cattiverie, delle ingiustizie umane: questo è un aspetto che esso presenta. I Vangeli ci danno qualche indicazione in questo senso, ma non ne fanno oggetto di una riflessione specifica, se non in casi che vedremo. Altri considerano piuttosto l’aspetto della sofferenza fisica di Gesù. È l’aspetto su cui talora più si insiste nelle prediche della passione, che è anche un aspetto giusto, perché Gesù è modello di pazienza e di sofferenza. La prima lettera di Pietro 2,21 e in tutto il contesto presenta appunto Gesù modello di sofferenza, per le nostre sofferenze. Un altro aspetto che il Nuovo Testamento considera è quello di Cristo modello del martire, cioè la passione come esemplare della testimonianza

nella sofferenza. È soprattutto Luca che vede in Gesù il martire divino. Paolo vi vede un altro aspetto e trascura tutti gli aspetti esteriori e va al nucleo del mistero, cioè la redenzione dal peccato: “Siamo stati lavati dal peccato nella morte di Cristo”, purificati e risuscitati nella sua risurrezione. E Giovanni, su quale aspetto sembra insistere? Mi pare che lo faccia nella linea della sua contemplazione del mistero di Cristo, ossia veda nella passione la rivelazione del “Dio per noi”, cioè il compimento dell’incarnazione: fino a che punto Dio si è dato a noi nel suo Figlio, fino a che punto il Padre ci ama nel Figlio. C’è quindi nella passione giovannea l’aspetto di gloria, esaltazione, l’ora del Padre (gli aspetti di cui dirò subito ora). Perciò si comprende che qui il racconto è più “contemplazione” che “compassione”: per questo motivo ho parlato poco fa di “intelligenza spirituale della passione”, appunto per indicare lo speciale modo con cui Giovanni si avvicina ai fatti. Secondo tema: la gloria Con quali concetti Giovanni approfondisce il suo tema? Sono alcuni concetti tipici giovannei, che vengono fuori specialmente in questo contesto della passione. C’è anzitutto il concetto della gloria, che appare fin dall’inizio del Vangelo: “Abbiamo visto la sua gloria” (1,14). Ora, secondo l’ampiezza della descrizione giovannea, la sua gloria si è rivelata principalmente nella sua passione: è il momento più alto in cui si manifesta la gloria. Una prima manifestazione della gloria la troviamo in 2,11, nel mistero di Cana, che già ci fa intuire in che linea questa gloria si manifesterà in seguito e cioè in un contesto di umiltà e di servizio, ma ben diverso per drammaticità. La manifestazione della gloria del Figlio riappare dopo Cana, nel preludio della passione, in 12,23-28. Possiamo leggere qualche parola di questo brano, che è essenziale per la comprensione, per l’intelligenza della passione secondo Giovanni. In 12,23, alcuni greci vogliono vedere Gesù. Gesù risponde: “È venuta l’ora, in cui il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato. In verità vi dico: se il grano di frumento che cade in terra non muore, rimane solo; se muore, porta frutto in abbondanza. Chi ama la sua vita la perde […] Chi mi vuol servire mi segua e sia là dove io sono”. Poi, al v. 28, riprende il tema della gloria: “‘Padre, glorifica il tuo nome’. Una Voce venne dal cielo: ‘L’ho glorificato e lo glorificherò ancora’”. Al v. 27, il mistero della gloria di

Gesù si manifesta in un contesto di turbamento: “La mia anima è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora?” Poi al v. 28: “Padre, glorifica il tuo nome”. Questa gloria sta appunto per manifestarsi nella passione. Abbiamo qui un accostamento di paradossi: perché la parola “gloria”, evidentemente, nella sua accezione ordinaria, significa onore, omaggi, favori, potere, successo, mentre invece la vicenda della gloria di Gesù, che si sta per raccontare, è infamia, insulti, percosse, schiacciamento da parte degli uomini. Un paradosso che suppone un’accettazione della paradossalità del mistero del Dio tra noi, che qui si rivela nei suoi momenti culminanti e più forti. Paradosso, che forse possiamo ancora chiarire considerando le due preghiere, quella di Gesù “Padre, glorifica il tuo nome”, e quella dell’inizio del Padre nostro “Sia santificato il tuo nome”. Queste invocazioni prendono tutto il loro senso da invocazioni analoghe dell’Antico Testamento: “Santifica il tuo nome, o Dio; glorificalo” voleva significare “Mostra, o Dio, che tu sei potente, che sei capace di salvare; mostra la tua strapotenza nella difficoltà, nelle sofferenze del tuo popolo”. E quindi “Glorifica il tuo Figlio” (17,1), oppure “l’ora in cui il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato” (12,23), nel senso ovvio anticotestamentario, potrebbe essere tradotto: “Mostra che il tuo Figlio è potente e capace di salvare”. Ora questa gloria di Dio, questa strapotenza del Figlio, si manifesta sulla croce. Perché? Giovanni ce lo fa intendere: “Perché Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (3,16). E quindi Dio mostra la sua gloria amando, e amando così: dando suo Figlio mediante la croce. Dio si rivela nella sua pienezza gloriosa di amore, attraverso questa donazione totale, che Gesù fa liberamente di sé per noi. Sono temi che è più facile accennare verbalmente, che non penetrare. Eppure Giovanni ci vuol portare a questo tipo di riflessioni sul carattere sconvolgente del mistero di Dio nella miseria delle situazioni, delle relazioni umane. Terzo tema: l’esaltazione Un altro aspetto o tema che Giovanni presenta, connesso col precedente, è quello dell’esaltazione: la croce come esaltazione. Cito tre passi fondamentali. Una prima precisazione: “Come Mosè ha esaltato il serpente nel deserto, bisogna che il Figlio dell’uomo sia elevato, perché chiunque crede abbia in

lui la vita eterna” (3,14). Notate che è lo stesso scopo per cui Giovanni ha scritto il suo Vangelo: “Perché si creda in lui e si abbia la vita” (20,31), scopo che è connesso con l’elevazione di Gesù, che qui evidentemente ha un carattere misterioso, enigmatico. Ma cos’è dunque questa elevazione? Il mistero viene ancora sottolineato particolarmente in 8,28: “Quando avrete elevato il Figlio dell’uomo: conoscerete che io sono, e che non faccio nulla da me”. L’elevazione è il momento in cui si conoscerà veramente chi è questo Figlio dell’uomo, il cui modo di essere ricorda verbalmente, e anche nell’oggettività, quello di Jahweh (“Io sono”). Nell’esaltazione che verrà Gesù si manifesta unito a Jahweh. Un altro chiarimento viene nello stesso contesto del cap. 12, che fa da preludio alla passione: “‘E io, quando sarò stato elevato da terra, trarrò a me tutti gli uomini’. Con queste parole indicava di quale morte doveva morire”. Quindi ormai si chiarisce l’enigma, che l’esaltazione è l’innalzamento sulla croce. E anche qui abbiamo un paradosso: perché il termine “elevazione” viene reso con “esaltazione”? “Esaltazione” è un termine regale, per esprimere che il re sale sul trono. L’esaltazione di Gesù sulla croce, dunque, è un’esaltazione regale nella quale, mentre il re esaltato sul trono domina imponendosi, Gesù domina attraendo. Si tratta, come vedete, di un gioco di concetti, che forse può spaventare per la sua drammaticità, ma in realtà ci permette di vedere come Giovanni ha lungamente contemplato il significato cosmico (riguardante tutta la storia) del mistero di Gesù crocifisso, che è centro di attrazione della storia, rivelazione del senso dell’esistenza umana e della stessa esistenza di Dio. Quarto tema: l’ora Quarto aspetto, anche questo strettamente connesso ai temi che abbiamo già indicato, è il tema dell’ora. Esso appare già in 2,4 nella scena di Cana: “Non è ancora venuta la mia ora”. Il tema dell’ora della gloria di Gesù è presente in tutto il Vangelo, possiamo dire fino alla fine “Viene l’ora…” (16,32); oppure prima: “L’ora è venuta, in cui il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato” (12,23) ecc. Che cosa rappresenta quest’ora in tutta la vita di Gesù? Il tema è molto ricco e complesso e sarebbe molto lungo da spiegare: ci sono molti aspetti esegeticamente non del tutto facili a chiarire. Io direi semplicemente così:

questa “ora”, che accompagna Gesù dall’inizio alla fine (desiderio dell’ora, l’ora che sta per venire, che si annuncia, che è venuta), è la volontà di dono della sua vita, che è presente in tutto l’arco dell’esistenza di Gesù. Fin dall’inizio Gesù è pronto a donarsi e tende verso il momento del dono, che è l’ora sua, e vi tende come “ora”, cioè come momento previsto dal Padre. Gesù in tutta la sua vita si rivela come Figlio del Padre, rivela se stesso come abbandonato al Padre, come coinvolto in questa tensione a dare totalmente la sua vita per noi secondo il disegno d’amore di Dio, che egli deve manifestare a noi. Quinto tema: il servizio L’ultimo tema connesso con la passione è il tema del “servizio”, che vedremo questa sera nella meditazione durante la liturgia eucaristica. Questi cinque aspetti ci possono aiutare per collocare i diversi piani secondo cui si muove il racconto: il piano oggettivo della storia, il piano della Chiesa, la presenza della croce nella storia, la croce nella nostra vita e nella nostra situazione, la croce come chiave dell’esistenza umana. In altre parole, concludendo questa parte introduttiva, potrei ricordare una frase, che m’ha sempre molto impressionato, che si riferisce abbia detto Giovanni Berchmans60 sul suo letto di morte, e mi pare riassuma molto bene tutto il Vangelo di Giovanni. La frase, che ho letto in noviziato, dice così: “Come risplende il mio Crocifisso” cioè: il “mio” Crocifisso partecipa della gloria del “Crocifisso”, la mia situazione è inserita nella sua. Questo mi pare che riassuma bene la grande intuizione giovannea della gloria nella croce vissuta nella nostra vita; san Giovanni Berchmans poteva vedere gloriosamente la sua vita dopo averla conformata all’umiltà del Signore crocifisso e preparandosi a conformarla nella morte imminente. Sette scene della passione Sono queste alcune indicazioni che ci possono forse introdurre a una lettura meditata della passione, che ciascuno potrà forse fare quest’oggi. La passione è abbastanza lunga – sono due capitoli – e spesso ci si perde perché vi sono molte cose. Ho scelto sette scene (non so se è un po’ troppo

schematico) che possono aiutare a concentrarsi su alcuni aspetti (si può prendere soltanto l’una o l’altra scena). Qui enuncio semplicemente i titoli, cercando di sottolineare di ciascuna l’aspetto che mi sembra che Giovanni ponga con più insistenza. La prima scena: l’arresto di Gesù (18,1-12). Giovanni non ha il tema dell’agonia dell’orto, perché in genere trascura i temi della sofferenza immediata, fermandosi molto più, in questo punto della passione, sul tema di Cristo rivelatore. Dell’arresto di Gesù noto soprattutto tre aspetti: – Un paradosso: colui che è cercato a morte, si offre spontaneamente; gli uomini lo cercano, pensando che sfugga, e lui va e si offre loro. – Gesù si rivela come colui che va alla passione nella coscienza della sua divinità: “Io sono”, “Egó eimi”. Questa parola “Io sono” oggi gli esegeti ritengono comunemente, dopo gli studi di Schweizer61, che contenga una chiara allusione alla natura di Jahweh, la cui definizione è “Io sono”. Giovanni ci presenta Gesù che va alla passione gloriosamente, nella piena coscienza del suo essere Dio, e sapendo che in questo “darsi a noi” si mostra il “Dio per noi”; rivela il Padre, rivela all’uomo la natura di Dio. – Gesù si preoccupa di salvare i suoi, di coprirli: è il pastore buono, che difende i suoi, non vuole che soffrano come egli soffre. La seconda scena (18,13-27). Abbiamo l’intersecarsi di due avvenimenti: “Gesù è condotto di fronte ai sommi sacerdoti” e “Pietro che lo rinnega”; poi Gesù viene di nuovo interrogato dal sommo sacerdote e di nuovo si parla di Pietro che lo rinnega. Un aspetto che qui mi colpisce è il coraggio di Gesù e la paura di Pietro. Gesù si mostra testimone coraggioso, tranquillo; Pietro si spaventa e lo rinnega. Gesù si appoggia al Padre – lo abbiamo già meditato ieri – e quindi è nella tranquillità di chi, forte dalla missione del Padre, lo rivela con il suo atteggiamento di coraggio, di calma e di dedizione; Pietro si appoggia a se stesso, e allora crolla nella propria fragilità. C’è ancora un aspetto doloroso, di natura più intima, che Giovanni vuol sottolineare; Gesù si appoggia ai suoi amici: “Domandate a loro, ho parlato apertamente, interrogate quelli che mi hanno ascoltato”. E i suoi si tirano indietro: “Non sappiamo chi sia”, un contrasto tra la fiducia che Gesù ha in loro e il loro poco meritare questa fiducia di Gesù. La terza scena: Gesù di fronte a Pilato (18,28-19,16). È la scena alla quale Giovanni consacra la parte più lunga di tutto il racconto della passione.

Questa scena la mediteremo quest’oggi, perché è una scena complessa, e cercherò di spiegarla secondo le linee delle ricerche di padre de la Potterie62, che vi vede sette sottoscene intermedie, nelle quali è tutta una dottrina sulla regalità del Signore. Ma il tema centrale mi sembra questo: colui che è giudicato regna, cioè giudica. Gli uomini stanno accanendosi per giudicare Gesù, e lui, in questo lasciarsi giudicare, si mostra di fatto il loro giudice e il loro re. La quarta scena: la crocifissione (19,17-22), dove Giovanni insiste sul titolo della croce, al quale sono dedicati molti versetti. Qui il tema pare sia Gesù innalzato come Re, l’esaltazione regale di Gesù. O se volete, nel contrasto: mentre gli uomini si agitano per ucciderlo, per schiacciarlo, con ciò stesso proclamano la sua regalità, che così si manifesta. La quinta scena (19,23-30). Si contempli poi la scena seguente, la quinta, quella del compimento, del momento della morte di Gesù, in cui si perfeziona la realtà della salvezza. Scena estremamente importante per la comprensione di queste realtà. Si compie la Scrittura: i soldati che si dividono le vesti è una delle poche citazioni bibliche di Giovanni, sulla quale insiste. Si compie la Scrittura: viene donata la Madre di Gesù ai suoi: con questo dono di Maria a Giovanni, con questa presenza così specificata, ha inizio la Chiesa; pochi amici di Gesù iniziano la Chiesa da lui salvata. Gesù può pronunciare la parola “Tutto è compiuto” e rimette (dona) lo Spirito. L’ultima cosa che Gesù fa è donare lo Spirito. Anche qui, c’è un’ambiguità; Gesù rimette lo spirito, nel senso che muore, ma la frase usata da Giovanni – gli esegeti sembrano concordi – vuol dire anche: Gesù dona lo Spirito, cioè con la sua morte apre le porte all’effusione dello Spirito. È la gloria di Dio che si manifesta, perché lo Spirito invade il mondo attraverso la morte del Signore. La sesta scena (19,31-37). Infine, dopo la morte, l’ultimo mistero. Anche qui due citazioni bibliche (che Giovanni dà soltanto nei momenti estremamente importanti), i temi dell’“acqua e sangue” e dell’“Agnello di Dio”: l’Agnello, il sacrificio pasquale si è compiuto; il nuovo Tempio, da cui sgorga l’acqua della vita, ormai è consacrato per l’umanità. La settima scena (19,38-42). L’ultima scena termina con un tema tipicamente giovanneo: il “coraggio degli amici”. A partire dalla morte di Gesù comincia a rivelarsi misteriosamente il coraggio nel cuore di coloro che gli sono amici e che ora cominciano a onorarlo, anche se non furono tanto coerenti durante la passione. È la gloria di Gesù nel cuore degli uomini, già

iniziata sotto la croce con i più intimi, che qui comincia a diffondersi presso altri discepoli, i quali prendono coraggio e si fanno avanti per portar via il suo corpo. “Cento libbre di mirra e di aloe” rappresentano una quantità sproporzionata, danno la misura dell’onore e del rimpianto che comincia a meritare Gesù, dopo aver accettato il suo destino doloroso. Possiamo riflettere su questi aspetti, contemplando in un colloquio finale il Crocifisso come Luce, Vita, Verità, Via, cioè come senso delle situazioni umane nel piano di Dio, come Vita nostra attraverso la sua morte, come verità del mistero di Dio tra noi, come Via da seguire.

XIII. GESÙ DAVANTI A PILATO E LA TRAFITTURA DEL CROCEFISSO Per aiutare la meditazione sulla passione di Gesù, vorrei esaminare insieme con voi l’episodio centrale della passione (18,28-19,16): è la scena di “Gesù davanti a Pilato”; e poi vorrei dare uno sguardo all’episodio che segue la morte di Gesù. Sono due momenti caratteristici del racconto secondo Giovanni. Di fatto, l’analisi della scena di Pilato richiede esegeticamente una certa fatica, che forse non è adatta a quest’ora della giornata. Però Giovanni ha scritto in maniera complessa, e noi dobbiamo cercare di capirlo così come ha scritto. Come punto di riferimento alle Costituzioni, ho indicato il n. 4 della parte VI (595-596), cioè la parte più difficile a praticarsi di tutte le Costituzioni, dove si parla della nostra glorificazione di Dio non soltanto durante la vita, ma anche nella malattia e nella morte63; e si parla del raffronto tra la nostra morte e la morte di Gesù. Quindi è un brano che può essere letto e analizzato con molta attenzione in questo contesto. Gesù davanti a Pilato Il brano di Gesù davanti a Pilato è un brano molto complesso e molto lungo, come ho già accennato, anzi chi legge non può sottrarsi all’idea che Giovanni – che scrive in stile ieratico – qui dica un po’ troppe cose. Si ha addirittura una certa impressione di prolissità: quasi 30 versetti per narrare alcuni fatti certo fondamentali (Gesù condannato a morte), ma che Marco

racconta in quasi metà spazio. I giudei vanno da Pilato per far condannare Gesù; Pilato interroga Gesù e non riesce a convincersi che egli sia colpevole; cerca di farlo liberare per acclamazione, ma a lui viene preferito Barabba; Pilato fa flagellare Gesù; i soldati lo irridono come un re da commedia; infine Gesù lascia il Pretorio e va al Calvario. Ecco i fatti narrati. Che cosa vuol dire Giovanni narrandoceli in maniera così ampia e diffusa? Gli esegeti, come spesso succede, non sono concordi. Alcuni hanno voluto vedervi un’insistenza di Giovanni a descrivere il dramma psicologico dell’indecisione umana: Pilato, che di fronte alla Verità non ascolta, non si convince, e alla fine viene travolto dagli eventi. Al centro del dramma sarebbe Pilato, cioè l’uomo: le tenebre di fronte alla luce. Altri, come Bultmann64 o Schlier65, preferiscono vedere in questo tipo di descrizione l’insistenza di Giovanni su un dramma di tipo teologico-politico, che avrebbe il suo centro in 19,11: “Tu non avresti su me alcun potere se non ti fosse dato dall’alto”. L’espressione “dall’alto” viene interpretata come se alludesse all’autorità romana. In questo caso il tema qui coinciderebbe con quello sviluppato poi nell’Apocalisse: l’opposizione tra Impero e Chiesa. In realtà tutte queste interpretazioni sembrano sovrapporre al testo alcuni interessi posteriori. Occorre piuttosto partire da una lettura oggettiva del testo per vedere quali siano veramente le insistenze di Giovanni, cioè il messaggio specifico giovanneo, nel descrivere questo momento così drammatico della vita di Gesù. Abbiamo detto che Giovanni, nel raccontare questi fatti, dà l’impressione di una certa prolissità. Già alcuni esegeti del secolo scorso, che pure non avevano ancora analizzato il brano a fondo, notavano una frequente e quasi oziosa ripetizione della menzione di Pilato, che entra ed esce più volte nel Pretorio: un andare e venire di Pilato che quasi ritma la narrazione. E qui indico del cap. 18 i vv. 29.33.38; poi (19,1 entra implicitamente nell’elenco) del cap. 19 i vv. 4.9.13; in tutti si parla di questi movimenti di Pilato. 18,29: Pilato esce dal pretorio incontro ai giudei; 18,33: rientra nel Pretorio e parla con Gesù (e qui abbiamo la domanda sul Regno e sulla Verità); 18,38: esce di nuovo a parlamentare coi giudei riguardo a Barabba; 19,1: Pilato fa flagellare Gesù (si suppone il rientro: è l’unico punto in cui non si fa menzione esplicita); 19,4: esce e presenta Gesù dicendo: “Ecco l’uomo”;

19,9: rientra per interrogare ancora Gesù; 19,13: infine esce e pronunzia la condanna di Gesù. Naturalmente c’è una ragione storica di questo movimento di Pilato: i giudei non potevano entrare in casa di un pagano senza contrarre un’impurità legale, che avrebbe impedito, in quella sera, la partecipazione ai riti sacri che stavano per iniziare; e quindi vogliono evitare ogni contaminazione e rimangono fuori del palazzo. Gesù invece, come accusato, non è sottoposto a questi scrupoli, è portato dentro nella sala delle udienze; ma l’udienza si tiene in parte dentro e in parte fuori. Pilato entra e esce per rispetto ai giudei che glielo hanno portato. A partire però da questa ragione di ordine storico, sembra ci sia stata un’elaborazione stilistico-teologica strutturale, un’intenzione specifica nel distinguere l’una dall’altra queste varie scene. Ci sono due ragioni almeno che sembrano indicarlo. La prima: questa maniera di narrare la scena in sezioni porta alcuni eventi della passione a stare un po’ nell’ombra o a essere menzionati solo di passaggio se non di sfuggita come per l’evento, pure gravissimo, della flagellazione. Ciò che domina invece è, da una parte, la figura di Gesù, solo e quasi silenzioso nella sala delle udienze, dall’altra il popolo che grida, e in mezzo Pilato. Questa la scena come viene presentata ai nostri occhi. Sette scene in forma di chiasmo Il secondo motivo per vedere le cose in questa maniera – la figura di Gesù, Pilato e il popolo – si potrebbe dedurre dal fatto che le menzioni dell’entrare e uscire di Pilato si succedono a intervalli regolari, come scandendo un ritmo, e lo abbiamo notato. Ora se seguiamo fino in fondo questi passi progredendo fino a quello dell’ultima uscita di Pilato, abbiamo “sette scene” distinte; cosicché l’intero episodio ha uno sviluppo ascendente, che culmina nella settima scena, quando Pilato dice: “Ecco il vostro re” (19,14). Dunque, tralasciando temi appunto gravi – come la flagellazione, che viene menzionata appena – tutta la sequenza conduce a una menzione della regalità di Gesù. Inoltre, se si dispongono le sette scene successive nell’ordine indicato da questa sorta di composizione, si vede che c’è una corrispondenza di tipo chiastico nel contenuto tra la prima e la settima, tra la seconda e la sesta, tra

la terza e la quinta, mentre la quarta rimane al centro. Voglio dire che non è posta in rilievo soltanto la scena finale, Gesù Re, ma anche la quarta scena, Gesù che viene coronato di spine, ha un suo valore particolare, quello di una farsa di coronazione regale. Il nostro testo ha così una struttura in parte ascendente e in parte anche concentrica, che al nostro gusto può forse sembrare eccessivamente barocca; il fatto è che troviamo qui una sorta di meditazione che fa propri gli eventi e li pone a confronto, e così giunge a un’espressione verbale che, nello stesso ritmo delle parole, li collega l’uno con l’altro, allo scopo di aiutare il ripensamento e la contemplazione. Abbiamo detto che le scene si corrispondono nelle parole introduttive, che sono le stesse per ogni coppia di scene (cioè la prima e la settima, la seconda e la sesta ecc.). Esse si corrispondono anche per il luogo: la prima e la settima si svolgono fuori, davanti alla gente; la seconda e la sesta nel palazzo; e la terza e la quinta di nuovo davanti al popolo. Si corrispondono poi anche nel contenuto: la prima e la settima sono scene di negazione di Gesù, nelle quali si richiede la sua morte; la seconda e la sesta sono scene in cui parla Gesù e il tema è quello del Regno e del potere regale; cosicché affiora sempre di più la domanda centrale che è la seguente: come Gesù è re? Qual è la vera regalità di Gesù? La terza e la quinta scena contengono due dichiarazioni di Pilato circa l’innocenza di Gesù. Quindi tutto il processo si svolge attorno a Gesù in una forma complessa, che però vuole stimolare l’approfondimento di ciò che sta dietro ai fatti della storia, di ciò che essi significano. È chiaro dunque che, mentre nella struttura scalare, ascendente, è la scena settima che viene messa in risalto (“Ecco il vostro re”), nella struttura concentrica, la scena che si vuol mettere in risalto è Gesù coronato di spine. Quindi, sono due i momenti della regalità che vengono sottoposti all’attenzione di colui che contempla queste scene. E allora cominciamo a capire che il tema che più sta a cuore a Giovanni è la regalità. La domanda tematica fondamentale si può esprimere così: qual è la vera regalità di Cristo, quella di quando fugge perché volevano farlo re o quella, invece, dei fatti e delle situazioni per le quali viene insistentemente proclamato re? O, in altre parole, dove il Cristo è veramente Messia? Dove si attua la pienezza del trionfo messianico? Dove si manifesta la gloria di Dio nel trionfo messianico del re? Evidentemente la risposta immediata che ci viene in mente è: nella risurrezione. Ma Giovanni – ricordo la frase di san Giovann Berchmans: “Come risplende il mio Crocifisso” – vuol farci andare oltre questa prima risposta, e mostrare che già nella passione il Cristo regna in modo vero, e per

conseguenza che il mistero pasquale è già in opera. La vera regalità di Cristo Gesù Vediamo ora con quale progressione, nelle diverse scene, è approfondito il tema della “vera regalità del Cristo”, che è il tema centrale di questa presentazione. Nella seconda scena è Gesù che si proclama re di fronte aPilato, ma di una regalità speciale, non ancora specificata; il tema è presentato come reale, ma insieme misterioso. Nella quarta scena, che è in posizione di centralità rispetto alle altre scene, Gesù viene coronato di spine, circondato di porpora e salutato come re. Una scena in cui lo storico legge vergogna, ignominia, derisione, mentre Giovanni vi legge, come trasfigurato, il significato trascendente: Gesù si manifesta re, e i soldati, che credono di avvilirlo, in realtà con questo avvilimento già compiono ed esaltano il disegno di salvezza. In questa realtà ignominiosa della regalità di Gesù è l’amore di Dio che si manifesta fra noi, è la gloria di Dio. Nella scena seguente, la quinta, Gesù è presentato con le insegne regali. Tuttavia Pilato non dice ancora: “Ecco il vostro re”, come dirà alla fine, ma dice “Ecco l’uomo”. Quale progressione denota questa dichiarazione di Pilato? Evidentemente, sul piano umano, in queste parole appare un senso di compassione verso Gesù: “Ecco questo povero uomo, quell’uomo di cui tanto si teme”. O forse, secondo altri, non essendo Pilato un uomo da usar compassione, si legge piuttosto un disprezzo verso i giudei: “Ecco quell’uomo che si vuole eliminare come pericoloso, come turbolento”. Comunque, mentre sul piano dei fatti siamo su questa linea, sul piano teologico, interpretativo, che è quello di Giovanni, che filtra sempre i fatti tramite la meditazione, è chiaro che queste parole hanno un senso più profondo. Infatti, Gesù non è chiamato “uomo”, nella prima maniera di quando è presentato a Pilato, che esce e dice: “Quale accusa avete contro quest’uomo?” (18,29), ma è chiamato in un senso pregnante “ho ánthropos”, “Ecco l’uomo”. E questa frase viene detta di quell’uomo lì presente, dell’uomo che porta la corona, la porpora, e che nello stesso brano è chiamato “colui che si fa Figlio di Dio”. Quindi probabilmente – stando sempre allo stile di Giovanni – c’è qui un’allusione al titolo “Figlio dell’uomo”: ecco l’uomo preannunziato, l’uomo che doveva venire, quello che col suo titolo di

“Figlio dell’uomo” evoca la potenza giudiziale e regale del Messia. In altre parole, Giovanni contempla, nell’umiliazione del Cristo, il segno della potenza misteriosa del Figlio dell’uomo presente sulla terra. Egli vede, in questa contemplazione, quella coincidentia oppositorum, coincidenza degli opposti, che è il segno delle opere divine. Dio aveva promesso questo misterioso “Figlio dell’uomo”, giudice e re; ora egli è qui ed esercita, dall’interno di questa situazione di ignominia, la sua potenza di giudizio sull’umanità. Finalmente, l’ultima scena, la settima, presentata con solennità particolare: è quella che comincia col v. 13. Giovanni vuole, prima di tutto, attirare l’attenzione sul luogo dove ciò avviene, all’esterno, il litostroto, in ebraico gabbata, probabilmente un luogo elevato, allora conosciuto, e tale da attrarre l’attenzione e la mente di chi legge (non sembra si tratti del litostroto che oggi si venera a Gerusalemme). In secondo luogo, per Giovanni, è bene precisare l’ora: siamo verso l’ora sesta, l’ora della preparazione della Pasqua – notano gli esegeti, e anche la Bibbia ecumenica – l’ora in cui si immola l’agnello pasquale. Qui Giovanni ci vuol dire: proprio in questo momento si sta compiendo il grande mistero, si realizza la verità dei segni che avvengono nel Tempio. Tutto questo fa pensare che siamo davvero di fronte a una situazione di grande importanza che, storicamente, è la condanna a morte di Gesù, quindi un atto ignominioso della storia, un atto di viltà e di ingiustizia: Pilato siede in tribunale (almeno secondo una prima lettura, ovvia, del brano), presenta Cristo come re da scherno, e poi lo lascia, lo abbandona, per essere crocifisso. Questo almeno a una lettura ovvia. Però rileggendo il brano attentamente, si notano almeno due particolari: la condanna in realtà non c’è, non viene pronunciata una condanna specifica; c’è una frase che ha fatto molto pensare gli esegeti e che ad alcuni di essi (riporto l’analisi che ne fa il padre de la Potterie, ma parecchi sono concordi con lui)66 sembra volutamente ambigua, cioè l’espressione al v. 13: ekáthisen epì bématos, tradotta nella Volgata: sedit pro tribunali, e nella versione ecumenica: “su una tribuna”. Mentre comunemente si pensava che la frase significasse che Pilato si siede al modo del tribunale, invece, dalla vicinanza del nome di Gesù e la possibile interpretazione di un valore attivo del verbo ekáthisen, sembra che Pilato “fa sedere” Gesù, lo “installa su una tribuna”. Difatti la Bibbia ecumenica traduce: “Portò Gesù all’esterno e lo installò su una tribuna”. L’impressione che si ha da questa scena, dunque, come Giovanni ce la presenta – forse

giocando anche un po’ sulle parole, ma per farne risaltare il senso – è che colui che sembra essere giudicato, in realtà è colui che in questo momento sta giudicando l’umanità. Ossia, quell’episodio che sul piano storico si conclude con una condanna di Gesù, sul piano interpretativo – nella presenza del potere giudiziale e regale, che a Cristo compete come a Figlio dell’uomo e che Giovanni contempla – fa risplendere la gloria del Cristo, nell’umiliazione della sua morte. Forse siamo qui, diciamo, al limite dell’analisi esegetica, a quel limite in cui si passa dall’esegesi al virtuosismo esegetico. Ma a parecchi esegeti sembra di essere nella vera interpretazione giovannea. Giovanni ha un tale sguardo paradossale – perché ha conosciuto il mistero di Dio, che è paradossale rispetto a ogni azione umana – che è portato a leggere, anche nelle più obbrobriose circostanze della morte di Gesù, il segno del compimento in questa situazione della sua missione messianica; cioè Gesù manifesta l’amore del Padre in modo così inaudito da diventare, in forza di questo amore, Re e Messia, e quindi fonte di salvezza per l’umanità, sia che questa lo accetti o che lo respinga. Abbiamo qui l’intronizzazione messianica di Gesù, che avviene nel momento in cui compie la sua missione fondamentale di manifestare agli uomini, con la sua donazione fino in fondo, l’amore del Padre. Giovanni, presentando nel suo Vangelo lo scontro drammatico tra luce e tenebre e conducendoci al momento culminante in cui le tenebre sembrano trionfare – l’ora più nera dell’umanità e in cui l’umanità stessa tenta di schiacciarlo – spiega che in realtà il Cristo regna realmente e trionfa. La scena di fronte a Pilato è un segno in cui lo storico legge la morte; il credente invece vi legge l’adempimento della vera missione di Gesù, il suo trionfo. Questa serie di paradossi ci può far riflettere su quella vicenda paradossale che è quella cristiana e anche la nostra stessa vita: Dio regna per noi in situazioni apparentemente paradossali, in particolare nella situazione più paradossale di tutte, che è la morte. In questa circostanza, nello spirito indicato da sant’Ignazio, noi siamo chiamati a manifestare la gloria di Dio, non attraverso parole, che non riescono a esprimerla, ma attraverso questa stessa realtà dell’evento che ci associa al momento in cui il Cristo dona se stesso per noi. Riflettendo poi sul significato più vasto che può avere la regalità di Gesù – su cui insiste tutto l’episodio e che dal v. 33 alla fine ritorna in varie forme di domanda-risposta: “Tu sei re”, “Tu lo dici” ecc. –, possiamo portare la

nostra attenzione alla dottrina sinottica del Regno di Dio: che cosa significa “il Regno di Dio”, “il Regno del Padre”? Significa che Dio è al centro di ogni realtà, che tutta la realtà è perfettamente ordinata sotto il dominio divino. È questo il “Regno di Dio”, che Gesù è venuto a instaurare. Questo dominio, secondo la dottrina esposta in Giovanni, viene dato a Gesù, e viene dato precisamente nel momento in cui egli compie il supremo servizio di carità e di verità; cioè quando dà la sua testimonianza perfetta per la verità e la testimonianza perfetta del suo dono. Si compie allora anche la parola di Gesù che riguarda l’“attrazione”. Gesù non regna dominando, cioè estendendo la sua influenza da persona a persona attraverso un potere dall’alto, ma regna attraendo. Facendo risplendere in sé l’amore di Dio per l’umanità derelitta, Gesù è capace di attrarre a sé chiunque sa leggere questo segno, cioè chiunque, attraverso la mediazione della croce, sa leggere nella propria povertà e “derelizione” – situazione in tutto simile a quella del Figlio – la certezza di essere amato da Dio. Queste riflessioni possiamo coltivare fra noi nell’adorazione della croce, o nella Via Crucis, che conviene fare in questa giornata, ricordando quella che si fa ogni settimana a Gerusalemme e forse molti di voi hanno fatto, seguendo l’itinerario più o meno probabile di Gesù. Il colpo di lancia Come ultima riflessione, propongo di meditare, anche se brevemente, il brano finale del racconto di Giovanni, cioè 19,31-38. Anche qui abbiamo delle tipiche insistenze giovannee, quando ci ricorda che è il giorno della preparazione della Pasqua. Siamo già al termine della passione. Tutto è terminato, Gesù è morto; di per sé non ci sarebbe più nulla da raccontare. Eppure Giovanni, dopo che tutto ormai è compiuto, vuole ancora dirci qualcosa che faccia meglio comprendere il senso della morte di Gesù. Il tema di questo brano, che leggiamo nella festa del Sacro Cuore e che possiamo anche meditare nello stesso spirito (da esso è nata anche la comprensione del Cuore di Gesù), è questo: che cosa significa la morte di Gesù? Gesù è morto, nella sua morte si è compiuta la Scrittura, si è compiuta la sua opera. Ma che cosa significa la sua morte? Giovanni legge – anche qui secondo il suo modo, che a noi può apparire un po’ strano – in un semplice particolare anatomico il significato

trascendente di ciò che è avvenuto. Il fatto storico di per sé è molto semplice e abbastanza plausibile. È vicino il giorno del sabato, e quindi bisogna che i condannati non siano in croce, e che si spezzino loro le gambe secondo i costumi dell’epoca. Questo costume è stato documentato drammaticamente in una scoperta fatta tre o quattro anni fa67, in una tomba vicino a Gerusalemme, dalle ossa di un crocifisso: è la prima volta, nella storia dell’archeologia, che si scoprono le ossa di un uomo crocifisso, in particolare l’osso della gamba, dal quale si è potuto anche ricostruire, attraverso studi, la posizione di questo crocifisso, che è più o meno del tempo di Gesù e probabilmente faceva parte di quelli che in gran numero – scrive Giuseppe Flavio – furono crocifissi intorno a Gerusalemme poco prima del 70 d.C. I risultati di questi studi sono veramente impressionanti, perché si può quasi leggere, nelle ossa di questo condannato, tutta la struttura del supplizio crudele della croce. Di questo condannato si vede il foro del chiodo e anche lo spezzare dell’osso a conclusione della condanna. Perciò il fatto che Giovanni riporta è un fatto, diciamo, di cronaca. A Gesù però non vengono spezzate le gambe, ma gli viene dato solo il colpo di grazia, per assicurarsi che è morto; si tratta di un colpo di lancia nel costato. Ciò che segue è difficile da interpretare dal punto di vista medico, ma sembra almeno plausibile: oltre che sangue, esce qualcosa come acqua. A ogni modo Giovanni non vuole insistere sul perché di questo fatto, se sia miracoloso o no ma, prendendolo come episodio di cronaca, ne cerca il significato nelle Scritture. E allora si domanda che cosa significano i particolari avvenuti dopo la morte di Gesù. “Non gli è stato spezzato alcun osso” (cfr. Es 12,46) e Giovanni pensa all’agnello pasquale, e quindi ci fa contemplare nella croce di Gesù il vero sacrificio di Israele, nel quale si compie perfettamente tutta l’attesa del Tempio: quel Tempio da distruggere e ricostruire che è Gesù stesso, nel quale si compie il vero sacrificio dell’agnello. Più misteriosa è l’altra profezia: “Guarderanno a colui che hanno trafitto” (cfr. Zac 12,10). Storicamente essa si applica ai soldati, a coloro che hanno guardato, e forse anche al discepolo che, da testimone, ha guardato con una certa curiosità questo ultimo flusso di vita del Crocifisso. Ma lo sguardo di Giovanni, attraverso le parole della profezia, si sposta a tutta l’umanità che guarderà al Crocifisso, come a manifestazione piena del Dio che è per noi, di Gesù Cristo che è per noi fino in fondo, e quindi come a pegno supremo dell’amore. È in questo significato che la devozione al Sacro Cuore ha voluto

concentrare, e proprio in questo momento specifico della vita di Gesù, tutto ciò che egli ha voluto fare fino in fondo, cioè amare i suoi fino alla fine. Anche il mistero del sangue e dell’acqua, benché non venga commentato da Giovanni con testi biblici, è però espressamente sottolineato: “chi ha visto ne rende testimonianza […] perché anche voi crediate”. E ha certamente un significato. Quale? Gli esegeti ne propongono vari. Giovanni è così ricco nelle sue indicazioni che non ha una sola cosa in mente, ne ha due o tre forse contemporaneamente, e tutte validamente applicabili. Per Giovanni l’acqua è la vita; è il dono dello Spirito; ed è anche, nell’interpretazione battesimale dal cap. 3 in avanti, il sacramento del battesimo. Il sangue versato nella morte è il sangue di cui Gesù ha detto: “Chi beve il mio sangue avrà la vita in sé” (6,54). Per tutto ciò, in questa scena che Giovanni presenta, nasce un primo significato: è dalla morte di Gesù che nasce la vita sacramentale col battesimo e l’Eucaristia. La Chiesa riconosce di ricevere questi doni dal Signore crocifisso. Probabilmente la scena ha anche un altro significato a cui ci orienta la profezia di Ezechiele (Ez 47,1-12). Come, secondo la promessa, dal nuovo Tempio sarebbero sgorgati fiumi di acqua viva – e Gesù riprende proprio questa parola, nel cap. 7 – così ora, da questo nuovo Tempio, distrutto e prossimo a essere riedificato, sgorga la nuova acqua dello Spirito e della Vita. Abbiamo in Gesù il Sacrificio perfetto, il perfetto Tempio; la vita della Chiesa che, come poi commentano i Padri, ampliandone il significato con la relazione a Adamo, scaturisce dal fianco di Gesù morto. Forse Giovanni non ha pensato questo (è difficile stabilire se voglia intenderlo direttamente), ma ha espresso chiaramente il fatto che la vita sacramentale sgorga da Gesù e che da questa vita sacramentale del Signore nasce la Chiesa. Possiamo concludere la meditazione chiedendo a Gesù che ci aiuti a leggere come questo colpo di lancia – che umanamente sembrerebbe voler dire: neppure in morte Gesù viene risparmiato, cioè un destino implacabile, maligno, fa che si accaniscano contro di lui non solo in vita, ma anche in morte – mostra la potenza di chi lo ha mandato sulla terra, e la stessa potenza di Gesù che, accettando fino in fondo la sua missione, attraverso questa ultima umiliazione che gli viene inflitta, dà la vita all’umanità. Sono misteri così paradossali e difficili, che soltanto la nostra meditazione e adorazione può, in qualche modo, afferrare degnamente ciò che queste indicazioni giovannee stimolano in noi, come ripensamento del significato cosmico, per tutta la storia, dell’unico sacrificio di Gesù sulla croce.

OMELIA. LA LAVANDA DEI PIEDI (GV 13,1-17) Dono di sé fino alla fine Stiamo meditando in questi giorni come la gloria dell’operare di Dio si rivela nel dono che Gesù fa di sé “fino alla fine”: è questa l’opera gloriosa di Dio sulla terra, ciò che lo rivela pienamente e che rivela noi a noi stessi, il nostro vero essere di uomini. Questi pensieri sono quelli che ricorrono nella pericope introduttiva alla passione che abbiamo ascoltato ora come proclamazione del Vangelo. È un brano di grande importanza nella mente di Giovanni perché, come abbiamo accennato, sostituisce il racconto dell’istituzione eucaristica, che egli conosce bene, di cui parla in altre parti del Vangelo con molta insistenza, ma di cui qui vuol dare il senso, o almeno alcuni dei significati di quel gesto misterioso di Gesù, che anche oggi ci prepariamo a ripetere. Importante, poi, questo brano anche perché è l’inizio della seconda parte del Vangelo. Il Vangelo di Giovanni si può appunto dividere in due parti: la prima (capp. 1-12) la “manifestazione di Gesù ai giudei”, che può riassumersi nelle parole “Venne nella sua casa e i suoi non lo ricevettero” (1,11); in questo senso, le ultime parole del cap. 12 sono un commento all’incredulità di chi non ha capito i segni. La seconda parte (dal cap. 13 alla fine) si potrebbe chiamare la “manifestazione di Gesù agli amici”, cioè – rifacendoci al prologo – “a quelli che lo ricevettero” e ai quali “diede il potere di diventare figli di Dio” (1,12). A partire da questo brano, l’evangelista fa uso di un tono nuovo: il parlare di Gesù coi suoi si fa fiducioso e intimo. Gesù comincia qui a manifestarsi senza veli e senza più quelle polemiche aspre che hanno dato un tono piuttosto oscuro, e talora anche tenebroso, alle prime parti del Vangelo: sono stati momenti di grande eccitazione, di insulti, di opposizione a Gesù. Da qui in avanti tutto scorre come un grande dialogo tra amici, interrotto soltanto da alcuni malintesi, che Gesù amabilmente corregge. La lavanda dei piedi Questo della “lavanda” è un brano difficile, come tutti i brani di Giovanni, per l’intersecarsi di motivi molto vari, che talora sembrano dovuti a diversi ripensamenti dell’episodio. Ci sono versetti o momenti in cui non si

sa bene come spiegare il brano o il perché della narrazione. È già difficile dire per esempio come mai, in 13,4, Gesù compie il gesto della lavanda dei piedi “dopo” l’inizio della cena, apparentemente durante il pasto stesso, mentre invece ordinariamente essa si fa prima dell’inizio del pasto. E questo desta difficoltà o almeno un certo stupore. Schürmann propone anche qui una spiegazione: una lavanda dei piedi, che prima del pranzo ha il suo significato, ed è anche usuale, nel momento del pranzo o durante il pranzo disturba68. Come nella serie degli avvenimenti umani, la croce sta là come qualcosa che crea scandalo e crea disagio, così questo servizio da schiavo di Cristo nel mezzo di un pasto è qualcosa che sconvolge le idee e tende a cambiare la visione che i discepoli possono avere riguardo a Gesù. Non so se questa interpretazione coglie veramente il senso del testo, oppure se va troppo in là. Comunque rimane il fatto che questo, come altri punti, non è di immediata evidenza. Per esempio, al v. 10, che cosa vuol dire: “Chi è lavato non ha bisogno se non di lavare i piedi, ma è tutto mondo”? Perché si trova in questo contesto? Questo v. 10 ha almeno sette varianti, tanto è tormentato nella storia dei manoscritti. Una delle varianti più semplici, quella del codice Sinaitico, dice: “Chi è lavato non ha bisogno di lavarsi”, omettendo la menzione dei piedi, e allora il senso del passo rimane forse più chiaro nella linea dell’interpretazione che daremo. Dico questo per mostrare che, come spesso avviene, non è facile cogliere tutte le indicazioni che dà Giovanni; spesso il suo linguaggio suscita improvvisamente dei temi, che non si sa perché sorgono proprio a qual punto determinato. A ogni modo, il senso fondamentale del brano appare chiaro nel v. 14: “Se io, che sono Signore e maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi l’un l’altro”. Ma che cosa significa questo “lavarsi i piedi a vicenda”? L’antica comunità l’ha preso in senso proprio, e così è rimasto nella liturgia del Giovedì Santo; una delle qualifiche che si chiedevano per le vedove ammesse ai servizi della Chiesa era: Si sanctorum pedes lavavit, cioè se ha esercitato con assiduità questo servizio. In un primo senso traslato noi pensiamo che significa quel servizio che riassume in sé tutti i servizi piuttosto vili e disagiati che occorre renderci a vicenda. Questo sembra il senso più ovvio del testo.

Io sono Colui che serve Tuttavia c’è qualcosa che non ci permette di fermarci qui; e per due motivi. Primo perché Gesù ha compiuto questo gesto una volta sola come un gesto straordinario che ha destato meraviglia e stupore. Non fu un gesto usuale: Gesù non è colui che rende continuamente servizi umili agli apostoli; anzi piuttosto, come rabbì, dava ordini. Mandava Pietro e Giovanni a cercargli l’asino e a portarglielo. Li mandava a preparare la Pasqua, e lo stesso gruppo apostolico aveva al seguito altre persone. Di ciò parla Luca al cap. 8, a proposito delle donne che li servivano. Gesù non poteva legare tutta la nostra esistenza a una cosa che egli ha compiuto, con valore tipico, una volta sola. Quindi non si può limitare il senso del brano ai servizi umili e disagiati che ci rendiamo l’un l’altro a imitazione di Gesù. La sua frase: “Vi ho dato l’esempio” non può alludere all’esempio di una volta sola. Questo servizio di Gesù è un enigma per farci capire che cosa egli realmente compie verso di noi. C’è poi un secondo motivo che ci fa andare al di là della prima, ovvia, interpretazione. Avrete notato che il brano ha un’introduzione nei primi due o tre versetti che riassumono i temi fondamentali di Giovanni: Gesù, che viene dal Padre, porta l’amore del Padre tra noi, quindi ritorna al Padre; egli è in pieno possesso della sua missione, del potere che il Padre gli ha dato, e con questo pieno potere ci ama “fino alla fine”. Ora è chiaro che con questo gesto, anche se umilissimo, un gesto da schiavi, non possiamo limitarci a dire che Gesù, compiendo questo determinato servizio, ci ama fino alla fine. E allora dobbiamo convenire che questo gesto di Gesù è un “segno profetico”, un gesto enigmatico, che dà la chiave di tutta la sua vita e della sua prossima morte. Ciò manifesta il suo “assumere la forma di servo”, come dirà san Paolo nella lettera ai Filippesi (Fil 2,5-11), che probabilmente è un canto della primitiva liturgia. Questo gesto manifesta che Gesù, essendo Figlio di Dio e avendogli il Padre dato tutto in mano, assume tra noi uomini la forma di servo, mettendosi a totale disposizione degli uomini, dandosi totalmente nelle loro mani, fino in fondo, senza tirarsi indietro, neppure di fronte alle ultime conseguenze di ciò che gli uomini fanno di lui. C’è in questo enigma il senso della sua incarnazione – vita, passione, morte, risurrezione – e quindi anche il senso dell’eucaristia: Gesù si mette a nostra totale disposizione, nelle nostre mani, anche come nostro nutrimento, per essere il Dio tra noi, con noi e per noi.

Questo gesto di Gesù è dunque un gesto rivelatore, che ci dice non soltanto ciò che Gesù ha fatto, ma ciò che Dio è. E qui ci troviamo davanti al mistero paradossale: Gesù manifesta Dio “come” a servizio dell’uomo (la parola sembra paradossale e blasfema ma, di fatto, ha una sua traduzione nella realtà). È anche ciò che, del resto, ci farà contemplare sant’Ignazio nel terzo punto della contemplazione d’amore: Dio come “Colui che lavora” per noi69. Qui, ancora di più, Dio si manifesta Dio nel porre se stesso a servizio nostro. E se Dio è questo, se cioè si manifesta ponendosi a servizio nostro, e se il Lógos, che è la ragione ultima delle cose, il senso ultimo dell’esistenza, si manifesta come chi è a totale disposizione nostra, allora ci viene anche rivelato il senso ultimo della nostra esistenza, che è la nostra totale disponibilità agli altri. In questa manifestazione che Gesù fa di Dio è contenuta anche l’immaginazione esemplare di cosa sia la nostra umanità in quanto creata nel Verbo: “Tutto fu fatto con lui e nulla fu fatto senza di lui” (1,3); e manifestandoci Dio, Gesù ci dà quella che Bultmann chiama la “autocomprensione di noi”. In altre parole, attraverso la rivelazione del Verbo, che si mette a servizio dell’umanità dando la sua vita, ci viene manifestato ciò che siamo noi stessi, creati da Dio e amati da Dio, in modo che sappiamo riconoscerci come destinati a realizzarci – a essere noi stessi – nella disponibilità totale verso gli altri. Questo il senso della Parola di Gesù: “Vi ho dato l’esempio”, non affinché vi rendiate questo determinato servizio che io ho reso a voi, ma affinché, come ho fatto io con tutta la mia vita – che manifesta Dio – così facciate anche voi; sia questo tutto il “fare” della vostra esistenza. C’è ancora da notare in questa scena la presenza di due figure, che stanno a dimostrare come questa rivelazione di Dio e autocomprensione dell’uomo siano difficili da accettare. Anzitutto la figura di Giuda, che è presente all’inizio, a metà e alla fine di questo brano: all’inizio, dove si dice che “già il demonio gli ha messo il tradimento nel cuore” (13,2); a metà, dove si dice “non siete mondi tutti” (13,10); alla fine, subito dopo il versetto finale di questo brano, dove Gesù dice: “ma questo non lo dico per tutti” (13,18). La figura di Giuda, colui che si chiude totalmente alla rivelazione dell’amore di Dio e del senso della vita umana, è appunto un’ombra che incombe, come l’incredulità che sempre accompagna l’appello di Gesù alla fede. C’è anche un’altra ombra, ed è quella di Pietro. Pietro fa opposizione, superata da Gesù, che ha un significato profondo e ci fa capire il senso di questa azione

enigmatica che Gesù sta compiendo. Che cosa causa l’opposizione di Pietro? A livello immediato, storico, potremmo forse dire che Pietro fraintende questo atto come un atto di umiliazione anche un po’ fuori posto, e allora non può accettarlo e si irrita. Però dietro l’insistenza di Giovanni sul rifiuto di Pietro e sulla parola gravissima di Gesù: “Se non ti laverò non avrai parte con me” – che induce Pietro ad accettare fino in fondo – traspare certamente un altro significato, che intende esprimere tutta la resistenza dell’apostolo – apparsa già in Marco al cap. 8, subito dopo la confessione di fede – ad accettare la via della croce. Se questo gesto enigmatico vuole manifestare la disponibilità di Gesù alla morte prossima, Pietro è colui che dice: “No, via da te, Signore!” È questa una tentazione così grave, che Gesù la respinge ricorrendo al titolo di “Satana”, nel cap. 8 di Marco (Mc 8,33); così la respinge anche qui dicendo: “Chi non accetta per me la via della croce (quindi anche per sé; Pietro la rifiuta non solo per Gesù, ma anche per sé, perché capisce che il destino di Gesù lo coinvolge) non avrà parte con me” (13,8). C’è forse ancora un terzo livello di comprensione, che è difficile a esprimere, ma che vorrei almeno tentare di presentare per quanto riesco a intuirlo: Pietro rappresenta la nostra difficoltà ad accettare di dovere qualcosa a qualcuno. È difficile ricevere doni con animo libero e spontaneo; molto più difficile è accettare di dovere qualcosa a qualcuno, perché questo ci mette in una certa situazione di dipendenza che ci fa paura. Questa è talora la causa dell’opposizione tra genitori e figli, anche se buoni entrambi: non hanno niente da rimproverarsi di grave, ma c’è un senso di dipendenza e di debito degli uni rispetto agli altri e viceversa, che è difficile da accettare; dover dire grazie a qualcuno per qualcosa è un peso, e preferiamo sempre dire grazie a noi stessi piuttosto che agli altri. Pietro intuisce – nella presentazione che ce ne fa Giovanni – che in quell’essere lavato da Cristo si rivela che deve tutto a Cristo, deve alla sua morte la propria salvezza. Bisogna che Pietro si lasci penetrare talmente dall’amore del Padre nel Figlio, da essere in tutto dipendente da Dio (pròs tòn theón) – come il Figlio dal Padre –, da dover vivere totalmente in questa dipendenza di amore e riconoscenza, alla quale il cuore umano non è pronto ad aprirsi, proprio perché noi tutti desideriamo piuttosto salvarci da noi. È difficile accettare l’amore di Dio, è difficile accettare Gesù, che ci vuol servire, come è difficile far accettare agli altri un nostro servizio, se prima non riconosciamo che noi stessi lo abbiamo ricevuto da Dio.

Abbiamo qui, dunque, alcuni tra i temi più significativi del Vangelo giovanneo: l’uomo salvato dall’amore del Padre in Gesù, che uscendo da se stesso, dai propri ritegni interiori più profondi, deve riconoscere con gioia che è questo amore che lo fa essere, e che lo definisce come “dono per gli altri”; accettandolo, non può seguirne se non un atteggiamento di disponibilità reciproca. Per questo Gesù conclude: “Beati voi se, capendo queste cose, le fate” (13,17). Il Vangelo non insiste più in questo punto sul capire, vedere, conoscere, credere – come nella prima parte – ma sul “fare”. È da un mistero contemplativo che nasce tutta l’azione cristiana: essa ha la sua origine nella disponibilità radicale di Gesù al servizio nostro, da cui nasce la disponibilità radicale di noi per gli altri; in quanto siamo amati da Dio, diventiamo capaci di metterci verso gli altri in atteggiamento ilare, semplice e disponibile al servizio. Questi misteri li contempliamo nella celebrazione eucaristica. Chiediamo al Signore di saperlo ricevere senza rimpianti per noi stessi, come dono totale; e di lasciarci trasformare in maniera che questa eucaristia sia l’inizio di un “fare”, che esprima al mondo la gioia di avere ricevuto la salvezza dal nome di Gesù.

XIV. ALLA RICERCA DEI SEGNI (GV 20) Ciò che colpisce nel Chronicon Societatis Jesu del Polanco70 è un senso di effervescenza, di letizia, di entusiasmo che muoveva quei primi compagni; ed è quel senso di letizia e di entusiasmo che troviamo anche oggi in tutti i gruppi di impegno, anche di impegno religioso, nati da poco, giovani. Qualcosa che ci attrae profondamente ed è forse un fenomeno proprio degli inizi. Ritroviamo le stesse caratteristiche e respiriamo la stessa atmosfera leggendo gli Atti degli Apostoli: in ciò è anche qualcosa di evangelico. Non si tratta soltanto dell’entusiasmo di chi comincia e ha un po’ di illusioni su ciò che sarà l’avvenire; ma, oltre questo, che potrà poi scomparire, di un qualcosa radicato in modo specifico nel Vangelo e nell’esperienza delle primitive comunità cristiane. Quindi possiamo pregare anche che non soltanto la vita dei singoli gesuiti, come lo è già, di fatto, in molti casi, sia serena e fiduciosa, ma che lo sia pure la vita comunitaria.

Quattro racconti di risurrezione Come meditazione propongo questa mattina la lettura di Gv 20, e quest’oggi del cap. 21. Giovanni ha due capitoli sulla risurrezione, cioè il doppio degli altri sinottici, così come per la passione. Egli considera la risurrezione come un momento importante della rivelazione del Dio tra noi. E ha, come è noto, una doppia serie di racconti, tra loro distinti, con una conclusione tra le due serie. Così come ha anche una doppia serie di discorsi di rivelazione dopo la Cena: capp. 13 e 14, una conclusione; e poi di nuovo altri tre capp. 15, 16, 17, che riprendono i temi precedenti. Difficile spiegare il perché: forse si tratta di redazioni successive dei capitoli dopo la Cena. Si pensa anche a probabili aggiunte della comunità giovannea, di ricordi tramandati oralmente, cioè un secondo strato di ricordi riguardanti la presenza del Risorto nella comunità, che tuttavia presentano le stesse caratteristiche, mentalità e sensibilità del Vangelo di Giovanni. Il cap. 20 comprende quattro episodi, che intitolerei così: “Alla ricerca dei segni del Risorto”, “Maria Maddalena”, “Gesù tra i suoi”, “Gesù e Tommaso”, più la conclusione del Vangelo. Ciò che propongo di fare, dopo la richiesta contenuta nel Preludio71, è una lettura meditata del testo, perciò non proporrò se non qualche indicazione di lettura. Un’esegesi accurata di questi capitoli ci prenderebbe molto tempo (ma ormai siete già esercitati a farla), perché ritroveremmo, specialmente nel discorso di rivelazione, moltissimi temi del Vangelo, verificati in atteggiamenti, in modi di fare di Gesù. Ne accenneremo qualcuno, ma moltissimi altri risalteranno a una lettura attenta, meditata del testo. Sono veramente racconti di risurrezione questi che leggiamo nel cap. 20? Certamente è evidente, dalla struttura del Vangelo, che si tratta del Signore che si mostra dopo la morte. D’altra parte hanno una notevole diversità rispetto ai racconti di risurrezione dei sinottici, in quanto non si parla quasi mai di risurrezione (c’è una sola menzione, indiretta, della risurrezione al v. 19: “Gesù venne…”). Mentre i sinottici tendono a presentare “il Risorto”, sembra che in questi capitoli Gesù sia piuttosto colui che, compiuta la missione o, meglio, compiendola, ascende al Padre. Giovanni ha una sua intuizione, un suo modo di vedere la risurrezione del Cristo. Se il messaggio fondamentale dei sinottici è: il Cristo è veramente risorto, la cosa viene intuita in Giovanni attraverso gli incontri. Il suo messaggio formale è: il Cristo ascende (20,17-18). Gesù ci appare non solo come colui che ha vinto

la morte ed è anche presente (per esempio nelle piaghe che fa vedere agli apostoli), ma soprattutto come il Figlio che compie la sua ascesa al Padre e che comunica lo Spirito; lo Spirito che, di per sé nella tradizione primitiva degli Atti, per esempio, è il dono del Signore asceso. L’ottica con cui Giovanni ha meditato la presenza di Gesù tra i suoi dopo la morte è proprio questa del ritorno al Padre nell’ascensione. Per Giovanni il Cristo è stato glorificato e innalzato fin dall’inizio della sua passione, come abbiamo visto ieri; tutto il mistero pasquale, a partire dalla passione, è un ritorno al Padre che comprende croce, risurrezione e ascensione. Che cosa sono dunque i quattro racconti visti in questa ottica giovannea? Sono la presa di coscienza dei discepoli del fatto che la croce non è stata una fine, ma l’inizio del ritorno al Padre, cioè della pienezza della gloria. E siccome dietro ai discepoli, in questa visione giovannea, sta la comunità – e anche noi siamo compresi in questo messaggio –, Giovanni vuol mostrare al vivo i diversi atteggiamenti presenti in una comunità, che il Signore aiuta a superare lo scandalo della croce: vuole cioè mostrare come una comunità rattristata, chiusa in se stessa dallo scandalo della croce (che può essere qualunque situazione chiusa e oscura, di cui non si vede il senso), impara a riconoscere i segni della presenza del Signore glorificato e potente, anche nella sua situazione di povertà. Questo era vero per i discepoli, perché, malgrado gli avvertimenti di Gesù, la fine del Signore era stata per loro quella di un uomo finito: li aveva sconvolti, anche se è difficile dire fino a qual punto; non avevano affatto visto nel Signore crocifisso la manifestazione della gloria del Padre e dell’amore di Dio, ma piuttosto la fine delle loro speranze. Ora questi racconti mostrano come Gesù insegna a riprendere contatto con la vera realtà, cioè quella di Dio presente tra noi con la sua forza, anche nelle situazioni apparentemente più oscure. I segni del Risorto Il primo episodio ha come personaggi la Maddalena e poi Pietro e Giovanni. L’ho chiamato: “Alla ricerca dei segni del Risorto”. Ma è un titolo che vale non solo per questo primo episodio, giacché imposta tutto il capitolo. Che cosa ci dice questo episodio? Maria viene con sollecitudine al sepolcro, mentre è ancora buio; vede la pietra ribaltata, non crede; anzi cerca

subito una spiegazione naturale; non riesce a vedere il significato di ciò che sta succedendo; perciò corre ad avvisare Pietro e Giovanni. Pietro e Giovanni corrono anch’essi. Abbiamo qui, credo, l’ansia della Chiesa che cerca i segni del Risorto, soprattutto quando è in situazione di disagio e non riesce più a vederlo. Giovanni vede i lini, ma non entra nel sepolcro, per rispetto a Pietro. Entrano insieme: vedono nelle cose che appaiono davanti a loro un ordine che li colpisce. Giovanni, intuitivo, capisce subito: sono i segni del Signore; e conclude immediatamente che non hanno rubato il Signore “e vede e crede”. Ecco la ricerca dei segni presentata nel suo sviluppo, diciamo, del primo livello: a livello della primitiva comunità. Dopo aver letto il brano e riflettendo su queste vicende possiamo domandarci che cosa ciò significa per la Chiesa, per la comunità ecclesiale in ricerca dei segni del Risorto. Nella Chiesa, in comune ricerca dei segni, abbiamo diversi temperamenti, diverse mentalità: c’è l’affetto di Maria, l’intuizione di Giovanni, la lentezza solida di Pietro; diversi tipi, diverse famiglie di spiriti che cercano nella Chiesa i segni della presenza del Signore. Ma tutti, se sono veramente nella Chiesa, hanno in comune quest’ansia della presenza di Gesù tra noi. Esistono quindi nella Chiesa diversi doni spirituali, da cui hanno origine diverse tendenze, alcune più veloci, altre più lente, ma tutte si aiutano a vicenda, l’una rispetta l’altra, per cercare insieme i segni della presenza di Dio, e comunicarseli, nonostante la diversità delle reazioni di fronte al mistero. In questo episodio abbiamo un esempio di una collaborazione nella diversità: ciascuno comunica all’altro quel poco che ha visto, e insieme ricostruiscono l’orientamento dell’esistenza cristiana, là dove i segni della presenza del Signore, di fronte a gravi difficoltà o situazioni sconvolgenti, sembrano essere scomparsi. E facendo un’applicazione dalla vita della Chiesa, che in trasparenza è presente in questo brano, alla nostra vita personale, credo che potremmo ricordare alcune delle regole del discernimento degli spiriti di sant’Ignazio, che sembrano derivate direttamente dalla lettura di questi capitoli: soprattutto le regole sulla consolazione e quelle sul modo di comportarsi nella desolazione72. Soprattutto la regola che dice: nella desolazione non bisogna rimanere inerti; cioè quando manca la presenza di segni visibili del Signore, non rimanere inerti, ma scuotersi, muoversi, correre, cercare comunicazione da altri, con la certezza che Dio è presente e ci parla. Se la Chiesa primitiva, se Maddalena non avesse agito con questa comunicazione di ciò che sapeva e non ci si fosse

aiutati l’un l’altro, il sepolcro sarebbe rimasto vuoto, nessuno vi sarebbe andato; sarebbe rimasta inutile la risurrezione di Gesù. Soltanto questa ricerca comune, questo aiuto degli uni agli altri, porta finalmente a ritrovarsi insieme riuniti nel riconoscimento dei segni del Signore. C’è un altro aspetto, tra i moltissimi motivi di questo brano, che vorrei sottolineare, ai vv. 8 e 9: “Allora entrò anche l’altro discepolo, che era venuto per primo al sepolcro, e vide e credette. Non comprendevano ancora la Scrittura, che egli cioè doveva risorgere dai morti”. Abbiamo qui un’indicazione dell’importanza della Scrittura nella comprensione dei segni della presenza di Dio nel mondo. Il testo, mi pare, ci vuol dire che se il discepolo avesse veramente capito la Scrittura, sarebbe bastato pochissimo, forse già il primo accenno di Maddalena, per intuire la presenza del Signore; avrebbe avuto già un quadro dell’opera di Dio, del modo con cui Dio si manifesta nella storia, e da pochi cenni avrebbe intuito questa presenza. Mancandogli questo quadro, ha avuto bisogno di essere portato più da vicino, fino a vedere e toccare. Il che vale per tutte le comunità cristiane: “Avete la Scrittura”, cioè abbiamo in mano un mezzo potente per essere sensibilizzati alla presenza di Dio in tutte le situazioni oscure della storia. E quando non sappiamo più riconoscere la presenza di Dio nelle situazioni della nostra vita, la Scrittura dovrebbe aiutarci a “rifare” questo discernimento dei segni, a vedere come in tante piccole cose, che ci erano sfuggite, la presenza del Risorto si stava manifestando. Giovanni vuole sottolineare il valore della lettura assidua e della comprensione della Scrittura per illuminare la vita della Chiesa della gloria del Risorto. Maria Maddalena Il secondo episodio, vv. 11-18, ci fa contemplare Maria Maddalena che gradualmente riconosce Gesù. Maria Maddalena appare come la più accanita nella ricerca dei segni e, attraverso i segni, della presenza stessa del Signore. Anche se è la meno illuminata, tuttavia è la più intensa d’affetto. È la prima persona a cui il Signore va incontro, secondo il racconto di Giovanni. Cioè, il Signore, tra l’affettività di Maddalena, l’intuitività del discepolo e la lentezza solida di Pietro, mostra di preferire il primo di questi tre aspetti: è quello per il quale per primo si manifesta.

Leggendo il brano, vi si vede ripetuto e moltiplicato l’atteggiamento di Gesù, che già abbiamo notato con Nicodemo, con la samaritana, col paralitico, col cieco, cioè la sua amabilità, quell’avvicinarsi da amico, quel fare domande sulla situazione presente. “Che cosa cercate?”, diceva ai discepoli e alla Maddalena: “Perché piangi?”; Gesù domanda, parte dalla situazione della persona, per far luce su ciò che la persona deve capire da se stessa; e poi si manifesta. Perché Giovanni ci presenta questo riconoscimento graduale nella Maddalena, che non riconosce subito Gesù, ma lo riconosce soltanto dopo? Si possono dare spiegazioni psicologiche, ma l’insegnamento che Giovanni ci vuol dare è analogo a quello che Luca dà nei discepoli di Emmaus, cioè Gesù è risorto: e quindi anche nella Chiesa Gesù si manifesta alla fede, vuole come prima cosa suscitare la fede; e così gradualmente, pazientemente, avvicinandosi al cuore, apre l’animo alla fiducia, da cui poi nasce la possibilità di conoscerlo. Possiamo riflettere sulla nostra situazione di ricercatori di segni della presenza di Dio nella nostra vita. E esaminando noi stessi, sullo specchio di questo racconto dell’apparizione di Gesù a Maddalena, potremmo dire che anche noi dobbiamo essere certi, per la fede, di avere vicino il Signore; e che basta aprire gli occhi per riconoscerlo nella situazione presente; cioè, secondo ciò che abbiamo meditato sulle dimensioni dell’incarnazione, per vedere come proprio in una situazione che forse ci fa piangere il Signore ha prolungato e ha esteso la sua incarnazione, nell’esserci vicino. Spesso noi diciamo: se le cose fossero diverse, se avessi più intelligenza, se avessi più tempo per pregare, se avessi un altro carattere, se avessi un’altra situazione di comunità. Ora qual è il messaggio fondamentale di Giovanni? Là dove sei, il Signore ti è presente e tu puoi attivamente renderlo presente con la tua fede e la tua carità. C’è un brano di un pastore protestante, che mi pare riassuma molto bene questo pensiero: il Signore è tra noi, vicino, anche quando non sappiamo che sia lui e ci arrabbiamo chiedendogli, come Maddalena, “Dove l’hai messo?”, mentre lui stesso è il Signore tra noi, in ogni situazione, anche se in molti modi. Forse l’insegnamento principale che possiamo ricavare da questo racconto evangelico è proprio quello di sapere, per così dire, coniugare la presenza del Verbo incarnato secondo i diversi modi e tempi che Giovanni ci spiega; perché possiamo trovarlo vicino a noi, e quindi godere l’immensa gioia di chi vede una situazione, apparentemente oscura,

improvvisamente trasformata dall’interno in una situazione di presenza del Signore crocifisso per noi e risorto. Possiamo ancora meditare, leggendo questo brano, un altro aspetto che mi pare importante: il messaggio che Gesù dà a Maddalena: “Ascendo al Padre mio e Padre vostro”. E qui abbiamo una sintesi completa del Vangelo di Giovanni. “Ascendo”, cioè “la mia missione si compie; sono stato tra voi, rimango tra voi nelle presenze che ho portato con la mia vita, e ritorno al Padre per prepararvi un posto, e quindi per darvi il senso di ciò che vi attende”. L’“ascendo” di Gesù è un invito anche a noi a pensare a ciò che ci aspetta. Perché, anche se in certi periodi della Chiesa si pensa di più alla vita eterna, in altri forse vi si pensa meno; ma la realtà rimane identica, la morte rimane sempre uguale per tutti; il momento dell’attesa finale di Gesù rimane sempre determinante, sia che esso venga in primo piano, sia che venga talora relegato piuttosto in uno strato inferiore della coscienza. Questa presenza del Signore che ci attende e col quale dovremo essere sempre, con lui e con tutta la realtà da lui salvata, rimane un punto fondamentale, essenziale, di riferimento, di orientamento della nostra vita, senza il quale la nostra vita non avrebbe la sua struttura, non avrebbe il suo senso vero. L’“ascendo” di Gesù è un richiamo a quel “posto” che ci ha preparato e nel quale ci attende, insieme con l’umanità da lui salvata, anche attraverso la nostra opera. Ancora un aspetto c’è da meditare in questo verbo “ascendo”, cioè, sto cambiando il modo della mia presenza nel mondo: abituatevi alla mia presenza nello Spirito; quindi non cercatemi più qui o là; ma cercatemi in tutte le situazioni in cui, nello Spirito e con lo Spirito, io mi manifesto a voi. “Ascendo al Padre mio e Padre vostro”. Qui abbiamo una meravigliosa sintesi di tutta l’opera di Gesù: il Padre suo, colui che lo ha mandato, per il quale Gesù vive, in cui Gesù mette ogni sua sicurezza, il fondamento della sua missione, e quindi del suo coraggio in mezzo alle critiche, è ora il Padre “nostro”. E perciò noi che abbiamo scelto di rimanere in Gesù, di identificarci in lui, possiamo ora avere verso il Padre suo lo stesso rapporto di abbandono e di fiducia, lo stesso senso rassicurante di missione nel mondo che Gesù ha avuto. Anche noi partecipiamo, con la sua morte e risurrezione, del suo essere “dal” Padre e “per” il Padre; e in questa partecipazione troviamo la rivelazione di ciò che noi stessi siamo divenuti con la fede e il battesimo, cioè rimaniamo in lui e siamo nel Padre come lui lo è.

Gesù tra i suoi Il terzo episodio, vv. 19-23, è quello della manifestazione di Gesù agli apostoli: Gesù tra i suoi. Anche qui abbiamo una sintesi di moltissimi temi: il tema della pace, della missione del Padre, ora trasferita ai discepoli che sono in Cristo; il tema dello Spirito, del peccato perdonato; tutti temi che abbiamo già meditato ampiamente in Giovanni, per cui è sufficiente leggere il testo per risentire la ricchezza di questo messaggio giovanneo. Leggiamolo però, non tanto come narrazione storica di ciò che Gesù ha fatto tra i suoi, quanto come un racconto che volutamente presenta i modi con cui Gesù spiritualmente viene ed è nella Chiesa, quindi come parte del messaggio ispirato. Abbiamo detto che Giovanni non insiste come i sinottici sul fatto che Gesù “è veramente risorto”. Il verbo che Giovanni usa per la presenza di Gesù è: “Gesù viene”, “Gesù è venuto tra i suoi”, proprio per indicare che Gesù viene nella Chiesa, lungo la sua storia, continuamente, là dove si riproducono situazioni di accoglienza. E la prima situazione di accoglienza è che i discepoli sono riuniti tra loro, anche se in preda alla paura, e quindi in una situazione oscura e sbagliata, ma sono riuniti certamente in preghiera, in mutuo aiuto, nella consolazione reciproca: è là che Gesù viene e manifesta la sua presenza. In che modo la manifesta? La manifesta con i doni della sua presenza spirituale: pace e gioia. Sant’Ignazio ha colto, nelle regole del discernimento degli spiriti, proprio questi segni della presenza del Signore risorto tra i suoi: lo spirito buono dà pace, gioia, consolazione, quiete, rende facili le cose difficili, rimuove gli impedimenti ecc. La regola del discernimento che descrive la consolazione [315] può essere meditata in filigrana sullo sfondo di questo racconto. Gesù è presente con pace, gioia, missione: un’unica missione, del Padre verso il mondo, che è quella di Cristo, e ora diventa di tutti coloro che sono in lui. In lui la nostra missione trova quindi la sua fiducia, ha la sua conferma, attinge il suo coraggio: non siamo noi a intestardirci nel volere certe cose, nel voler inculcare agli uomini certe idee; è una missione che noi riceviamo, identificandoci col Signore, partecipando al suo desiderio di aiutare amabilmente gli altri. Una missione che si attua nello Spirito. Gesù enephúsesen, soffia su di loro. Un gesto simbolico, che probabilmente richiama il gesto creatore di Dio su Adamo, cioè mediante lo Spirito Gesù ci rende nuove creature; la sua missione ci dà un nuovo modo di essere. Lo Spirito ci fa essere diversi e nuovi, e in questa nostra diversità ci permette di

portare, per noi, fra noi e per gli altri, il messaggio che il peccato, cioè il peso dell’uomo, può perdere la sua forza oppressiva e svanire dalla realtà, se si accetta di entrare nel Signore, se si accetta il suo perdono. E qui possiamo riflettere, leggendo questo episodio, sul modo di ritrovare tutte queste cose tra noi: pace, gioia, intuizione spirituale, preghiera comune, perdono nella Chiesa, altrettanti segni della presenza di Gesù. I suoi inviati, gli apostoli, i loro successori, lo Spirito, il dono per eccellenza che ci unisce a Gesù, sono segni della sua presenza. E tutte queste cose formano la Chiesa, cioè la realtà in cui viviamo come credenti e nella quale dobbiamo saper riconoscere questa presenza del Signore. Gesù e Tommaso E infine, accenno soltanto brevemente all’ultimo episodio: Gesù e Tommaso. Abbiamo in esso, da una parte, la chiusura dell’uomo al mistero; non è facile vedere i segni della presenza di Dio nel mondo: alcuni li vedono prima, e sono i tipi affettivi, forse; poi ci arrivano gli intuitivi, i solidi; ma ci sono anche gli scettici, che arrivano ultimi, ma anch’essi possono arrivare; nessuno è escluso, purché abbia una serietà e una buona volontà di fondo. A tutti Gesù amabilmente si rivela, ciascuno secondo il suo modo. Dall’altra parte abbiamo la bontà di Gesù che cerca il modo adatto a Tommaso, che è diverso da quello di Maddalena, di Giovanni e di Pietro. Per tutti c’è possibilità di aprirsi alla presenza del Signore. Questo deve confortare anche noi nel nostro apostolato, in quanto non tutti i mezzi sono adatti per tutti; ma per tutti c’è, dobbiamo convincerci che c’è, un modo e un tempo, che il Signore conosce, e che a noi tocca forse cercare con lacrime e ripetuti tentativi. Ma è certo che il Signore a tutti vuole rivelarsi, anche a quelli che sembrano più refrattari e che maggiormente lo respingono. È una fiducia particolare quella che dobbiamo ricavare da questo messaggio evangelico, perché non sempre possiamo appoggiarla direttamente su esperienze, che talora ci dicono il contrario. Tommaso rivede Gesù, quando si riunisce ai “suoi”, agli altri apostoli; quando accetta umilmente di stare con gli altri, anche se non li capisce a fondo. Evidente che il testo vuol mettere in risalto questo particolare. Il racconto termina con una beatitudine, una delle due sole beatitudini di Giovanni, la beatitudine della fede, che è questa, e la beatitudine che abbiamo

meditato ieri sera: “Beati voi se, sapendo queste cose, le farete”. La beatitudine del fare, del compiere il servizio realmente. Credere e fare. Beati noi se, aprendo gli occhi sui segni della presenza di Dio nella nostra vita, così com’è, e non come l’avremmo sognata e la vorremmo, crediamo alla potenza della risurrezione di Gesù presente tra noi. Uomini di fede oggi Per terminare, vorrei leggere un’indicazione tratta da un commento a Giovanni, che forse non ha grande valore sotto certi aspetti, ma è un’indicazione molto ricca, di un pastore protestante, piuttosto estremista, forse, direi, non tanto ecumenico, ma molto acuto, anche molto simpatico, che conosce bene il valore dei testi. Parlando di Giovanni in generale, del modo con cui manda il messaggio alle Chiese, fa un’osservazione che mi pare si adatti molto bene proprio al capitolo che abbiamo letto. In una Chiesa, che per svariati motivi sta attraversando un periodo critico della sua storia, e poteva indulgere alla nostalgia verso il passato o all’impazienza verso il futuro, il messaggio del quarto Vangelo costituisce un energico e autorevole richiamo a vivere nel presente, a restare fedeli all’oggi, perché la pienezza di grazia e verità apparsa in Gesù Cristo è oggi disponibile come e più di ieri, e perché la perfezione dei beni futuri è donata alla fede oggi come lo sarà domani. Guardando al tempo dell’incarnazione, al passato, la Chiesa deve sapere che la rivelazione di Cristo è certamente conclusa. In Cristo è certamente conclusa, ma non è passata. A una Chiesa sfiduciata e certamente messa alla prova, Giovanni annuncia con particolare insistenza l’attualità della rivelazione e della salvezza avvenuta in Cristo. Guardando al tempo della fine poi, la Chiesa deve avvertire nella sua vita di fede la presenza del futuro e la realtà dei beni ultimi, posseduti ora dai credenti. A una Chiesa ansiosa e forse insoddisfatta, Giovanni ricorda che il futuro non riserva nulla di veramente nuovo rispetto alla novità già apparsa in Gesù di Nazareth e continuamente attualizzata dallo Spirito Santo, e che i doni di Dio non saranno maggiori domani di quanto lo siano oggi.

Cioè, dobbiamo cercare adesso, nei segni reali, la potenza di Dio, la quale si manifesta con la stessa forza con cui si è manifestata in Gesù, e non dobbiamo aspettare un futuro nel quale questa forza sarà maggiore, perché già adesso lo Spirito è dato senza misura. Possiamo concludere con una preghiera che ricavo da una delle più antiche (1524) lettere di sant’Ignazio a Inés Pasqual73, in cui scrive così: Piaccia a nostra Signora, che intercede tra noi peccatori e il suo Figlio e Signore, di ottenerci la grazia che “i nostri spiriti fiacchi e tristi, con nostro lavoro, e fatica (quindi lavorando e faticando anche noi), siano convertiti in spiriti forti e gioiosi per la sua gloria.

XV. LA CHIESA DEI PRESBITERI (GV 21) Voglio dare quest’oggi per la meditazione alcune indicazioni del cap. 21 di Giovanni che comprende tre episodi: l’apparizione di Gesù; la sua presenza tra i sette discepoli, presso il lago, al termine della nottata di pesca, col colloquio tra Gesù e Pietro; infine il colloquio tra Gesù e Pietro col confronto tra Pietro e Giovanni. Come riferimento agli Esercizi, indico le regole per sentire con la Chiesa [352-370], poiché dalla struttura appare che è certamente un capitolo ecclesiale. Per questo ho intitolato la meditazione: la Chiesa dei presbiteri, in quanto probabilmente è opera degli stessi presbiteri, che hanno raccolto dopo la morte di Giovanni alcune sue indicazioni e racconti, che si riferivano principalmente alla situazione delle Chiese; e anche perché riflette problemi della vita della Chiesa, come cioè, nella vita della Chiesa, la presenza del Verbo incarnato continua a manifestarsi in alcuni modi specifici di questa presenza. È chiaro che Pietro è al centro del capitolo. Ci sono tre momenti ecclesiali che lo inquadrano: i sette con Pietro, Pietro e Giovanni, e il colloquio di Pietro con Gesù. La figura di Pietro era già apparsa nel capitolo precedente, quando Maria Maddalena porta a lui il messaggio; ed egli per primo corre con Giovanni al sepolcro, e anche se arriva dopo, Giovanni per riverenza lo attende. Già qui ci sono indicazioni di ciò che la comunità vedeva in questi personaggi apostolici e come vedeva strutturata la propria vita. Ecco i tre episodi, sui quali darò qualche indicazione di lettura e di meditazione personale. Il Signore è vicino nella prova Il primo è la manifestazione di Gesù al termine della pesca. Il senso di questa manifestazione è già stato meditato nell’episodio di Maria Maddalena, al quale un po’ assomiglia, anche se ciò che là era personale, una persona, qui diventa comunitario: il Signore è vicino nella prova alla comunità unita. Si potrebbe dire un messaggio a una comunità in disimpegno, in cui lo scoraggiamento suggerirebbe a ciascuno di farsi i fatti propri, di assicurarsi personalmente e di lasciare l’impegno comune. Qui invece abbiamo l’esempio di una collaborazione, in cui compaiono in parte gli amici di Gesù

dell’inizio, quelli che fin dai primi giorni ha chiamato e coi quali si è iniziata tutta la grande parabola della storia del Verbo incarnato tra noi; cioè Pietro, Natanaele, i due figli di Zebedeo, uno dei quali fu chiamato all’inizio; e inoltre Tommaso e altri due non nominati. C’è un ordine: il primo è Simone, come già nel racconto di Maddalena; quindi un’indicazione dell’importanza di Pietro per la vita della comunità. E c’è anche la comunità in collaborazione: tutti insieme cercano di fare qualcosa, di superare la difficoltà. L’insegnamento di questa prima parte dell’episodio sembra il seguente: anche se la notte è lunga, se è faticosa, se il lavoro sembra pesante e senza frutto, ciascuno deve fare qualcosa nella sua situazione; anche quando il tempo triste suggerirebbe a ciascuno di andarsene a casa. In questa perseveranza comune, in una fatica voluta insieme da queste persone, che rappresentano i primi chiamati da Gesù, la presenza del Signore, che sembrava mancare, può tornare, e a un certo momento ritorna. Difatti al mattino il Signore si mostra. Il Verbo celeste fa intendere che stava là, che già c’era, forse c’era fin dalla notte, ma non si poteva vederlo; lo si vede al mattino. Lo si vede e si manifesta con tre segni, tre modi di agire, che possiamo meditare leggendo attentamente questo brano, ricchissimo, come tutti gli altri, di significati simbolici e di parole appositamente scelte per farci riflettere sul messaggio giovanneo. Cosa fa Gesù? Tre cose. Premia la costanza di chi ha perseverato insieme, nel gruppo, di chi è rimasto legato al suo posto malgrado le difficoltà: questa costanza viene premiata con la presenza di Gesù. Premia anche la costanza di chi segue con fiducia le sue indicazioni. Anche se sembrano, in un primo momento, indicazioni di un estraneo e non vengono ben capite, di fatto, un senso profondo di fiducia muove istintivamente gli apostoli verso la voce di Gesù e la fa cogliere giustamente. Gli apostoli vengono ricompensati con questa pesca ricca, che si contrappone alla lunga fatica, alla notte di ricerca. Alla fine Gesù si manifesta ai suoi con la sua consueta benignità e amicizia, come colui che sempre viene incontro signorilmente e amabilmente, chiede e offre qualcosa, per far sì che ci sia una vera fusione di cuori. L’insegnamento del brano riguarda quindi una comunità, così come quello di Maria Maddalena riguardava una persona, ma fondamentalmente cade sullo stesso punto: il Signore c’è, il Signore è vicino, bisogna aprire gli occhi, percepire le sue indicazioni provvidenziali, per sapere che non è cambiato, che agisce sempre come amico, con benignità e con regalità, così come all’inizio a Cana, come agiva con le persone che

incontrava durante la sua vita pubblica. Il colloquio tra Gesù e Pietro Questo brano ne prepara un secondo, cioè il colloquio tra Gesù e Pietro. Facciamo prima una breve analisi del testo e poi vedremo qual è il messaggio di Giovanni così come ci è presentato in un’ottica aperta al futuro della Chiesa. Abbiamo una triplice domanda di Gesù a cui segue un triplice incarico. Le tre domande vertono sull’amore di Pietro per Gesù e sono in ordine inverso a quello che ci potremmo aspettare. Ci aspetteremmo questa progressione: “Mi ami, mi ami molto? Mi ami più di tutti?” Invece l’ordine è inverso: “Mi vuoi bene più di tutti?” Poi semplicemente: “Mi ami? Mi ami?” “agapás me pléon toúton?”, “agapás me?”, “philéis me?” Non è solo una progressione inversa nel comparativo, ma anche una progressione dei verbi, che vengono tradotti allo stesso modo, ma in realtà sarebbero da tradurre così: Gli dice: “Simone di Giovanni, mi ami più di tutti?” […] Gli dice di nuovo: “Simone di Giovanni, mi ami?” […] Per la terza volta: “Simone di Giovanni, mi sei amico?” È una progressione che sembra concentrare sempre più l’attenzione sulla persona di Gesù. In altre parole, l’incarico pastorale, che Gesù dà, si fonda su un rapporto di fiduciosa, di filiale intimità col Signore, prima che su qualunque altra dote umana, anche quella delle stesse capacità di governo e ogni altra capacità di presidenza che si possa immaginare. La prima caratteristica di questo servizio: un’intimità che non si mostra con azioni o parole giudicabili dagli uomini, ma che deve essere conosciuta da Gesù, che legge nei cuori: “Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo”. La triplice domanda ha una triplice risposta, cui segue una triplice presa di posizione di Gesù, che è un conferimento di incarico. Anche qui c’è un’alternanza di parole, che è difficile rendere nella traduzione. Si dovrebbe dire, nelle risposte di Gesù: “Pasci”, “Sii pastore”, “Pasci”. I due verbi in greco sono diversi. È difficile vedere se è soltanto una semplice varietà, oppure c’è una voluta indicazione di aspetti diversi. In ogni caso, c’è certamente un richiamo, nel verbo poímaine, al poimen, al pastore, di cui si parla nel cap. 10. Giovanni ci invita a ritornare col pensiero al brano (che non abbiamo meditato in questi esercizi) di Gesù pastore. E queste caratteristiche vengono ora riferite a Pietro.

Cosa si diceva di Gesù pastore? Era colui che cammina innanzi al gregge, che le sue pecore riconoscono al timbro della voce, che vuole che le sue pecore trovino pascolo, che offre la vita per esse (aspetto che verrà anche sottolineato in seguito), che le conosce a fondo ecc. Dal che si deduce il tipo di ufficio che Gesù assegna, cioè la guida spirituale di coloro che hanno abbracciato la fede. Si potrebbe domandare se quest’ufficio è diverso dall’incarico missionario: “Vi farò pescatori di uomini”. Sembra di sì. Cioè è specifico in rapporto al gruppo dei credenti, riproduce l’attività che Gesù ha avuto per i suoi, per i Dodici, come pastore: li ha guidati, li ha condotti, ha scelto i pascoli. Anzi implica una missione anche più larga, perché Gesù parla nel cap. 10 di “pecore che non sono di questo ovile”, un incarico che probabilmente comprende la cura pastorale per ogni uomo che è attratto dal Padre verso il Cristo, che è disposto ad ascoltare la sua voce. Ma certo è un tipico tema interecclesiale, cioè di continuare l’opera di Gesù nella Chiesa; e questa opera è oggetto di speciale incarico. Appare ancora dall’analisi del testo una particolarità che forse è pura varietà filologica, o forse vuol indicare l’ampiezza del compito; cioè la diversità dei termini usati nei vv. 15, 16 e 17, per indicare l’oggetto dell’attività del pastore: si parla di agnelli, si parla di pecore. C’è differenza? Difficile dirlo. Agnelli, pecorelle, espressi con nomi greci. Ma siccome i codici hanno una grande confusione, cioè scambiano i nomi l’uno con l’altro, è molto difficile trarne un’indicazione per una costruzione letteraria precisa. Probabilmente c’è un motivo di varietà, e anche, come per i verbi che indicano “pascere”, si vuol mostrare la vastità di questo compito riguardo ai diversi modi di aver cura, all’inizio, dei principianti, e in seguito di quelli che seguono, che vengono dopo. Comunque, le ricerche dei commentatori per trovare un senso a queste particolarità non hanno avuto un esito preciso, sicuro. Poi, nei vv. 18-19, strettamente legata con l’incarico pastorale, c’è la profezia del martirio di Pietro. “Amare Gesù” viene messo in collegamento con il fare, col dare la vita per lui. L’ufficio pastorale si esplica in questa capacità di dare la vita, che san Tommaso spiega molto bene nel commento di Gv 10 che si legge nelle letture del breviario di oggi: la differenza tra un pastore che guida nelle cose temporali e il pastore della Chiesa, è questa: mentre a chi guida nelle cose temporali non si chiede di dare la vita per gli altri, perché è obbligato solo fino a un certo punto, il pastore della Chiesa è

tenuto, per ufficio, a dare la vita; è questa la caratteristica, la profondità di quanto un uomo è legato alle anime che gli sono affidate, se prende sul serio questo incarico di Gesù. Non si tratta di un ministero come qualunque altro incarico, è un incarico di carattere del tutto speciale. L’ufficio di Pietro Dopo questa breve analisi del testo, possiamo chiederci qual è il messaggio permanente che possiamo coglierne, sia per l’antica comunità giovannea sia per la Chiesa che vive nel clima di questo testo, e come lo ha continuamente utilizzato e ripensato nella sua tradizione. Io suggerirei questi tre pensieri riferiti specificamente all’ufficio di Pietro. La Chiesa ha Pietro come pastore. È una chiarissima indicazione di Gesù accolta dalle comunità. Questo ufficio è fondato sull’amore, e poi sulla capacità di dare la vita, che è conseguenza dell’amore. Questo ufficio comporta delle prove, e la prova suprema è quella del martirio, previsto per Pietro: “Quando eri giovane facevi ciò che volevi; quando sarai vecchio, un altro ti prenderà le mani e te le stenderà, te le allargherà” (21,18). Probabilmente c’è un’indicazione del supplizio della croce (queste pagine sono state scritte dopo la morte di Pietro) oppure c’è un’indicazione generica del martirio di Pietro. Che cosa segue per la comunità, se accettiamo questi tre principi? Seguono tre doveri corrispondenti, tre messaggi, tre inviti. Primo, la comunità è chiamata a riconoscere, nell’agire perenne di Pietro nella Chiesa, la continuazione dell’azione pastorale di Gesù. Cioè, per parlare nel senso delle implicazioni dell’incarnazione, potremmo dire: tra le diverse forme, tra i diversi e molteplici segni, sotto i quali Giovanni ci fa riconoscere la permanente presenza e azione del Signore tra i suoi, come prolungamento dell’incarnazione; come c’è lo Spirito, l’acqua, il pane, la parola, c’è anche Pietro come pastore del gregge. Un momento nel quale siamo invitati a riconoscere la presenza del Signore, per appoggiarci a essa e per farne il punto di riferimento della nostra azione. Secondo, se questo ufficio è fondato sull’amore, ne deriva che va accettato e interpretato come tale, come servizio di amore, e non secondo diverse interpretazioni; quindi non come struttura inevitabile, come necessità organizzativa, come minor male; ma come servizio di amore, Pietro non è

soltanto là perché ci vuole un po’ di ordine nella comunità, ci vuole qualcuno, ma per un servizio di amore, previsto dal Signore per la sua Chiesa come un’implicazione dell’incarnazione; il Signore ha voluto che l’opera di lui tra gli apostoli continuasse nella Chiesa anche in questo aspetto esteriore, che ad altri sarebbe parso organizzativo, ma che in realtà è un prolungamento del suo modo di vivere tra gli uomini. La presenza dell’autorità in una comunità va presa e accettata come una delle forme dello stare di Gesù “coi suoi”; è un incarico da accettare come un servizio d’amore e come un dono della presenza del Signore risorto. Non solo va accettato, ma va anche interpretato come servizio di amore. Cioè agli interventi pastorali di Pietro e dei suoi successori è necessario guardare con uno sguardo illuminato, il quale sappia interpretare i segni esteriori secondo una giusta chiave interpretativa. Qual è la giusta chiave interpretativa? Quella che nasce dalla fiducia che alla radice delle decisioni di Pietro sta l’amore che il Signore gli ispira. E in questo senso vanno capite e spiegate le sue decisioni, la cui portata non può essere altra, per volontà del Signore, che quella di promuovere la carità. E ciò comporta una vera e ben intesa libertà di spirito. Potremmo fare un confronto con l’interpretazione della Bibbia. Di fronte alla Bibbia vi sono diversi spiriti: alcuni rigidi, altri scettici, altri liberi; gli spiriti rigidi, che prendono in modo sbagliato anche le parole della Bibbia, come dice Pietro nella sua seconda Lettera (3,16): “alcuni che pervertono le lettere di Paolo e tutte le altre Scritture” (modernamente diremmo un letteralismo incapace di intendere le analogie di significato e la molteplicità dei generi letterari della Bibbia). C’è poi, all’opposto, l’atteggiamento dello scettico, del razionalista che svigorisce la forza della Scrittura. Noi invece siamo chiamati a un atteggiamento né di letteralismo rigido, fondamentalista, che chiude il cuore e lo spirito, né a un atteggiamento razionalista, che alza le spalle e dice “la Bibbia dirà questo, ma poi facciamo come vogliamo”; noi siamo chiamati a un atteggiamento di interpretazione, che con libertà di spirito coglie il vero messaggio. Chi ama la Bibbia sa entrare nelle sue intenzioni, ne comprende il significato e con libertà di cuore lo accetta. Analogamente potremmo dire: chi ama Pietro e lo comprende come dono del Signore interpreta rettamente, con libertà di spirito, il senso dei suoi interventi, vede in essi come si attui la promozione della carità, e quindi gli obbedisce con amore. E come una retta interpretazione della Bibbia richiede

fatica, attenzione, prudenza, discernimento, perché si può sbagliare sia per eccesso sia per difetto; così anche l’interpretazione di ogni intervento magistrale, conciliare, e qualunque intervento di autorità, richiede lo stesso atteggiamento, che è in mezzo tra uno spirito rigido – che tutto accetta acriticamente, ciecamente, senza capire lo scopo e il movente di ciò che è comandato – e uno spirito lasso, che prende ciò che gli piace e rifiuta oppure ignora ciò che non gli va. Ciò che avviene di fronte alla Bibbia si ripete di fronte al Magistero, al Concilio, di fronte a tutte le manifestazioni dell’autorità nella vita della comunità. Dobbiamo chiedere intensamente, in questo nostro tempo, questa apertura di cuore libero, che però suppone una grande visione di fede, che ci riporta fino alla persona di Gesù e ci muove alla fedeltà che dobbiamo avere verso di lui. Sant’Ignazio ha intuito tutto questo. Infatti, ha praticato in tutta la sua vita questa fedeltà obbediente, ma l’ha praticata con una libertà interpretativa, che gli permetteva di cogliere il senso profondo delle cose, e quindi con un’obbedienza capace di portare avanti il discorso ecclesiale. Un carisma che noi dobbiamo umilmente coltivare in ossequio a sant’Ignazio, che lo ha considerato molto importante nella Chiesa e caratteristico della Compagnia. Terzo, questo ufficio comporta delle prove. E la conseguenza che ne deriva per la comunità, che ascolta questo Vangelo, è che non può abbandonare Pietro nel momento della difficoltà. Occorre rimanere con lui, in modo che si avveri anche qui la parola di Gesù ai suoi: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove” (Lc 22,28). Come nella comunità primitiva, in At 12, mentre Pietro era sotto accusa, in attesa della sentenza di condanna da parte di un tribunale umano, “una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla Chiesa per lui”. C’era una solidarietà di preghiera e di animo, segno della fedeltà della Chiesa ai modi scelti da Gesù per la sua presenza nel mondo. Il confronto tra Pietro e Giovanni Brevemente il terzo episodio, quello del confronto tra Pietro e Giovanni. È un brano misterioso, che in parte forse dobbiamo ancora capire e a cui gli esegeti danno varie possibili interpretazioni. Certo però che alcuni elementi risaltano. Prima di tutto c’è un colloquio tra Gesù e Pietro riguardo a Giovanni: che ne sarà di lui? E Gesù dice: “Se voglio che rimanga finché io

venga, che cosa ti riguarda? Tu seguimi”. Cosa significa questa presa di posizione? È chiaro che qui viene affermata la libertà sovrana di Gesù, anche rispetto a Pietro, di fare ciò che vuole di Giovanni e degli altri discepoli. Però probabilmente lo sfondo storico potrebbe essere questo: Pietro è il discepolo che amava Gesù, però non era di fatto quello che lo amava di più. Nelle comunità dell’Asia si ricordava Giovanni come il discepolo per eccellenza che amava Gesù. E allora ci si chiedeva: come mai Pietro ha dato la sua testimonianza per la fede con la morte, mentre Giovanni è vissuto a lungo ed è morto nel suo letto tranquillamente: non sarebbe stato più giusto che Giovanni avesse dato questa testimonianza? E ciò poteva portare un’ombra sulla figura di Giovanni, quasi che egli, pure essendo stato tanto amato dal Signore, non avesse avuto il coraggio di Pietro. E il Signore qui dice che c’è una libertà assoluta nell’agire di Dio: a certe persone che forse sanno dar meno chiede molto, ad altre che possono dare molto chiede apparentemente meno. Chiede però di “rimanere”, cioè di essere testimone con la sua lunga presenza nella Chiesa. Quindi, mentre Pietro, pur essendo più lento a capire è più impetuoso, ha avuto una missione travagliata e ha pagato di persona; Giovanni ha avuto un’altra missione: quella di rimanere a lungo nella Chiesa come testimone del Verbo, come colui che poteva nutrire delle parole di Gesù una grande comunità di fedeli e instaurare nella Chiesa primitiva una conoscenza approfondita del mistero. E ciò, al termine di questo Vangelo, credo faccia vedere a noi come dobbiamo essere disponibili a tutto ciò che Dio ci chiede, forse cose diverse da quelle che ci aspettiamo, forse un destino che non ci meritiamo, oppure un destino più facile di quello che potevamo prevedere. La sovrana libertà del Signore, che alla fine riassume tutto in se stesso, e la nostra adesione a lui nella fede, cioè nell’accettazione di ciò che egli ci propone, che conta più di ogni cosa. Congedo E ora le ultime parole del capitolo: “Questo è il discepolo che ha testimoniato queste cose e la sua testimonianza è vera. Vi sono molte altre cose fatte da Gesù, che se fossero scritte, non so se il mondo potrebbe contenere i libri che ci vorrebbero”. Che cosa ci dice questa conclusione, un po’ ingenua, aggiunta alla fine dai discepoli al Vangelo di Giovanni?

Credo che voglia dire questo: in questi esercizi, abbiamo cercato di capire il Vangelo di Giovanni, e ne abbiamo toccato qualche aspetto, e già ci è sembrato che fosse molto più grande di quello che potevamo pensare, ma in realtà l’opera di Gesù è infinitamente più grande. Ci sono, grazie a Dio, sorprese sempre nuove che il Signore ci presenta; di questo oceano del suo mistero abbiamo toccato solo la parte di una parte; neppure lo stesso Giovanni riesce a esaurire quello che è il mistero di Dio. Ciò ci porta sia a una profonda umiltà, per il poco che abbiamo potuto dire e per il molto che ci sarebbe da dire, sia a un’immensa fiducia, perché Dio ci riserva ancora molte cose per la nostra riflessione. 1

Le Costituzioni, scritte dallo stesso sant’Ignazio, sono il testo che regola e orienta in tutti i suoi aspetti la vita della Compagnia di Gesù. 2 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voci “Annotazioni”, “Presupposto”, “Principio e Fondamento”, pp. 1155, 1157. 3 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Settimana”, p. 1158. 4 La Formula dell’Istituto, approvata per la prima volta dal papa Paolo III il 27 settembre 1540, rappresenta il documento fondatore della Compagnia di Gesù e contiene i tratti essenziali che la contraddistinguono. 5 Cfr. Cost 134-137. 6 Le Costituzioni, suddivise in paragrafi, si sviluppano in dieci parti: l’ultima costituisce il compimento di tutto il percorso, e considera i mezzi attraverso cui la Compagnia di Gesù potrà mantenersi e progredire nella storia. 7 “L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore”: [23]. 8 Martini si sta probabilmente riferendo a una edizione spagnola degli Esercizi spirituali a cura della Biblioteca de Autores Cristianos (BAC Editorial) di Madrid. 9 L’Esame generale (Cost 1-133) contiene una serie di esami a cui sottoporre chi intenda entrare nella Compagnia di Gesù. 10 Cfr. nota 30, p. 227. 11 Nel libretto è il primo esercizio della prima settimana: [45-54]. Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voci “Esercizio” e “Settimana”, p. 1156 e 1158. 12 “Il Generale sia superiore a tutti gli avvenimenti, senza lasciarsi portare troppo in alto da quelli prosperi, o abbattere d’animo in quelli avversi…” (Cost 728). 13 Rudolf BULTMANN (1884-1976) è stato un teologo evangelico tedesco. Autore, tra l’altro, di Das Evangelium des Johannes, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 198621. 14 La seconda giornata manca dell’omelia. Negli esercizi a Froi, Martini aveva scelto e commentato il brano delle nozze di Cana (2,1-10). 15 “Colloquio. Terminare con un colloquio di misericordia, ragionando e ringraziando Dio nostro Signore, perché mi ha dato vita sino a ora, proponendo di emendarmi con la sua grazia per l’avvenire” [61]. Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Colloquio”, p. 1155. 16 L’Autobiografia è il racconto della sua vita, di come Dio lo condusse a partire dalla conversione,

che sant’Ignazio fece negli ultimi anni della vita. Cfr. IGNAZIO DI LOYOLA, Gli scritti, Roma, ADP, 2007, pp. 76-163. 17 La Professione è il passaggio nel quale il gesuita viene definitivamente incorporato nella Compagnia di Gesù. 18 Cfr. nota 17, p. 531. 19 Heinz SCHÜRMANN (1913-1999), sacerdote ed esegeta tedesco. 20 Cfr. Heinz SCHÜRMANN, Lo spirito vivifica, Brescia, Paideia, 1978, pp. 37-58. 21 Heinz SCHÜRMANN, Lo spirito vivifica cit., p. 41. 22 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Regno”, p. 1157. 23 È un film del 1973 del regista canadese Norman Jewison. 24 Cfr. nota 4, p. 806. 25 Antonio M. DE ALDAMA, Repartiéndose en la viña de Cristo. Comentario a la séptima parte de las Constituciones de la Compañía de Jesús, Roma, CIS, 1973. 26 Heinz SCHÜRMANN, Lo spirito vivifica cit., p. 65. 27 Cfr. Heinz SCHÜRMANN, Lo spirito vivifica cit., p. 67. 28 I Padri del deserto. Detti, introduzione, traduzione e note di Luciana MORTARI, Roma, Città Nuova, 1972, p. 151. 29 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voci “Colloquio” e “Preludio”, pp. 1155 e 1157. 30 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Composizione di luogo”, p. 1156. 31 Si tratta probabilmente di Ville marxiste, terre de mission e La joie de croire, pubblicati rispettivamente da Cerf e Seuil nel 1957 e 1968. 32 Il testo preciso suona così: “Impariamo che non vi sono che due amori: colui che abbraccia Dio deve avere posto per il mondo intero tra le sue braccia: colui che riceve il peso di Dio nel suo cuore, vi riceve il peso del mondo” (Madeleine DELBRÊL, Missionari senza battello. Le radici della missione, Padova, Edizioni Messaggero, 2004, p. 29). 33 Bertrand RUSSELL (1872-1970), filosofo, logico, matematico, attivista e saggista inglese. 34 L’episodio è raccontato in Bertrand RUSSELL, Autobiography from 1872 to 1914, London, Allen&Unwin, 1967, p. 220. 35 Erik PETERSON (1890-1960), tedesco, teologo e scrittore cattolico. 36 Erik PETERSON, Il mistero degli Ebrei e dei Gentili nella Chiesa, Roma, Edizioni di Comunità, 1946, pp. 73-74. 37 Il preludio a cui Martini accenna è la “composizione di luogo”. Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, p. 1156. 38 Cfr. IGNAZIO DI LOYOLA, Diario spirituale, in ID., Gli scritti, Roma, ADP, 2007, pp. 395-462. Si è conservata solo una piccola parte delle note spirituali che sant’Ignazio scriveva, negli anni in cui fu Generale della Compagnia di Gesù. 39 Stanislas LYONNET (1902-1986), gesuita e biblista francese. 40 Cfr. Il Nuovo Testamento alla luce dell’Antico. Lezioni di p. Stanislao Lyonnet, Brescia, Paideia, 1977, p. 75. 41 Ignace DE LA POTTERIE (1914-2003), gesuita e biblista belga. 42 Cfr. Ignace DE LA POTTERIE, “Il Paraclito”, in Ignace DE LA POTTERIE – Stanislas LYONNET, La vita secondo lo Spirito condizione del cristiano, Roma, AVE, 1967, pp. 97-121. 43 Henry VAN DEN BUSSCHE, Le discours d’adieu de Jésus, Tournai-Paris, Casterman, 1959, p. 126. 44 Giuseppe Angelo RONCALLI (1881-1963), fu eletto papa con il nome di Giovanni XXIII il 28

ottobre 1958. In poco meno di cinque anni avviò il rinnovamento della Chiesa e aprì il Concilio Vaticano II. È stato canonizzato il 27 aprile 2014. 45 “[…] l’aiuto più efficace proviene, più che da ogni costituzione esterna, dall’interna legge della carità e dell’amore, che lo Spirito scrive e imprime nei cuori” (Cost 134). 46 Henri-Marie DE LUBAC (1896-1991), gesuita teologo francese. 47 GIOACCHINO DA FIORE (1130-1202), abate, teologo e scrittore italiano. In un’interpretazione globale e teologica, suddivise la storia in tre epoche: l’età del Padre (corrispondente all’Antico Testamento), l’età del Figlio (il Vangelo) e infine quella dello Spirito. 48 Henri DE LUBAC, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, Roma, Edizioni Paoline, 1972, vol. I, p. 1000. 49 Sono consigli spirituali, per interpretare e gestire i diversi stati d’animo che sorgono nell’interiorità durante il silenzio degli esercizi. 50 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “regole per sentire con la Chiesa”, p. 1157. 51 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Elezione”, p. 1156. 52 Marie-Joseph LAGRANGE (1855-1938), biblista domenicano, fondatore della Scuola Biblica di Gerusalemme; cfr. ID., L’Evangelo di Gesù Cristo, Brescia, Morcelliana, 1930, p. 8. 53 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voci “Vessilli” ed “Elezione”, p. 1158 e 1156. 54 Cfr. nota 3, p. 11. 55 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Binario”, p. 1155. 56 Michel LEDRUS (1899-1984), gesuita belga, professore di teologia spirituale all’Università Gregoriana e per alcuni anni padre spirituale di Martini, durante il suo soggiorno a Roma. 57 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Umiltà”, p. 1158. 58 Cfr. IGNAZIO DI LOYOLA, Diario spirituale cit. 59 Heinz SCHÜRMANN, Lo spirito vivifica cit., pp. 78-79. 60 Giovanni BERCHMANS (1599-1621), santo, gesuita fiammingo, che morì a Roma mentre era ancora studente. La frase è citata in Karl SCHOETERS, San Giovanni Berchmans, Alba, Pia Società San Paolo, 1940, p. 274. 61 Eduard SCHWEIZER (1913-2006), biblista e teologo evangelico svizzero. Cfr. ID., Ego Eimi. Die religionsgeschichtliche Herkunft und Bedeutung der johannesichen Bildreden, zugleich ein Beitrag zur Quellenfrage des vierten Evangeliums, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1939. 62 Cfr. Ignace DE LA POTTERIE, La Passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni. Testo e spirito, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1988, pp. 69-99. 63 Cost 595: “Come in tutta la vita, così, anzi molto di più in punto di morte, ciascuno della Compagnia deve sforzarsi e procurare che Dio nostro Signore sia in lui glorificato e servito…” 64 Cfr. Rudolf BULTMANN, Das Evangelium des Johannes cit., pp. 512 ss. 65 Heinrich SCHLIER (1970-1978), teologo tedesco, inizialmente evangelico luterano e successivamente cattolico. Cfr. Heinrich SCHLIER, “Jesus und Pilatus nach dem Johannesevangelium”, in ID., Die Zeit der Kirche. Exegetische Aufsätze und Vorträge, Freiburg, Herder, 1956, pp. 56-74. 66 Cfr. Ignace DE LA POTTERIE, La Passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni cit., pp. 93-97. 67 Ricordiamo che il corso che stiamo riportando fu proposto da Martini nel 1974. 68 Cfr. Heinz SCHÜRMANN, Lo spirito vivifica cit., p. 81. 69 [236]: “considerare come Dio fatica e opera per me in tutte le cose create sulla faccia della terra…” 70 Juan Alfonso DE POLANCO (1516-1577), gesuita spagnolo, fu segretario e prezioso collaboratore

di sant’Ignazio. Il Chronicon è la cronaca della vita dei primi gesuti, dal 1537 al 1556 (anno della morte di sant’Ignazio). 71 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Preamboli o Preludi”, p. 1157. 72 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voci “Discernimento”, “Consolazione” e “Desolazione”, p. 1156. Le regole del discernimento degli spiriti sono poste nell’ultima parte del libretto degli Esercizi spirituali: [313-336]. 73 IGNAZIO DI LOYOLA, Gli scritti cit., p. 922. Inés Pasqual, di Barcellona, fu una grande benefattrice di sant’Ignazio.

IL CASO SERIO DELLA FEDE

INTRODUZIONE Ho desiderato offrire, nell’anno pastorale 2001-2002, un tempo di esercizi spirituali a tutti i presbiteri della Chiesa ambrosiana, a significare la particolare gratitudine che sento per i sacerdoti comunicando loro quel poco che ho, cioè un forte desiderio di familiarità orante con la Sacra Scrittura. Rendiamo dunque grazie a Dio che ci concede di vivere insieme, per alcuni giorni, una profonda esperienza di fede, un episodio della storia della nostra salvezza, una felice e non facile avventura che ogni volta è sempre nuova e imprevedibile. Di solito consideriamo gli esercizi spirituali come una serie di prediche, un ministero della Parola. In realtà sono un ministero dello Spirito – secondo la definizione di un grande esperto, il padre gesuita Francesco Rossi de Gasperis1 –, perché ci mettono in orazione davanti a un testo biblico lasciando allo Spirito di guidare ciascuno di noi a un nuovo incontro con il Signore Gesù per plasmarci secondo il suo cuore. E questo è un evento personale, un cammino che nessuno può compiere per un altro. Dopo aver riflettuto a lungo, ho scelto di proporvi la lectio divina del quarto Vangelo, sul quale avevo dato un corso di esercizi nel 1974. Da allora non ho più osato affrontarlo per intero, perché è arduo, impegnativo, coinvolgente, e toglie davvero il fiato. Ho avvertito tuttavia l’impulso interiore a riprenderlo per rileggerlo con voi in forma di meditazione contemplativa. È anche un Vangelo ampio e, come vedremo, comprende quattro sezioni o parti: il prologo o preludio (dal capitolo 1 al 2,11); il cosiddetto libro dei segni (dal capitolo 2,12 a tutto il capitolo 12); il libro della rivelazione (capitoli 13-17); il libro della gloria (capitoli 18-21). Può anche essere utile, per il nostro progresso nella vita spirituale, distinguere nel Vangelo di Giovanni quattro fasi dell’esperienza di Gesù, in modo da entrare nel dinamismo drammatico della salvezza e giungere, attraverso il cammino della purificazione, all’amore vero, puro,

disinteressato. Anzitutto Gesù – a partire da 1,19 fino a 4,54 – prende coscienza di sé e della sua missione aiutato dal Battista che lo lancia, per così dire, nel ministero e poi mediante gli incontri con i primi discepoli, con Nicodemo, con la famigliola di Cana e con la samaritana. Fa inoltre esperienza del suo potere profetico cacciando i venditori dal tempio e percepisce la sua potenza di compiere miracoli guarendo il figlio di un funzionario del re. È la fase ecclesiale e sociale, propria pure del presbitero che prende coscienza di sé e della sua missione. Il secondo momento inizia con la guarigione del paralitico (5,1 ss.) e si conclude al capitolo 11. Gesù si accorge di giocare la propria vita nel ministero, non soltanto il suo agire. Entra a contatto con una resistenza sempre più sistematica, aggressiva e prende coscienza che la sua esistenza è in gioco pericolosamente rispetto alla verità di Dio e al rifiuto della gente di fronte a tale verità. Il primo rifiuto della rivelazione è in 5,1-47; il secondo in 6,1-70 (e molti discepoli si tirano indietro); il terzo in 7,1-10,21; il quarto in 10,22-11,54. Nella festa della Dedicazione viene decisa la sua morte: “da quel giorno decisero di ucciderlo” (11,53), mentre si avvicinava la Pasqua. È la fase della maturazione esistenziale e teologica, che ci invita a verificare la serietà della nostra accoglienza della Parola, a giocare la nostra vita nel ministero in rapporto alla verità di Dio. La terza fase – 11,55-17,26 – è quella escatologica. Gesù vede con chiarezza la sua morte imminente e si dispone ad affrontarla con libertà di cuore durante l’ultima Pasqua, la Pasqua del tradimento. Noi pure siamo chiamati a consegnare la nostra libertà nelle mani di Dio, con amore e fiducia. Nella quarta fase Gesù manifesta la gloria di Dio in pienezza nella sua umiliazione e risurrezione – 18,1-21,25 –. È questo il momento trinitario, ecumenico perché Gesù si svela come rivelazione piena del Padre e allarga la sua azione al mondo intero. “Tutto è compiuto” (19,30); “Pace a voi!” (20 19). Noi possiamo arrivare alla pacificazione del cuore abbandonandoci al disegno di Dio sulla nostra vita e sulla morte, sulla Chiesa e sul mondo. Suggerisco a ciascuno di voi di fare una lettura integrale, continuata, magari veloce, di questo testo; noi lo conosciamo specialmente attraverso i brani proposti dalla liturgia, ma di rado troviamo il tempo per assaporarlo nella sua straordinaria unità, semplicità, incisività ed efficacia. Nei giorni di esercizi, invece, è possibile dedicare qualche ora a una lettura globale. Del

resto i Vangeli sono stati scritti a tale scopo, e non per un accostamento di alcune pagine. Come vivere con frutto il ritiro Richiamo alcuni atteggiamenti personali che ci aiutano a porci in ascolto della Parola e a rispondere alla voce del Signore nella grazia dello Spirito, quindi a vivere con frutto il ritiro. È anzitutto importante creare un’atmosfera di silenzio, di calma, di raccoglimento. In secondo luogo dobbiamo darci un orario disciplinato di preghiera. Si tratta di prevedere un tempo da consacrare a quella intensa preghiera mentale silenziosa che è il fulcro degli esercizi, il luogo dove la parola di Dio – proclamata nella meditazione comune e nella liturgia – ci interpella, scende nel nostro cuore. È vero che lo Spirito Santo può entrare quando vuole, e però entra in modo speciale allorché trova aperte le porte del cuore e della mente. Ancora a livello di preghiera, occorre curare l’atteggiamento del corpo, l’atteggiamento di riverenza e di equilibrio interiore. I momenti di comunione Oltre a essere un evento personale gli esercizi sono un evento comunitario, che ha dei momenti di comunione pur nella solitudine. Momento prezioso e sorgivo di comunione è certamente la celebrazione dell’Eucaristia. Altro momento è quello della proposta della lectio divina: ascoltiamo insieme l’unica Parola, nel nostro caso il testo di Giovanni e i brani delle letture liturgiche. Insieme viviamo la preghiera vocale e facciamo l’adorazione. La meditazione sul quarto Vangelo può suscitare riflessioni, domande, proposte e chi desidera condividerle con me può comunicarmele per iscritto. Sono inoltre disponibile a colloqui personali, tempo permettendo. Infine abbiamo previsto momenti di comunicazione nella fede, per scambiarci con semplicità e sincerità ciò che sentiamo come particolarmente importante per noi e utile per gli altri.

Gli scopi del ritiro All’inizio di un corso di esercizi è inevitabile porsi una domanda: che cosa vorrei ricavare da questi giorni di silenzio, di preghiera, di contemplazione? È la domanda che ritorna ogni anno, perché ogni ritiro è diverso dal precedente. Ciascuno di noi entra nel ritiro con una determinata biografia, con una storia, con dei desideri e delle fatiche. Come spero di uscirne? Quali scopi spero di raggiungere? Il primo scopo, fondamentale, è indicato dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola: mettere ordine nella propria vita, ordinandola secondo la volontà di Dio, con scelte significative e definitive2. In questo senso gli esercizi si fanno una volta sola nella vita, e noi abbiamo già preso la nostra decisione. Sentiamo tuttavia il bisogno di confermare la scelta, di rimettere un po’ di ordine parziale nel nostro cammino. Col trascorrere degli anni ci accorgiamo che non è in questione semplicemente la decisione di essere preti, bensì di esserlo come il Signore ci permette di vedere e volere, con i nostri difetti, le nostre doti, le nostre fatiche, i nostri scontri. Devo quindi riconciliarmi con ciò che Dio mi chiede di essere concretamente, secondo alcune categorie teologiche generali. Fare gli esercizi vuol dire appunto riconciliarsi con la divina volontà che riconosco a poco a poco nella mia vita (nello stato di salute fisica, nelle prove, nelle gioie e nei dolori, nelle aperture di orizzonte); oppure che riconosco in occasione di cambiamenti importanti: un nuovo incarico ministeriale, il momento sempre trepido delle dimissioni, del lasciare per limiti di età il mandato. Dove vorrei rimettere ordine? Lo scopo primario di un ritiro è dunque di ribadire la ricerca, l’accettazione della volontà di Dio e la riconciliazione con se stessi, con il proprio ambiente, con tutti coloro che incontriamo. C’è un secondo scopo, connesso al precedente e che ci tocca abitualmente: quello di un esercizio più intenso di fede, speranza e carità, soprattutto nella preghiera e nella contemplazione. Tale scopo supplisce alla frammentazione del colloquio con il Signore Gesù, che spesso purtroppo caratterizza la nostra vita quotidiana, a causa dei molti impegni e dei tanti imprevisti. Nei giorni di esercizi ci è data la grazia di poter vigilare a lungo, di sostare in preghiera e nell’ascolto della Parola. Anche se non si tratta di ricevere necessariamente intuizioni grandiose, consolazioni specifiche della mente e del cuore, è estremamente importante la perseveranza gratuita nello

stare davanti a Dio, come fonte di consolazione della vita. Esercizio più intenso di fede, speranza e carità significa pure crescita nel fervore spirituale, nella gioia e nella serenità interiore. Un terzo scopo di un ritiro è quello di lasciare emergere qualche problema rimosso. Un problema di qualche rilievo, che ci tocca affettivamente, emotivamente, come risentimento, e che ci disturba. Nell’affanno delle giornate, delle settimane, dei mesi e degli anni, non abbiamo mai voluto guardarlo in faccia così da chiarirlo. Gli esercizi sono appunto un tempo favorevole per lasciare affiorare problemi rimossi alla luce e al fuoco della parola di Dio, del roveto ardente. Ho richiamato alcuni scopi come aiuto per rispondere alla domanda: come vorrei uscire, con la grazia di Dio, dagli esercizi? E sarebbe bello se ciascuno di noi cominciasse subito a individuare quali frutti vorrebbe trarre da questi giorni, nel quadro della contemplazione di Gesù nel quarto Vangelo. Lo scenario del nostro servizio ministeriale L’atmosfera di silenzio, di preghiera e di raccoglimento che desideriamo vivere non ci esime ovviamente dal tenere sullo sfondo lo scenario in cui si colloca il nostro quotidiano servizio pastorale. È uno scenario in cui si intrecciano luci e ombre. Le luci sono irradiate dalla ricchezza di luoghi di spiritualità presenti nella nostra diocesi, intendendo per “luoghi di spiritualità” realtà e istituzioni che evidenziano la tensione verso una verità profonda per l’uomo. Penso alle parrocchie, alle associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali, alle scuole cattoliche e ai centri culturali cattolici; penso alle innumerevoli iniziative di carità, di solidarietà, al volontariato ecc. Le ombre, che talora prevalgono sulle luci, sono costituite dall’indifferenza religiosa di tanti, da una certa secolarizzazione, dalle appartenenze parziali e minimali alla comunità cristiana, da alcune forme di spiritualità orientali che affascinano ma, di fatto, sono un pericolo per l’esperienza della vera fede evangelica. Lo scenario a cui ho brevemente accennato, suscita spesso domande sul presente e sul futuro della Chiesa. Noi però sappiamo che l’unica vera risposta radicale, non episodica, non frammentaria, che l’unico antidoto è la contemplazione del Signore.

Vogliamo quindi seguire la linea proposta dal papa nella Novo millennio ineunte3 e ripresa dalla CEI negli Orientamenti pastorali dal titolo Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia4. Mi piace citare la forte, stupenda espressione del papa: Ci interroghiamo sulla situazione attuale con fiducioso ottimismo, pur senza sottovalutare i problemi. Non ci seduce certo la prospettiva ingenua che, di fronte alle grandi sfide del nostro tempo, possa esserci una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona, e la certezza che essa ci infonde: “Io sono con voi!” Non si tratta, allora, di inventare un nuovo programma. Il programma c’è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste5.

È il programma che vogliamo cercare di realizzare in questi giorni di ritiro. E a proposito della testimonianza da dare a Gesù, il papa afferma che “sarebbe insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto”. Di qui l’imperativo fondamentale: “Tenere fisso lo sguardo sul volto del Signore”. Poi aggiunge: “La contemplazione del volto di Cristo non può che ispirarsi a quanto di lui ci dice la Sacra Scrittura, che è, da capo a fondo, attraversata dal suo mistero”6. Un altro passo programmatico lo troviamo nel documento della CEI, là dove riprende l’invito del papa a tenere fisso lo sguardo su Gesù: “Solo il continuo rinnovato ascolto del Verbo della vita, solo la contemplazione costante del suo volto permetteranno ancora una volta alla Chiesa di comprendere chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l’uomo”. Noi ci proponiamo di meditare sul Vangelo di Giovanni che ci invita a contemplare il Verbo fatto carne e che, a differenza dei sinottici, riporta tanti discorsi e gesti di Gesù nel Tempio di Gerusalemme, cioè nel cuore culturale, civile, artistico, religioso della città santa. Donaci, Signore Gesù, di contemplarti come colui che offre alla città parole di speranza, di grazia, di perdono, di compassione, parole anche di condanna e di giudizio ma sempre intrise del grande amore di Dio per il mondo, per le nostre città, per il nostro territorio. Affidiamo la nostra preghiera all’intercessione della Vergine Maria che è l’esempio più bello di un ascolto orante, contemplativo, di una memoria meditativa sugli eventi della vita del Verbo incarnato. Ella che, probabilmente, è stata vicina a Giovanni durante la prima stesura del suo

testo, ha capito il profondo mistero del quarto Vangelo che – come diceva Origene7 – può essere compreso soltanto da chi ha messo il capo sul cuore di Cristo. Per questo la Madonna ci aiuterà a penetrarne le ricchezze e a vivere con serenità, perseveranza, coraggio e pazienza il cammino di questi giorni alla scuola di Giovanni, pur se magari dovremo incontrare delle prove.

I. COME CONTEMPLARE IL IV VANGELO In questa prima meditazione vogliamo dare uno sguardo generale al quarto Vangelo chiedendoci quali siano le chiavi di lettura più appropriate per avvicinare il prezioso tesoro spirituale racchiuso nel testo giovanneo. Ne suggerisco quattro, ciascuna delle quali può indurre a designare il nostro corso di esercizi con un titolo diverso: il Vangelo del compimento, il Vangelo della pienezza, il Vangelo della fede o del caso serio della fede, il Vangelo della gioia. Il Vangelo del compimento Della prima chiave di lettura, che ci spinge a contemplare il quarto Vangelo come quello del compimento, avevo parlato negli incontri con i presbiteri nella Quaresima del 1980. Riflettendo sul tema “I quattro Vangeli e il cammino del discepolo”, invitavo a leggerli nel seguente ordine: il testo di Marco come Vangelo del catecumeno, della prima iniziazione cristiana, del primo approccio con il mistero di Gesù Figlio di Dio, quindi il Vangelo che prepara alla tappa battesimale; quello di Matteo come il Vangelo del catechista, che offre al catechista il materiale per introdurre nella conoscenza e nella esperienza concreta della Chiesa visibile, che fa comprendere come Gesù vive in una comunità nella quale occorre inserirsi attraverso le regole evangeliche contenute nei cinque grandi discorsi matteani, quindi il Vangelo per il battezzato; il libro di Luca (Vangelo e Atti degli Apostoli) come il testo dell’evangelizzatore, del missionario, di colui che vuole comunicare ad altri la parola di Gesù aprendosi al mondo, alla storia, alle culture, alle religioni non cristiane; l’ultima tappa è quella della maturità cristiana, del testo di Giovanni come il Vangelo del compimento, del presbitero, di chi ha fatto sintesi nella sua vita ed è perciò capace di prendersi cura di altri8. Forse

anche per questo mi sono sentito mosso interiormente a scegliere il quarto Vangelo per i nostri esercizi; in qualche maniera avverto il bisogno di ridurre tutto all’essenziale, ad alcuni pochissimi parametri fondamentali con cui confrontarmi, di fare sintesi di un cammino cristiano, di servizio alla Chiesa, e di proporla ad altri. Il testo giovanneo è pure il Vangelo del matrimonio come sacramento, che permette agli sposi di assumere responsabilità nuove nella Chiesa e nella società, di costruire la famiglia quale piccola Chiesa. Possiamo dire che il quarto Vangelo nutre e verifica il grado di maturità, e dunque la nostra capacità di contemplarlo, di meditarlo è collegata a questa raggiunta maturità nella fede. Raramente la si raggiunge prima dei quarant’anni, e molti ci arrivano solo in punto di morte, quando si affidano totalmente al mistero di Dio. Tuttavia il cammino di ciascuno è diverso, e per esempio san Luigi Gonzaga9 è arrivato prestissimo alla pienezza della maturità cristiana, come pure tante persone semplici vi giungono attraverso la via della croce. Dopo questa premessa mi soffermo sull’espressione “compimento”, che si trova nel cosiddetto libro della gloria ed è indubbiamente un logo del Vangelo giovanneo. Gesù, dopo aver affidato Maria al discepolo che amava e il discepolo a Maria (cfr. 19,26-27), “sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: ‘Ho sete’” (v. 28). A questa parola fa eco l’evangelista che annota: “Dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: ‘Tutto è compiuto!’ E, chinato il capo, spirò” (v. 30). Giustamente la nuova versione della Bibbia della CEI rende in maniera più precisa il verbo greco traducendo: “Diede lo spirito”. È interessante notare l’insistenza sul tema del compimento: sapendo che ogni cosa era ormai compiuta, disse per compiere la Scrittura… e dopo aver bevuto l’aceto, ripete che tutto è compiuto. Il quarto Vangelo sottolinea quindi con forza il compimento di tutto nella morte, per amore, di Gesù, di colui che il Padre ha mandato per amore del mondo. A questo verbo – in greco tetélestai, è compiuto; teleióthe, affinché si compisse – si collega un’altra parola chiave, télos, cioè fine, che si trova all’inizio del libro della rivelazione: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13,1). È la stessa radice del verbo “è compiuto” del capitolo 19. Si può dunque contemplare il quarto Vangelo come il Vangelo del

compimento, titolo che indica la pienezza della missione del Figlio rispetto al disegno del Padre. Certamente anche i sinottici testimoniano l’anelito di Gesù di portare a pienezza il suo mandato. Penso a Lc 12,50, dove Gesù, dopo aver detto di essere venuto a portare il fuoco sulla terra, afferma: “C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angustiato, finché non sia compiuto”. In Giovanni, però, l’ansia che ha Gesù di rispondere in pienezza al disegno di Dio, assume un rilievo speciale, una funzione di chiave di lettura dell’intero Vangelo. Ci chiediamo: perché tanta insistenza? Un’insistenza documentata da molti altri passi del quarto Vangelo, che mi limito a citare: 4,34; 5,36; 17,2324. Tutti versetti nei quali viene espressa l’attenzione del Verbo fatto carne al compimento del disegno globale del Padre. Richiamo per esempio 4,34: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”, hína teleióso autoû tò érgon. Risponderemo alla domanda meditando sul prologo, ma intanto possiamo almeno accennarvi: proprio perché Giovanni parte dalle radici più profonde dell’Essere divino, dal mistero trinitario, può far cogliere il compimento di tale mistero nella croce e nella risurrezione di Gesù. Compiere l’opera vuol dire rivelare il Padre e lo Spirito. In altre parole, il quarto Vangelo invita a contemplare quella totalità del piano di salvezza che rivela Dio paradossalmente nel crocifisso risorto. Sottolineando le radici di questo piano e le ultime conclusioni ci esorta a chiederci: come siamo chiamati a dare compimento alla nostra vita? Partendo da quali radici e puntando a quali traguardi? Il Vangelo della pienezza Una seconda chiave di lettura, affine alla precedente, ma da tenere distinta, ci consente di designare il testo di Giovanni come Vangelo della pienezza. Il verbo greco è pleróo e mette in luce altri aspetti del cammino del discepolo. La voce télos è riferita al tempo, alla fine di un tempo, o al termine di un cammino, mentre pleróo si riferisce alla quantità, a una pienezza che poi si rovescia in abbondanza sull’umanità. In proposito leggo alcuni versetti della passione di Gesù, dove appare che la pienezza della Scrittura è adempiuta. 19,36: a Gesù ormai morto dopo aver detto “tutto è compiuto” viene

perforato con la lancia il costato, ma non vengono spezzate le gambe perché “si adempisse la Scrittura”, in greco plerothê, perché si riempisse la Scrittura nella sua verifica totale. “Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (v. 37). Il compimento del disegno di Dio, espresso con la voce télos, può essere considerato anche come pienezza debordante (pleróo) a cui giunge la Scrittura mediante il gesto dell’amore supremo di Gesù, la morte da cui sgorga la vita. In 19,24, dove si parla della divisione delle vesti di Gesù, l’evangelista commenta: “Così si adempiva la Scrittura: Si sono divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte”. Anche in 18,9, quando Gesù nel Getsemani replica alle guardie: “Se cercate me, lasciate che questi se ne vadano”, Giovanni precisa: “Perché fosse piena la parola che egli aveva detto: ‘Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato’”. La parola biblica e le parole di Gesù devono compiersi in pienezza. Questi significati sono molto affini a quelli del compimento, e tuttavia la loro diversità si rivela se andiamo al di là degli adempimenti della Scrittura, se leggiamo altri passi sul tema della pienezza. Penso soprattutto a due versetti del prologo, a mio giudizio fondamentali per capire Giovanni. L’evangelista racconta, proclama ciò che noi abbiamo ricevuto dalla pienezza della luce della Parola, del Verbo incarnato: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo e noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (1,14). E al v. 16: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto”, ek toû plerómatos autoû. Viene qui descritta la figura, la gloria del Verbo che è pieno di grazia e di verità. Fin dall’inizio Gesù si presenta in pienezza e tutto nel quarto Vangelo avviene perché tale pienezza sia manifestata fino alla fine, sulla croce. Il tema della pienezza quantitativa, del bicchiere pieno e debordante sta certamente a cuore a Giovanni per interpretare l’opera di Gesù in maniera sintetica. Il Vangelo del caso serio della fede Mi è venuta alla mente, riflettendo a lungo sul nostro testo, una terza chiave di lettura, quella che lo mostra come il Vangelo del caso serio della fede, il Vangelo che ha lo scopo di farci prendere una posizione chiara di

fronte al Verbo fatto carne. Basta ricordare 20,30-31: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. Giovanni intende riferirsi a una fede piena, compiuta, non embrionale o iniziale. Intende una fede forte, dura, esigente, quella di cui parla Gesù quando a Tommaso che esclama: “Mio Signore e mio Dio”, risponde: “Perché hai veduto, hai creduto; beati coloro che pur non avendo visto crederanno!” (20,28-29). Una fede molto matura che sa fare a meno dei segni tangibili, che pone il credente unicamente e ciecamente nelle mani del Dio vivo. Nella sinagoga di Cafarnao la folla chiede a Gesù: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”, e si sente rispondere: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (6,28-29). È la risposta per il cristiano maturo, mentre al cristiano che è ancora all’inizio del cammino è diretta la risposta data al giovane ricco: “Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti” (Mt 19,17). Il Vangelo giovanneo tralascia tutto il resto per concentrarsi su due punti essenziali: credere e amare. Tale concentrazione è tipica della comunità cristiana nella quale è stato scritto il testo, una comunità piccola, marginale rispetto alla cultura dominante del tempo, cultura idolatra, scettica, cinica e che inglobava tutto. Questa piccola comunità, trovandosi in minoranza, si sente spinta all’essenziale: che cosa significa credere e amare? In qualche modo anche noi siamo coinvolti nelle riflessioni sul caso serio della fede e della carità, riflessioni profondamente avvertite da chi si dedica alla vita eremitica, monastica, claustrale. Pensiamo a come ha percepito e vissuto l’essenzialità della fede e della carità santa Teresa di Gesù Bambino, interprete della modernità e del rapporto tra cristianesimo e modernità. Ella ha conosciuto la drammatica prova della fede propria di chi gioca l’esistenza sulla fede, di chi consacra la vita al Vangelo. La sintesi nella fede e nell’amore è caratteristica del quarto Vangelo che non menziona in generale altri comandamenti, altre virtù, ma sottolinea fortemente nel libro dei segni il credere e, a partire dal libro della rivelazione, l’amare. Questa concentrazione sul credere mi impressiona in modo particolare e, al riguardo, mi chiedo come mai Giovanni parla spesso del credere, ma non della fede, a differenza di san Paolo e degli altri testi del Nuovo Testamento. Perché usa l’espressione “credere”, e mai “fede” (pístis)?

Probabilmente perché, facendone un caso serio, preferisce, al teorizzare sulla fede, suggerire i sentieri, le luci, le fatiche, le gradualità del credere. Quali dunque i sentieri, le tappe, i gradi di un credere autentico, maturo, pieno? Lo capiremo nell’episodio di Nicodemo, nell’incontro con la samaritana. In 4,48, là dove si parla del secondo segno di Gesù a Cana, di fronte alla domanda del funzionario del re che chiede a Gesù di recarsi da lui e di guarire suo figlio, la risposta è fortissima: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete”. Non è necessariamente un rimprovero e, infatti, questa parola potrebbe essere tradotta con un’altra domanda: “Ti fidi? Sei capace di credere al punto da superare i segni e le verifiche tangibili, affidandoti a me e alla mia parola?” Molta gente oggi è in ricerca spasmodica di segni della fede: pensiamo al moltiplicarsi dei pellegrinaggi in luoghi in cui avvengono apparizioni, lacrimazioni, visioni ecc. Chi cerca segni è all’inizio della fede. Gesù stesso ha operato miracoli sapendo che la gente vuole vedere, toccare, sentire. Tuttavia il quarto Vangelo ci invita ad andare oltre, ci pone il caso serio della fede nella sua nudità e semplicità, e vogliamo tenere presente nelle nostre meditazioni questa chiave di lettura, insieme a quelle del compimento e della pienezza. Il Vangelo della gioia La quarta chiave di lettura ci conduce a leggere il testo come il Vangelo della gioia quale frutto della maturità cristiana, presbiterale. Nel libro della rivelazione troviamo due versetti molto significativi. Anzitutto 15,11: durante il discorso dopo la cena Gesù conclude l’immagine della vite e dei tralci con una parola stupenda: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Notiamo l’affinità con 20,31: “Questi sono stati scritti perché, credendo, abbiate la vita”. C’è un secondo versetto pregnante, sempre nel discorso dopo la cena: “Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena” (16,24). La pienezza di gioia, il colmo di gioia è indubbiamente uno degli scopi del quarto Vangelo, una caratteristica della comunità cristiana. Richiamo ancora due passi presenti nelle lettere attribuite a Giovanni. Anche quanti non ritengono che queste lettere siano dello stesso autore del Vangelo, ammettono comunque la loro utilità per penetrare nella conoscenza

del testo giovanneo. 1Gv 1,4: “Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena”. Un altro accenno alla pienezza di gioia ritorna in 2Gv 1,12: “Molte cose avrei ancora da scrivervi, ma non ho voluto farlo per mezzo di carta e di inchiostro; ho speranza di venire da voi e di poter parlare a viva voce, perché la nostra gioia sia piena”. La gioia è pienezza di Gesù che compie le Scritture, che compie il disegno del Padre, e diviene pienezza in noi, opera nelle profondità della coscienza del cristiano maturo. Le domande per la meditazione orante Le quattro chiavi di lettura che ci aiutano ad avvicinare il quarto Vangelo ci suggeriscono quattro domande. Che cosa manca al compimento della mia maturità cristiana? Non posso dilungarmi sulle caratteristiche proprie della maturità, e per questo desidero comunicarvi più semplicemente un’intuizione o illuminazione interiore che ho avuto nel mese di maggio del 2001, in san Pietro, durante la concelebrazione dell’Eucaristia di tutti i vescovi italiani. Mentre contemplavo la straordinaria proporzione armonica fra le arcate e la cupola della basilica, mi chiedevo a che cosa potesse essere assimilata la maturità del cristiano, la pienezza di un cammino di fede. E mi è sembrato che tale maturità, tra le altre caratteristiche, fosse qualificata da un equilibrio, come un’integrazione armonica tra quattro ambiti dell’esistere cristiano, che in noi crescono, ma in misura diversa e non sempre integrata. L’ambito antropologico, cioè una retta concezione dell’uomo, del modo di vivere, un equilibrio tra carne e spirito, tra passioni, emozioni e razionalità. Un equilibrio quindi che tocca il corpo della persona, la mente, la cultura, le relazioni. L’ambito teologico e cristologico che afferma il primato di Dio e della grazia di Cristo redentore, e ha un nesso col precedente. Infatti la retta antropologia sa interpretare il vissuto emotivo dell’uomo sullo sfondo del primato di Dio, di Cristo e della grazia. Anche la New Age10 cerca una retta antropologia; ma quando una retta antropologia fa spazio al primato della Trinità, di Gesù, della grazia, allora appartiene già alla maturità cristiana, non a quella umana.

Per definire più pienamente la maturità cristiana, in completezza (eis télos, direbbe Giovanni), ho intuito che occorre un terzo ambito, l’ambito evangelico, quello della follia di amore. Non è sufficiente l’equilibrio tra realtà umane e divine; è necessario uno sbilanciamento, un uscire da sé. L’ambito evangelico è definito da Gesù con espressioni forti e incisive: odia la tua vita, perdona settanta volte sette, vendi tutti i tuoi beni. Un ambito, potremmo dire, di eccesso, che spinge alla sequela di Gesù verso quell’eccesso dell’amore di Dio, verso il mistero trinitario che è fuoco ardente e consumante, dono totale di sé. Così la maturità cristiana si apre a una qualche intuizione analogica del mistero trinitario. I tre ambiti devono però essere vissuti, correlati, integrati con l’ambito ecclesiale. Non viviamo in solitudine, in astratto, bensì in una rete di relazioni storiche che ci legano con la Chiesa visibile, la sua tradizione, la sua autorità, il suo credo, le sue leggi, in particolare per noi presbiteri che ci dedichiamo gratuitamente e responsabilmente al servizio ecclesiale. Tutto questo si chiama compimento: quando ci accorgiamo che, per grazia di Dio, abbiamo raggiunto una maturità dell’equilibrio vissuto tra i quattro ambiti. Equilibrio che richiede fatica, sforzo, dolore, sofferenze, purificazioni, ma che il Signore stesso opera in noi. Vorrei precisare che ciascuno degli ambiti, lasciato solo, porterebbe a degli estremismi, mentre insieme portano a quella pienezza e a quel compimento di cui ci parla il Vangelo di Giovanni. A che punto sono del mio télos, del mio essere giunto verso la fine? È un invito a interrogarci, a pregare per chiedere al Signore di conoscere a quale punto siamo del cammino, meglio per chiedergli di coinvolgerci nel cammino di pienezza così che il piano di Dio si compia in noi perfettamente, che la Scrittura sia adempiuta in ciascuno di noi chiamati a diventare come Gesù, quindi a adempiere nella nostra vita il cammino delle Scritture. La seconda chiave di lettura suggerisce una successiva domanda: che cosa mi manca per la mia pienezza? Abbiamo visto che c’è una sfumatura di differenza tra compimento e pienezza. Il compimento ci interroga sulla maturità cristiana, e la pienezza sull’affettività che si esprime nell’amore gratuito, sull’intelligenza che si esprime nel capire al di là del semplice vedere e constatare, sull’efficienza che fa il bene perché è bene, a prescindere da ciò che si sente o si percepisce. È una pienezza del cuore, della mente, delle mani.

Viviamo l’amore gratuito? Siamo capaci di giudicare oggettivamente superando le opinioni dei giornali, gli idola theatri11, i sofismi delle vane filosofie, cercando sempre ciò che convince profondamente? Il cammino verso la pienezza non è facile, molti non ci arrivano perché preferiscono le emozioni, le nozioni imparaticce apprese e non integrate. Compiamo il bene perché è bene, oltre il gusto, la comodità, il piacere? Come presbiteri dovremmo essere vicini a tale pienezza e il Signore ci guida e ci conduce, ma dobbiamo esaminarci a fondo perché la nostra biografia è sempre affetta da carenze e da lacune proprio a riguardo della pienezza di cui ci parla Giovanni. La terza domanda, che corrisponde alla terza chiave di lettura, è molto precisa: qual è il mio credere? Non è scontato che la fede cresca con gli anni di ministero, anzi la stanchezza, la ripetitività, la frustrazione, l’aver ripetuto mille volte delle cose senza ottenere frutto, possono far balenare in noi l’idea che, se Dio esiste, ci ha abbandonato. È una gravissima tentazione, una prova della fede a cui il presbitero è sottoposto affinché la sua fede sia piena e possa compiere in purificazione interiore il cammino proposto dal quarto Vangelo. L’ultima domanda non è meno ardua, però più facile da comprendere. Come vivo la pienezza della gioia che è la promessa di Gesù (cfr. 15,11; 16,24)? Come sento in me la pienezza della gioia e quali sono le fatiche, le nebbie, le nubi che la oscurano nel fondo del nostro cuore, dove è stata posta dall’amore con cui siamo stati amati nel battesimo e nei sacramenti fino all’ordinazione presbiterale? Che cosa impedisce a questa gioia profonda di vibrare e in che modo, invece, si esprime pur nel buio e nella prova? Forse la gioia che è pienezza di Gesù non è avvertita e occorre recuperarla, quasi svegliarla dal sonno che talora alberga dentro di noi, perché è una grazia. Sarebbe sbagliato rinunciare a farci delle domande nel timore di scoprire i nostri ritardi e le nostre distanze nel seguire Gesù. Più ci sentiamo lontani dall’ideale di maturità a cui allude il Vangelo di Giovanni, più veniamo rilanciati dal Signore nel gioco arduo del cammino cristiano. Siamo infatti davvero il capolavoro di Dio, capolavoro non necessariamente di perizia umana, bensì di misericordia, di perdono e di amore divino. Qui soprattutto Gesù compie la sua opera dalla croce, e non per niente, preso l’aceto – l’ultima amarezza che gli abbiamo offerto – dice: “È compiuto”, ho fatto per te, per la tua salvezza tutto ciò che potevo. Se accetti la mia mano che ti

stendo dalla croce, sei salvo!

II. IL PROLOGO POETICO (GV 1,1-18) Cominciamo naturalmente a considerare il testo di Giovanni dai primi 18 versetti, anche se preferiremmo partire da qualche pagina più concreta, perché il prologo è uno dei brani più difficili di tutto il quarto Vangelo e non si finisce mai di studiarlo, di rimeditarlo, di contemplarlo. Quando lo si recitava al termine di ogni Eucaristia, mi sentivo ogni volta affascinato e insieme smarrito, non riuscendo a cogliere l’unità del brano, il valore delle parole misteriose che ripetevo. Tra l’altro la liturgia ambrosiana ce lo propone nella messa della notte di Natale e spesso, in questi anni, guardando la gente riunita nel Duomo, mi sono chiesto: come potrà comprendere un linguaggio così mistico? Dunque il saperlo a memoria non ci esime dal rileggerlo restando tramortiti di fronte a esso, come il re Nabucodonosor davanti alla scritta, ai sogni (cfr. Dn 5,1-6). Su questo testo, infatti, si può dire moltissimo, si sono scritte migliaia di pagine sia sotto il profilo teologico sia sotto quello filologico. Di per sé il preludio vero e proprio dell’opera giovannea comprende tutto il primo capitolo, ma ho pensato di distinguerlo in due parti: il prologo che chiameremo poetico e il prologo narrativo nel quale si leggono i brani seguenti il v. 18. Lo stesso mistero è presentato anzitutto in un linguaggio sublime ed enigmatico, e poi in forma narrativa. Noi vogliamo accostare il preludio nello spirito proprio di un corso di esercizi, e in tal senso lo consideriamo come il Principio e Fondamento12 non solo del quarto Vangelo, ma pure del nostro ritiro, perché contiene la premessa e la base di ogni successiva riflessione, anche se esprime già tutto in sintesi. Lo esprime implicitamente, per allusione, e il resto dell’opera non farà che svolgere questo Principio e Fondamento. Abbiamo bisogno di una preghiera più intensa per meditare il prologo poetico come Principio e Fondamento di quella contemplazione di Gesù che ci siamo proposti quale scopo di questi giorni, e ci rivolgiamo alla Vergine Maria: O Maria, tu che hai assistito alla stesura del prologo da parte del tuo

figlio Giovanni, fa’ che non ci spaventiamo di meditarlo, ma aiutaci a buttarci con semplicità, come bambini, nella fede, lasciandoci cullare dal ritmo delle parole, senza pretendere di capire tutto subito e desiderando, sopra ogni altra cosa, di amare colui che si rivela nelle parole dell’evangelista. È importante metterci in questo atteggiamento perché da una parte Giovanni è semplicissimo – il suo testo ha poco più di 1.000 vocaboli su circa 15.000 parole di cui è composto –, e però è altissimo. Il parlare semplicissimo rende questo Vangelo utile anche per le catechesi: molti brani narrativi e carichi di significato si adattano bene sia agli adulti che ai bambini. Seguendo il metodo consueto, ci avviciniamo al prologo poetico con l’esercizio della lectio divina nei suoi tre momenti: lettura e rilettura della pagina per renderci conto delle scansioni, dei temi nodali; meditatio per interrogarci su alcuni valori o messaggi del brano; avvio alla contemplatio del Signore Gesù che si rivela nelle parole del Vangelo. Lectio di Gv 1,1-18 A riguardo della struttura del prologo poetico ci sono enormi differenze tra gli autori che hanno studiato il quarto Vangelo; ognuno propone una scansione diversa, e non è facile capire quale sia la migliore. Forse è giusto ricordare che “testo” vuol dire textus, tessuto, intersecazione, e perciò non è possibile dividerlo, strapparlo, è come la tunica di Gesù. Ho tuttavia cercato di esprimere una divisione in quattro parti, tenendo presente, appunto, che tutti i versetti si collegano. La prima, vv. 1-5: ciò che era e fu fatto al principio. La seconda, vv. 6-8: la prima menzione del testimone, il messaggio del Battista. La terza, vv. 9-13: accoglienze diverse, contrastanti, della Parola. La quarta, vv. 14-18: la pienezza della rivelazione della Parola. Rileggiamo le singole parti. In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta (1,1-5).

Questa traduzione della Bibbia CEI è piuttosto letterale, e vorrei

richiamare la recente Bibbia pubblicata in francese, un volume di grande valore letterario, che traduce così l’inizio del prologo: “En principe, la Parole, Dieu la Parole”. Mi ha colpito perché è uguale al titolo della mia seconda lettera pastorale: In principio, la Parola13, alla quale ho ispirato tutti i successivi programmi pastorali. I primi cinque versetti possono essere suddivisi in due momenti: ciò che era in principio, il Verbo, e poi la creazione. Contemplando ciò che era al principio, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a una montagna altissima, la cui cima è al di là delle nubi; non vediamo dove termini, se non nel mistero trinitario, ma ci sarà detto che questa montagna viene in mezzo a noi, verso di noi con umiltà, tenerezza e mitezza. L’espressione Lógos, tradotta già dalle versioni latine più antiche con Verbo, ricorre solo un’altra volta nel quarto Vangelo, al v. 14 del prologo; una volta in 1Gv 1,1 (“il Verbo della vita”) e una volta nell’Apocalisse: “Il suo nome è Verbo di Dio” (19,13). Perché l’evangelista non ha scelto un vocabolo più usato, per esempio sophía (in principio, la Sapienza)? Lógos è un termine difficile perché polisemantico: significa tutto ciò che è espresso con la voce (parola, sermone, discorso, e anche causa, ragione, conto della spesa) e, in ambito filosofico, la ragione ultima di tutto. Come mai Giovanni non si è servito della parola greca rhéma, che indica più precisamente un oracolo divino? Sono domande che attestano quanto siamo incerti e in ricerca di fronte al prologo poetico. Se la ricerca diviene adorazione umile, amorosa, allora forse comprenderemo meglio il senso di un mistero che ci supera e che è in qualche modo ineffabile. Passiamo alla menzione del testimone: Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza alla luce (1,6-8).

Inizia qui quel vocabolario della testimonianza che sarà frequentissimo in Giovanni, applicato in particolare a Gesù. C’è un versetto sintetico, che ne riassume molti. Dice Gesù a Nicodemo: “In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo visto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza” (3,11). Nel prologo il termine appare per la prima volta attribuito a Giovanni Battista. Abbiamo ricordato che nel quarto Vangelo non si menziona mai la

fede, la pístis; ugualmente non è usata l’espressione Vangelo o evangelizzare, ampiamente presente in Luca e in Paolo, ma si insiste sulla testimonianza che viene resa al mistero di Dio. La terza scansione riguarda l’accoglienza: Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli [il Verbo, pur se qualche esegeta riferisce il pronome alla luce] era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati (1,9-13).

Occorre il verbo credere, tipico del cammino che Giovanni chiede al discepolo; tuttavia si sottolinea specialmente la non accoglienza, che sembra totale. Notiamo come il linguaggio procede per paradossi: il Verbo, la luce vera che illumina ogni uomo, viene respinto e viene accolto. In questi versetti cogliamo un anticipo di tutto il testo evangelico. Non è primaria la denuncia del peccato, bensì la messa in conto da parte di Gesù di essere rifiutato, ed egli accetta tale destino, anzi congloba nel piano di salvezza il suo essere respinto. La non accoglienza è palese: il mondo non lo riconobbe, venne fra la sua gente, fra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto. Nelle nostre sintesi pastorali partiamo sempre dall’idea che la Parola debba essere riconosciuta. Qui, invece, si parte dal contrario: non è riconosciuta, se non da alcuni. Il Verbo viene nel mondo per mostrare che nella non accoglienza, al di là di tutto, il Padre ama e offre il perdono, e non per dichiarare che il mondo è cattivo. Il Verbo fa l’esperienza non soltanto di essere una piccola luce in un mare di tenebre, di essere uno sconosciuto tra gli uomini in genere, ma persino di essere un estraneo tra i suoi, dove “i suoi” sta a indicare Israele, la sua storia, la sua famiglia, coloro che in tanti modi erano legati a Gesù. Tale esperienza che il Gesù storico fa continuamente nel quarto Vangelo, è assai più importante, per Giovanni, di quanto non sia la colpa di coloro che lo rifiutano. Nella meditatio ci chiederemo anche se la luce vera che viene nel mondo e illumina ogni uomo, è da identificarsi con l’incarnazione del Verbo oppure la precede. Una domanda significativa per il dialogo tra le religioni. Infine i vv. 14-18 ci raccontano la pienezza della rivelazione. Il v. 14 è il cuore del prologo poetico e dell’intero Vangelo:

E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (1,14).

Ricordiamo che il tema della pienezza è presente fino all’ultimo momento della passione di Gesù. In questa pienezza risalta di nuovo la testimonianza del Battista, più personalizzata e riportata nelle sue testuali parole: Giovanni gli rende testimonianza e grida: “Ecco l’uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me” (1,15).

Si anticipa il messaggio del Battista che verrà esposto in forma narrativa subito dopo, nei vv. 19-34. Nei vv. 16-18 riprende probabilmente la parola l’evangelista, quasi a commento conclusivo del prologo poetico, che esalta la pienezza nelle sue energie: Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (1,16-18).

Per la prima volta è menzionato Gesù e, nel corso del quarto Vangelo, non si parlerà più del Lógos, del Verbo, della Parola. Stupendo il v. 18 che riprende il v. 1 sottolineando che il Figlio unigenito è nel seno del Padre e ce lo rivela, ci racconta il Padre. Considereremo il significato della parola “nel seno del Padre” nella prossima meditazione. Sulle quattro scansioni del prologo dobbiamo pregare e riflettere, magari nel tempo dell’adorazione. Le parole chiave Può esserci utile riprendere alcune parole chiave. La prima è certamente quella del v. 14: il Verbo si fece carne. La realtà divina, eterna, invisibile, inaccessibile, inscrutabile, indicibile, al di là di ogni pensiero umano, di ogni affermazione umana è qui, è carne. Il Lógos si è racchiuso in un grumo di carne, si è reso visibile, si è attendato fra noi. Nei capitoli seguenti Giovanni non farà altro che trarre le conclusioni da questa proclamazione centrale, provocatoria; chi cerca Dio deve cercare il Verbo incarnato e, in lui, contemplare il Padre, il mistero trinitario. Una seconda parola chiave è pienezza. Il Verbo fatto carne è “pieno di grazia e di verità”, in contrapposizione alla legge. Alcuni traducono “amore e lealtà”, invece di “grazia e verità”; altri, considerandola una endiade, “amore fedele”. Possiamo anche tradurre “tenerezza e fedeltà”. In ogni caso è

un’espressione ricca di suggerimenti e di possibili approfondimenti teologici. Il tema della pienezza ritorna al v. 16: “Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia”, una misura sovrabbondante di grazia. Significativo è anche il rapporto luce-vita, che appare già nel v. 4: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Lo riprenderemo nella meditatio, ma possiamo subito notare che i temi vita e luce occorreranno ampiamente nel testo giovanneo: qui abbiamo come una sorta di preludio. Parole chiave sono pure accoglienza e non accoglienza. Negativi i vv. 5, 10, 11: “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”; “Egli era nel mondo […] eppure il mondo non lo riconobbe”; “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”. Il prologo poetico è tuttavia ricco di aspetti positivi, e sono quelli maggiormente presentati: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui” (v. 3); “In lui era la vita” (v. 4); “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (v. 9); “A quanti l’hanno accolto […] a quelli che credono nel suo nome” (v. 12). Tutta la storia testimoniata da Giovanni sarà segnata dal no e dal sì che scandiscono l’inizio del quarto Vangelo; sarà segnata da una serie di fatiche per passare dal no al sì, dalle tenebre alla luce. È dunque una visione altamente drammatica della storia. Occorrenze nella Scrittura Per approfondire la lectio, ci domandiamo se nella Bibbia si trovano pagine simili al prologo. Di simile, in realtà, c’è poco, è quasi un unicum in tutta la Scrittura. Nel Primo Testamento, però, leggiamo tre brani che esprimono una qualche risonanza anticipata. Penso a Prv 8,22-31, dove la sapienza creatrice si presenta come colei che era presso Dio da sempre. Penso a Sir 24, che intesse un discorso elogiativo sulla sapienza, con due differenze rispetto al prologo: anzitutto si parla di sapienza, non di Lógos, di Parola, e inoltre questa sapienza appare creata, pur se a sua volta è ordinatrice e, in parte, partecipa alla creazione. Is 55,1-11 è forse un terzo passo, perché usa il termine Lógos, Parola. Si evidenzia la forza con cui si offre a tutti: “O voi assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente…”; segue l’invito a dissetarsi, con la menzione della “parola”: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, così

sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. Anche nel Nuovo Testamento non troviamo un brano che abbia l’ampiezza di vedute del prologo giovanneo, ma ci sono alcuni elementi interessanti. In Luca è chiara la preoccupazione di cominciare ap’ archés, dal principio (1,2), pur se il principio della vita di Gesù è calato nella storia, non è quello del Verbo che è antecedente la storia. Tra i brani in cui risuonano maggiormente i dati del prologo, possiamo ricordare il capitolo 1 della lettera agli Efesini e della lettera ai Colossesi, e i primi versetti della lettera agli Ebrei, dove viene presentata la vicenda che ha radici nell’eternità, l’avventura di Cristo nella storia che parte dal piano di Dio. Quindi la pagina di Giovanni non è isolata, però è in assoluto la più alta tra quelle che esprimono lo stesso evento di grazia e di salvezza. Alcuni messaggi del prologo poetico Vorrei ora suggerire cinque pensieri o messaggi per la meditazione personale. Nella lectio mi sono domandato perché Giovanni comincia il suo Vangelo con l’espressione Lógos, Parola. Mi sembra di intuire che lo fa perché Gesù è colui che parla del Padre, racconta ciò che il Padre ha da dire fino in fondo. Ho trovato, in proposito, una formula efficace in un libro di Karl Rahner14: “L’autointerpretazione di Gesù, contenuta nel suo messaggio e confermata dalla risurrezione […] fa di lui un ‘profeta’, cioè il detentore di una parola di Dio rivolta all’esistenza storica concreta (al di là di tutte le ‘verità sempre valide’), a una decisione”15. Ogni profeta però considera la sua parola come superabile in una nuova situazione. E infatti Geremia sarà seguito da Ezechiele, ed Ezechiele sarà seguito da alcuni dei profeti minori. “Gesù invece considera la sua parola come definitiva e insuperabile […] A questo riguardo dobbiamo considerare che la sua parola, in quanto ultima parola di Dio, non può essere pensata come definitiva per il fatto che Dio proprio ora cessi arbitrariamente di continuare a parlare quantunque possa continuare a farlo (‘concluda’ la rivelazione quantunque possa continuarla solo che lo voglia); quella presente in Gesù è l’ultima parola di Dio, perché al di là di

essa non v’è più nulla da dire, perché in Gesù Dio ha detto realmente se stesso in senso rigoroso”16. E vorrei aggiungere: Gesù ha detto il Padre – ciò è implicito nel prologo – in particolare esponendosi, lui innocenza perfetta e assoluta inermità, a una morte violenta nel più totale abbandono, mostrando poi nella sua risurrezione che Dio era con e in lui. Ed è questa parola di Dio che siamo chiamati ad accogliere nel fuoco del roveto ardente. Quindi Gesù – continua Rahner – “è il Figlio e la Parola di Dio, anzitutto in un senso che è anteriore alla rappresentazione di un Figlio-Lógos preesistente e che può e deve essere predicato della sua realtà umana in quanto tale”17, non necessariamente con un’intenzione trinitaria (come ha fatto sant’Agostino che ha introdotto la parola Verbum nella categoria del Verbum internum, pervenendo attraverso l’analogia della mente pensante a indicare la Trinità). Giovanni parte dal fatto concreto: Gesù ha espresso il Padre soprattutto nella sua morte ignominiosa di croce, e il suo parlare del Padre non è un accidente, un incidente storico, perché il suo saper parlare del Padre è fin dal principio. È l’invito a compiere il salto di fede proprio della maturità cristiana, a capire in profondità che la fede è qualcosa di molto serio, è accettare Dio come lo esprime Gesù. Un secondo messaggio o pensiero. Mi ha sempre colpito il v. 3 del prologo: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste”. Colgo in questa frase la radice di ogni lectio divina, perché in lui, nella Parola, anch’io sono stato creato. È il Verbo il segreto della mia vita, il mio destino e, ritornando a questa Parola, mi ritrovo; leggendo la parola della Scrittura, attingo al Verbo nel quale sono stato creato e sono tuttora sostenuto, mantenuto nell’esistenza, lanciato verso il mio futuro. lui è la radice, la spiegazione ultima di chi sono io. Quando i giovani ci domandano, di fronte al tumultuare delle loro emozioni contrastanti: “Ma io chi sono?”, dovremmo rispondere: cercati nella Parola che ti ha creato, in essa è la tua ragione di vita! Mi colpisce sempre molto anche il v. 4: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Notiamo l’inversione della sequenza rispetto al racconto della Genesi, a cui peraltro si fa chiaro riferimento: non prima la luce e poi la vita, ma prima c’è la vita, che è luce. Come spiegare l’inversione dell’ordine dei termini? A me pare che in tutta l’esperienza spirituale che anima il quarto Vangelo, la vita abbia la

precedenza sulla luce, il vissuto sulla legge: prima si vive, si crede e poi si approfondiscono le ragioni del credere; prima si prega e successivamente si cerca di capire ciò che il gesto di preghiera vuole esprimere. C’è quindi in noi una certa esperienza del primato della vita rispetto alla spiegazione della vita, del primato dell’essere rispetto al capire, del fare rispetto alle leggi precise. È un primato che viviamo in particolare nel cammino verso Dio e che ha la sua radice proprio nel mistero divino che è vita, capacità di dare vita, pienezza di essere. Proprio per questo può diventare luce, rischiarare il cammino umano rendendogli ragione di quanto va fatto, e diventare anche legge. Ma, ripeto, prima della legge c’è la vita, c’è una Persona, c’è la parola di Dio che si comunica. Al principio c’è il Verbo, percepibile perché ama, si dona senza riserve, che poi è la luce del mondo e determina il senso della nostra esistenza. Il voler capire tutto prima di fare, di agire, significa mettere la luce prima della vita, dimenticare la potenza dello Spirito che opera in noi, ci spinge a donarci senza riserve; e la luce ci viene data a mano a mano che ci doniamo. Così colgo il messaggio implicito e nascosto nel misterioso versetto: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”. Tanto più che la luce è molto importante per Giovanni, e in seguito parlerà solo della luce, dopo aver proclamato che la vita è luce. Un quarto messaggio lo traggo dai vv. 5-13: l’onnipotenza, nei tempi e nello spazio umano, della luce del Verbo. Si parla di una luce eterna del Verbo che da sempre illumina l’umanità (la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta), oppure si anticipa il destino del Verbo incarnato, che verrà descritto esplicitamente nel v. 14? È la domanda cui ho accennato nella lectio. In altre parole, il Battista è presentato, nei vv. 6-8, come testimone del Verbo incarnato oppure di quella luce che illumina ogni uomo e che già prima dell’incarnazione è capace di illuminare la vita di ogni carne e di farne figli di Dio? L’interrogativo ha oggi un’importanza straordinaria. Si tratta di capire se le religioni non cristiane sono semplicemente delle deviazioni o resistenze al mistero del Verbo fatto carne, o possono essere, in qualche modo, partecipi della luce che fin dalle origini del mondo ha illuminato e tuttora illumina il cuore dell’uomo. La maggior parte degli esegeti ritiene che nei vv. 5-13 si allude alla luce del Verbo che rischiara ogni cammino umano e le cui vestigia si possono

trovare in tutte le culture, le filosofie, le religioni, naturalmente mescolate alle tenebre e alle resistenze indicate nel prologo. Non è una teologia facile delle religioni (sono tutte uguali); è invece un modo di far capire che, prima di incarnarsi in Gesù, il Verbo si offriva già all’umanità come luce, senso della vita, si offriva indicando come ogni uomo è chiamato ad amare, a dedicarsi, a superare se stesso, ad ascendere verso il mistero di Dio. Mi piace molto questa interpretazione, in quanto spiega meglio il perché del dialogo interreligioso e fra le culture; ci aiuta a scoprire le ragioni autentiche per cui è possibile dialogare senza venir meno alla verità, rispettando le verità presenti in altri, ma ponendo sempre in primo luogo la Verità che è la Parola fatta carne. Gli stessi Padri della Chiesa parlavano di “semi del Verbo” diffusi nel mondo, pur se raramente facevano riferimento ai versetti del prologo giovanneo. E il documento Dominus Jesus, del 6 agosto 2000, è nella stessa linea18: il centro e il culmine di tutto è il Verbo incarnato, l’unicità del Signore Gesù, ma il Verbo che dall’eternità illumina ogni uomo non ha cessato di illuminare l’umanità intera. Anche coloro che si dicono non credenti hanno dentro di sé delle scintille – magari sfolgoranti –, dei riflessi della luce del Verbo. A proposito delle condizioni del dialogo interreligioso, ho letto qualche mese fa un libro dal titolo I tre Maritain – narra l’amicizia profonda che ha legato Jacques Maritain, la moglie Raïssa e sua sorella Vera19, la quale ha avuto un ruolo determinante per la spiritualità del grande filosofo. Nel libro viene citata una lettera di Louis Gardet20, ottimo conoscitore del mondo musulmano, che era diventato piccolo fratello di Gesù. Scrivendo a Maritain, il 4 gennaio 1960, diceva: “Solo un’autentica antropologia, radicata nella filosofia dell’essere e confortata dalle luci della fede, consente di abbordare, secondo un approccio fondato in verità e a una profondità diversa da quella delle scienze umane, la diversità delle culture, delle religioni e delle esperienze spirituali, la pluralità delle filosofie, così come i grandi problemi sollevati da questi fatti”21. È il pluralismo in cui viviamo e che tante volte ci rende smarriti perché non sappiamo dove e come collocarci, cosa valorizzare e cosa respingere. Le parole di Gardet mostrano che la radice del vero dialogo è l’antropologia fondata sulla filosofia dell’essere e illuminata dalla fede, cioè una fede vissuta in profondità. Continua la lettera: “Io la ritengo – questa antropologia radicata nella luce della fede – altrettanto necessaria per rispettare l’apporto di ciascuna di queste grandi avventure umane e rendere loro giustizia, senza

tuttavia relativizzare i valori che impegnano il destino delle persone e della società”. Dialogare dunque senza svendere i valori, dialogare in verità. Conclude: “La pratica, se così posso dire, è venuta a confermare tali certezze”. La teologia delle religioni deve senza dubbio compiere ancora un lungo e faticoso cammino che però ha le sue radici nei versetti del prologo. La menzione del Battista nei vv. 6-8 non riguarda allora soltanto la testimonianza storica su Gesù. Il Battista diventa immagine di tutti i profeti e i grandi saggi dell’umanità, che hanno saputo scorgere, nei diversi periodi della storia, spesso oscuri, fiammelle di quella luce degli uomini diffusa dal Verbo, pur se questa luce incontra tenebre e resistenze. Un ultimo messaggio ci viene dalla considerazione di un dato linguistico, molto significativo, e lo esprimo così: noi siamo già dentro al prologo. Fino al v. 13 l’evangelista parla in generale di ciò che era all’inizio, del testimone Giovanni, dell’accoglienza o non accoglienza data alla luce e alla Parola. Con il v. 14 appare un “noi” che ci coinvolge nel discorso: “Il Verbo venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria… Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto”. Non c’è quindi soltanto la presenza dell’evangelista, ma anche quella di Maria, degli apostoli, di tutta la comunità primitiva, della Chiesa intera. Siamo noi oggi coinvolti nell’evento: il Verbo fatto carne parla a noi, è il sigillo, la chiave della nostra esistenza. Dalla sua pienezza tutti noi riceviamo oggi grazia su grazia. Verso la contemplatio Ho delineato alcune tematiche meditative, dense e stimolanti, che possono poi diventare preghiera, contemplazione, adorazione, partendo da alcune domande. Quali sono in me le tenebre che non accettano o che respingono o che si contrappongono alla luce del Verbo? Tutto il quarto Vangelo, specialmente nella prima parte, è destinato a rispondere a tale domanda. Non è solo e tutto luce il messaggio di Giovanni: è luce nelle tenebre, luce contro le tenebre, luce a cui le tenebre si oppongono. Come questo dramma, che vive ogni persona umana, ogni civiltà, ogni cultura, si riflette in me? E, richiamando gli scopi degli esercizi: che cosa devo superare o chiarire dentro di me? Una seconda domanda riguarda i vv. 12 ss. Quale accoglienza voglio fare

alla luce che si attenda fra noi, al Verbo che è qui presente? Come lo accolgo nella preghiera: con riverenza, col silenzio, con l’ascolto? Offriamo quindi noi stessi, la fatica di questi giorni come desiderio di non respingere, bensì di accogliere la Parola che vuole abitare pienamente nel mio cuore, vuole che attinga dalla sua pienezza di Verbo incarnato e riceva con gioia e gratitudine grazia su grazia. Un terzo spunto per la preghiera: quale adorazione vorrei esprimere con Maria al Verbo incarnato presente nell’Eucaristia? Come lodare, proclamare, ringraziare insieme con Maria Gesù che, nel mistero eucaristico, ci chiede il dono di noi stessi?

III. NEL SENO DEL PADRE L’icona e il titolo di questa meditazione è “nel seno del Padre”. Osserviamo subito che “nel seno” è, in greco, eis tòn kólpon, indicando quindi che il Verbo è “verso il seno del Padre”, a lui rivolto. Ed è interessante notare che il termine “seno” o “grembo”, con il quale si chiude il prologo poetico (1,18), si trova poche volte nel quarto Vangelo e nello stesso Nuovo Testamento. Ricorre per esempio in Lc 6,38, dove significa misura larga: “Date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo”, eis tòn kólpon hymón. Il grembo è qualcosa che accoglie. Leggendo il versetto lucano mi è venuto in mente il gesto di Booz nei riguardi di Rut dopo la notte da lei passata ai suoi piedi; al mattino presto Booz si sveglia, vede la donna e la invita a partire prima che sorga il sole dicendole: “Apri il mantello che hai addosso e tienilo con le due mani”. Essa lo tenne ed egli vi versò dentro sei misure di orzo e glielo pose sulle spalle (Rut 3,15). Non è menzionata la parola “grembo”, ma il mantello è come un grembo, un grembiule che si può riempire. L’espressione ritorna in At 27,39 nel senso di golfo, di insenatura quando, dopo la tempesta, i naviganti si avvicinarono “verso un’insenatura”, kólpon. A questi due usi concernenti la figura e la forma del grembo, si aggiunge un’altra occorrenza di questo termine nel testo di Giovanni: “Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù” (13,23). La versione greca recita: en tò kólpo toû Iesoû, sul seno di Gesù (parola richiamata anche in Lc 16,22-23 a proposito del povero Lazzaro che

fu portato dagli angeli nel “grembo di Abramo”). Siamo invitati a contemplare ampiamente l’immagine di Gesù che è nel seno del Padre, seguendo l’esortazione del papa nella Novo millennio ineunte, al n. 16, da me sottolineata nell’introduzione al nostro corso di esercizi22. L’Unigenito che è nel seno del Padre Riflettiamo dunque sul v. 18 che è in stretta relazione con l’inizio del prologo poetico: “In principio era la Parola e la Parola era presso Dio”, pròs tòn theón. È molto discussa la traduzione italiana e la nuovissima versione della CEI ne ha proposta una più letterale: “Il Verbo era verso Dio”, che sta a indicare una tensione dinamica. L’espressione appare ancora al v. 2: “Egli era in principio presso Dio”. Vorrei chiosare l’occorrenza del v. 18 per comprendere meglio, a partire dall’insieme del quarto Vangelo, il rapporto sorprendente di sottomissione di Gesù al Padre e di legame col Padre, e mi servo di alcuni titoli: Gesù fa la volontà del Padre; Gesù viene nel nome del Padre e opera su comando del Padre; Gesù dice solo le parole che ascolta dal Padre e compie le sue opere; Gesù è testimone del Padre. Possiamo affermare che il pròs tòn theón e l’eis tòn kólpon toû patrós sono chiaramente messi in luce da tutto l’agire e l’insegnare di Gesù. Mi limito a qualche citazione, nel desiderio di allertare i vostri orecchi, di aiutarvi a riconoscere le molteplici occasioni in cui si evidenzia il rapporto di Gesù col Padre. Gesù fa la volontà del Padre. Mi fermo anzitutto sull’episodio della samaritana, verso la fine. I discepoli sono ormai ritornati, si stupiscono di vedere il loro maestro con una donna e, offrendogli del cibo, lo pregano di mangiare. Gesù risponde: “Ho da mangiare un pane che voi non conoscete”. Essi non capiscono ed egli dichiara: “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (4,34). Per Gesù il cibo di cui non può fare a meno e che continuamente lo fa essere, è fare la volontà di Colui che lo ha mandato. Emergono qui due parole chiave: thélema (volontà) e pémpo (mandare). Lascio a voi di cercare, con l’aiuto delle concordanze, i tanti testi in cui Gesù esprime la coscienza di essere inviato dal Padre per fare la sua volontà. Una terza parola chiave del v. 34 è: “compiere la sua opera”, érgon. Sulla

croce proclamerà: “Tutto è compiuto”, ho compiuto l’opera del Padre. Nel capitolo 5 si contrappongono addirittura la volontà di Gesù, della sua umanità, con quella del Padre: “Io non posso far nulla da me stesso” – perché è tutto rivolto al Padre –; “giudico secondo quello che ascolto” – è tutto ascolto della volontà del Padre – “e il mio giudizio è giusto perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato” (v. 30). Gesù quindi potrebbe discernere fra i diversi eventi l’evento che meglio sembra corrispondere alla sua missione; tuttavia sceglie di cercare la volontà di chi lo ha mandato. Non si tratta semplicemente di un’accettazione passiva, bensì di una precisa adesione alla volontà del Padre, che costituisce l’essenza della sua vita. Gesù viene nel nome del Padre e opera su comando del Padre. In 6,3840, al centro del discorso sul pane di vita, Gesù dice: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di Colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. In 8,29, mentre cresce la resistenza alle sue parole, afferma di nuovo: “Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”. Non cerca il proprio gradimento, non cerca la gloria degli uomini (cfr. 5,41), come coloro che gli si oppongono, che amano la gloria degli uomini più che la gloria di Dio (cfr. 12,42-43). Gesù fa solo ciò che piace al Padre. Gesù dice solo le parole che ascolta dal Padre e compie le sue opere. Ancora al capitolo 8 leggiamo un verbo di adempimento: “Conosco Dio e osservo la sua parola”, óida autòn kài tòn lógon autoû terô (v. 55b). È ciò che Gesù chiederà ai discepoli: se mi amate osservate la sua parola. Questo è il grande segreto di Gesù: amare il Padre, fare la sua volontà, osservare la sua parola, compiere la sua opera. Vi accorgete come si intersecano i titoli che ho dato per sottolineare il rapporto di sottomissione di Gesù al Padre. Cito pure 14,31: “Io amo il Padre e faccio ciò che egli mi ha comandato”. E in 12,49-50 proclama: “Io non ho parlato da me, ma il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che io dico, le dico

come il Padre le ha dette a me”. Gesù è testimone del Padre. Numerosissimi i passi in cui troviamo la parola “testimone” o “testimonianza”. Richiamo almeno 5,36-37, dove Gesù dice: “Io ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniamo di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha reso testimonianza di me”.

Conoscere la vera figura di Gesù La serie di testi che ho evocato mettono in luce le nostre fatiche ad accettare la figura di Gesù obbediente al Padre, ascoltatore del Padre, che si ciba della sua volontà e parla in suo nome, proprio perché a tale figura corrisponde un’immagine di persona umana secondo il piano di Dio. Io per primo ammetto le resistenze interiori che sento di fronte al Gesù di Giovanni, un Gesù che esegue sempre gli ordini del Padre. Una resistenza che nasce certamente dall’immagine di uomo propria del nostro tempo, caratterizzato da libertà, autonomia, primato del soggetto. A noi preme soprattutto osare il rischio della libertà, scegliere non a nome di un altro. E così è presentato Gesù nei sinottici: egli affronta il rischio della libertà delle sue scelte, si gioca in esse fino in fondo. Pure nel Vangelo giovanneo si gioca, ma dicendo continuamente: perché il Padre me lo dice. Cogliamo dunque un contrasto con la nozione di libertà che abbiamo recepito. Alla nostra autonomia si oppone l’eteronomia di Gesù (la legge gli è data da un altro). L’uomo di oggi vuole trovare dentro di sé la regola delle sue azioni, la legge; una legge ragionevole, non arbitraria, che mette in risalto l’amore del prossimo, la giustizia, che però viene dall’interno. Anche il primato del soggetto è molto importante ai nostri giorni: tutte le persone sono uguali, libere, corresponsabili, nessuna deve sottostare se non per quanto è necessario a mantenere l’ordine pubblico e un’ordinata vita comune. Percepiamo istintivamente una contraddizione tra la figura di Gesù, che pure è venuto sulla terra per realizzare l’immagine dell’uomo perfetto, e la concezione odierna dei valori di libertà, autorità, primato del soggetto. Ci interroghiamo: che cosa significa tale contrasto? Quali aperture ci sono proposte se riflettiamo a lungo nella preghiera per comprendere appieno il disegno di Dio? A me sembra che questo contrasto stimoli una triplice apertura, che chiamo: ascetico-antropologica; teologica; antropologicoteologica. La prima apertura, ascetico-antropologica, è innegabile. Infatti, per quanto l’uomo si dichiari autonomo, libero, soggetto primario di azione, sappiamo benissimo di dover fare i conti con i nostri limiti. Anzi, nella visione di fede, siamo creati da Dio e quindi il principio della creazione tocca l’intimo della nostra personalità: riconosciamo che c’è Qualcuno al di sopra

di noi e, nella misura in cui penetriamo il mistero della creazione, riconosciamo che servire Dio significa regnare. Ciò richiede un salto coraggioso. Ho l’impressione che non poche persone rifiutano di credere proprio perché non vogliono compiere quel salto che si esprime nell’accettare di dipendere da Qualcuno più alto di loro; mentre invece è verità, bellezza e giustizia riconoscere un Dio che è prima e più grande di me, un Dio nel quale trovo la mia verità e il senso della mia esistenza. È la verità ascetico-antropologica dell’essere creato, dell’essere dipendente. Vivere il mio limite con coscienza e amore mi ricolma di gioia; davvero servire Dio è regnare. Questa prima apertura provvidenziale, che le pagine del quarto Vangelo ci suggeriscono, è troppo facilmente dimenticata dalla coscienza contemporanea, la quale è sì convinta dei limiti umani – malattia, morte –, e però li rifiuta, tenta di superarli magari attraverso le varie forme di eutanasia, di accanimento terapeutico. Ricordare il principio fondamentale della nostra creaturalità, del non avere in sé la ragione ultima dell’agire – sono creato, dipendente, raggiungo la mia verità nell’adorare il mio Creatore – è la saggezza a cui veniamo richiamati. La seconda apertura, quella teologica, è più ampia. Gesù, nel suo agire dipendente, che può apparire condizionato dall’alto, rivela il Padre, è uno col Padre, ama il Padre. Lo ama e lo rivela in maniera talmente profonda che, quando entriamo nella percezione della sua coscienza, intuiamo come non possa parlare diversamente: in lui si gioca il Padre, in lui si rivela e si manifesta Dio stesso. Gesù rivela il Padre nel suo giocarsi nella storia. Alcuni testi di Giovanni sono particolarmente significativi al riguardo. Penso a 17,22-23, dove Gesù prega così: “La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una sola cosa” (questa è la chiave: una cosa sola Gesù e il Padre). “Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me”. Non è sufficiente un passaggio ascetico, filosofico, antropologico; occorre un passaggio di fede. Entriamo di fatto in quel mistero trinitario che non potremo mai abbastanza capire o approfondire, ma mediante il quale in Gesù è il Padre che parla e si rivela. Su questa apertura senza limiti, proposta dal quarto Vangelo (a differenza dei sinottici che l’accennano appena), cito ancora 10,30, dove Gesù afferma: “Io e il Padre siamo una cosa sola”; e in

14,31: “Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato”. Probabilmente san Tommaso si riferisce a queste parole quando, interrogandosi nella Summa come sia possibile che il Padre comandi al Figlio e il Figlio, pur essendo uguale al Padre, gli obbedisca, risponde: il Padre comanda al Figlio infundendo ei caritatem, amandolo, e il Figlio obbedisce amando23. Gesù quindi rivela l’unità di amore, non un’unità di dipendenza che suggerisca una servitù, una minorità; l’unità di amore si esprime in una uguaglianza di azione che poi assume il linguaggio del servizio, dell’obbedienza quale frutto di amore proveniente dalla perfetta unità. Non è possibile dire con parole nostre la profondità del mistero, e tuttavia la ripida montagna di ghiaccio che è il testo giovanneo ci obbliga a compiere il salto e a confessare: in questo caso singolare della storia, sotto la forma dell’obbedienza, del mandato, del parlare in nome di un altro, del fare ciò che ha visto fare da un altro, è l’altro che si rivela in Gesù e Gesù è trasparenza del Padre. La terza apertura, antropologico-teologica, riguarda direttamente ciascuno di noi. Come Gesù è uno col Padre, così noi siamo chiamati a essere uno con Cristo, a entrare non in una dipendenza servile ma in una comunione d’amore che assume il linguaggio dell’obbedienza, dell’accoglienza del mistero del Padre, del fare ciò che a lui piace in vista di quel linguaggio inesprimibile umanamente dell’unità, della pienezza, di inerenza uno nell’altro. A questo punto recuperiamo i valori di libertà, autonomia, interiorità, primato del soggetto, perché è il Padre che opera in noi, è il suo Spirito che ci fa parlare, operare, agire, obbedire. Recuperiamo la spiritualità del Salmo 1 – “Mi diletto della tua legge” – e del Salmo 118, che è uno splendido inno di gioia per il comando del Signore. È lo stesso Spirito Santo che dice in noi il comando del Signore, che diviene tanto più spontaneo, naturale, genuino quanto più siamo nell’amore, nell’abbandono, in unione con Gesù. La nostra partecipazione alla vita trinitaria, che può costare, come è costata a Gesù fino al suo giocarsi sulla croce, è in realtà l’espressione di una profondissima unità e comunione con Dio che, in Gesù, si gioca pure in ciascuno di noi, in qualche modo. Perciò Giovanni è la parete nord dei quattro Vangeli. L’adesione ascetica a Gesù, al suo comando, alla sua parola, al principio della vita evangelica,

della gratuità, del perdono, della giustizia, della misericordia – che può sembrare, nei sinottici, una virtù, una trasformazione in meglio della persona –, è la vita stessa di Dio in noi, rivelazione della vita del Figlio di Dio, è la nostra identificazione con Gesù. Questo è l’ideale a cui siamo chiamati; questo è ciò in cui trova piena pacificazione il nostro cuore e in cui le cose apparentemente contrapposte si congiungono – la sete di libertà, di autenticità, di autonomia con la dipendenza e l’obbedienza –, a imitazione di Cristo. Ovviamente il cammino è faticoso, intessuto di oscurità e non a caso Giovanni – lo ripeto – è il Vangelo del presbitero, il Vangelo della pienezza. Vorrei concludere la meditazione con una preghiera: Signore Gesù, fa’ che noi ti conosciamo non come crediamo di conoscerti, superficialmente, ma come tu veramente ti mostri, uno col Padre, rivelatore del Padre, operatore della sua volontà, promulgatore delle sue parole. Donaci di cogliere l’unicità, la singolarità e la definitività di questa rivelazione di Dio, presente nella tua vita, morte e risurrezione. Infondi in noi il tuo Spirito perché possiamo partecipare alla vita trinitaria e giungere a quell’ideale a cui tu ci chiami, così da essere una sola cosa con te come tu lo sei col Padre.

IV. IL PROLOGO NARRATIVO (GV 1,19-51; 2,1-11) Donaci, Signore, di accogliere la grazia dello Spirito per partecipare ai sentimenti di Giovanni, il tuo diletto amico, alla sua esperienza di fede. Donaci di porre come lui il capo sul tuo cuore, così da vibrare all’unisono con le pagine del quarto Vangelo e da coglierne la sostanza, ciò che veramente conta e vale, al di là degli aspetti filologici e storici. E tu, Maria, che hai ricevuto le confidenze del tuo Figlio e del discepolo prediletto, aiutaci a penetrare in questo difficile testo che poco a poco ci rivela i misteri del regno di Dio sulla terra e del Regno eterno. Proseguiamo il nostro itinerario considerando il prologo narrativo che riprende, in forma di racconti, alcuni dei temi fondamentali di quello poetico. Fondamentali in quanto costituiscono – come ho già detto – la premessa di tutto il Vangelo di Giovanni. Il prologo narrativo è divisibile in tre scene,

secondo la proposta di Xavier Léon-Dufour24: la testimonianza di Giovanni Battista (1,19-34); i primi discepoli di Gesù (vv. 35-51); le nozze di Cana (2,1-11). Vorrei anzitutto dedicare la lectio e la meditatio alla testimonianza di Giovanni. In un secondo momento spiegherò qual è il Principio e Fondamento per il discepolo che vuole camminare sulla via dell’evangelista, e rifletteremo così, pur se brevemente, anche sugli altri due episodi del prologo narrativo. Lectio di Gv 1,19-34 Come è strutturata la lunga testimonianza del Battista? Il v. 19 presenta il titolo del brano: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: ‘Chi sei tu?’” Al “chi sei tu?” fa eco il Battista che rimanda a Gesù. Vedremo infatti che la figura del testimone è tutta relativa a Cristo. I giudei cercano di fare in modo che lui sveli la sua natura, i suoi poteri, ma Giovanni indica un altro. E questo avviene in tre momenti o scansioni. Nel primo momento dà una testimonianza negativa, insistendo su chi non è: “Io non sono il Cristo”, non sono Elia e nemmeno il profeta, ma una semplice “voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore”. Ricordiamo che nel prologo poetico si parlava di Giovanni che rende testimonianza al Verbo incarnato; ora finalmente viene raccontato ampiamente di quale testimonianza si tratta. Nella seconda scansione (vv. 25-28) il Battista, in positivo, dichiara chi è, ma in relazione a un altro più grande di lui: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me e al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo”. È interessante notare la progressiva presentazione di Gesù: prima appariva genericamente nello sfondo del Verbo, della Parola, e adesso appare come colui che il Battista non è. Nella terza scansione (vv. 29-34) è proclamato apertamente, quasi uscisse dall’ombra: “Vedendo Gesù venire verso di lui il Battista dice: ‘Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene uno che mi è passato davanti, perché era prima di me […] Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui […] ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di

Dio’”. Straordinaria la ricchezza delle testimonianze dirette su Gesù: è l’Agnello di Dio, è colui su cui si posa lo Spirito, è il Figlio di Dio. Il mistero anticipato nel prologo poetico è qui espresso in forma di narrazione. Una parola chiave è indubbiamente Agnello di Dio, del v. 29, che sarà ripetuta al v. 36. L’Agnello di Dio è colui che toglie – o prende su di sé – il peccato del mondo. Lo Spirito, presente per ben tre volte (vv. 32-33) è un’altra parola chiave. Osserviamo che nei primi 18 versetti del preludio non si accennava allo Spirito. Il Battista, dopo aver sottolineato il rapporto tra il Padre e il Figlio, testimonia che lo Spirito si è posato su Gesù. Annunciata nel prologo poetico, ma qui ripresa solennemente è la proclamazione: Figlio di Dio. Un’ultima parola chiave è testimonianza, che occorre all’inizio e alla fine del brano: “Questa è la testimonianza di Giovanni” (v. 19); “Giovanni rese testimonianza” (v. 32); “Ho reso testimonianza” (v. 34). È significativo che nel quarto Vangelo il verbo “testimoniare” si trovi 33 volte sulle 76 di tutto il Nuovo Testamento (quasi la metà). Sarebbe bello approfondire queste espressioni tipiche del testo giovanneo, anche perché – l’ho già sottolineato nella precedente meditazione – non compare mai il verbo “evangelizzare” o il termine “Vangelo”. Nella parola chiave “testimoniare” o “rendere testimonianza” si concentra tutta l’esperienza del discepolo. Concludendo il momento della lectio, ci chiediamo quale rapporto c’è tra la missione del Battista sottolineata nel quarto Vangelo e quella indicata dai sinottici. Se riandiamo con la memoria ai testi di Matteo, Marco e Luca, possiamo notare che parlano molto di più del Battista: le origini familiari (figlio di Zaccaria ed Elisabetta); la sua figura di profeta austero, mortificato, la sua vita semplicissima nel deserto, dove si vestiva di peli di cammello e si cibava di locuste e miele selvatico. Luca in particolare si dilunga nel raccontare le sue forti esortazioni alle folle, la sua predica escatologica: “la scure è già posta alla radice dell’albero”. Tutto questo è assente nel testo di Giovanni a cui preme unicamente evidenziare come il Battista testimonia Gesù che viene. Ciascuno di noi può continuare personalmente la lectio, approfondendo le scansioni della pagina in modo che ci provochino e ci stimolino.

Meditatio del brano Sono tre le piste meditative che vi suggerisco. Qual è il messaggio complessivo del Battista nel quarto Vangelo? Sappiamo che Giovanni presenta poche figure, ma tutte dense di significato. Per lui il Battista è il simbolo di tutti i profeti che annunciano Gesù, è la sintesi di questo annuncio, implicito ed esplicito, nella Bibbia. È il profeta della testimonianza definitiva, e può esserlo in quanto è tutto relativo a Gesù; è colui che gioisce, trasalisce di gioia per la venuta del Signore, e che poi si nasconde. Perciò è anche simbolo dell’umanità che attende, di un’umanità che testimonia Gesù che deve venire ed esprime tale attesa. In tal senso Giovanni Battista designa il nostro ministero come ministero di annuncio e insieme di attesa. Potremmo fare nostre le parole di sant’Agostino: “Con voi cristiano, per voi vescovo”25. “Con voi cristiano”, perché io stesso partecipo dell’attesa di Gesù; “per voi” lo annuncio, ne do testimonianza. Che relazione ha la figura del Battista con la maturità del cristiano, con quella che abbiamo chiamato la maturità del presbitero? Per rispondere teniamo presenti altri due passi in cui l’evangelista mette in scena Giovanni Battista, rispettivamente ai capitoli 3 e 5. In 3,22 ss. è descritto un litigio fra i discepoli di Giovanni e i discepoli di Gesù. “Andarono allora dal Battista e gli dissero: ‘Rabbi, colui che era con te dall’altra parte del Giordano, e al quale hai reso testimonianza, ecco sta battezzando e tutti accorrono a lui’”. Un caso di invidia fra due leadership che si stanno confrontando. La risposta è tipica della sua missione e ricalca quanto ha affermato nel nostro brano, ma con delle sfumature nuove: “Voi stessi siete testimoni che ho detto: ‘Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo’. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire”. L’ultimo versetto indica nella maniera più chiara possibile il rapporto che ha la figura del Battista con la maturità cristiana e presbiterale. Il Battista è colui che fa spazio a Gesù, che sa esprimere quella pienezza di Gesù che deve crescere nei cuori. Siamo di fronte a un tema nodale per tutto il nostro cammino pastorale, per la direzione spirituale, per le nostre relazioni con la gente. Nel servizio

pastorale noi esercitiamo una certa leadership, e quando lo svolgiamo bene diventiamo per le persone una guida, un punto di riferimento; ed è molto importante che questo punto di riferimento non venga assolutizzato, ma sia relativo a Gesù. In proposito dobbiamo esaminarci. Da una parte il presbitero è colui che raduna la gente, e quindi ha bisogno di un po’ di consenso, di esercitare qualche attrattiva, di avere influenza nel cuore delle persone; tuttavia deve anche sapere fare spazio a Gesù, tirandosi indietro. Dalla tentazione di accentrare tutto su di sé non sono stati esenti neppure i grandi carismatici, coloro che hanno mosso e attratto folle innumerevoli. Questa tentazione è in agguato per ciascuno di noi, e non sempre è superata nella maniera dovuta. Se è vero che, con la nostra scelta di vita, rinunciamo al potere mondano del denaro, del successo politico, della carriera, è altrettanto vero che si spalanca davanti a noi quella fonte di potere che è il potere spirituale, uno dei più forti, perché fa leva sulla realtà intima delle persone. Un potere spirituale che può essere addirittura desiderato per se stesso, goduto, sfruttato. La storia delle aggregazioni nel cammino della Chiesa è segnata da queste devianze. A me pare che la figura del Battista, così come la presenta il quarto Vangelo, risponda alla tentazione del presbitero di mettersi al centro: il Battista attira a sé le folle, ma per dirigerle a Gesù. E Gesù stesso dichiara, in 5,33: “Voi avete inviato messaggeri da Giovanni ed egli ha reso testimonianza alla verità”. Dunque, il segno tipico della maturità del presbitero è, a mio avviso, il saper coniugare la capacità di attrarre la gente e quella di indirizzarla verso Gesù: lui deve crescere, io diminuire. La figura di Giovanni Battista ha un significato anche per la vita di preghiera. All’inizio del cammino, inconsciamente e inevitabilmente, ci mettiamo al centro: preghiamo molto per noi, tentiamo di costruire una preghiera che si esprime in modo conveniente ed esteticamente bello davanti a Dio, nel desiderio che il dialogo interiore si riversi beneficamente sulla nostra struttura interiore. Quando la gente chiede: “Mi insegni a pregare?”, in realtà intende chiedere: “Mi insegni a stare bene con me stesso, a vivere un’interiorità che dà pace, calma, serenità?” Sono certamente dei valori, ma secondari, penultimi, non ultimi, e rischiano di diventare un idolo, impedendo di capire che cosa significa pregare nei momenti di stanchezza, di prova, di desolazione. Di fatto la vera preghiera asserisce l’alterità di Dio, ed è preghiera

passiva, dove le consolazioni diminuiscono e lo Spirito del Signore prende possesso di noi oscuramente, per purificarci con un fuoco invisibile, di cui si sente il dolore, ma non l’effetto benefico. Entrare nella passività della preghiera costituisce un momento assai delicato, un momento di passaggio difficile, ed è auspicabile che un amico, un direttore spirituale, una guida ci aiuti a non cadere nella distrazione, nella pigrizia, ci aiuti ad aprirci allo Spirito perché, attraverso le notti della fede e della speranza, Gesù possa regnare sovrano nel nostro cuore. Forse ricordate il pellegrinaggio del 1995 in Spagna, sulle orme di Teresa d’Avila e di Giovanni della Croce. Nel convento dei carmelitani di Segovia avevo tenuto una meditazione sulla lectio divina e spiegavo che la stessa lectio divina è destinata, in qualche modo, a semplificarsi verso una maggiore passività, che non abbandona del tutto il contatto col testo, ma diventa più semplice, più umile, nascosta, segreta26. Mi sembra dunque che Giovanni Battista dia dei messaggi forti alla storia della Chiesa, alla pastorale, alla spiritualità, proprio per la sua relatività a Gesù, il suo godere e accettare di diminuire perché lui cresca. È una lezione ardua, molto alta, non da proporre ai principianti, bensì ai cristiani maturi, e ci interpella: do spazio progressivamente a Gesù nella mia vita di presbitero, do spazio alla potenza dello Spirito nella preghiera? Da ultimo ci soffermiamo su una designazione chiave di 1,19-34: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”. Mi piace approfondire con voi – e invitarvi ad approfondirla nella preghiera – questa espressione che è diventata una formula liturgica. La ripetiamo ogni volta che nell’Eucaristia presentiamo il corpo del Signore Gesù ai fedeli, pur se con una leggera mutazione, perché diciamo: “Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie i peccati del mondo”. L’espressione ha soltanto due occorrenze nel quarto Vangelo: qui e in 1,36, quando Giovanni, “fissando lo sguardo su Gesù che passava”, ripete: “Ecco l’Agnello di Dio”. Nel resto del Nuovo Testamento viene evocata due volte. In At 8,32 l’eunuco della regina di Etiopia, seduto sul suo carro da viaggio, sta leggendo Is 53,7-8: “Come un agnello senza voce innanzi a chi lo tosa”. In 1Pt 1,18-19, dove Pietro si rivolge ai cristiani dicendo: “Voi sapete che siete stati liberati con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia”. Non ci sono altre occorrenze di questa parola, almeno nel vocabolo greco ámnos usato dall’evangelista che lo mette in bocca al Battista. È

comunque una parola pregnante “Agnello di Dio”, se basta per giustificare una sequela: “I due discepoli, sentendolo, seguirono Gesù” (cfr. 1,36). Quale mistero, quale insegnamento racchiude? Un insegnamento certamente nuovo nella linea del quarto Vangelo: il prologo poetico ha presentato Gesù dapprima come vita, luce che illumina ogni uomo e poi, più precisamente, come pieno di grazia e di verità, come unigenito del Padre. Non accenna alla redenzione, alla croce, alla morte del Verbo fatto carne, pur se queste realtà sono evocate velatamente. Menzionando le tenebre che non accolgono la luce, il mondo che non lo ha riconosciuto, menzionando la sua gente, i suoi che non l’hanno accolto, l’evangelista lascia intravedere un dramma. Inizierà a specificare il dramma proprio il Battista con la designazione di “Agnello” che allude al sacrificio cruento. Consideriamo allora i significati di Agnello di Dio. Richiamo tre piste di interpretazione, che per gli esegeti sono contrastanti e però nella lettura complessiva e meditativa del testo, possono fondersi. La prima attinge a Is 53 – il brano citato in At 8,32 –, l’agnello di Dio è il servo del Signore, che dona la vita per molti. Volendo giustificare la spiegazione, si fa notare che, in aramaico, la stessa parola può significare sia il servo sia il figlio, oppure agnello. Alcuni ipotizzano che il Battista abbia dichiarato: “Ecco il servo del Signore”; dalla radice aramaica la tradizione greca avrebbe invece ritenuto la parola “agnello”. Penso non sia necessario appellarsi a tale distinzione perché certamente lo sfondo di Is 53 – del servo sofferente – viene per forza evocato dalla formula “Agnello di Dio”. Una seconda pista è proposta dagli esegeti per i quali l’Agnello che toglie il peccato del mondo va collegato con l’Agnello vincitore dell’Apocalisse, dove è menzionato 29 volte con il sostantivo arníon, e non ámnos. Fin dall’inizio l’Apocalisse punta sulla visione dell’Agnello immolato che vince, che veramente toglie il peccato e l’ingiustizia, anche passando attraverso la cosiddetta “ira di Dio”. Se la prima pista sottolinea l’aspetto sacrificale, la menzione arníon dell’Apocalisse evidenzia l’aspetto della vittoria sul male, sul potere del peccato e della morte. Una terza linea interpretativa, abbastanza diffusa, legge nella designazione del Battista l’agnello pasquale dell’Esodo, agnello il cui sangue asperso sulla porta protegge dallo sterminio i figli di Israele (cfr. Es 12,1-14). Personalmente ritengo che, per una meditazione globale, approfondita, tutte e tre le piste siano valide: il sacrificio della vita, la vittoria di Gesù sul peccato e la morte, l’agnello pasquale che fa uscire dall’Egitto il popolo

conducendolo dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù alla libertà. Abbiamo cercato di capire meglio il senso della prima parte della formula: “Ecco l’Agnello di Dio”. Resta da comprendere la seconda: “Ecco colui che toglie il peccato del mondo”. “Toglie”, in greco áiron, nel senso che lo guarisce, lo vince, lo supera, lo stritola, lo toglie di mezzo. Il Vangelo di Matteo usa un altro verbo in 8,17, quando richiama il testo di Isaia: “Egli (Gesù) ha preso le nostre infermità”, i nostri peccati. Noi tuttavia stiamo con Giovanni. Léon-Dufour afferma che il Battista parla non dei peccati degli uomini, bensì del peccato del mondo, di quel disordine che intacca l’intera società umana27. C’è un legame tra lo stato presente caotico, confuso del mondo e la non accoglienza di Dio. Qui il peccato fondamentale non è il peccato originale, ma il rifiuto della luce del Verbo. E Dio, in Gesù, toglie questo peccato, sintesi e radice di tutti i peccati. Avevo prima suggerito di confrontarci con la figura del Battista chiedendoci se la nostra leadership pastorale lascia spazio a Gesù, se superiamo le tentazioni del potere spirituale sulle anime, sulla gente. Ora vi suggerisco di pregare anche di fronte alla seconda parte della formula di Giovanni: il Signore ci invita a contemplare l’Agnello di Dio per non aver paura del peccato del mondo. Oggi è facile esplicitare questo peccato: pensiamo agli odi, alle violenze, alle guerre che insanguinano le strade di tanti paesi. Il peccato del mondo è come una spirale senza fine, che fa paura perché può allargarsi sempre più. C’è un altro aspetto dei peccato del mondo: la fame, l’ingiustizia, il degrado di molte popolazioni. Un altro è lo scatenarsi di una sessualità disordinata che fa strage ovunque. E come non pensare all’invidia che corrompe i rapporti, cancella la gratuità, spegne la fiducia? L’Agnello di Dio toglie questo peccato del mondo. Il messaggio del brano (che è una promessa in quanto non viene detto come Gesù lo toglierà) ci conforta esortandoci a non temere, a non avere paura, a essere fiduciosi; ci dice: voi tutti che siete immersi nel peccato del mondo e sentite addirittura in voi una qualche complicità, abbiate speranza perché il Signore è venuto per spegnere le tenebre e bloccare la spirale di odio, di violenza, di invidia, che avvolge il mondo. Viene il Signore non nella maniera in cui forse lo sognava il Battista – mediante cioè una purificazione punitiva che schiaccia i nemici di Dio –, ma attraverso una purificazione più misteriosa, quella dell’Agnello immolato.

Tu, Gesù, sei venuto per togliere il peccato del mondo, per guarire il disordine di cui noi siamo parte, per farci superare l’ansietà, la solitudine che talora avvertiamo di fronte alle manifestazioni di questo peccato. Tu, Signore, sei qui per liberarci e noi vogliamo seguirti sapendo che hai la chiave del mistero della storia, la chiave della croce, del prendere su di te anche le conseguenze del peccato per estirparle, schiacciarle. Nelle parole del testimone Battista leggiamo quindi un preludio, un’alba che ci permette di cogliere come il Vangelo di Giovanni entri in pieno nella storia e sia occasione di luce e di interpretazione per le vicende del nostro tempo. Il Principio e Fondamento Si può parlare, per questo ritiro su san Giovanni, di quel Principio e Fondamento che ho richiamato all’inizio della meditazione sul prologo poetico. Nella tradizione classica ignaziana il Principio e Fondamento è una premessa al lavoro degli esercizi spirituali, che determina lo scenario di fondo, i temi nodali, fa presagire il cammino da compiere, e quindi dà unità e dinamicità al processo di preghiera che segue. Troviamo qualcosa di simile nel quarto Vangelo, inteso come dinamismo di crescita verso la maturità cristiana? A me pare di sì, pur con tutta la lontananza delle analogie perché un Vangelo è sempre irraggiungibile da un punto di vista umano. Se tuttavia contempliamo il prologo poetico e quello storico, scopriamo che la narrazione ci dà quasi, in una sorta di affresco sintetico, il pregustamento del futuro cammino, dei temi nodali che verranno ripresi nelle successive sezioni. Che cos’è allora Principio e Fondamento per il discepolo che vuole seguire la via proposta dall’evangelista? Il cuore, il centro del preludio è che il Verbo fatto carne manifesta la gloria di Dio. E questo è il caso serio della fede, la provocazione fondamentale. Noi siamo chiamati non solo a credere in Dio, ma a credere che il Verbo eterno, che era presso Dio, si rivela e rivela la gloria del Padre in un’apparenza umile e dimessa, divenuto uno fra i tanti. È il grande scandalo giovanneo. Siamo chiamati a credere che la corporeità assunta dal Verbo dà senso e luce alla storia: dal corpo la salvezza, dirà Origene. Il discepolo che Gesù amava ci invita a aderire con cuore di fanciullo, di bambino alla sua

proclamazione, alla sua visione del mondo, affidandoci alle mani del Padre nella certezza che ci guiderà con amore. È questa la premessa, la base, la radice, il fondamento di tutto il quarto Vangelo. E ciò che è espresso in linguaggio altissimo, contemplativo, nel prologo poetico, viene ripreso nei tre episodi del prologo narrativo sottolineando in particolare che il Verbo fatto carne “è venuto ad abitare in mezzo a noi”. Noi ci siamo soffermati sul primo – la testimonianza del Battista – che presenta Gesù come l’Agnello di Dio e il Figlio di Dio. “Agnello” sta a indicare l’umiltà e l’inermità del suo apparire, la sua prevista sofferenza sacrificale, il dono che fa di sé fino alla morte quale vittima pasquale per la salvezza di tutti. È dunque un racconto che approfondisce l’immagine di Dio nei primi 18 versetti del Vangelo: il Dio che salva, che affronta le tenebre e le sconfigge, si fa piccolo, debole, capace di patire nel Verbo fatto carne in Gesù. La seconda scena o episodio racconta gli incontri di Gesù con i primi discepoli, e mette in luce lo stesso progetto di salvezza espresso nel prologo poetico. I vv. 35-36 sono introduttivi: “Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: ‘Ecco l’Agnello di Dio!’” Anche qui il Verbo incarnato, nel quale abbiamo visto la gloria del Padre, non appare in uno splendore eclatante, in maniera da sconvolgere i tempi e i luoghi della vita quotidiana della gente. Gesù è additato dal Battista e i due discepoli si mettono a seguire “l’Agnello di Dio” che si fa loro compagno amabile, cordiale: “Che cosa cercate?… Venite e vedrete dove abito”. Ad Andrea e all’altro discepolo si aggiungono poi Simone Pietro, Filippo, Natanaele e per ciascuno Gesù ha una parola. A Simone dice: “Ti chiamerai Cefa”, ti conosco intimamente; a Filippo dice: “Seguimi”; a Natanaele: “Ti ho visto quando eri sotto il fico”. Gli incontri di colui che “è venuto ad abitare in mezzo a noi” sono cortesi, amichevoli e rappresentano un modo di Dio di farsi vicino a noi con amorevolezza, comprensione, affetto, bontà. Tutto questo raggiunge il culmine nella terza scena del prologo narrativo, nelle nozze a Cana, dove il Verbo incarnato manifesta la sua gloria nella semplicità di una festa nuziale, in casa di una famiglia sconosciuta e in un piccolo villaggio. La festa, che rischiava di essere compromessa da un incidente banale – la mancanza di vino –, viene rallegrata dalla presenza di Gesù, per l’intermediazione discreta di Maria. L’episodio è anche un simbolo dell’alleanza di Dio col suo popolo e mostra come Gesù, nell’umiltà, nel

nascondimento, nel silenzio, quasi nel rifiuto di mostrarsi, è capace di trasformare le nostre carenze, questi grandi contenitori di pietra vuoti, in sorgente di gioia, di amicizia vissuta. Il contesto è quindi familiare e immediato. In conclusione, l’evangelista ci insegna che la nostra immagine di Dio e del suo agire nel mondo deve convertirsi alla presenza del Verbo incarnato che entra nella quotidianità di allora e di oggi. È questo il senso globale dei due prologhi, è questa la tesi fondamentale di Giovanni, il suo Principio e Fondamento. Ed è pure il punto di partenza del cammino del presbitero che, per giungere alla maturità della fede, è chiamato a liberarsi da tanti fronzoli, a scoprire l’essenziale. Il prosieguo del quarto Vangelo, fino alla morte e alla glorificazione di Gesù sulla croce, ancor prima che nella risurrezione, sarà un’applicazione del suo progetto di salvezza, di amicizia, di amabilità, di familiarità. Un progetto insidiato dalle tenebre, ma che il Verbo incarnato porterà a termine togliendo il peccato del mondo, ricevendolo su di sé e offrendosi al Padre come vittima. È questo il fuoco che Giovanni vuole accendere in noi e in chi legge il suo Vangelo, in chi contempla il prologo: in Gesù Dio si è detto pienamente e definitivamente. Parafrasando un passo di un libro di Kasper possiamo esprimerci così: “Noi incontriamo Dio non nell’astrazione da tutto ciò che è concreto e determinato, ma concretissimamente nella storia e nel destino di Gesù di Nazareth”28. La concezione di Dio riletta in tale luce comporta una crisi, una rivoluzione nel modo comune di intendere Dio. Perché Dio manifesta la sua potenza anche nell’impotenza, la divinità di Dio è anche nella sua libertà di perdonare e amare chi non lo merita, di comunicarsi al più piccolo e al più debole, di scegliere il peccatore e il ferito per guarirli e sanarli. Tutto ciò è contenuto in sintesi nella proclamazione: “La Parola divenne carne, venne ad abitare in mezzo a noi, e noi vedemmo la gloria di Dio manifestata nella debolezza della morte in croce”.

V. IL PUNTO DI ARRIVO DEL CAMMINO GIOVANNEO Dopo aver descritto il Principio e Fondamento del quarto Vangelo, ritengo utile domandarci qual è il punto di arrivo del cammino proposto da Giovanni al presbitero.

Nella prima meditazione l’ho espresso mediante quattro chiavi di lettura del testo, ma in termini astratti: compimento, pienezza, fede che richiama fiducia e affidamento, gioia. E ho ricordato come questo punto di arrivo, che sottolinea la maturità presbiterale, comporti l’equilibrio fra diversi ambiti: antropologico, teocristologico, evangelico, ecclesiale. Volendo però caratterizzare il punto di arrivo con un termine più concreto, parlerei di amicizia. L’amicizia, infatti, è il compimento di un cammino di relazione, il télos. L’amicizia è una pienezza, un pléthos di rapporti affettivi ed effettivi profondi. L’amicizia vive di un’atmosfera di fiducia, è un fidarsi fino in fondo dell’altro, un sentirsi a proprio agio con l’altro. L’amicizia è certamente uno scoppio di gioia, di una gioia profonda e sorgiva. Penso che questo ideale di amicizia dell’uomo con Dio riassuma bene il messaggio di Giovanni che usa il termine phílos, philéin per indicare il rapporto intimo con Gesù. Naturalmente la parola “amicizia” va intesa in senso largo, filosofico e teologico. Per Aristotele è il punto nodale della vita della città: a suo giudizio la città non si fonda sulla giustizia, ma anzitutto sull’amicizia. Ricordo di aver citato, in qualche discorso alla città, alcuni passi della sua Etica a Nicomaco, dove afferma: “Il punto più alto della giustizia sembra appartenere alla natura dell’amicizia”, descrivendo l’amicizia come quel bene senza il quale “nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni”29. E san Tommaso assume questa griglia interpretativa per presentare il cammino dell’uomo, del suo rapporto con Dio, in termini di amicizia. Sul tema dell’amicizia è anche interessante il famoso libro di Raïssa Maritain, dal titolo I grandi amici30, e quello recentissimo I tre Maritain, che ho citato parlando del dialogo interreligioso31, dove l’autrice descrive la vita di Jacques, Raïssa e Vera come una vita di profonda amicizia, quasi riflesso del mistero trinitario32. Le loro relazioni amicali, straordinarie, partivano da una forma di vita comune in cui ciascuno era se stesso, ma creava un’atmosfera di fedeltà, di lealtà, di mutuo aiuto. Non si spiegherebbe l’itinerario filosofico di Jacques Maritain senza questo fondamento psicologico affettivo. Vorrei allora richiamare alcuni brani giovannei, che designano l’amicizia come parola chiave. L’amicizia nel quarto Vangelo

Il passo fondamentale lo troviamo nel cosiddetto libro della rivelazione, cioè nella sezione in cui Gesù parla apertamente, mentre nella precedente parlava attraverso segni. 15,11-15: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (siamo nel vocabolario della gioia, uno scambio di gioia, e della pienezza). Di conseguenza il suo comandamento: “Che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”. È questo il cuore della rivelazione evangelica etica di Giovanni. L’unico comandamento che Gesù dà è la fede, nel libro dei segni, e l’amore nel libro della rivelazione. Continua: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Appare il termine amicizia come spiegazione di questo amore grande, con il quale i discepoli sono invitati ad amarsi, come li ha amati Gesù. “Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando”. L’amicizia è legata alla fedeltà, a un cammino di obbedienza. “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”. Sarebbe bello meditare a lungo queste stupende parole, che stanno a indicare il punto di arrivo. Gesù vuole che noi, partendo dall’atteggiamento di servi diligenti, diventiamo amici fedeli; più in là, di fronte al mistero della morte, saremo chiamati a diventare amanti estatici, a vivere la follia della croce. Tuttavia è già importante il cammino che porta all’amicizia fedele, a concepire la relazione con Dio non semplicemente come un’obbedienza servile, bensì come un rapporto di intima e sincera amicizia. Possiamo notare che al v. 13 ricorre per la prima volta il termine phílos: “Nessuno ha un amore (agapáo) più grande di questo: dare la vita per i propri amici (upèr tòn fílon autoû). Voi siete miei amici (hyméis phíloi mou)”. Giovanni è l’unico evangelista che impiega la parola phílos per esprimere il rapporto di Gesù con i discepoli e dei discepoli con Gesù (dell’uomo con Dio). Per lo più è usata nel senso di amicizia umana (“In quel giorno Erode e Pilato divennero amici…”: Lc 23,12). Gli amici di Gesù Ho richiamato un brano nodale del quarto Vangelo e cerco ora di disegnare sei ritratti di amici di Gesù, che mostrano il punto di arrivo del cammino giovanneo, un’amicizia autentica e profonda con Gesù. Il primo amico che contempliamo è ovviamente Giovanni Battista. Anche

se si dichiara indegno di sciogliere il legaccio del sandalo di Gesù, è “l’amico dello sposo che esulta di gioia alla voce dello sposo”. Cogliamo in lui il ritratto dell’amicizia matura, in cui l’amore è così libero e sciolto da fargli affermare: “Egli deve crescere, io invece diminuire”. Un amico vero, preoccupato dell’altro, non di sé, non invidioso e non possessivo. Il Battista è assai diverso da altri personaggi evangelici, per esempio da Nicodemo che, come vedremo, pensa solo al proprio ruolo, non è centrato su Gesù. Un secondo ritratto di amicizia lo cogliamo nei due discepoli che, in 1,3539, si avvicinano timidamente a Gesù e, interpellati da lui cortesemente – “che cercate?” –, rispondono: “Rabbì, dove abiti?”, a dire che vogliono essergli amici. E Gesù li invita “e andarono, videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui”. Qui l’amicizia assume il volto della familiarità, dello stare a lungo insieme, dell’intimità. Ricordiamo in proposito la definizione che dà Marco quando Gesù sceglie i Dodici: “perché stessero con lui” (3,14). L’intimità con il Signore è un punto nodale del cammino dell’apostolo, del presbitero. Significativa è pure l’amicizia di Gesù con Marta e Maria. Giovanni annota chiaramente – più ardito dei sinottici! –: “Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro” (11,5). È il voler bene profondo di Gesù, che lo porta a intrattenersi con loro, ad accettare l’ospitalità, a sentirsi a proprio agio nella casa di Betania, senza soggezione. Un amore fortemente ricambiato dalle due sorelle. Maria sarà esaltata per il servizio amoroso durante la cena: “Presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento” (12,3). Un gesto talmente poco usuale da suscitare l’ira di Giuda. E Marta si distingue per il suo carattere audace, per la franchezza con cui parla al momento della morte del fratello. Insieme a Maria avevano fatto sapere a Gesù che il suo amico Lazzaro era malato, ma quando Gesù arriva, Marta gli corre incontro e gli dice senza mezze misure: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” È un rimprovero velato, che testimonia però la grande familiarità che li legava. Si riprende comunque subito: “Ma so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà”. Ha una fiducia assoluta nel Signore, che sa accettare anche le delusioni: “Tuo fratello risusciterà”; ella risponde: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. Gesù insiste: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” E la donna: “Sì, o Signore, io credo che tu

sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. Una splendida proclamazione di fede. Dunque si tratta di un’amicizia intima che presuppone la fede, la conoscenza del mistero di Gesù, della sua gloria. La maturità della fede a cui ci vuole educare Giovanni presuppone un lungo cammino spirituale che permette di intuire l’esperienza misteriosa e quasi estatica propria dell’amicizia con Gesù. Un quarto ritratto è quello di Lazzaro, definito in 11,11 “l’amico”, phílos di Gesù. Non è presentato con altre credenziali, e la sua figura rimane impenetrabile: non parla, non agisce, non si sa che mestiere facesse, non esplicita in alcun modo il suo amore per Gesù. Sappiamo solo che è amico e questa amicizia viene sottolineata in tutto il racconto. Quando Gesù scoppia in pianto, i giudei dicono: “Vedi come lo amava!” Qui il verbo non è agapáo – che ricorre invece in 11,5: “Gesù voleva molto bene a Maria, a sua sorella e a Lazzaro” –, ma philéo: “íde pôs ephílei autón” (v. 36). A significare che gli era amico. E nel v. 11 Gesù stesso dichiara: “Il nostro amico Lazzaro si è addormentato”. Lo chiama quindi amico anche dei discepoli. L’amicizia di Gesù per Lazzaro sembra davvero straordinaria, e Lazzaro gli è, a sua volta, amico perché si sente amato. Giovanni dirà nella prima lettera: “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (4,10). È un messaggio formidabile: noi siamo amati da Gesù perché Gesù lo vuole e ci offre la sua amicizia. La quinta figura, simbolica del cammino del discepolo verso la pienezza, è il “discepolo che Gesù amava”, menzionato in parecchi passi. Pensiamo a 13,21 ss., quando Gesù annunzia che uno dei suoi lo tradirà: “Ora uno dei due discepoli, quello che Gesù amava” – hòn egápa –, “si trovava al fianco di Gesù”. L’originale greco è più audace: “Era nel seno di Gesù” – en tò kólpo toû Iesoû –, a significare un’intimità molto profonda. Pietro infatti “gli fa un cenno e gli chiede: ‘Chi è colui a cui si riferisce?’”, chi è il traditore? E il discepolo amato, “reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: ‘Signore, chi è?’” Gesù risponde con la frase: “È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò”. Se siamo stati in Terra santa e abbiamo mangiato in ristoranti arabi, sappiamo che lo scambio di boccone è comune: si intinge del pane nelle diverse salse, un po’ lo si prende e un po’ lo si passa all’altro. Nel brano il gesto rimane velato, ma certamente il discepolo che Gesù amava viene introdotto perfino nel mistero del tradimento. La menzione ritorna in 19,26, nel momento in cui Gesù è in croce: “Vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla

madre: ‘Donna, ecco il tuo figlio!’” Di nuovo in 21,7, nel capitolo post giovanneo: “Il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: ‘È il Signore!’” La caratteristica del discepolo è l’intuizione, il saper vedere Gesù pur nella nebbia del mattino e da lontano. L’ultima menzione è al v. 20: “Pietro, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: ‘Signore, chi ti tradisce?’. Pietro dunque – sembra con un po’ di invidia – disse a Gesù: ‘Signore, e lui?’. E Gesù: ‘Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi’”. E questo discepolo che Gesù amava è quello “che rende testimonianza su questi fatti” (v. 24). Il misterioso discepolo è forse la figura più alta, più intima a Gesù perché ne penetra i segreti e diventa testimone; probabilmente, anche se gli esegeti discutono, testimone del colpo di lancia, del sangue e dell’acqua che zampillano dal costato trafitto di Gesù. Perché le parole di testimonianza di 21,24 sono le stesse usate in 19,35: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate”. Entriamo qui nel problema: chi è l’autore del quarto Vangelo? O meglio, quanti sono gli autori del quarto Vangelo e a chi attribuire l’una o l’altra parte? Noi ovviamente lasciamo il rompicapo agli esegeti. Ci preme invece capire che per Giovanni il discepolo maturo, che cammina verso la pienezza, è colui che coglie i pensieri del cuore di Cristo, che si lascia amare fino in fondo dal Signore, che vive una profonda intimità con Gesù e sa darne testimonianza. La carrellata di ritratti non sarebbe completa se non richiamassimo, almeno brevemente, la figura di Pietro che, a suo modo, è amico fedele di Gesù. Abbiamo già ricordato, in 1,42, il fatto che Gesù gli cambia il nome, come segno di amicizia: “Ti chiamerai Cefa”, a dire che dispone di lui con tranquillità. A questo primo segno di presa di possesso, risponde la dichiarazione solenne di fedeltà, che chiude le controversie a proposito della moltiplicazione dei pani. Alla domanda di Gesù: “Volete andarvene anche voi?”, segue la proclamazione di Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (6,67-68). È la fedeltà del discepolo amico, e mi viene in mente una bellissima preghiera di don Luigi Serenthà, che incomincia così: “Tu solo, Signore, sei il mio tesoro, tu solo sei la mia ricchezza…”33. Questa amicizia è esplicitata anche formalmente nel dialogo del capitolo finale (21,15-19), dove si alternano i verbi philéon e agapân. La triplice domanda di Gesù è espressa la prima e la seconda volta con agapáo, la terza

con philéo; la triplice risposta di Pietro sempre con philéo. Agapáo è l’amore di dedizione, e philéo è l’amore di amicizia, che permette, per così dire, anche le deviazioni, ma Gesù lo usa tranquillamente al v. 17. La proclamazione di amore di Pietro, dopo la triplice negazione, è il coronamento del suo cammino. Quindi la negazione non ha annullato l’amicizia perché Gesù la ricostruisce, e addirittura affida all’amico la responsabilità del pascere. I ritratti che ho evocato attestano che il punto nodale è quello dell’amicizia fedele, in attesa che il Signore, se lo vuole, ci chiami a vivere la condizione dell’amore estatico che vive con Gesù il mistero della croce. Il rapporto con Dio non è di semplice sudditanza, di sola obbedienza, di sottomissione, ma di vera intimità con il Verbo fatto carne. Un’intimità che richiede coraggio, e perciò l’uomo ne ha paura e si difende accontentandosi di alcuni gesti servili di esecuzione dei precetti evangelici. L’amicizia con Gesù si riflette nell’amore fra noi e nelle amicizie umane Abbozzo un’ultima tematica piuttosto complessa, che sintetizzo nella domanda: l’amicizia e l’intimità con Gesù si riflette nell’amore fra noi e, analogamente, nelle amicizie umane? Certamente l’amore tra fratelli è un imperativo assoluto rivelato da Gesù come condizione essenziale della sequela. L’abbiamo già letto in 15,11-15, e lo leggeremo nel cap. 13 dove appare per la prima volta la formulazione del comandamento nuovo, al v. 34: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. Vorrei citare, per mostrare la complessità del versetto, la nota scritta in un’edizione critica dal mio antico alunno Buzzetti34: Il mondo pagano, come quello israelita (cfr. Lev 19,18), aveva per diversi motivi esaltato l’amicizia e il servizio vicendevole. Ma il comandamento di Gesù è nuovo. Anzitutto perché egli lo pone come esigenza essenziale per entrare nella comunità escatologica. Lo è anche nella misura in cui richiede un’umiltà e una volontà di servizio che spingono a prendere l’ultimo posto e a morire per gli altri. Questo amore sarà ormai segno della presenza del Signore nel mondo35.

Richiama poi 17,21-23 come sigillo della riflessione: “Perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una sola cosa, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a

loro, perché siano una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me”.

L’intimità con Gesù è riportata allo stesso mistero trinitario. Continua la nota: Il modo di vivere di Gesù non offre soltanto una norma e uno stile, ma fonda la possibilità di vivere pienamente l’amore e la mutua edificazione. Contrariamente ai sinottici, Giovanni non parla dell’amore del prossimo, ma dell’amore mutuo dei discepoli.

Qui si aprono molti interrogativi: perché? Cosa vuol dire? Come mai? In ogni caso a me pare che, nel quadro del Nuovo Testamento, Giovanni supponga che dall’amore vicendevole dei discepoli, dei seguaci di Gesù, sgorgherà un amore del prossimo più profondo, così come dall’amore di Dio nasce la possibilità dell’amore fra noi. Accogliere l’imperativo rivelato da Gesù con solennità nel quarto Vangelo significa dunque vivere un amore tra fratelli che è la vera fonte di pienezza e di gioia: “Ecco quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo che scende sulla barba di Aronne, come rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion” (Sal 133,1-3a). Enuncio appena una seconda risposta. L’amore umano di amicizia può riflettere, a mio avviso, alcuni dei valori evangelici; soprattutto se vissuto nell’ambito dell’amicizia cristiana, ne è in qualche maniera un’applicazione, non semplicemente una deduzione logica e rigorosa. C’è quindi un’analogia: come l’amore evangelico è pienezza e gioia, così ogni amore umano di amicizia comporta pienezza e gioia, pur attraverso le prove e le sofferenze per cui deve passare. Dei rischi e delle vicende, tristi e liete, dell’amore umano di amicizia – che è tra le realtà più gratuite, più belle, ma insieme più fragili – fa esperienza il cristiano maturo. Il trascorrere degli anni, quando non si sono commessi errori irreparabili, aiuta a chiarire che cosa era vero amore e vera amicizia, anche fra coniugi, fra uomo e donna. Non intendo approfondire il discorso. Vorrei però segnalare un libro di un autore americano, Donald Cozzens, dal titolo The Changing Face of the Priesthood, “Il volto mutevole del sacerdozio”36. L’autore, che è stato per molti anni Vicario episcopale e Vicario dei religiosi in una grande diocesi degli Stati Uniti, fa un’analisi interessante del vissuto psicologico e affettivo di un prete oggi. Un’analisi che non mi trova del tutto d’accordo, ma il testo può aiutare il presbitero maturo a riflettere su tanti problemi reali. Fra i temi

trattati ne richiamo tre: quello dell’identità della persona del prete come qualcosa da scoprire sempre; quello dell’integrità da custodire (lealtà, coerenza nella vita e nel mondo ecclesiastico); il tema dell’amore celibatario e del come far fronte alle tendenze inconsce. La grazia da chiedere, in questi esercizi, è un’intimità profondissima con Gesù, una maturità cristiana vissuta nell’amicizia con Gesù; per mezzo di Maria che è causa della nostra gioia e fonte della vera familiarità con Cristo. È anche la grazia dell’amicizia fra noi. Una terza grazia da implorare è di arrivare alla maturità per quanto riguarda l’amicizia umana. Donald Cozzens, nel suo libro, parla della cosiddetta società terapeutica, società dove la legge fondamentale è lo star bene, non avere ansietà, guarire da ogni angoscia, ma riconosce francamente che questa società porta a delle intimità facili, di ogni tipo, pur di soddisfarne il desiderio. Leggo testualmente: Sembra che la nostra cultura terapeutica non abbia ancora scoperto il paradosso evangelico, cioè che alcune cose si ottengono soltanto quando sono lasciate andare. La felicità segue la dimenticanza di sé e del desiderio di essere felice, del desiderio di vivere coltivando in ogni modo la propria felicità; occorre invece coltivare la felicità degli altri. La santità segue il desiderio di vivere in armonia con la volontà di Dio, nella lode senza ricerca di sé e nel ringraziamento. La santità è perseguita al meglio indirettamente.

Mette quindi in guardia contro una santità voluta per se stessa, per il proprio orgoglio, per il trionfo personale: Anche l’amicizia e l’intimità seguono quando si ha fiducia che un giorno verranno, e non sono direttamente ricercate. Perché, come per molte benedizioni della vita, l’amicizia è primariamente un dono: a essa ci si prepara con la preghiera, la vita onesta e l’attesa. La ricerca a ogni costo dell’intimità la fa sfuggire lontano da noi, lascia la bocca amara. La ricerca a ogni costo della santità porta a un pericolo spirituale. Il bene viene gratuitamente da Dio quando è gratuitamente accolto e atteso37.

Chi presiede a tutto il nostro cammino affettivo profondo è il Signore stesso nel suo dono gratuito con il quale ci ha prevenuto fin dall’inizio in ogni circostanza.

VI. IL DISORDINE NEL TEMPIO (GV 2,13-25) Tenendo sullo sfondo il Principio e Fondamento del quarto Vangelo, passiamo ora alla tappa successiva che, in analogia con quella della prima settimana degli Esercizi38, definisco tappa della purificazione, della richiesta

di perdono, della lotta contro il male che si annida in noi e ci impedisce di conoscere la gloria del Verbo incarnato. In questo modo ci prepariamo a vivere il pomeriggio di oggi e la giornata di domani come un tempo di penitenza e di purificazione. I testi giovannei – da 2,13 a 4,54 – offrono infatti materia per un approfondito esame di coscienza. Sarebbe bello fermarci sulle singole pericopi lasciandoci interrogare da ciò che comprendiamo e da ciò che ci appare misterioso e provocatorio, ma si tratta di un lavoro affidato a ciascuno di noi. Insieme diamo invece anzitutto uno sguardo ai quattro episodi, intercalati da un intermezzo, che ci vengono presentati all’inizio del cosiddetto libro dei segni; in un secondo momento riprenderemo il primo attraverso la lectio divina. Il primo racconto (2,13-25) parla di Gesù che, salito a Gerusalemme, affronta il disordine nel Tempio, le tenebre che lo oscurano. È un brano che non meditiamo spesso nella liturgia, e però è molto importante. Il secondo quadro narra l’incontro notturno con Nicodemo (3,1-21). Il Verbo incarnato si trova di fronte alle resistenze di un intellettuale, alle pigrizie mentali di chi si ritiene sapiente, ai pregiudizi di un uomo che tuttavia ha buona volontà. Giovanni intende sottolineare che le tenebre non sono necessariamente clamorose, tali da scatenare forze demoniache; possono essere appunto le tenebre del cuore di Nicodemo che si crede un saggio in Israele, mentre ha dei blocchi, delle paure. Gesù lo intrattiene amabilmente, gli sta vicino con amore per aiutarlo a chiarirsi, a uscire verso la luce. È un episodio su cui rifletteremo nella prossima meditazione, perché mostra le nostre resistenze al rinascere, a diventare come bambini, le nostre pigrizie nel penetrare il mistero del Regno. Segue un intermezzo (3,22-36) sull’ultima, bellissima testimonianza del Battista che risponde ai suoi discepoli invidiosi dei discepoli di Gesù (l’abbiamo già richiamata considerando, nel prologo narrativo, la figura del testimone). Anche qui si tratta di superare un’ombra, una tenebra che offusca i seguaci del Battista: essi non vogliono accogliere il Verbo fatto carne in tutta la sua potenza, lo ritengono rivale del loro maestro. Questi discepoli simboleggiano tutti coloro che resistono alla grazia di Dio presumendo di possedere una qualche verità e di non aver bisogno di altro. Nella terza scena, la più lunga (4,1-42), Gesù luce del mondo è impegnato a vincere le resistenze razziali, etniche e religiose della samaritana. Una donna senza nome, che rappresenta tutte le resistenze quotidiane, faticose: ha

problemi in casa, sente il peso di dover andare ogni giorno ad attingere acqua dal pozzo, è confusa interiormente sul fatto religioso, pur accettandolo. È insomma una persona come noi, che deve compiere un cammino di purificazione. Il nodo morale scoppia nella parola di Gesù: “Va’ a chiamare tuo marito”, che mette a fuoco il vero blocco della donna affinché lo sciolga. I tre episodi culminano nel quarto, quello del secondo “segno” di Gesù (4,46-54): ritornato a Cana, dove aveva riempito di gioia la festa nuziale, guarisce il figlio malato di un funzionario del re. Sono due gli insegnamenti di Gesù. Anzitutto ci esorta a non appoggiare la fede sui miracoli, sui prodigi, e a permettere al Signore di farci entrare in un cammino di purificazione. Poi, con la triplice affermazione rivolta al padre del bambino: “Tuo figlio vive!”, ci indica quale sarà la conclusione del momento penitenziale che stiamo vivendo. Una conclusione molto consolante: la tua vita ti è restituita in pienezza nel sacramento della confessione. L’itinerario di purificazione ci porta quindi a partecipare alla vita che sgorga dalla pienezza del Verbo incarnato. Mi pare che i brani da 2,23 a 4,54 ci aiutino a vivere bene la proposta della prima settimana degli Esercizi ignaziani, a capire come vincere le resistenze del presbitero all’amore di Dio rivelato nell’incarnazione, le fatiche nel credere, così da lasciarsi purificare. Non sono resistenze gravissime, ma sappiamo che certe volte i sassolini nelle scarpe ci impediscono di camminare. Vorrei subito notare che, a partire dal cap. 5, troveremo una situazione diversa perché lo scontro della luce con le tenebre diventa molto più drammatico. I racconti precedenti esprimono desiderio, buona volontà, impegno a percorrere la via verso la luce, a superare pigrizie e fatiche. Nei capitoli successivi verrà posta in discussione la stessa definizione di Gesù Figlio del Padre, facendo intravedere lo scatenarsi di forze malvagie contro di lui, la lotta cosmica che avrà il suo acme nella croce. Ho ritenuto necessaria la lunga premessa per orientarci meglio nella lettura continuata, personale del testo giovanneo, e per introdurci alla lectio comune dei versetti chiamati “la purificazione del tempio”. Lectio di Gv 2,13-25 Gesù entra nel Tempio di Gerusalemme ed è preso da un accesso di

sdegno, a motivo del disordine che vi regna. I sinottici collocano l’episodio nell’ultima settimana della vita di Gesù, perché è l’unica settimana che passa a Gerusalemme. Giovanni, invece, lo pone all’inizio e non è facile capire la ragione. Certamente ha un valore simbolico di cominciamento, a sottolineare che Gesù era davvero sdegnato all’inizio, anche se poi si modererà fino a perdonare i suoi crocifissori. In ogni caso questa pagina è molto significativa per noi, ci scuote, ci mette alla prova dicendoci: soprattutto voi, uomini del tempio, lasciatevi purificare! Di fatto ci crea qualche disagio e preferiamo pensare che quanto è accaduto allora non ci riguarda. In realtà le parole di Gesù sono per noi, ci interpellano, ci sollecitano a confrontarci con l’azione purificatrice del Signore. Consideriamo brevemente le scansioni del brano. Dapprima vengono richiamati il tempo, il luogo e la circostanza dell’evento (vv. 13-14). Il tempo è addirittura la Pasqua dei giudei, un momento solenne, col massimo della simbolicità: “Si avvicinava intanto la Pasqua dei giudei”. La Pasqua era tutto: il ricordo della liberazione, il segno dell’amore di Dio. È la prima volta che il quarto Vangelo la menziona come festività che riassume in sintesi la religiosità di Israele. Il luogo è anch’esso santissimo: “Gesù salì a Gerusalemme”. È il suo primo contatto con la città santa. Finora si era parlato di Gerusalemme quale luogo da cui provenivano coloro che andavano a interrogare il Battista: “Chi sei tu?” (1,19), facendo notare una certa tensione tra l’establishement di Gerusalemme e la spiritualità, il carisma di Giovanni che battezzava presso il Giordano. Qui, invece, Gesù affronta Gerusalemme dall’interno. È la città che tiene in mano le sorti del mondo, nella quale ancora oggi la pace e la guerra dell’umanità si decidono; quindi un luogo significativo per la storia dell’umanità. E il Tempio è il luogo più santo in assoluto. Notiamo il crescendo del racconto: verso la Pasqua, a Gerusalemme, nel Tempio di Dio. La circostanza dell’ingresso di Gesù nel Tempio non è quella ricordata da Luca per Gesù dodicenne, cioè il suo desiderio di ascoltare i dottori e di interrogarli; la circostanza è il disordine che regna nella casa santa di Dio: chiasso, mercanti di buoi, di pecore e colombe, cambiavalute seduti al banco. L’onnipotenza del mercato, che è la causa di tanti mali sociali del mondo, era penetrata in quel luogo santissimo: è il mammona iniquitatis che Gesù trova nel Tempio.

Ai due versetti introduttivi segue il fatto (vv. 15-16). Gesù intesse una sferza di cordicelle (lui stesso sarà sottoposto alla flagellazione e porterà su di sé quel peccato che qui condanna esteriormente, che cerca di allontanare con la sferza, ma preparando la vera vittoria finale), e in un accesso di sdegno, di ira, quasi di follia, scaccia tutti fuori dal tempio con le pecore e i buoi. Poi getta a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovescia i banchi. Sembra un’azione irrazionale: perché si è comportato così? Perché non ha scelto di tenere una predica sulla santità di Dio, invitando a mettere ordine? Perché ha rovesciato tutto? Lo spettacolo è di una forza irresistibile, sovrumana. Possiamo immaginare la gente che grida, fugge, è presa dal panico, lo considera pazzo. Tuttavia non perde la bilancia dei propri sentimenti. Ai venditori di colombe dice, con cortesia e dolcezza: “Portate via queste cose”. Pur nello scoppio d’ira mostra l’amabilità del Verbo incarnato, con i più poveri parla in maniera tranquilla e persuasiva, li invita cercando di convincerli. La prima ragione del suo scoppio è chiarita da lui stesso: “Non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. Cogliamo in Gesù un’emozione profonda, la stessa che lo aveva trattenuto, dodicenne, tre giorni nel tempio: “Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?” Anche qui esprime il senso profondo della figliolanza e in più lo sbigottimento nel vedere a che punto è stata ridotta la casa del Padre. Nella terza scansione del brano ci viene data l’interpretazione dell’accaduto. Il v. 17 riporta una prima interpretazione benevola e biblica, quella dei discepoli. Stando istintivamente dalla parte di Gesù, sono frastornati e stupiti dal suo scoppio d’ira e dalla sua violenza fisica; intuiscono però che ci dev’essere qualcosa di grande, di profondo nel suo strano comportamento e cercano di spiegarselo con un passo della Scrittura: “Lo zelo per la tua casa mi divora” (Sal 69,10). Un salmo che si potrebbe supporre messianico, il cui versetto fa capire che Gesù ha agito per amore della casa del Padre. Notiamo che pure nel Salmo 119 ricorre l’espressione: “Mi divora lo zelo della tua casa” (v. 139). Comunque i discepoli colgono nell’azione del Signore un gesto messianico, profetico. Per entrare meglio nel significato del Salmo 69, è necessario leggere anche l’emistichio seguente: “Ricadono su di me gli oltraggi di chi ti insulta”. Paolo li richiamerà in Rm 15,3: “Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti

insultano sono caduti sopra di me”. Mi sembra che il v. 10 del Salmo 69 ci permette di approfondire le intenzioni di Gesù e l’unità nella rivelazione messianica. Non sappiamo se i discepoli abbiano aiutato il loro maestro a rovesciare i banchi, e possiamo anzi pensarli appartati e un po’ imbarazzati, frastornati; certamente sono riusciti a interpretare l’evento nella linea messianica. La seconda interpretazione viene dai giudei che pongono una domanda: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (v. 18). Di per sé non respingono quanto è accaduto, ma l’atto di Gesù li disturba perché, avendo permesso ai mercanti di installarsi nel Tempio, si sentono solidali con loro. Ritengo utile soffermarci sul termine “giudei”, che ha fatto versare, nell’ultima metà del secolo scorso, fiumi di inchiostro a esegeti e non esegeti, dal momento che Giovanni con questo termine designa coloro che resistono a Gesù, luce del mondo. Gli ebrei di oggi insistono nell’affermare che l’espressione sia fonte di antisemitismo. Di qui le precisazioni: l’evangelista non si riferisce a tutti i giudei, a tutto il popolo ebraico – pensiamo ai discepoli, a Maria, a tanti altri –, ma si serve di un appellativo sintetico per indicare quanti diffidano di Gesù, lo guardano con sospetto e ostilità. Che cosa chiedono, di fatto, questi “resistenti”, tra cui forse anche autorità del Tempio? Non intervengono per fermare Gesù, non provano verso di lui astio, paura, odio, tutti sentimenti che porteranno più tardi ad arrestarlo a tradimento. In loro c’è lo smarrimento proprio di chi non capisce e domanda: “Quale segno ci mostri…?”; se il tuo è un gesto profetico, dacci un segno della tua profezia. Avvertiamo nei giudei una certa disponibilità, una certa apertura. La risposta però è insieme simbolica ed enigmatica: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (v. 19). Inizia la quarta scansione, dove il brano acquista una ricchezza difficilmente analizzabile a parole. È chiaro che i giudei non comprendono il linguaggio di Gesù, per cui replicano nel modo più ovvio: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu lo farai risorgere?” (v. 20). Nel racconto matteano della passione, una delle accuse riguarderà il tempio: “Costui ha dichiarato: posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni” (Mt 26,61). Gesù però ha detto: “distruggete”, e non “distruggerò”. Continua il testo: “Ma egli parlava del tempio del suo corpo” (v. 21). La risposta di Gesù si colloca nella linea consueta dell’equivocità, propria del discorrere di Giovanni. Quando, per esempio, la samaritana non capisce le

parole molto alte e spirituali di Gesù sull’acqua che disseta, cioè quella della grazia, ella pensa all’acqua del pozzo di Giacobbe. Un’equivocità, un’ambiguità che si risolverà solo con la risurrezione. Infatti, nella quinta scansione del racconto, è espressa la rilettura nella fede dell’episodio e della parola di Gesù: “Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù” (v. 22). L’evangelista si rivolge a noi: allora abbiamo capito poco, temevamo che dietro l’affermazione della distruzione e della ricostruzione del tempio si celasse qualcosa di terribile, ma la sua parola restava nel nostro cuore. A poco a poco, stando con lui, siamo giunti a comprendere che Gesù è il tempio, il luogo dove si adora veramente il Padre, che la distruzione si riferiva alla sua passione e morte. La conclusione del capitolo 2 Infine, i vv. 23-25, pur se non fanno parte dell’episodio, concludono il capitolo 2 ed è importante tenerli presenti: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome” (v. 23). Il narratore suppone che, dopo aver purificato il Tempio, Gesù si sia fermato a Gerusalemme e abbia compiuto molti segni. Per Giovanni l’uso del verbo credere non indica un assoluto (credere o non credere), bensì un momento del cammino del credere. Ricordiamo il racconto delle nozze di Cana, con cui termina il prologo narrativo: “Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11). Credettero, cioè incominciarono a credere. Un po’ gli aveva creduto Natanaele e gli altri che lo avevano seguito, ma il cammino di fede sarà comunque molto lungo, perché Gesù troverà tante resistenze, fatiche nel cuore dei suoi. Non va dimenticato che il quarto Vangelo tende a descrivere l’itinerario del credere come attraversato da ombre e lotte, fino alla dichiarazione di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (20,28). Il v. 23 è chiarito subito: “Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo” (vv. 24-25). Sapeva che non credevano completamente, totalmente. E il presbitero deve imparare

che il suo credere comporta un faticoso cammino che segna le diverse tappe della vita. Ci si potrebbe stupire della disquisizione sulla conoscenza che Gesù ha di noi, espressa a questo punto del testo evangelico. Probabilmente sta a preparare i colloqui con Nicodemo e la samaritana, persone di cui conosceva il cuore e voleva farne emergere le paure, le lentezze. È una sorta di avviso da parte di Giovanni: guardate che Gesù non si accontenta di gesti esteriori, di parole pronunciate solo con le labbra, di un entusiasmo momentaneo, ma scruta i vostri cuori per illuminarli. Volendo fare un’applicazione concreta: non bastano le Giornate mondiali della Gioventù per asserire che i giovani credono e vivono davvero il cristianesimo; è necessario che giungano a delle scelte precise, definitive, che giochino la vita sulla parola del Signore. Le parole chiave Ritornando all’episodio della purificazione del Tempio, vorrei enunciare brevissimamente le parole chiave, così da favorire la riflessione personale. Al v. 16: portate fuori dal Tempio queste cose, perché il Tempio è santissimo, è la casa del Padre mio. Al v. 19: in tre giorni farò risorgere questo Tempio. Al v. 21: egli parlava del tempio del suo corpo. Cerchiamo di metterci in sintonia con i discepoli, anche se il racconto non è facile da comprendere. La presenza del Verbo incarnato nel mondo viene contemplata quale presenza dirompente e rivelante: c’è un distruggere e un riedificare che il mistero di Dio opera nella storia. È un racconto che anticipa in certo senso tutto il quarto Vangelo, anticipa la risurrezione e la realtà della Chiesa. Siamo noi questa Chiesa che si sforza di capire Gesù come il vero tempio e nel colloquio con la samaritana ci viene detto: “[…] Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre […] I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (4,21.23). Lo Spirito e la verità sono in Gesù e Gesù è il tempio nel quale adorare pienamente il Padre. Meditatio del brano Dopo aver considerato le scansioni del testo, richiamato i versetti finali e le parole chiave sottolineando le indicazioni per conoscere come Gesù si manifesta a noi, cerchiamo di cogliere qualche messaggio che ci aiuti a vivere

il momento penitenziale e di purificazione. Un momento di esame di coscienza sulle nostre mancanze, resistenze, peccati, su ciò che non è soltanto peccato formale, bensì chiusura, fatica nel dialogo d’amore con Gesù. Perché il tema fondamentale è credere nel Verbo incarnato che cammina con noi, e quindi non basta accettarlo, ma occorre entrare nel cammino. Riassumo cinque messaggi o riflessioni, che esprimo a modo di affermazioni. Il tempio in cui Gesù entra si trova in una situazione anomala, nel disordine, ed è lo specchio di una società in disordine. Forse per questo Giovanni ha collocato l’episodio all’inizio: Gesù è convinto che il disordine o comincia dal tempio o comunque è presente in maniera privilegiata nel tempio. Ricordiamo Mc 13,14: “Quando vedrete l’abominio della desolazione stare là dove non conviene, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano ai monti…”; quando il tempio è ridotto a un caos, significa che siamo alla fine. Ciò spiega perché Gesù comincia col purificare il Tempio di Gerusalemme. Le città hanno i templi che si meritano, e perciò disordine nel tempio vuol dire disordine nella società; anche nel tempio si riflette il peccato del mondo che Gesù è venuto a togliere, a perdonare, a prendere su di sé. E nella vita dei cristiani battezzati, tempio dello Spirito Santo, si riflette qualcosa del disordine della società e del mondo. Dobbiamo guardarci dai mercanti che albergano dentro di noi, dagli idoli che si nascondono tra gli anfratti e le pieghe del nostro tempio interiore. Di fronte alla situazione anomala del Tempio, Gesù – mosso dallo zelo che lo divora e che ha portato sulla terra la Parola eterna di Dio infuocata dall’amore per l’uomo e dalla sofferenza per la sua cecità – vuole contrastare il male attaccandolo direttamente, frustando e rovesciando. Compie un’azione simbolica durissima, che scuote e incute paura, un’azione che resterà unica nella sua vita, un gesto che esprime una forza straordinaria di ira, che poi diventerà la mitezza dell’Agnello immolato. Allora lascerà che l’ira si riversi su di sé perché il suo essere immagine del Padre lo farà reagire in maniera divina, perdonando e giustificando. E già qui assume le vesti dell’Agnello vittorioso dell’Apocalisse, nascondendo la sua realtà di servo di Dio, che offre la vita per salvare molti. È chiaro che non sarà mai complice delle tenebre, lui che è la luce, e per questo, quando le affronta, si scontra. Successivamente si mostrerà come

medico paziente che toglie le ombre e le oscurità dal cuore di Nicodemo, della samaritana, del cieco nato, di ciascuno di noi. Siamo però invitati a pensare a quanta ira si nasconde nel cuore di Cristo umile e paziente. L’ira di Gesù è anche la nostra, è il nostro intenso dolore perché l’Amore non è amato, perché la luce viene spenta e soffocata, la vita dell’uomo dichiarata senza senso, la dignità della persona calpestata. Ma, pur essendo sdegnati, non reagiamo facendo uso delle armi, scegliamo invece la via evangelica dell’umiltà e della mitezza. Comprendiamo tuttavia che può esistere anche la tentazione di combattere il male con la violenza, e Gesù lo sa. lui vi ha ceduto per un istante, per mettere in risalto che in seguito se ne asterrà e che pure noi dobbiamo perdonare sempre e comunque. Nell’episodio della purificazione veniamo così educati al mistero di Dio. Nelle parole di Gesù si intravede, col riferimento alla Pasqua, che il male, il disordine nel tempio e nella società, si abbatterà su di lui e lo distruggerà: “Distruggete questo tempio”, che sono io (v. 19). Prevede la sua morte, prevede che la vera purificazione del tempio se l’assumerà in prima persona, che pagherà il suo zelo per la casa di Dio, il suo amore per noi accettando su di sé lo scatenarsi dei disordini sociali e dei peccati dell’umanità, e che vincerà liberandoci dalle tenebre con la sua morte. Il corpo di Gesù, dilaniato e risorto, sarà il vero tempio nuovo. Si annuncia un superamento del regime del tempio, che verrà sostituito con il corpo del Risorto, nel quale siamo entrati col battesimo per lodare Dio in lui, con lui e come lui, da figli. Se dunque siamo il corpo di Gesù, dobbiamo interrogarci sulla purezza di intenzioni con cui viviamo, dobbiamo chiederci se in noi c’è del disordine, c’è qualche aspetto di mercato. Raramente le nostre intenzioni sono pure. Anche nelle nostre azioni sante e religiose la finalità è duplice: da una parte esprimiamo l’amore di Dio, ma dall’altra cerchiamo noi stessi, la nostra gloria. Leggo qui l’invito a vigilare per non prevaricare: anche nel tempio che è Cristo può infatti insinuarsi la ricerca di sé, del proprio tornaconto, del proprio vantaggio. Una quinta affermazione scaturisce da questo ricchissimo brano: il corpo di Gesù distrutto risorgerà come luogo dell’adorazione del Padre. Possiamo integrare con il racconto della purificazione del tempio le parole di Gesù alla samaritana che ho sopra richiamato: “Né sul monte Garizim, né a

Gerusalemme, il Padre sarà adorato, ma in spirito e verità”. Il messaggio è molto semplice: Gesù risorto è il santuario definitivo della gloria di Dio, il luogo della nostra figliolanza e della vera adorazione del Padre nella grazia dello Spirito Santo. Concludendo la meditatio mi sembra che dobbiamo andare oltre le parole per sentire che il Vangelo di Giovanni ci fa toccare il fuoco del monte Oreb e ci avvicina al roveto ardente. Ed è questo lo scopo della meditazione, che poi si esprime nel contemplare Gesù che ci si rivela appunto come roveto ardente. Suggerimenti per la preghiera Suggerisco allora qualche pista di preghiera, tipica del momento penitenziale, sotto forma di domanda. Sullo sfondo dei disordini culturali, religiosi, sociali e relazionali del mondo d’oggi, quali ombre leggo in me? I disordini, le tenebre culturali e religiose che dominano sulla terra sono costituite anzitutto dal non ascolto di Dio – il caso serio della fede! –, dalla non accoglienza della vita che è il Verbo incarnato, colui che illumina ogni uomo. La società, come tale, non prende Dio sul serio, respinge l’idea di un Creatore, di un Signore che ci ama, e pretende di organizzare la propria vita facendone a meno. È il fondamentale disordine culturale del nostro tempo, che si traduce in disordine sociale – ingiustizie, fame, miseria. È il disordine che a livello di relazioni interpersonali si esprime nell’infedeltà, nella sessualità distorta, nelle prevaricazioni, nello sfruttamento. Un altro disordine fondamentale è la mancanza di speranza, che spesso ci attanaglia: che cosa faccio della mia vita? Che senso ha, qual è il mio cammino? In tale situazione quali ombre leggo in me? Il brano evangelico ci dice che i disordini della società pagana e anche giudaica di quel tempo, sono entrati nella casa di Dio. E io, che sono nel tempio, vedo in me qualche traccia di disordine sia a livello religioso e cultuale (come prego, come adoro il Signore, come resisto alle tentazioni contro la fede e la speranza), sia a livello sociale (il mio impegno per la giustizia, la carità, la solidarietà cristiana), sia a livello interpersonale (forse sono tentato di usare le persone o di trascurarle, di metterle da parte, di considerarle un oggetto fruibile o non fruibile a seconda dei casi). Gesù ci

chiama a una presa di coscienza, perché con il suo zelo per la nostra gioia vuole liberarci e purificarci. Una seconda domanda può diventare fonte di preghiera: come intendo partecipare alla lotta di Gesù contro il male? Qual è il mio coinvolgimento? Che posto ha in me lo sdegno? I discepoli che stanno a guardare senza decidersi, non condannano Gesù, ma non si coinvolgono, a differenza di Maria e dell’evangelista Giovanni che lo seguiranno fino alla croce. Quanto allo sdegno, può essere iroso, risentito: il mondo va male, sono tutti cattivi eccetto me, tutti sbagliano… È una reazione magari giusta, però di sdegno inutile, perché non accetta che la condizione umana comporta un cammino di purificazione. In che modo combatto il male intorno a me per vincerlo con il bene? L’ultimo suggerimento ci è offerto dal v. 23: Gesù non si fidava, sapeva quello che c’è nel cuore dell’uomo. Potremmo pregare a lungo dicendo: Gesù, tu mi scruti e mi conosci, sai ciò che c’è in me, tu mi hai fatto così, con queste doti e con questi difetti. Come vuoi che mi purifichi, che ti segua, come vuoi condurmi verso la via dell’ordine, della pace interiore, della gioia piena da te promessa ai tuoi discepoli? Come mi guidi in un rapporto buono con la Chiesa, un rapporto che si fa carico sempre delle sue colpe e fatiche, per riconoscerle e superarle? Io ti ripeto umilmente come Pietro: Signore, tu sai tutto, sai che ti amo e che non voglio contrastare la tua opera di purificazione in me. Forse qualcuno di voi ricorda Madre Speranza, la fondatrice della casa di Collevalenza, che io ho incontrato in diverse occasioni39. La sua giaculatoria preferita era: “Castigami, o buon Gesù, e salvami”. Esprimeva con questa invocazione la coscienza di dover essere purificata e accettava la purificazione pur di essere salvata. Possiamo fare nostre le sue parole con una leggera modifica: Gesù, castigaci e salvaci, purificaci interiormente, ma salva la Chiesa e le persone a noi affidate.

VII. LE RESISTENZE DI UN INTELLETTUALE (GV 3,1-21) Sostienici, Spirito Santo, Spirito di amore, perché la nostra tensione interiore non venga meno. Noi ti rendiamo grazie per i doni spirituali e le

intuizioni che ci hai dato fino a oggi, e ti chiediamo la forza di continuare nel difficile, misterioso cammino proposto dal quarto Vangelo, aprendoci a te così da giungere alla pienezza della maturità presbiterale. Come secondo testo su cui riflettere in questa tappa di purificazione – propria della prima settimana degli Esercizi ignaziani – ho scelto il brano dell’incontro di Gesù con Nicodemo, molto bello e che ricorre poco nella liturgia. Lectio di Gv 3,1-21 È l’episodio introdotto da 2,23-25 – versetti richiamati nella precedente meditazione – e può aiutarci ulteriormente a individuare le nostre resistenze al Verbo fatto carne. Suddivido il testo in cinque parti; le prime tre riportano le battute di un dialogo, e le altre due di un monologo. “C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: ‘Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui’” (vv. 1-2). Questo capo dei giudei esprime un apprezzamento, un complimento, evocando i segni compiuti da Gesù a Gerusalemme – l’evangelista non li racconta, ma è facile supporlo dall’affermazione di Nicodemo. “Gli rispose Gesù: ‘In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio’” (v. 3). È l’inizio di un discorso, una proclamazione antropologica forte, preceduta dalla formula “in verità, in verità ti dico”, che prepara una rivelazione divina. Si tratta quindi di una tesi molto solenne dell’antropologia redentiva: occorre rinascere dall’alto. La reazione dell’interlocutore mostra una sorta di incredulità: “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (v. 4). Non afferra la spiritualità del discorso, però si rende conto che è molto nuovo, molto arduo, perché rinascere significa ricominciare da zero, rifare tutto daccapo, e resiste a tale prospettiva. Chi ha una certa esperienza di vita si ribella all’idea di lasciare tutto e ripartire dal niente. Gesù non entra direttamente nell’obiezione, ma ribadisce il principio: “Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (v. 5). Poi esplicita: “Ciò che nasce dallo Spirito è Spirito”, bisogna accettare la

necessità di rinascere dall’alto (vv. 6-7). La parola successiva è di difficile interpretazione: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (v. 8). Stando alla logica, il discorso dovrebbe svolgersi diversamente: “Il vento soffia dove vuole, ma non sai di dove viene e dove va; ugualmente lo Spirito interviene misteriosamente e per grazia”. Invece il soggetto di 8b non è più lo Spirito, bensì colui che è rinato dallo Spirito. Probabilmente Gesù intende indicare che lo Spirito è agile, sciolto, imprevedibile, gratuito; e anche chi rinasce dallo Spirito partecipa a quella scioltezza, libertà, gratuità che contrasta con la pesantezza, la rigidità, la resistenza di Nicodemo. A dire: se tu, Nicodemo, accetti la parola difficile del rinascere, ti verrà donata maggiore scioltezza. Il terzo momento di dialogo vede Nicodemo sempre più smarrito: “Come può accadere questo?” (v. 9). Ripete l’obiezione precedente, si rifiuta di mettere in questione la sua vita. E Gesù, allora, risponde anzitutto criticandolo: “Tu sei maestro in Israele e non sai queste cose?” (v. 10). Si appella alla Scrittura e poi, riaffermando la sua tesi, si appella alla testimonianza: “In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza” (v. 11). È l’invito a credere, ad accettare le parole di Gesù, e il richiamo è al prologo: colui che è presso il Padre, che ci ha narrato del Padre, dà testimonianza al Padre, testimonia ciò che ha veduto, le realtà del cielo, perché è disceso dal cielo. Molto forte l’espressione “ma voi non accogliete la nostra testimonianza”, ed è accompagnata – come già nel prologo – dall’annotazione sulla resistenza umana: “Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (vv. 12-13). “Salire al cielo” ricorda il salire di Gesù sulla croce; parlando della sua testimonianza e della sua origine celeste, allude d’un tratto alla croce, con un linguaggio enigmatico e misterioso. Aggiunge infatti: “Bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, come Mosè innalzò il serpente nel deserto, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (vv. 14-15). Questo terzo momento del dibattito da una parte rimprovera Nicodemo e dall’altra insiste sulla testimonianza di Gesù che viene dal Padre, dall’alto, e al Padre ritornerà, ma prima sarà innalzato sulla croce. In fondo sembra voler dire a noi: abbiate fiducia in me; il mio mistero è grande, è il mistero di Dio e

lo esprimerò fino alla morte in croce. Il destino cristologico di Gesù è dunque contenuto enigmaticamente nelle parole difficili rivolte a Nicodemo. Ci è chiesto di penetrare nella mistica giovannea, nel dinamismo misterioso del quarto Vangelo accogliendo con fede quanto non riusciamo a capire. Nei versetti che seguono, il dialogo lascia il posto a un monologo di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (vv. 16-17). È una specie di elevazione trinitaria, e chiama in causa Dio che ha tanto amato il mondo, il cosmo, da dare il suo Figlio. E qui il Vangelo di Giovanni raggiunge il suo culmine perché dispiega tutto il disegno di salvezza. Di fronte alla resistenza di Nicodemo, Gesù parla del mistero della Trinità. L’ultima scansione (vv. 18-21) approfondisce la tematica dal punto di vista del giudizio: “Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie…” Non è ovviamente un giudizio escatologico, ma un giudizio sul presente: chi non riconosce Gesù, chi non crede nel suo nome, si condanna da sé, mentre “chi opera la verità viene alla luce”, chi crede è nella luce. Abbiamo cercato di rileggere il testo che in sostanza propone quella rivelazione del Padre nel Verbo fatto carne, nella sua gloria, precedentemente proclamata nel prologo poetico. E il Signore vuole coinvolgerci, per grazia, nella dinamica di questa straordinaria rivelazione. Dopo il tentativo di cogliere analiticamente i valori, i messaggi del brano, come sono stati espressi dalla penna o dalla dettatura dell’evangelista, vorrei riprenderli in modo più sintetico. La figura di Nicodemo Chi è Nicodemo? Secondo il testo è un capo dei giudei e anche un uomo di cultura, perché Gesù lo chiama rabbì, maestro in Israele. Probabilmente è la persona più elevata, più istruita incontrata da Gesù. Del giovane ricco, per esempio, non si dice di quale grado di cultura fosse dotato; forse Lazzaro era colto. Comunque Nicodemo è qualificato chiaramente come uomo di lettere, di teologia, di diritto. Per essere tale non fa certamente una bella figura nel dialogo che si intreccia; è impacciato e

prigioniero di ciò che sa o crede di sapere. In ogni caso va detto, a sua lode, che dall’insieme del brano è una persona in ricerca, e perciò si reca da Gesù di notte per avere un colloquio tranquillo, disteso. È questa la bellezza della sua figura, a cui fa riscontro la bellezza di Gesù che, pur dovendosi occupare di tanta gente, riserva un tempo di dialogo paziente, approfondito per Nicodemo. Contempliamo l’amabilità del Verbo incarnato, intravista nel prologo e poi declinata in tutto il quarto Vangelo: Gesù buono, accessibile, paziente, che rivela nei suoi atteggiamenti la gloria e l’amorevolezza del Padre. Dunque Nicodemo è un uomo in ricerca, che oggi definiremmo “di buona volontà”. Un’espressione che usiamo spesso da quando papa Giovanni XXIII ha voluto rivolgersi “a tutti gli uomini di buona volontà”40, indicando una categoria che abbraccia moltissime persone, supponendo in ciascuna un minimo di disponibilità. Oltre agli aspetti positivi, il testo mette in luce quelli negativi di Nicodemo: è uno specchio delle nostre lentezze, pigrizie, della nostra resistenza alla grazia. Vorrebbe trovare la verità, ma è trattenuto da blocchi interiori. Anche noi talora desideriamo aprirci alla luce del Verbo fatto carne, e però abbiamo bisogno di una via di purificazione che ci liberi da chiusure e pregiudizi. Che cosa dice Nicodemo? Anzitutto esprime il suo apprezzamento per Gesù, apprezzamento misurato, guardingo e prudente. Se lo paragoniamo con l’entusiasmo di Natanaele che, dopo poche battute, non solo lo chiama “Rabbì”, ma si espone esclamando: “Tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele” (1,49), ci accorgiamo che Nicodemo rimane molto indietro, non sa dargli altri titoli che quello di “Rabbì”. Non capisce che deve abbandonare il livello intellettuale, il discorso culturale, se non vuole che diventino una prigione. Dopo l’apprezzamento pone due domande che suonano d’impaccio e resistenza, mostrano la sua fatica a seguire Gesù: “Come si può rinascere? Come può accadere questo?” Che cosa fa alla fine del colloquio? Resta muto di fronte all’altezza delle parole di Gesù e l’evangelista non ci riferisce come sia uscito di scena. È però una delle poche persone che, dopo essere apparse, ritornano nel testo giovanneo. Anzitutto in 7,50, nel quadro di una riunione di sommi sacerdoti e farisei ormai accaniti contro Gesù. Hanno mandato delle guardie per arrestarlo, ma nessuna di esse ha osato mettergli le mani addosso; i farisei e i sommi sacerdoti si infuriano, lanciano fulmini, ed ecco che “uno

di loro”, Nicodemo, prende le difese del Signore: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?” Dunque, con molta pertinenza, dato che conosce bene la legge, interviene nella discussione, e con coraggio si pone dalla parte di Gesù contro un gruppo unanime nel condannarlo. Probabilmente non si sente ancora di proclamarlo Messia, tuttavia chiede che gli sia resa giustizia. Al v. 52 la sua richiesta è contestata: “Gli risposero: ‘Sei anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea’”. Viene ammutolito una seconda volta, invitato, lui che è uno studioso, a studiare, ed è messo così in cattiva luce. La diatriba però si chiude senza conseguenze: “Tornarono ciascuno a casa sua” (v. 53). Una terza volta si parla di Nicodemo. Riappare improvvisamente dopo la morte di Gesù, mostrando chiaramente che lo rispetta e lo ama. “Giuseppe d’Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto per timore dei giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù… Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodemo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa centro libbre” (19,38-39), qualcosa di spropositato. Quindi il colloquio notturno ha dato frutti. Quale messaggio possiamo cogliere per noi oggi da questo episodio di purificazione? Penso che se lo interrogassimo, Nicodemo ci racconterebbe così la sua storia: nel dialogo il linguaggio di Gesù diventava sempre più alto e mi sentivo smarrito. Volevo bene a quel rabbì, però non riuscivo proprio a capirlo: da una parte mi era simpatico, dall’altra avvertivo in me un senso di confusione, e ho vissuto giorni e mesi di incertezza, di sofferenza. Gradualmente, di fronte a ciò che faceva e che si raccontava di lui, mi sono domandato: non sono forse vere le sue parole? Non dobbiamo almeno difenderlo? Infine, quando ho visto come moriva, mi sono buttato completamente dalla sua parte. E a questo punto Nicodemo, dopo averci comunicato la sua esperienza, ci interpella: hai davvero fede nella potenza di Dio, come io a poco a poco l’ho acquisita attraverso un lungo e faticoso cammino? L’interrogativo scava dentro di noi e ci colpisce perché magari abbiamo cominciato con grandi professioni di fede – proprie della prima sequela di Gesù, dei primi anni della nostra formazione o dell’inizio del ministero –, ma col passare del tempo tante vicende hanno fatto sorgere in noi tentazioni di autosufficienza, cinismo, paura di buttarci, scetticismo verso le situazioni, le istituzioni e le

persone. È molto utile lasciarci interpellare leggendo il Vangelo di Giovanni che ci presenta la fede come un caso serio: hai davvero ancora fede nella potenza di Dio, come all’inizio? Oppure, il moltiplicarsi di realtà negative, oscure, difficili, ne ha spento in te la vivacità, per cui continui a discorrere sulla fede, a dichiararla esteriormente, e tuttavia nel tuo intimo non ti affidi totalmente al Signore? Nicodemo, però, insieme alla domanda, esprime una certezza che ci conforta: il Signore è più buono di te, è stato più buono di me. Quando si trattava di credere alla parola di Gesù, ho resistito, faticato, ma quando l’ho difeso pubblicamente e ho onorato il suo corpo morto, ho sperimentato in me un coraggio che non sapevo di avere, ho intuito che lo Spirito agiva in me più di quanto potevo immaginare. Lo stesso accade in noi e attorno a noi. Ci sembra di vivere un momento di confusione, di sfiducia, di fatica, e a un tratto, di fronte a una occasione che ci interpella scoppia di nuovo in noi, senza che ce ne accorgiamo, la forza potente dello Spirito, quella che spiega anche il martirio. Non tutti i martiri erano molto ferventi e molto convinti, prima di trovarsi nella situazione che li ha portati a morire. Alcuni sì; tanti altri, invece, vengono sorpresi da circostanze gravi mentre non sono preparati e sperimentano improvvisamente la grazia dello Spirito che fa dire loro: il Signore è con me, non mi ha abbandonato! La figura di Gesù Gesù, nel discorso a Nicodemo, ci propone un’antropologia della redenzione. Tento quindi di chiarire, a modo nostro, le sue parole enigmatiche. L’antropologia della redenzione è anzitutto antropologia della rinascita: “Se uno non rinasce dall’altro, non può vedere il regno di Dio” (v. 3). Il cristiano maturo è colui che, rinato a vita nuova col battesimo, vive davvero un’esistenza donatagli dall’alto. Segue, ai vv. 5-8, la specificazione: “Se uno non nasce da acqua e da Spirito…” L’antropologia della rinascita è antropologia dello Spirito. E, ai vv. 10-12, Gesù parla dell’antropologia della fede, a dire: dovete fidarvi totalmente di me che sono testimone del Padre. È l’invito a giocare la nostra vita su lui che testimonia quanto ha veduto nel Padre e ci offre così il vero senso della creazione e della redenzione.

L’antropologia diventa cristologia della redenzione (vv. 14-15), espressa nel mistero dell’innalzamento del Figlio dell’uomo, che allude sia alla morte che all’ascensione al cielo di Gesù. La cristologia lascia il posto alla teologia nella proclamazione unica e irraggiungibile del v. 16: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Infine, nei vv. 17-21, si sottolinea una escatologia realizzata già da oggi: il giudizio è qui, afferma Gesù. Il giudizio non c’è per chi crede, per chi viene alla luce, ma c’è già da ora per chi non crede, per chi respinge la luce. E la luce respinta spiega il rapporto drammatico fra male e tenebre da una parte, e verità, amore e luce dall’altra. Siamo dunque nel giudizio di Dio e possiamo sfuggirlo solo affidandoci al Verbo fatto carne. È questa l’immagine di uomo presentata da Gesù nel colloquio con Nicodemo. Sarebbe interessante paragonare questo discorso altissimo con l’antropologia della redenzione nei sinottici (mi rendo conto di usare un’espressione imprecisa, ma la ritengo significativa). I sinottici, come sappiamo, sottolineano temi che non troviamo nel quarto Vangelo. Di fronte all’annuncio che il Regno è imminente, si deve cambiare vita, ripudiare il male, seguire Gesù vivendo le beatitudini; ci è chiesta la perfezione della legge, la fuga da ogni ipocrisia, l’abbandono alla provvidenza; dobbiamo mettere in pratica l’amore e il perdono… Tutta una serie di atteggiamenti etici – in particolare nel discorso della montagna – a cui il brano giovanneo non fa accenno. Giovanni invita ad atteggiamenti semplicissimi: lasciarsi ricreare dall’alto, affidarsi a Gesù che è innalzato per noi, contemplare l’amore del Padre che ama tanto il mondo. Sono diverse le due antropologie, ma non contrapposte. Anzi, in qualche maniera, si succedono: chi ha praticato il cammino di conversione proposto da Gesù – attraverso il perfetto compimento della legge proclamato nel discorso della montagna – potrà comprendere la brevissima e densissima sintesi di una rinascita dall’alto e dallo Spirito, che permette di intuire il mistero del Padre e il suo infinito amore per il mondo. Spunti per la preghiera Concludo suggerendo due spunti per la preghiera, sempre nel contesto della nostra giornata penitenziale.

Possiamo metterci al posto di Nicodemo facendo l’esame di coscienza, e chiedergli di aiutarci a capire i nostri blocchi, irrigidimenti, a riconoscere di essere, come lui, un po’ guardinghi, diffidenti, talora muti, incapaci di buttarci con fiducia in Gesù. Che cosa mi trattiene dall’affidarmi totalmente a lui? E che cosa mi impedisce quella scioltezza dello Spirito che non so da dove viene e dove va, ma di cui sento la voce? Il confronto con Nicodemo ci consentirà di individuare le pesantezze che non ci permettono di accogliere il Regno dei cieli con la semplicità e la fiducia di un bambino (cfr. Lc 18,17). Un secondo spunto: metterci di fronte a Gesù, allo Spirito, al Padre, domandandoci che cosa può aiutarci a vivere l’antropologia della rinascita, dell’essere figli, del sentirci immensamente amati, a vivere la gioia per il dono di Dio che gratuitamente ci ama prima ancora che lo conosciamo. Entriamo così nel colloquio col Signore pregandolo di purificare i nostri cuori, di rivestirli di quella purità che è scioltezza, dedizione totale, resa incondizionata a colui che tiene in mano la storia e la conduce a buon fine, malgrado le apparenze; la conduce a buon fine, soprattutto, rivelandone la meta a quanti credono nel Verbo incarnato.

VIII. IL MISTERO DI GESÙ FIGLIO DEL PADRE (GV 5) Nella misura in cui cresce la nostra familiarità con il quarto Vangelo e possiamo intuire qualcosa della profonda unità di ispirazione da cui nasce, appare più evidente l’importanza di meditare i singoli brani inserendoli nel dinamismo complessivo, globale dell’opera. Ritengo pertanto opportuno richiamarne brevemente la struttura generale, in modo da affrontare meglio la nuova tappa del cammino, che corrisponde alla seconda settimana degli Esercizi ignaziani. I tre libri Ho accennato nell’introduzione che, dopo il prologo poetico e narrativo (1-2,12), inizia il cosiddetto libro dei segni, che comprende i capitoli da 2,12 a 12,50. Diversi segni di Gesù, specialmente miracoli, ritmano i brani e accompagnano parole mediante le quali il Signore ci fa penetrare nel suo mistero. Oltre ai segni che abbiamo già considerato, ricordo quelli del pane

moltiplicato, della guarigione del cieco, della risurrezione di Lazzaro ecc. Ciascuno ci svela un tratto del volto di Gesù – via, vita, verità, pane, luce –, e si collocano (altra caratteristica di questi capitoli) in un crescendo di contrasto fra luce e tenebre, che ha la sua conclusione in 12,37-43. Leggo il brano perché chiarisce il senso dei racconti precedenti, dal punto di vista dell’opposizione fede-incredulità: Sebbene Gesù avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui; perché si adempisse la parola detta dal profeta Isaia: “Signore, chi ha creduto alla nostra parola? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?” E non potevano credere, per il fatto che Isaia aveva detto ancora: “Ho reso ciechi i loro occhi e ho indurito il loro cuore, perché non vedano con gli occhi e con comprendano con il cuore, e si convertano e io li guarisca!” Questo disse Isaia quando vide la sua gloria e parlò di lui. Tuttavia anche tra i capi, molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano apertamente a causa dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga; amavano infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio.

Sono versetti che, nella loro drammaticità, ci fanno comprendere quanto sia decisiva la lotta fra luce e tenebre, che attraverso varie vicende viene descritta in tutto il libro dei segni. In questo contesto ci sono però anche brani didattici che sviluppano il tema sacramentale (il lungo discorso di 6,22 ss. sul pane di vita), come pure i temi ecclesiologici da cui traspare la natura della Chiesa, e i titoli di Gesù. Dunque, non solo segni, ma parole che manifestano il mistero del Verbo incarnato. I capitoli seguenti (13-17) appartengono, secondo parecchi esegeti, al libro della rivelazione, e riportano i discorsi del maestro dopo la cena, i discorsi di addio. Il clima, ovviamente, è cambiato perché Gesù si rivolge ai suoi in intimità, rivela se stesso, parla dei discepoli, li chiama amici in una atmosfera di serenità e di mutua comprensione. Giustamente, a mio avviso, gli esegeti distinguono fra il libro dei segni, carico di oscurità, di intrighi, di dure resistenze, e il dialogo autorivelatore di Gesù con coloro che lo hanno amato e che lui ama fino alla fine. Certo non mancano nel libro della rivelazione degli accenni sull’opposizione lucetenebre, ma il tutto in un orizzonte piuttosto positivo e tranquillo. Gli ultimi capitoli dell’opera (18-21) vengono designati, con buoni motivi, il libro della gloria. In essi si rivela pienamente la gloria dell’unigenito del Padre, di cui parla il prologo poetico, e si manifesta nella passione e morte di Gesù, nella sua risurrezione e ascensione al cielo.

Caratteristiche del Vangelo di Giovanni In questa unità dinamica notiamo, nel quarto Vangelo, delle caratteristiche curiose, che talora ci fanno impazientire. In primo luogo Giovanni tende a esprimere, in qualche maniera, tutto subito. Leggendo per esempio il prologo poetico, pur se non viene approfondito il tema della redenzione attraverso la morte, ci chiediamo: cosa c’è ancora da dire? È già stato detto tutto! E anche nel brano del colloquio notturno con Nicodemo è espresso tutto della pienezza di Gesù, della sua gloria, di ciò che egli significa. Ugualmente – lo vedremo tra poco – nel dialogo che segue la guarigione dell’infermo presso la piscina, Gesù non potrebbe pronunciare parole più alte. Un’altra caratteristica interessante è che l’evangelista, mentre da una parte dice tutto, dall’altra riprende spesso il già detto, con nuovi approfondimenti, nuovi vocaboli, nuove parole chiave. E il suo non è un procedere narrativo lineare; troviamo nel testo delle affermazioni abbastanza complete in sé, che vengono ripetute. Non a caso alcuni commentatori leggono in Giovanni un procedimento a spirale: si fa un primo giro, poi si passa a un piano superiore, secondo giro, e successivamente a un piano ancora più elevato, terzo giro. E bisogna perciò entrare in questo modo di procedere, ben diverso da quello dei sinottici che presentano una linea rigorosamente, o quasi, progressiva. C’è forse un’analogia col metodo degli Esercizi di sant’Ignazio, che vale la pena notare. Chi ha fatto il mese ignaziano, sa che il testo insiste molto sulle ripetizioni; ogni giornata propone cinque meditazioni, ma per lo più due sono in progressione e tre una ripetizione, una ripresa dello stesso tema. Di solito noi, che siamo impazienti, non teniamo conto di questa pedagogia di sant’Ignazio, peraltro molto chiara ed efficace. Anche per Giovanni le ripetizioni hanno un grande significato: meditiamo il testo, non lo comprendiamo del tutto, e dobbiamo riprenderlo, rimeditarlo, pregarlo di nuovo, così da entrare nella dinamica della rivelazione, porre il capo sul cuore di Gesù e partecipare sempre più al suo mistero. Un’ultima caratteristica: il quarto Vangelo tende a coinvolgere, e lo sperimentiamo nel nostro cammino di questi giorni. Mette in scena dei personaggi allo scopo di farci capire le implicazioni della rivelazione per noi e perché, di fronte a tale rivelazione, verifichiamo le nostre fatiche, le paure nel credere, nell’accettarla abbandonandoci al Verbo incarnato. La dinamica

accettazione-rifiuto, luce-tenebre, non viene evidenziata per descrivere un’epopea che si svolge chissà dove, ma per parlare al nostro cuore. È dunque un Vangelo che va pregato in maniera contemplativa, non tanto cercando di spremere le parole, ma di cogliere l’unità dell’insieme. Perché in realtà dice pochissime cose, ma capaci di scuoterci e di scottarci come un fuoco. Lectio di Gv 5 Vorrei ora proporvi la lectio di Gv 5, per entrare nello spirito della seconda settimana degli Esercizi ignaziani, settimana che ci fa meditare il ministero di Gesù nel quadro della contestazione mondana, per discernere le tenebre presenti in noi e scegliere per la luce contro le tenebre, per l’autenticità contro la menzogna, per la libertà contro la schiavitù e per la vita contro la morte. I capitoli da 5 a 12 richiamano di fatto questa seconda settimana, e costituiscono un formidabile aiuto per il discernimento. È proprio il cap. 5 che dà inizio a una dialettica senza esclusione di colpi. Pur restando nel libro dei segni, si verifica una mutazione rispetto ai capitoli precedenti. Il vero dramma sta per scoppiare: “I giudei cominciarono a perseguitare Gesù, perché faceva tali cose di sabato” (v. 16). E aggiunge il v. 18: “Proprio per questo i giudei cercavano ancor più di ucciderlo”. Siamo di fronte a un brano importante, nodale. Il brano è molto lungo ed è facile dividerlo in due parti generali: la prima comprende i vv. 1-18, con il racconto di un segno e l’acclusa disputa; la seconda va da 19 a 47 e presenta un ampio monologo di Gesù, designato anche “discorso sull’opera del Figlio”, che è arduo distinguere in scansioni. Il segno e la disputa L’introduzione del capitolo ci dà le coordinate dell’episodio, il tempo e il luogo dell’azione (vv. 1-4). “Vi fu una festa dei giudei e Gesù salì a Gerusalemme”. Un tempo solenne, ma non sappiamo se si tratta della Pasqua o di un’altra festività. Inoltre non pochi esegeti vorrebbero situare il racconto dopo il cap. 6, con una inversione che renderebbe più chiari gli spostamenti geografici di Gesù. Naturalmente questa conversione non ci riguarda. È

invece interessante notare che Giovanni colloca volentieri gli eventi maggiori in relazione alle feste giudaiche, sia comprese nel loro significato sia come superate nel valore simbolico della persona stessa di Gesù. Sottolineando che il tempo è quello di una festa, non ci viene detto per il momento il motivo per cui si scatenerà la dura polemica, cioè che era un sabato. Il luogo della rivelazione e del contrasto è Gerusalemme, subito specificato: “V’è a Gerusalemme, presso la porta delle pecore, una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici” (vv. 2-3). Questo è il quadro dell’azione. La menzione del gran numero di infermi evoca i sommari dei sinottici, là dove parlano di folle di malati che cercano di toccare Gesù. Qui però la scena è diversa: la gente non si accorge di Gesù che si avvicina agli infermi e ne sceglie uno. Nel v. 4 l’evangelista riporta una tradizione popolare: l’angelo del Signore scendeva ogni tanto nella piscina e agitava l’acqua per darle un valore curativo. In tale sfondo temporale e locale emergono i due personaggi: Gesù e il malato (vv. 6-8). Poi, in 9b-14, l’uomo guarito sarà interrogato dai giudei, e di nuovo incontrerà Gesù. Le azioni sono semplici. Gesù, vedendo giacere disteso un infermo che sembrava il più abbandonato e sapendo che da trentotto anni si trovava in quella condizione, gli domanda: “Vuoi guarire?” Contempliamo il Verbo incarnato, pieno di tenerezza e di compassione, che si fa prossimo all’uomo, prende l’iniziativa di guarirlo perché abbia una vita piena, serena e gioiosa. L’infermo risponde lamentandosi: non dice di voler guarire (non si sa, tra l’altro, che malattia avesse), ma confessa di non riuscire a usufruire delle virtù risanatrici dell’acqua. È un povero abbandonato, avvilito, senza desideri, incapace di aiutarsi, una figura potremmo dire evanescente che non sa cosa vuole. E Gesù opera con la sua forza impartendogli un comando: “‘Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina’. Sull’istante quell’uomo guarì e, preso il lettuccio, cominciò a camminare” (vv. 8-9a). Questo è il fatto, l’evento, e i versetti successivi ne raccontano la conseguenza. Conseguenza che viene espressa in due momenti. Nel primo l’uomo si confronta con i giudei: “Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i giudei all’uomo guarito: ‘È sabato e non ti è lecito prender su il tuo lettuccio’” (v. 9b-10). È curioso e anche sconvolgente che non chiedano nulla della guarigione, insistendo invece sul divieto del sabato. L’infermo risanato

non sa come cavarsela e risponde: “Colui che mi ha guarito mi ha detto: ‘Prendi il tuo lettuccio e cammina’”. Replicano allora: ma chi è stato a dirtelo? E l’uomo ammette di non saperlo (vv. 11-13). Qualche cosa di simile accade per il cieco nato, che non sapeva dove fosse colui che gli aveva ridato la vista (cfr. 9,12). Al v. 14 Gesù è di nuovo nel tempio, trova il malato e gli dice severamente: “Ecco che sei guarito; non peccare più, perché non ti abbia ad accadere di peggio”. Parole gravi, che suscitano domande a cui purtroppo non abbiamo il tempo per tentare di rispondere. Certamente non significano che l’infermità sia dovuta a un peccato, non indicano un legame tra malattia e peccato. Comunque Gesù si fa conoscere dall’uomo che, a sua volta, lo fa conoscere ai giudei: “Disse ai giudei che era stato Gesù a guarirlo” (v. 15). Il secondo momento della conseguenza provocata dall’evento è costituito dallo scoppio della disputa nei vv. 16-18, di cui ho anticipato la lettura per sottolineare il contrasto fra tenebre e luce. I giudei cominciano a perseguitare Gesù che operava anche di sabato, e Gesù, anziché difendersi, allarga il contenzioso: “‘Il Padre mio opera sempre e anch’io opero’. Proprio per questo i giudei cercavano ancor più di ucciderlo; perché non soltanto violava il sabato, ma chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio”. Termina così la prima grande parte, propriamente narrativa, del testo che ci mette di fronte al caso serio della fede: siamo o non siamo pronti a credere che Gesù è il Verbo di Dio, il Figlio unigenito che è sempre col Padre e il Padre è in lui? È la proposta più alta della rivelazione e dobbiamo confrontarci, interrogandoci sulla profondità del nostro credere e della nostra accoglienza del mistero. La risposta non è scontata e la Chiesa primitiva, almeno per due o tre secoli, ha faticato molto per accettare l’affermazione giovannea. Tutta la problematica dell’arianesimo – ancora viva nel tempo di sant’Ambrogio – consisteva nel resistere alla rivelazione di Gesù, Figlio unigenito, sostenendo che era un uomo elettissimo, straordinario, ma non Dio stesso. Dunque la Chiesa ha sofferto prima di arrivare a una dichiarazione unanime della divinità di Gesù. E forse non pochi di noi, se fossero vissuti in quell’epoca, sarebbero stati incerti sulla scelta da compiere. Riconosciamo qui il coraggio di Ambrogio nel proclamare la fede nel Verbo incarnato e nell’imporre questo credo a una comunità ariana e a un clero educato nell’arianesimo.

Del resto, ancora oggi molti intellettuali vedono Gesù come un profeta illuminato, un personaggio formidabile, un innovatore nel cammino etico dell’umanità, e però si arrestano davanti alla rivelazione di un Dio veramente presente in mezzo a noi. Sembra un’utopia troppo bella ed è, di fatto, una concezione di Dio che l’ottusità umana non riesce a comprendere: perché Dio avrebbe osato tanto buttandosi nella mischia per amore dell’umanità? Il caso serio della fede continua a travagliare tante coscienze, a motivo del fatto che richiede un abbandono fiducioso nel mistero d’amore del Padre, un lasciare a Dio, che è Padre, di esprimersi nella dedizione e nell’umiltà fino alla morte di croce, caricandosi dei nostri peccati, del peccato del mondo. Il monologo di Gesù Nella seconda parte del cap. 5 (vv. 19-47) viene riferito un monologo o discorso di Gesù particolarmente difficile da riassumere. Dopo aver tentato di rilevarne le scansioni, in maniera visiva semplice, vi ho rinunciato. Gli esegeti cercano di cogliere una dinamica abbastanza precisa del discorso, ma comporterebbe una riflessione molto accurata. Ho pensato di riprendere piuttosto i versetti notandone le parole chiave, il ritorno ad alcuni temi fondamentali su cui Gesù si esprime senza che appaia, a prima vista, un ordine vero e proprio. Elenco quindi una decina di temi che imprimono al monologo la sua struttura caratteristica. La prima parola evidenziata è il fare, il fare di Dio e il fare, l’operare del Verbo incarnato. Nel v. 19 questo verbo occorre quattro volte: “Gesù riprese a parlare e disse: ‘In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa’”. Mette al centro il contrasto con i giudei sviluppando la parola chiave del v. 17: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Il fare diventa poi amare: “Il Padre infatti ama il Figlio e gli manifesta tutto quello che fa” (v. 20a). Il fare del Padre è manifestato al Figlio passando per l’amore dello stesso Padre. Un’altra parola chiave è vita: “Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole” (v. 21). Il dare la vita caratterizza sia il Padre che il Figlio. Il tema della vita porta a quello del giudizio, ampiamente specificato nei vv. 22-27: il Padre non giudica nessuno perché ha rimesso ogni giudizio al

Figlio, in modo che tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Al v. 24a emerge la parola credere: “Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna”. Notiamo il collegamento significativo tra vita e credere. Al v. 24b il richiamo alla vita viene approfondito in vita eterna e risulta così centrale nell’insieme del monologo: “Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita”. Mi sembra interessante l’intreccio dell’ascolto, del credere, della vita eterna, della risurrezione da morte a vita. La menzione della risurrezione dai morti è sviluppata nei vv. 25-29. Una parola estremamente importante per il quarto Vangelo è l’ora. Gesù l’aveva usata per la prima volta nelle nozze di Cana, dicendo alla madre: “Non è ancora venuta la mia ora” (2,4). Nel v. 28 viene ripetuta in senso escatologico: “Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno”. E con questo riprende il tema del giudizio: “Quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (v. 29). Nel suo monologo Gesù esprime quindi tutti i temi fondamentali del testo giovanneo, in un ordine, a mio avviso, più affettivo che razionale. Si ha l’impressione che parli dal profondo della sua esperienza di Verbo incarnato e leghi insieme verbi e vocaboli che designano la pienezza della missione affidatagli dal Padre. Al v. 31 troviamo una nuova parola tematica: testimonianza. L’abbiamo vista applicata al Battista, nel prologo, poi a Gesù stesso, ma non al Padre. Qui si dispiega secondo tre direttrici: la testimonianza di Giovanni Battista (vv. 33-35); la testimonianza che il Padre dà a Gesù (vv. 36-38); la testimonianza che le Scritture rendono a Gesù (v. 39). La testimonianza del Padre è quella delle opere: “Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, le stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre che mi ha mandato ha reso testimonianza di me” (vv. 36b-37). Dunque l’opera di Gesù, il fare, l’amore, la vita eterna, il giudizio, l’ora, la testimonianza e, di nuovo, le opere ricorrono abbondantemente in questa scansione del discorso, che si conclude peraltro con un’espressione drammatica: “Ma voi non volete venire da me per avere la vita” (v. 40). I versetti successivi (41-42) mettono in luce il tema della gloria, che sarà ripreso in altri capitoli, e ritorna il tema dell’amore, ma in forma negativa:

“So che non avete in voi l’amore di Dio” (v. 42). Gesù prosegue sottolineando il rapporto tra il Figlio e il Padre. Chi non riceve il Figlio non si apre al credere, e viene accusato davanti al Padre da Mosè: “Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me; perché di me egli ha scritto. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?” (vv. 46-47). Parole durissime, brucianti e, con l’accenno al carattere profetico delle Scritture, si chiude il monologo. Vi invito a rileggerlo personalmente per entrare nel segreto di Cristo, nella sua verità come ci è trasmessa da questo brano, e depositarla nel cuore. Meditatio del testo Dalla ricchezza e dalla profondità delle parole di Gesù vorrei trarre almeno due messaggi. Il primo l’ho già indicato nella lectio, ed è quello del caso serio della fede, che esplode con forza nel capitolo 5. Ritengo importante sintetizzarlo: Giovanni non parla della fede generica, bensì della fede nel Figlio di Dio, nel Verbo che, fattosi carne umile, vicina a noi, piena di tenerezza e di attenzione, ci svela la gloria di Dio. Gesù, un uomo dimesso e discusso, compie segni di gloria – come la guarigione dell’infermo – e insieme si presenta con molti segni di debolezza, perché non ha potere civile o militare, e nemmeno potere religioso. Il Verbo incarnato è uguale a Dio e ci dona una nuova visione della realtà mostrando che ogni persona, grazie alla sua presenza, può rinascere dall’alto, aspirare alla pienezza della vita. Questo caso serio della fede è sempre in gioco. E il magistero della Chiesa, nel documento Dominus Jesus41, ha ricordato che anche oggi esistono tentativi di abbassare la figura di Gesù, di ridurla per facilitare magari il dialogo interreligioso o fare in modo che gli intellettuali laici possano accettarlo senza trovarsi di fronte allo scandalo di un uomo che si proclama uguale a Dio, superando quindi l’istintiva resistenza ad ammettere un Dio che ama tanto il mondo da incarnarsi nella nostra umanità. Il secondo messaggio è strettamente legato al primo: Gesù è irremovibile nel dichiarare la sua unità col Padre. Non sfugge alle polemiche coi giudei e a partire dal cap. 5 firma la sua condanna a morte ribadendo che opera come il Padre suo. Non entra nemmeno in discussione sul sabato, a differenza di

quanto avviene nei sinottici, ma addirittura esaspera la situazione: “Il Figlio da sé non può far nulla se non ciò che vede fare dal Padre” (v. 19), è uguale a Dio. Dall’irremovibilità nel proclamare l’unità col Padre consegue la sua vicinanza a noi, il dono dell’amore di Dio e della vita eterna. Il monologo infatti ribadisce il mistero del Padre che ci ama e una visione del senso della storia; anzi, la sua missione consiste proprio nel rivelare agli uomini il significato vero del loro cammino. L’abitare del Verbo incarnato in mezzo a noi in figura umana ha una straordinaria ripercussione sul valore della dignità di ogni persona e sulla vocazione della Chiesa. Verso la contemplatio Possiamo avviarci ora al momento della contemplazione attraverso due piste di preghiera. Che cosa pensa la gente di Gesù? E che cosa ne penso io? La gente fa fatica ad accettare che Dio sia davvero presente in Gesù: come aiutarla a compiere un salto di qualità nella fede? E io che cosa penso? Su questa domanda ricordo che il papa ha imperniato, nell’anno giubilare del 2000, il suo discorso a Tor Vergata in occasione delle Giornate mondiali della Gioventù. Lasciamo risuonare in noi l’interrogativo mettendoci in preghiera davanti al Signore. Un secondo spunto: il mio guardare a Gesù mi dà speranza e pace? Se si presenta nella sua verità lo fa per riempirci di speranza e di pace, per spingerci a guardare con fiducia alle vicende del mondo, perché lui vi è dentro. La vicinanza di Dio all’uomo è invincibile e tutte le porte degli inferi non riusciranno a sradicarla dalla terra, perché egli ha assunto la nostra umanità con l’incarnazione, morte, risurrezione e ascensione di Gesù. Dio è uno di noi in Gesù, è dalla nostra parte e non periremo perché ha voluto amarci così. Dalla contemplazione del mistero dell’incarnazione, dalla nostra decisione di fede in Cristo Figlio del Padre, sgorgano nel nostro cuore sentimenti di speranza, pace, fiducia, gioia.

IX. I NEMICI DI GESÙ

Ho pensato di svolgere a questo punto, e sempre nel quadro della seconda settimana degli Esercizi ignaziani, una meditazione sintetica sui capitoli 5-12, cui darei come titolo I nemici di Gesù, quasi in contrappunto con la meditazione sugli “amici di Gesù” che abbiamo fatto parlando del punto di arrivo del cammino giovanneo. È possibile descrivere questi nemici dividendoli in quattro gruppi o categorie. Il primo gruppo comprende coloro che accusano Gesù di violare il sabato, e ritornerò sull’argomento brevemente nel cap. 5 in prospettiva diversa e complementare. Al secondo gruppo, molto importante, appartengono quelle persone che lo accusano chiaramente a motivo dell’invidia e della chiusura mentale, e richiamerò in particolare il cap. 7. Una terza categoria è composta da quanti, accusati da Gesù di ipocrisia, reagiscono accusandolo a loro volta, come al cap. 8. Infine l’ultimo gruppo di persone nel quale confluiscono i precedenti, è proprio di coloro che vogliono togliere di mezzo Gesù, che non lo sopportano e tentano di ucciderlo. L’accusa di violare il sabato È sorprendente, nel cap. 5, che i giudei, anziché preoccuparsi di ringraziare Dio per la guarigione dell’infermo, di glorificarlo, di capire come è stato risanato, attacchino subito Gesù con astio e meschinità: perché hai guarito in giorno di sabato? L’attacco, come sappiamo, avviene in due momenti: prima rimproverano il malato che non se la cava di fronte all’obiezione, non riesce a uscire dal cerchio del formalismo e subito dopo risponde che non sa chi lo ha guarito. In un secondo momento polemizzano con Gesù, accusandolo concretamente di violare il sabato. Mi chiedo: come mai Gesù difende con tanta forza la sua libertà nel sabato? Di per sé, avrebbe potuto guarire il malato il giorno prima o il giorno dopo. Perché tanto accanimento? Una ragione l’abbiamo ricordata analizzando i versetti del testo: vuole difendere il suo essere Figlio e la sua libertà di Figlio. Affronta le tenebre non semplicemente per un fatto etico, ma teologico: bisogna che si sappia che è Figlio, in comunione unica col Padre. C’è una seconda ragione per cui afferma la libertà nel sabato: intende difendere la libertà e la dignità di ogni persona umana. E perché, mi chiedo ancora, i giudei lo accusano e non comprendono il

suo linguaggio? Probabilmente per due motivi. Anzitutto per un certo integrismo e formalismo: si scandalizzano di fronte alla violazione del precetto del sabato e non si meravigliano per la grandiosità del miracolo. Per questo non vogliono sentire le ragioni di Gesù. Dietro questo formalismo c’è il rifiuto di accettare Dio com’è, di accettare la sua libertà e novità, la sua capacità di rivelarsi al di là di ciò che abbiamo compreso di lui. Talora ci fissiamo su una parola ascoltata dimenticando di essere ascoltatori incondizionati della libertà che Dio ha nel rivelarsi. Un secondo motivo di accusa è quello che fa pensare all’integralismo e al fondamentalismo islamico che si irrigidisce sulla unicità di Dio, escludendo la possibilità di un altro modo di manifestazione del divino. Non si ammette, per motivi ideologici, che Dio possa rivelarsi diversamente da quanto noi intendiamo. È dunque in questione la fede come atteggiamento primordiale dell’uomo che accoglie la parola di Dio rivelante. L’accusa per invidia e chiusura mentale Il secondo gruppo di nemici di Gesù richiama un campo molto concreto della psicologia di tutti i tempi: sono coloro che lo accusano per invidia. “Molti della folla credettero in lui, e dicevano: ‘Il Cristo, quando verrà, potrà fare segni più grandi di quelli che ha fatto costui?’ I farisei intanto udirono che la gente sussurrava queste cose di lui e perciò i sommi sacerdoti e i farisei mandarono delle guardie per arrestarlo” (7,31-32). Sembra chiaro che sono mossi da invidia: la gente va dietro a lui, lo esalta, lo ascolta e quindi quell’uomo ci scalzerà, ci toglierà il potere. L’invidia, e la paura che ne consegue, è l’origine di moltissimi mali nella società e nella Chiesa. E ai vv. 44-49, ancora nell’ultimo grande giorno della festa, dopo che la gente ha ascoltato le parole di Gesù e discute se è o non è il Cristo: Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno gli mise le mani addosso. Le guardie tornarono quindi dai sommi sacerdoti e dai farisei e questi dissero loro: “Perché non lo avete condotto?” Risposero le guardie: “Mai un uomo ha parlato come parla questo uomo!” Ma i farisei replicarono: “Forse vi siete lasciati ingannare anche voi? Forse gli ha creduto qualcuno fra i capi o fra i farisei? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!”

L’invidia li divora: Gesù ne sa più di noi, parla meglio di noi, inganna la gente. Qui interviene, lo ricordiamo, Nicodemo: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?” (v. 51). Ma

gli rispondono: “Sei forse anche tu della Galilea? Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea” (v. 52). Non danno retta alla sua domanda che esprime buon senso: occorre ascoltare, capire, rendersi conto prima di giudicare. Si accumulano in questo episodio invidia e chiusura mentale di fronte all’opera di Dio. Le tenebre non sono qualcosa di vago, bensì di concreto, di presente nel cuore umano: quest’uomo ha più successo di noi, va eliminato. È la storia antica di Saul e di Davide: a me hanno dato mille, mentre a Davide diecimila. È la storia per cui Pilato capì, a un certo punto, che gli avevano consegnato Gesù per invidia: “Allora Pilato rispose: ‘Volete che vi rilasci il re dei giudei?’ Sapeva infatti che i sommi sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia”, dià phtónon (Mc 15,10). La nuova versione della Bibbia della CEI traduce: “Glielo avevano consegnato perché lo odiavano”. Non sono d’accordo, dal momento che phthónos significa veramente “invidia”, e nei salmi, dove il vocabolo ricorre più volte, ha sempre questo significato. Ho detto che l’invidia è la radice di tutti i mali, anche nell’ambito ecclesiastico. Sulla sua pervasività ha scritto molto Réné Girard42 che coglie nell’invidia la conseguenza del mimetismo umano, dando in questo modo un’ampia interpretazione della storia delle civiltà, delle culture, degli stessi Vangeli; ognuno è invidioso dell’altro, vorrebbe fare e avere ciò che fa e ha l’altro, e su questa base negativa nascono le città, le civiltà, le religioni, i sacrifici, finché non interviene la morte dell’innocente Gesù, vittima designata dell’invidia. Per noi è utile riflettere sull’invidia clericalis e, in proposito, ho trovato un’intuizione importante nel libro di Donald Cozzens sul volto mutevole del sacerdozio – l’ho citato parlando dell’amicizia –. Ritiene che l’invidia operi nel campo clericale a motivo dell’eccessiva enfasi data a un archetipo ecclesiastico: la Chiesa è madre, il vescovo è padre e i preti fratelli tra loro. Un archetipo che esprime certamente dei valori, ma insieme scatena le dinamiche negative e pervasive intrafamiliari scoperte da Freud43 in avanti. Quando la Chiesa viene concepita solo secondo questo archetipo e non quale riflesso della Trinità, scoppiano le liti e le invidie (ricordiamo le liti tra i fratelli e Giuseppe, invidiato perché preferito, nella famiglia di Giacobbe). L’analisi di Cozzens è interessante. Personalmente non ho mai voluto insistere sul ruolo di paternità del vescovo; la paternità c’è, però va coniugata con la parola di Gesù: “Non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno

solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23,9). Allorché si entra nei ruoli e si cerca di reificarli, si scatenano reazioni imprevedibili. Leggo dal libro: Operando sotto la superficie della coscienza, un complesso di forze psichiche incoraggia atteggiamenti che sovvertono il desiderio conscio di servire il popolo di Dio. Inclusi in questi atteggiamenti e attitudini, ci sono clericalismo, elitarismo, carrierismo, legalismo, invidia e competizione. Quando si è prigionieri di tali forze è molto facile per un prete sopraidentificare tutto un cumulo di negatività nella sua identità battesimale e presbiterale. E il tentativo di difendere l’esaltata identità del prete fa abortire il suo potenziale di relazioni oneste, sincere, coerenti con uomini e donne. La sua persona di prete diventa roccia di identità, fonte unica di se stesso, e perde il sottile necessario equilibrio fra identità battesimale e presbiterale. È ormai tracciata una linea, ed egli coltiva quel dolce amaro credersi di non essere come gli altri uomini. Che cosa spiega l’invidia nascosta, la gelosia segreta dei fratelli preti e la sorprendente passività comune a molti preti? Che cosa troveremmo se guardassimo dentro alle dinamiche inconsce che configurano e influenzano la vita e il mondo interiore di tanti preti?44

È una riflessione che aiuta a spiegare quelle frustrazioni, amarezze, delusioni, attese che si riconducono a una certa immagine di Chiesa, costituita non in relazione diretta con Gesù, con il Padre, con la grazia dello Spirito, bensì in relazione a modelli umani di cui si godono i benefici e insieme si soffrono le conseguenze negative, i blocchi, le emozioni e le deviazioni. Dunque la pagina di Gv 7 non è lontana da noi, ma ci esorta a domandarci la ragione di certe stanchezze, frustrazioni, delusioni, amarezze. Soprattutto se sono permanenti e rischiano di durare per tutta la vita, vuol dire che qualcosa non quadra nella visione mentale e nella visione di fede. Gli accusati accusano Il terzo gruppo di nemici di Gesù è curioso perché formato da persone che Gesù accusa e che, invece di lasciarsi scuotere dal rimprovero, ribattono immediatamente. Disse loro Gesù: “Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio” (8,42-47).

Le accuse sono pesantissime: partono dalla percezione dell’identità di

Gesù, della sua unità col Padre, e dalla percezione che chi lo ascolta non vuole comprenderlo, addirittura non comprende la parola di Dio. La risposta avrebbe potuto essere umile: ma come, dove, quando? Mostraci, spiegaci meglio, aiutaci a capire. In realtà lo insultano accusandolo di essere indemoniato: “Non diciamo con ragione noi che sei un samaritano e hai un demonio?” (v. 48). E Gesù replica: “Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e giudica. In verità in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”. E i suoi interlocutori lo attaccano di nuovo: “Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: ‘Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte’. Sei tu più grande del nostro padre Abramo?” (vv. 49-53). L’accusa e la controaccusa si rincorrono senza che ci sia approfondimento del discorso. Qual è la ragione di fondo che mette in contrasto Gesù e suscita lo sdegno, la rabbia degli avversari? La chiusura alla verità, il non volersi lasciar porre in questione per paura di sconvolgere le proprie convinzioni. Questo spiega tante resistenze della gente: noi cerchiamo di parlare, di spiegare, di aiutare a crescere nella conoscenza di Dio e della sua parola, ma spesso troviamo chiuse le saracinesche del cuore e della mente, perché ci si rifiuta di allargare gli orizzonti e si preferisce reagire criticando e polemizzando. Come Gesù, non dobbiamo stupirci di fronte a chi, avendo chiuso il cuore a partire da certi modelli acquisiti, non si lascia scuotere. Gesù non rifiuta il dialogo neppure con i suoi avversari pur tentando continuamente di superare i loro pregiudizi. Coloro che vogliono sopprimerlo La quarta categoria comprende coloro che vogliono sopprimerlo. È accennata già in Gv 5, a seguito della polemica sul sabato, là dove si sottolinea il proposito di ucciderlo (v. 18). Anche nel Vangelo di Marco, al cap. 3, quindi all’inizio del ministero di Gesù, leggiamo: “Tennero consiglio contro di lui per farlo morire” (v. 6). La polemica si incrudisce in 8,58-59: “Rispose Gesù: ‘In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono’. Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio”. La volontà di

sopprimerlo diventa più intensa in 10,30-33: “‘Io e il Padre siamo una cosa sola’. I giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: ‘Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?’ Gli risposero: ‘Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio’”. Questa accusa di bestemmia è la ragione ultima dell’arresto e della condanna. Che cosa possiamo concludere dalla prima rassegna dei nemici di Gesù (rassegna non facile dal momento che le categorie si confondono e si accavallano)? Mi pare sia questo il punto nodale emergente: ciò che conta è il rapporto di Gesù col Padre. Ritorna la proclamazione del prologo poetico: il Padre si è manifestato in Gesù e Gesù manifesta il Padre. Chi non l’accetta, chi non vuole accettarlo, contrasta in tutti i modi, respinge, polemizza, insulta. È il grande messaggio del testo giovanneo, e l’evangelista non fa che ripeterlo, perché è penetrato nella sua vita, nel suo cuore. Richiamo, al riguardo, un libretto delizioso, geniale, di Raymond Brown, il grande esegeta del quarto Vangelo45. Il contenuto del libretto – pubblicato peraltro dopo la sua morte – è un ritiro spirituale che si immagina predicato dallo stesso san Giovanni (è infatti intitolato: A retreat with John the Evangelist). Inizia così: Allorché incontro altri seguaci di Gesù, cioè quelle pecore che non sono ancora parte della nostra comunità giovannea, ma che un giorno verranno con noi, li sento parlare spesso del futuro momento in cui il Figlio dell’uomo verrà dal cielo a giudicare il mondo. E vorrei gridare loro: ma non sapete che è già disceso dal cielo per il giudizio del mondo? Anche tanti altri che amano Gesù e lo proclamano, sembra vogliano cominciare da quando è stato battezzato al Giordano, o addirittura da quando è stato concepito da sua madre, come se prima non ci fosse nulla. Essi non hanno idea della gloriosa vita che aveva col suo Padre celeste prima della creazione del mondo. Se dunque la gente non capisce questo, come può capire l’evento che toglie il fiato, cioè che Dio ha tanto amato il mondo? Si afferma: noi diciamo che Dio è amore. Ma la maniera di conoscere Dio amore è che Dio ha dato il suo Figlio e lo ha inviato nel mondo per abitare in mezzo a noi46.

L’evangelista Giovanni polemizza, a dire: “non dal battesimo, non dalla nascita di Gesù dovete cominciare, ma dall’alto. Voi arrivate a Gesù Figlio del Padre alla fine di tutto, mentre io incomincio da Gesù Figlio” Per questo ho sottolineato che il quarto Vangelo si concentra su un’unica realtà fondamentale: Gesù è il Figlio e, come tale, è assalito dalle tenebre e verrà ucciso per la sua testimonianza di Figlio.

Il nemico e il mondo Gli avversari di Gesù elencati nella prima rassegna, sono figure sbiadite e senza volto, senza faccia, e ciò forse volutamente, nell’intenzione di Giovanni, per rappresentare il degrado del cammino umano. A queste categorie aggiungo due soggetti: il nemico e il mondo. Il nemico, che non appare mai sotto questo nome ma tre volte sotto il nome di diavolo, una volta come Satana, una come il maligno, tre volte come il capo di questo mondo. E poi il mondo: l’evangelista ne parla in molti sensi, anche in positivo (“Dio ha tanto amato il mondo”), ma pure nel senso di ordinamento ingiusto, di violenza istituzionalizzata. A partire da “il mondo non lo riconobbe” (1,10) fino a “colui che toglie il peccato del mondo” (1,29) e alla parola un po’ amara con cui termina la preghiera cosiddetta sacerdotale: “Padre, il mondo non ti ha conosciuto” (17,25). Due soggetti che si oppongono fortemente a Gesù; io però ho preferito riflettere su quegli avversari che simboleggiano un po’ i nemici storici della nostra vita quotidiana. I rimproveri di Gesù Dopo aver esaminato i rimproveri fatti a Gesù dai suoi accusatori, sarebbe interessante capire che cosa rimprovera Gesù a loro, oltre al dato fondamentale di non accettare che sia Figlio, uguale al Padre. Sono due i rimproveri particolarmente pungenti, che possono toccarci da vicino e interrogarci. Uno è espresso in 5,37-39: “Chi mi ha mandato, il Padre, ha reso testimonianza di me. Ma voi non avete mai udito la sua voce, né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza”. La parola più pungente è l’ultima: voi leggete la Bibbia, ma non avete incontrato Dio, la leggete, ma non bene. Ed è una parola rivolta a noi: sapete declinare i tempi, i modi, conoscete della Scrittura la filologia, la storia, l’archeologia, e tuttavia non avete trovato in essa il volto del Padre, non avete incontrato nei Vangeli il mio volto che riscalda il cuore. Il secondo rimprovero è al v. 44: “Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?”

Accusa terribile che va contro coloro che vivono di lode mutua (io lodo te e tu lodi me!), che si sostengono nella vanagloria. Pensiamo al mondo accademico o a quello scientifico; Gesù mette a nudo la nostra debolezza umana, il nostro bisogno di cercare gloria dimenticando che la gloria viene da Dio, non dagli uomini. La vanagloria è tipica anche del mondo clericale: abbiamo occasione, nel ministero, di essere approvati, di avere successo, audience, e pure di essere respinti, ma mentre nel primo caso siamo contenti, proviamo piacere, nel secondo ci abbattiamo, ci lamentiamo. È certamente più facile ricevere plausi che fischi; però è più bello accettare i fischi perché quando si entra in contrasto con qualcuno, è possibile esprimere un valore. In ogni caso, la ricerca della gloria nelle proprie azioni mina nel profondo il ministero, e ce lo conferma la conclusione del cosiddetto libro dei segni, là dove viene riassunta tutta l’opera di Gesù: “Queste cose disse Isaia quando vide la sua gloria e parlò di lui. Tuttavia, anche tra i capi, molti credettero in lui, ma non lo riconoscevano apertamente a causa dei farisei, per non essere espulsi dalla sinagoga; amavano infatti la gloria degli uomini più della gloria di Dio” (12,41-43). Il testo non dice che sia un male assoluto amare la gloria degli uomini, ma che, amandola più della gloria di Dio, rischiamo di misconoscere il Figlio, di non vedere in lui il mistero del Padre.

X. GESÙ FONDA LA COMUNITÀ DEI SUOI DISCEPOLI (GV 13,1-32) In premessa alla meditazione con la quale ci introduciamo nel libro della rivelazione (capitoli 13-17), vorrei elencare alcune categorie astratte, più generali, che contrastano Gesù, completando così la precedente riflessione. In questo modo la contemplazione del Verbo fatto carne, che amichevolmente va rivelando il suo mistero, sarà più fortemente illuminata. Enuncio cinque categorie generali: oscurità e tenebre; menzogna; schiavitù; morte; peccato. Cinque termini con cui viene designato l’insieme delle potenze negative. Ciascuno di noi potrebbe poi sforzarsi di tradurli in concetti di tipo “esistenziale”, interpretando i testi del quarto Vangelo corrispondenti alle categorie. Le oscurità e le tenebre, per esempio, aiutano a capire il tema del disorientamento personale o di una società disorientata e senza riferimenti. Il tema dell’inautenticità del singolo soggetto (perché e come mi sento

inautentico?) e di una società che insegue idoli, falsi valori, è espresso da Giovanni con la parola menzogna. Noi di solito sappiamo riconoscere le menzogne collettive del passato, ricordare anche le colpe dei figli della Chiesa, ma facciamo fatica a leggere le menzogne della società in cui viviamo oggi. Il termine schiavitù andrebbe tradotto esistenzialmente con dipendenza, la dipendenza pigra e colpevole dalle mode, dalle opinioni, dalle leadership ingannevoli. Ci sono dittature mascherate sia culturali che sociali, sia politiche che economiche, se ne parla molto a proposito di un certo tipo di globalizzazione. E poi, ovviamente, il tema giovanneo della morte, come progetto di Satana per l’uomo, in contrasto diretto col Verbo che è vita e dà la vita. Pensiamo alle tante forme di soppressione della vita umana; ed è impressionante l’avanzare in parecchi paesi europei dell’eutanasia, della dolce morte per anziani, malati e sofferenti. Alla radice di tutte queste negatività c’è il peccato, quella realtà teologica e biblica che ai nostri giorni è facilmente ignorata. Per Giovanni il peccato è il rifiuto del colloquio con Dio, il rifiuto del dono della sua amicizia, il rifiuto di condividere la tenda con il Verbo che ha preso la nostra carne, e ha conseguenze rovinose per la persona e per la società. Peccato del mondo, la cui percezione porterebbe istintivamente a un senso di smarrimento e di paura, se non ci fosse l’Agnello che toglie il peccato del mondo e, con lui, coloro che giorno dopo giorno lo tolgono mediante l’offerta della vita, la presenza positiva in mezzo alla società. Dunque la società non decade perché, fin da ora, Gesù, che ha vinto il peccato del mondo, invia molti per risanare continuamente e capillarmente una società che altrimenti degrada. La visuale giovannea ci permette, a partire dall’approfondimento dei testi, di rileggere anche la situazione e il vissuto del nostro tempo. È vero che l’evangelista non menziona di per sé le ingiustizie, le deviazioni sociali e sessuali, non le tematizza – a differenza dei sinottici. Suppone che ci siano, ma preferisce andare alla radice profonda di ogni comportamento buono e cattivo, sempre alla luce del Verbo fatto carne. Entriamo, dopo questa premessa, nella seconda grande sezione del quarto Vangelo, la parte più bella, più coinvolgente, che corrisponde alla terza settimana degli Esercizi ignaziani. Se la seconda settimana tendeva a contemplare Gesù nel quadro della contestazione mondana, per discernere le

tenebre presenti in noi e scegliere la luce contro le tenebre, la vita contro la morte, la terza ci unisce a Gesù che va alla morte per noi. È anche opportuno in questa giornata cominciare a raccogliere qualche suggestione che ci ha colpito, una intuizione spirituale, un suggerimento interiore, un proposito concreto che vorremmo ritenere. Pur se non si tratta di scrivere una regola di vita – come si fa durante la prima esperienza di esercizi – è utile che un presbitero maturo raccolga qualche punto incisivo ed efficace e lo significhi magari con qualche rinuncia o piccola scelta di cambiamento. Ora ci dedichiamo al libro della rivelazione soffermandoci su un brano dei discorsi dell’ultima cena in cui parla quasi soltanto Gesù; tema centrale è il suo ritorno al Padre, un ritorno sofferente e glorioso. Egli comunica ai discepoli il senso della sua morte come principio di vita nuova per tutti e inizio di una nuova presenza. In questa sezione cessano per lo più le polemiche, le diatribe, le discussioni aspre riportate nel libro dei segni, e l’orizzonte appare sereno, pacato, avvolto in una luce di confidenza tra il Signore e i suoi. Gesù fonda la comunità dei suoi discepoli Propongo il testo piuttosto lungo di 13,1-32, seguendo i suggerimenti di Léon-Dufour che ha buone ragioni per unificare così la prima parte dei discorsi (altri esegeti preferiscono dividerlo diversamente). Egli ritiene, infatti, che l’azione simbolica del lavare i piedi, descritta e interpretata nei vv. 1-17, la denuncia del traditore (vv. 18-30) e la conclusione (vv. 31-32) costituiscono una sorta di preludio, di prologo narrativo al cosiddetto libro della rivelazione e al libro della gloria47. Siamo di fronte a una pagina molto densa, ricca di simboli e anche di enigmi, che non arriveremo mai a decifrare del tutto. Mi ha colpito il titolo dato da Léon-Dufour al brano “Gesù fonda la comunità dei suoi discepoli”, un titolo molto nuovo48. A suo avviso Gesù, con la lavanda dei piedi, consegna ai suoi la regola fondamentale della vita comunitaria e mi sembra una bella intuizione: una comunità si costituisce attorno al Signore sotto il principio unificante del servizio reciproco. Nasce quindi la Chiesa, la cui legge è l’amore. Vedremo che il gesto simbolico si presta a molteplici interpretazioni. In genere gli esegeti lo vedono come esempio di umiltà. Alcuni allargano il

significato dell’azione collegandola con l’Eucaristia: Gesù, lavando i piedi, spiega concretamente a che cosa deve portare l’Eucaristia. Altri esegeti leggono nel gesto l’evento della passione e morte richiamato dal deporre le vesti (v. 4). Altri ancora come un rimando all’incarnazione, al farsi servo di colui che è il Signore. Questo racconto mi sta molto a cuore, e quando i vicari episcopali, all’inizio del mio servizio, mi chiesero quale mistero desideravo fosse raffigurato nel pastorale che stavano per regalarmi, ho scelto subito la lavanda dei piedi. Il vescovo, infatti, vi riconosce se stesso, il suo servizio e la regola d’oro della Chiesa. Cerchiamo di avvicinare la pagina attraverso la lectio per coglierne la struttura, con le parole chiave e i simboli, e attraverso la meditatio per interrogarci sui valori permanenti del testo e avviarci al momento della preghiera. Lectio di Gv 13,1-32 Richiamo cinque evidenti scansioni, che poi esamineremo, seguite da una conclusione. Anzitutto la premessa solennissima del v. 1, che precisa il tempo, le circostanze e l’occasione di quanto viene narrato; è una sorta di proemio alla seconda sezione del quarto Vangelo. È ripresa al v. 2 che introduce alla cena, e perciò alla lavanda e ai discorsi dopo la cena (i due versetti, nella versione greca, formano un unico periodo dal punto di vista sintattico). Il v. 3, invece, ripete la premessa. Seguono i vv. 4-5, che descrivono il gesto compiuto da Gesù. La terza scansione (vv. 6-11) sottolinea la contestazione di Pietro che non accetta il comportamento del maestro, non capisce che il lasciarsi lavare i piedi è un gesto essenziale, non opzionale. Nei vv. 12-17 Gesù stesso dà l’ermeneutica generale, la spiegazione di ciò che ha fatto, di ciò che significa per la sua Chiesa. Con i vv. 18-30 si parla del traditore. Un primo accenno nei vv. 18-20 a chi tradisce e a chi accoglie, e nei vv. 21-30 lo svelamento vero e proprio del traditore. C’è un assoluto contrasto con la scena precedente: all’amore e al servizio si oppongono la menzogna e l’infedeltà. Non a caso l’evangelista specifica: “Era notte” (v. 30).

Infine i vv. 31-32 esprimono la conclusione e il passaggio: Gesù tradito è di fatto glorificato e quindi la sua gloria comincia ad apparire anche nel trattamento ignominioso che gli viene riservato. Analizziamo allora le diverse scansioni e la conclusione. La premessa solenne indica il tempo dell’azione, legato ancora una volta alla Pasqua: “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (v. 1). Notiamo che Giovanni non dice “durante la festa”, come i sinottici che raccontano l’ultima cena del Signore quale cena pasquale. Qui la cena è prepasquale, ma guarda alla Pasqua che, per il quarto Vangelo, è il giorno della crocifissione. Le circostanze, altissime, evocano il prologo poetico: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora […] li amò sino alla fine”. Egli vive ciò che sta per essere narrato fino alla passione, morte e risurrezione, con piena coscienza del cammino che lo attende, con chiara consapevolezza di quell’ora di cui aveva parlato a Cana, rivolgendosi a Maria. È giunta l’ora, cioè il passaggio al Padre. Per questo esprime il sentimento più profondo che alberga nel suo cuore, l’amore sino alla fine per noi, eis telos. La ripeterà come ultima parola prima di morire: “Tutto è compiuto”, tetelesthai, l’amore non poteva manifestarsi più di così. Davvero il v. 1 è una premessa solennissima a quanto seguirà. Due volte insiste sull’amore (“avendo amato i suoi, li amò sino alla fine”). Il libro dei segni, abbiamo detto, insisteva sul credere, sulle condizioni, le tappe, il crescere del credere, ma da qui in avanti l’insistenza è sull’amare. Il v. 2 specifica ulteriormente le circostanze: “Mentre cenavano”. La lavanda dei piedi non sembra avvenire, come di consueto, prima del pasto, ma addirittura durante il pasto, forse per inserirlo meglio nella comunione di vita simboleggiata dal momento conviviale. Gesù dice: il mangiare insieme significa la nostra comunione profonda, che è una legge: lavatevi i piedi reciprocamente, servitevi mutuamente. “Quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo”, si precisa l’occasione epocale. L’amore fino alla fine, l’origine di Gesù dal Padre, il suo essere in possesso di tutto, la libertà del suo dono e insieme il tradimento, sono condensati in maniera straordinaria già nella premessa. Due realtà antitetiche, contrapposte, luce-tenebre, vengono messe direttamente a confronto, nella persona di Gesù e in quella di Giuda.

Il v. 3 riafferma nuovamente la coscienza di Gesù sottolineata dal v. 1: “Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava”. Proprio perché ha tutto nelle mani, il gesto che compirà non è semplicemente un esempio marginale, bensì la rivelazione del modo con cui Dio esercita la sua signoria. Quanto più leggiamo questi primi tre versetti, tanto più riusciamo a capire che siamo di fronte a un mistero ineffabile, il mistero trinitario nella sua rivelazione al mondo. Il gesto è descritto in maniera solenne nei vv. 4-5, con sette verbi. Si direbbe che la scena sia ripresa al rallentatore: Gesù si alza, depone le vesti, prende un asciugatoio, lo cinge attorno alla vita, versa l’acqua nel catino, comincia a lavare i piedi, li asciuga. Dall’accuratezza del racconto si comprende che ogni atto è simbolico, viene compiuto come una liturgia, anche se le diverse azioni simboliche non saranno elaborate subito nella spiegazione. Nella terza scansione (vv. 6-11) leggiamo la contestazione da parte di Pietro, che dà maggior rilievo all’importanza del gesto sia per la buona volontà del contestatore (rifiuta per umiltà) sia per la durezza con cui Gesù dichiara che è necessario lasciarsi lavare i piedi da lui. Si tratta quindi di un gesto salvifico, anzitutto. Osserviamo i tre interventi dell’apostolo e le tre risposte del Signore. Il primo esprime una parola di stupore: “Signore, tu lavi i piedi a me?” Viene in mente il Battista che, nei sinottici, chiede a Gesù con meraviglia: Tu vuoi essere battezzato da me? (cfr. Mt 3,14). Gesù risponde: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”. È un’affermazione categorica, ma non aggiunge nulla se non l’autorità del Signore che vuole così; non si dice che Pietro abbia capito. Probabilmente il “dopo” si riferisce alla spiegazione che verrà poi data e insieme alla morte e risurrezione: contemplando la croce e il Risorto, i discepoli comprenderanno appieno il significato del gesto. Nella seconda battuta del dialogo, Pietro passa dallo stupore al diniego: “Non mi laverai mai i piedi”. La replica è ancora più decisa: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Perché tanta irremovibilità per un gesto tanto semplice? Certamente perché significa che Gesù dona la vita – depose le vesti come deporrà liberamente il suo corpo –, e se non accettiamo che il Figlio di

Dio, il Verbo eterno incarnato, doni la vita per noi, non ci salveremo. Dunque Pietro, rifiutando di lasciarsi lavare i piedi, rifiuta in realtà di lasciarsi amare, rifiuta che il maestro muoia per lui, che lo salvi. Pensa anzi che vorrebbe morire al suo posto, che vorrebbe salvare Gesù. Nel terzo momento va all’eccesso: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”. E Gesù soggiunge, un po’ enigmaticamente: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, ed è tutto mondo”. Gli esegeti discutono su questa espressione “se non i piedi”, e qualcuno ritiene che non sia propria del testo originale, bensì una variante successiva. Comunque il gesto è necessario, anche se i discepoli sono mondi. “Ma non tutti” (v. 10b). Per la prima volta appare l’allusione al tradimento fatta da Gesù stesso. Questi versetti dell’episodio ci permettono di intuire che il gesto della lavanda ha un significato profondo, pur se occorre tempo per capirlo davvero, e che è ineludibile. Non basta essere puri grazie all’ascolto della Parola (cfr. 15,3), bisogna lasciarsi amare fino in fondo per essere salvati. Nella quarta scansione del brano (vv. 12-17) Gesù spiega il senso della sua azione, e lo fa con calma, lentamente, dopo aver solennemente ripetuto alla rovescia i singoli atti: lavati i piedi, riprende le vesti, si siede. Quindi dice: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica”. Dobbiamo imparare da lui, fare come lui, sentirci servitori e mandati, seguire il suo esempio. Il servizio umile, fraterno che siamo chiamati a renderci è il fondamento della nostra comunione fra noi e con Gesù. “Dovete lavarvi i piedi” è una parola che talora ho citato trovandomi di fronte a litigi, a incomprensioni nell’ambito della comunità cristiana, addirittura fra presbiteri. È l’invito a non accusarci a vicenda, a non accusare uno o l’altro, ma a rivivere con semplicità e umiltà il gesto del servizio. Abbiamo spesso a che fare con persone non piacevoli, non preparate, magari non pulite; eppure la regola comunitaria non transige e ci chiede di lavarci i piedi gli uni gli altri. Abbiamo molto bisogno che il Signore ci doni in pienezza il suo amore, perché è già faticoso e umiliante a livello fisico ripetere il gesto di Gesù, ma è assai più difficile a livello morale, perdonando, amando, interpretando bene il

comportamento e le parole altrui. Solo in tale modo, tuttavia, nasce e cresce la comunità dei discepoli, la comunità cristiana. È un insegnamento così importante che Gesù conclude la rivelazione del significato della lavanda con una beatitudine: “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (v. 17). Ovviamente dobbiamo saperle perché, altrimenti, non c’è la forza morale, e nemmeno la grazia, per viverle riferendoci al Signore. E però la vera beatitudine è la pratica, che comporta il superamento di sé nel perdono reciproco e ci permette di sperimentare la gioia evangelica delle beatitudini. Penso a tutte le nostre comunità. Penso alle comunità monastiche maschili e femminili dove si agitano tensioni e contrapposizioni se si dimentica la parola di Gesù; anch’esse sono chiamate a ricominciare ogni giorno dalla regola fondamentale della comunione ecclesiale. E non basta convivere tollerandosi a vicenda, perché la vera beatitudine suggerita dal significato della lavanda dei piedi si esprime con il versetto del salmista: “Ecco come è bello e soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 133,1). I vv. 18-30 sono dedicati al tradimento di Giuda. Possiamo meravigliarci che venga dato tanto spazio al tradimento e che sia incluso in discorsi tanto pieni di amore e di luce un evento orribile – Dante mette Giuda nel fondo dell’inferno, in bocca a Satana. Ma Gesù ne parla usando un linguaggio altissimo e Giovanni lo racconta come parte del cammino del Signore verso la gloria della croce. A indicarci probabilmente che tutti noi siamo sempre capaci di tradire l’amicizia di Gesù, il suo amore, possiamo sempre cadere nel peccato di Giuda. È un bene ricordarcelo, sapendo però che l’Agnello di Dio prende su di sé i nostri peccati. Per questo forse è tanto lunga la riflessione sul tradimento che è espresso in una certa successione. Anzitutto, ai vv. 18-20 in maniera velata: “[…] Io conosco quelli che ho scelto; ma si deve adempiere la Scrittura: colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno”. Il richiamo all’adempimento della Scrittura sminuisce un po’ lo scandalo: il tradimento è previsto dal piano divino, non si può pensare a un fallimento di Gesù o annullare tutto ciò che ha detto. Non c’è, nella Chiesa del Signore, un fatto talmente grave, talmente terribile che non risponda a un disegno, che non possa essere vinto dal progetto positivo di Dio. Ce lo conferma il v. 19: “Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono”. L’evento viene precisato nei vv. 21-22, dove leggiamo un’annotazione

molto bella: “Gesù si commosse profondamente”; come davanti alla tomba di Lazzaro, l’amico morto, ma qui ancora di più perché Giuda è morto spiritualmente. “In verità, in verità vi dico – una parola quindi rivelativa –: uno di voi mi tradirà”. Immaginiamo i discepoli che si guardano gli uni gli altri con terrore: cosa sta accadendo? Verrebbe da pensare che il cammino vissuto col maestro fino a quel momento non abbia senso. Gesù invece prevede il tradimento per assicurarci che tutto ha senso: il senso del suo amore per noi, che risplende più luminosamente di fronte al fatto che uno dei suoi lo tradirà. E nel desiderio di proclamare questo amore, si serve addirittura della curiosità di Pietro, il quale chiede al discepolo che Gesù amava: “‘Chi è colui a cui si riferisce?’. Ed egli reclinandosi sul petto di Gesù, gli disse: ‘Signore, chi è?’ […] ‘È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò’” (vv. 2426). Intingere il boccone e offrirlo è, nella Bibbia, un segno di alleanza, di cortesia, di bontà, di ospitalità, riservato al padrone del banchetto. È dunque un gesto che cerca di vincere l’odio con l’amore, le tenebre con la luce. Il v. 27b ci lascia perplessi ogni volta che lo leggiamo. Quasi a coprire il tradimento di Giuda, Gesù gli si rivolge esortandolo: “Quello che devi fare fallo al più presto”. I discepoli interpretano benignamente l’invito, pensano che Giuda sia mandato a comperare l’occorrente per la festa. Nella sua amabilità, il Verbo incarnato vuole che il discorso continui indisturbato e che il traditore compia la sua opera malvagia, diabolica, senza che la comunità ne riceva troppa offesa. “Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (v. 30), cioè le tenebre apparentemente prevalgono, rifiutano la luce e l’amore. Bellissima e misteriosa la conclusione dei vv. 31-32: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Gesù ha la consapevolezza che la morte è la gloria, l’ora in cui rifulgerà la gloria di Dio, del Padre e del Figlio. Giustamente Léon-Dufour e altri esegeti suggeriscono che i due versetti sono la conclusione del brano, non l’inizio dei discorsi seguenti. La gloria di Gesù, infatti, è il suo amore inerme che si dona anche a chi lo tradisce, un amore che lo porterà sulla croce, dove farà risplendere il vero volto di Dio. Un amore che si rivela pure nelle situazioni più drammatiche e distruttive della storia umana, perché il tradimento del Verbo fatto carne è l’azione che simboleggia tutte le malvagità e le infedeltà. Tutto ciò che nel mondo è legato

all’odio, all’odio gratuito che si scaglia contro i propri benefattori, è sintetizzato nel racconto del gesto di Giuda. La parte del capitolo 13 che abbiamo tentato di analizzare ci toglie il fiato, ci fa giungere ad altezze che impediscono il respiro, ma dobbiamo entrare nel mistero di Gesù, Figlio di Dio, rendendoci conto degli orizzonti infiniti che ci spalanca. I messaggi del brano Vorrei segnalare brevemente quattro messaggi che ricaviamo dalla rilettura del testo. Il primo è espresso in modo chiaro nella premessa: Gesù cammina coscientemente e regalmente verso la morte. La sua morte non è un incidente, non lo coglie di sorpresa, anzi è rivelazione della sua identità, è parte di un disegno divino d’amore. Pertanto i sette verbi che designano il suo gesto (vv. 4-5) non ci dicono soltanto come si prepara a lavare i piedi, ma anche come si prepara a deporre la vita per amore. L’aveva annunciato nel capitolo 10: “Il buon pastore offre la vita per le pecore” – lo ripete tre volte –, “Ho il potere di offrirla questa vita e di riprenderla di nuovo”. Egli è sovrano nella passione e ci comunica, nella grazia dello Spirito, la sua sovranità perché diventiamo capaci di vincere il male che sembra avvolgerci e schiacciarci. Un secondo messaggio: seguendo il suo esempio, la nostra vita quotidiana, specialmente comunitaria, è servizio di amore e di perdono. Siamo amati dal Signore per amare i fratelli, siamo perdonati per perdonare. È questo anche il senso dell’Eucaristia che, nutrendoci dell’amore di Dio, ci spinge al servizio di amore e di perdono. In Gv 13 non si parla direttamente del sacrificio eucaristico, ma se ne sottolinea il significato etico. C’è un messaggio più alto, e quasi temiamo a enunciarlo. Gesù con il suo gesto ci comunica qualcosa della natura stessa di Dio, in quanto lui è lo splendore della gloria del Padre. Non soltanto Dio può abbassarsi fino a prendere carne e a servire umilmente per amore, ma la sua potenza senza limiti si rivela al meglio, diviene gloria, luminosità evidente quando si abbassa nel servizio e nel dare la vita. Noi abbiamo faticato molto, lungo i secoli, a comprendere l’immagine di un Dio a servizio dell’uomo. È più facile pensare al Dio degli eserciti, che vince le guerre e, come tale, l’abbiamo invocato in battaglie – probabilmente

inevitabili – contro l’Islam, contro i Turchi, per salvarci dalla schiavitù. Tuttavia il Vangelo, nel suo momento culminante, ci insegna che la rivelazione privilegiata di Dio è quella dell’amore umile, sofferente, senza limiti, fino alla morte. Non è facile capire cosa possa significare per una società, per una cultura; in ogni caso questo messaggio deve aiutarci a interpretare le vicende di una società e di una cultura. Nel brano giovanneo viene dunque esplicitato il prologo: il Verbo si è fatto carne e abbiamo visto la sua gloria, riflesso della gloria di Dio. E la rivelazione della vera immagine di Dio ci fa penetrare nel mistero trinitario, mistero di dedizione reciproca, traducibile in termini umani con il servizio generoso, amabile, disinteressato a tutti i fratelli. Un ultimo messaggio: Gesù affronta il traditore dandogli un boccone di pane (segno di amicizia e di comunione), affronta il tradimento con distacco, con amore sovrano, ed è glorificato assumendo in sé il peccato del mondo (simboleggiato dall’azione malvagia di Giuda). Il peccato del mondo non impedisce, non frustra, non vanifica il gesto del maestro, ma lo fa risplendere in pienezza: il rinnegato che ci ama fino in fondo è l’Agnello vittorioso dell’Apocalisse. Verso la contemplatio Propongo infine qualche linea di preghiera per il momento orante e contemplativo. Possiamo rivivere il racconto della lavanda dei piedi anzitutto identificandoci con Pietro e chiedendo a Gesù: “Signore, tu lavi i piedi a me?” Ricordo in proposito una frase molto bella del testamento spirituale di don Giovanni Moioli49: sto per incontrare il mio giudice, avverto in me un senso di paura, ma mi conforta il pensiero che mi giudicherà colui che mi ha lavato i piedi. Questa percezione di Moioli davanti alla sua morte imminente, ci fa capire come aveva penetrato il significato del gesto di Gesù. Un altro modo possibile di pregare avviandoci alla contemplazione è quello di interrogarci sulla nostra adesione alla parola di Gesù: “Se io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (v. 14). A chi sto rendendo o posso rendere questo servizio di amore, di perdono, di sincera accettazione? È chiaro che lo rendiamo a ogni persona della

comunità che ci è affidata, e spesso ci pesa, ma Gesù ci invita a viverlo con lui. Proviamo anche a evocare, davanti al Signore, le situazioni nelle quali, donando il perdono, abbiamo sperimentato il mistero della gioia di Dio. Sarebbe inoltre bello pregare a partire dai primi versetti del brano per entrare nella coscienza di Gesù: Tu sai, Signore, che è la tua ora e che hai tutto nelle tue mani! A partire da tale coscienza, possiamo contemplare come Gesù vede me, il mondo, vede Giuda, vede la mia comunità, come legge nella sua morte la manifestazione della gloria. Una quarta pista di preghiera: metterci ai piedi di Gesù come uno che può tradirlo. La nostra fragilità è tale da indurci a rinnegarlo come Pietro, a tradirlo come Giuda, a fuggire come gli apostoli. Di qui allora sgorga un colloquio di umiltà e di fiducia: Signore, la mia fragilità è grande, lo confesso, ma sono certo del tuo amore e sento che la parola da te rivolta a Pietro, la ripeti a me, a ciascuno di noi: “Ho pregato per te, che non venga meno la tua fede” (Lc 22,32).

XI. IL COMPIMENTO DELL’OPERA DI CRISTO (GV 19,17-37) Dopo aver riflettuto sull’episodio in cui Gesù fonda la comunità dei discepoli, esaminiamo un testo del cosiddetto libro della gloria che comprende i capitoli da 18 a 21. Vi invito a leggerli per intero, a meditarli con calma lasciando che tocchino il cuore, a contemplare come il Signore porta tutto a compimento. Rivivendo i fatti narrati giungeremo anche noi, per grazia dello Spirito Santo, al compimento del nostro cammino, alla maturità della fede, speranza e carità. Leggiamo quindi la passione quale compimento della vita terrena di Gesù, quale specchio per la pienezza della vita cristiana. Il testo che ho scelto per la lectio divina in comune presenta le ultime cinque scene che concludono il racconto della passione e commentano la crocifissione (19,17-37). Colpisce e meraviglia che l’evento sia indicato con una sola parola – “lo crocifissero e con lui altri due” (v. 18) – e venga tralasciato ogni accenno ai sentimenti, alle emozioni, alla compassione o all’orrore. Il fatto è descritto semplicemente con un verbo. In realtà l’evangelista vuole aiutarci a penetrarne il senso, appunto attraverso una serie di quadri successivi. Il primo riguarda in particolare il titolo affisso sulla croce, punto di arrivo dell’evento (vv. 17-18). Il secondo presenta la divisione delle vesti di Gesù (vv. 23-24). Il

terzo quadro è quello della madre e del discepolo (vv. 25-27). Il quarto sottolinea la sete e il compimento (vv. 28-30). Il quinto, infine, il più lungo e il più misterioso, riguarda il colpo di lancia (vv. 31-37). Alcune di queste scene sono ricordate anche dai sinottici (per esempio il titolo sulla croce e la divisione delle vesti), ma senza soffermarsi troppo. Nel quarto Vangelo, invece, vengono accuratamente descritte una per una, e a ciascuna è attribuito un significato preciso – compimento, pienezza della vita di Gesù, pienezza della rivelazione del Padre, gloria del Figlio che manifesta la gloria del Padre. Giovanni intende comunicarci come l’Agnello di Dio toglie il peccato del mondo e porta a termine l’opera affidatagli da Dio. Rileggiamo dunque queste scene nell’ottica particolare dell’evangelista, aprendoci allo Spirito Santo perché susciti in noi le risposte conseguenti all’evento della crocifissione. L’iscrizione sulla croce “Essi allora presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo del Cranio, detto in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù nel mezzo” (vv. 17-18). Il fatto orribile, come dicevo, è espresso con un semplice verbo e si accenna che Gesù è posto in mezzo ad altri due. Un accenno ricco di senso: il posto in mezzo è il posto d’onore. Preferisco però fermarmi di più sull’iscrizione, descritta ben più ampiamente della crocifissione: “Pilato compose l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: ‘Gesù il nazareno, il re dei giudei’” (v. 19). Sembra un particolare di poco conto – il vero problema è che un uomo muore ingiustamente sulla croce –, eppure è molto importante per Giovanni. Pilato è la massima autorità civile e militare del tempo, colui che ha il potere di fare quanto ritiene giusto secondo il suo autorevole giudizio. Interessante l’annotazione: la scritta era in ebraico, latino e greco. L’ebraico o l’aramaico è la lingua sacra della Bibbia; il latino quella civile, la lingua dell’autorità romana dominante; il greco era la lingua degli scambi culturali e commerciali. Che significato ha questa iscrizione? Sta a dire che Gesù il nazareno, il re dei giudei, è il re di tutta l’umanità e tutti devono saperlo. È una dichiarazione di fronte al mondo intero perché è pubblica, solenne: “Molti giudei lessero la scritta, poiché il luogo era vicino

alla città” (v. 20). Ma i sommi sacerdoti si indignano ritenendola umiliante per il popolo, quasi che il popolo sia umiliato nella persona di Gesù (è il loro re ed è finito sulla croce!). Pilato però, che precedentemente si è mostrato pavido, tentennante, oscillante, di fronte alla contestazione risponde con risolutezza: “Ciò che ho scritto, ho scritto” (v. 22). L’evangelista coglie nel titolo conferito a Gesù una vera e propria parola profetica, una proclamazione regale. Già al v. 5 Pilato ha pronunciato una sorta di profezia presentando alla folla Gesù: “Ecco l’uomo!”; ecco l’uomo autentico, l’umanità realizzata. E, nell’iscrizione, possiamo leggere la risposta di fede alla domanda posta da Pilato: “Sei tu il re dei giudei?” (18,33). Penso che la verità profonda di questa scena sia proprio la regalità messianica del Verbo fatto carne. Egli è il re, colui al quale Natanaele aveva dichiarato: “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!” (1,49). Gesù è il Messia atteso da Israele e, sulla croce, manifesta la sua sovranità, secondo l’interpretazione di san Giustino50, poi passata nella liturgia: regnavit a ligno Deus, il Signore regna dalla croce, e la sua sovranità è riconosciuta e attestata dall’autorità massima del suo tempo. Il messaggio giovanneo sembra paradossale. Quando leggo i racconti della passione, quando contemplo questi versetti, ripenso sempre alla Madonna che si sente dire dall’angelo: “Gesù sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre, e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,32-33). Fortissima la contraddizione fra le parole dell’angelo e lo sbocco finale della vita del Signore! Eppure regna dalla croce, dove rivela la strapotenza dell’amore di Dio che anche dalla morte sa trarre vita; la sua è una regalità che salva. L’iscrizione è dunque di vittoria e siamo chiamati a capire come la crocifissione, che umanamente è una sconfitta, è in realtà la soluzione vittoriosa del caso di Gesù. La divisione delle vesti Giovanni conferisce un notevole rilievo anche alla divisione delle vesti, che racconta accuratamente: “I soldati, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica” (v. 23). Il contributo specifico del discepolo testimone rispetto alla

narrazione dei sinottici, riguarda proprio la tunica, tessuta tutta d’un pezzo, da cima a fondo, dall’alto in basso. Egli vuole sottolineare la duplice divisione ampliando il senso del Salmo 22, citato esplicitamente: “Si sono divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte” (v. 19). Un versetto che, di per sé, poteva essere inteso, soprattutto nella lingua originale, come un’unica azione. L’evangelista, invece, nella sua acribia e basandosi probabilmente su una tradizione storica, distingue la spartizione delle vesti dall’estrazione a sorte della tunica e ne spiega il motivo: perché la tunica è senza cuciture e non è bene che sia stracciata. Il racconto, così circostanziato, ha certamente anche un significato simbolico, che però Giovanni lascia a noi indovinare. Un primo significato è che Gesù ha dato veramente tutto per noi, non si è riservato nulla, ha sacrificato persino le vesti che, in qualche modo, onorano il corpo nascondendone la nudità; ha accettato di comparire in pubblico come un uomo senza valore, che tutti possono schiacciare. I Padri della Chiesa e gli esegeti ritengono invece che, nell’insistenza sulla tunica senza cuciture, ci sia un significato più profondo ma difficile da determinare in maniera convincente per tutti. Del resto, la caratteristica dei segni del quarto Vangelo è di essere molteplici e polivalenti, di indurre a pensare a tante possibili realtà storiche la cui validità non può essere provata. Così, per alcuni la tunica che non si strappa è simbolo del corpo di Gesù, che rimane intatto e risorgerà; è l’anticipo della risurrezione. Altri esegeti, a partire dal III secolo, da san Cipriano51 in poi, vedono nella tunica l’immagine della Chiesa indivisa, che non deve essere lacerata dagli uomini. Seguendo questa interpretazione, comprendiamo le preoccupazioni della Chiesa e del papa e la volontà di affrettare il cammino ecumenico per ritornare alla piena comunione delle confessioni cristiane. Dunque nella tunica possiamo leggere pure la nostra convinta adesione al Vaticano II che esorta all’unità rispettando le diversità, la nostra gioia per la lettera Ut unum sint di Giovanni Paolo II, che rilancia come irrinunciabile l’attività ecumenica52. Si può allargare il senso dalla tunica da non strappare cogliendo in esso l’invito a superare tante lacerazioni che distruggono la nostra vita psicologica, sia attraverso gli affetti e le delusioni sia attraverso l’eccesso di lavoro e di preoccupazioni. La tunica inconsutile e su cui i soldati gettano la sorte per salvarla, è pure immagine di quella maturità umana e cristiana che mette insieme unità e

integrità. Noi tutti dobbiamo lottare quotidianamente per non farci lacerare dai mille eventi che insidiano la nostra unità interiore e per ritrovarla nella preghiera, nella conversazione con i fratelli, nel riposo, nei momenti di serenità. Giovanni affida alla riflessione della Chiesa e di ciascuno di noi l’elaborazione dei simboli evocati dalla sua narrazione dei fatti. E la Scrittura, che opera nell’oggi ed è viva, ci stimola a leggere nella Parola le vicende, i bisogni, i destini della Chiesa in cammino e della storia. La madre di Gesù Il terzo quadro è proprio del quarto Vangelo: “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre, e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre: ‘Donna, ecco il tuo figlio!’ Poi disse al discepolo: ‘Ecco la tua madre!’ E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa” (vv. 25-27). I sinottici non riportano questo fatto; si limitano a menzionare le donne che “stavano a osservare da lontano”, mentre Giovanni le colloca “presso la croce” insieme alla madre e al discepolo “lì accanto”. Non spiega, tra l’altro, il significato dell’ultima annotazione: “Da quel momento il discepolo la prese nella sua casa”. È un testo su cui si apre una ricca stagione di riflessioni nella storia della Chiesa. Della madre si era parlato soltanto a Cana, ed è quindi ovvio per gli esegeti collegare il primo segno di Gesù con la presenza di Maria presso la croce. Se il segno di Cana era simbolo dell’alleanza tra Dio e gli uomini e la madre raffigurava il popolo di Israele, ora viene messa in relazione con la conclusione dell’alleanza, l’inizio della Chiesa rappresentata nel discepolo che Gesù amava. Possiamo leggere comunque nel racconto un primo senso ovvio, storico: Gesù non vuole che la madre resti del tutto sola e provvede affinché qualcuno abbia cura di lei. È un gesto di amore, di tenerezza, di provvidenza. Sappiamo però che da sempre i commentatori, gli esegeti e i Padri della Chiesa e quanti hanno pregato su questo testo, si sono premurati di trovare altri significati, e vorrei ricordare almeno tre interpretazioni. La prima contempla in Maria l’immagine della Chiesa madre di tutti i credenti rappresentati dal discepolo.

La seconda considera Maria stessa, nella sua individualità, come madre di tutti i cristiani. Una terza interpretazione legge, invece, in Maria l’Israele credente – come già nell’annunciazione e a Cana – che entra nel mistero di Cristo. Dunque Israele e il discepolo amato da Gesù si accolgono mutuamente, abitano insieme; Israele, col suo tesoro di fede, di attesa, di disponibilità accede al mondo della rivelazione, e per questo la sua tradizione santa e la tradizione evangelica non devono mai essere separate. È un modo molto bello di riflettere sul rapporto fra i due Testamenti. Specialmente oggi, col sorgere di un antisemitismo che giunge fino a tentare l’eliminazione del popolo ebraico, e con le tristi vicende che sembrano contaminare il mistero di Israele e macchiarlo col sangue dei fratelli, Maria può esserci di conforto. È un invito a pregare perché questo mistero si compia nella pienezza dei tempi, secondo le parole di san Paolo. Certamente il dialogo tra ebrei e cristiani è delicato e difficile, ma non mancano piccoli progressi. Recentemente, per esempio, è stata istituita presso l’Università ebraica di Gerusalemme (sede di un’ortodossia colta e aperta, e però legata alla tradizione israelitica) una cattedra di cristianesimo. È un evento di poco conto, ma che va nella linea di questa terza interpretazione. Senza entrare più a fondo nella simbologia, contempliamo Maria come l’Israele che dà vita a Gesù e si unisce al destino della Chiesa primitiva rappresentata da Giovanni. Il compimento Il quarto episodio ci pone più esplicitamente davanti al compimento, su cui abbiamo riflettuto fin dalla prima meditazione degli esercizi. Il verbo “compiere” ricorre in diverse forme: “Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: ‘Ho sete’” (v. 28). Viene espressa la piena coscienza del Verbo fatto carne, evocata in maniera solennissima nel cap. 13, all’inizio del libro della rivelazione. Con tale coscienza di compiere l’opera del Padre e di ritornare al Padre, il Figlio vive l’istante della sua morte. L’evangelista vuole dunque mettere in rilievo che Gesù depone liberamente la sua vita. E Gesù compie la Scrittura in ogni minima parte, affinché il disegno di Dio sia onorato fino in fondo, anche nel dettaglio della sete. Alcuni salmi, infatti, parlano della sete del malato o del

giusto: “Quando avevo sete mi hanno dato aceto” (Sal 69,22). I sinottici annotano che a Gesù “diedero da bere vino mescolato con fiele”, in riferimento allo stesso salmo. “Vi era lì un vaso pieno d’aceto; posero perciò una spugna imbevuta di aceto in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca. E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: ‘Tutto è compiuto!’ E, chinato il capo, spirò” (vv. 29-30). L’ultima parola è regale, sta a proclamare che Gesù ha compiuto fino in fondo la missione ricevuta dal Padre. Ho già richiamato che la nuova versione della CEI traduce “spirò” con “rese lo Spirito”, secondo le indicazionie di molti esegeti moderni. Rende lo Spirito al Padre e dona lo Spirito all’umanità; già la sua morte si fa segno e potenza di vita. È in questo Spirito che noi viviamo ed è nello Spirito che leggiamo la passione; è grazie alla sua forza che la nostra debolezza è sostenuta nel pregare (cfr. Rm 8,26) e nel capire il senso profondo degli eventi raccontati dall’evangelista. Così, un atto ovvio come è quello di un condannato alla croce che ha sete, diventa segno di un compimento e la morte diventa proclamazione del dono dello Spirito. È un episodio ricchissimo e sintetico, che ci ha guidato nella nostra lettura del testo giovanneo verso il compimento del cammino del presbitero, il suo entrare nel mistero di Cristo. Il colpo di lancia La scena del colpo di lancia è esclusiva di Giovanni ed è narrata minuziosamente, con tutti i particolari: Era il giorno della Preparazione e i giudei, perché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato, chiesero a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via. Vennero i soldati e spezzarono le gambe al primo e poi all’altro che era stato crocifisso insieme a lui. Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si adempisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto (vv. 31-37).

L’apertura del costato è il contributo specifico del testimone al racconto della crocifissione. Tre volte è ripetuto il concetto: “Chi ha visto ne dà testimonianza, la sua testimonianza è vera, egli sa che dice il vero, perché

anche voi crediate” (v. 35). L’evangelista vuole segnalare che il fatto riveste un’estrema importanza, pur se non è facile interpretarlo nei suoi significati profondi. Tutto parte da uno scrupolo dei giudei che chiedono a Pilato lo spezzamento delle gambe. L’azione viene eseguita dai soldati, ma non su Gesù che era già morto; allora uno di loro lo trafigge con una lancia e dal suo costato zampilla sangue e acqua. Fin qui non ci è data nessuna interpretazione. La fase esplicativa, che però è appena embrionale, si trova dopo la testimonianza della veridicità dell’accaduto, con il richiamo a due passi della Scrittura. Il primo da Es 12,46: “Non gli sarà spezzato alcun osso” e da Nm 9,12: “Non ne spezzeranno alcun osso”. La prescrizione riguarda l’agnello pasquale e comprendiamo che il vero agnello, la vera Pasqua è Gesù, colui che toglie il peccato del mondo, il servo di Dio che si è sacrificato per salvare molti. Dal fatto storico prende avvio una ricca riflessione sulla potenza redentiva della croce. Il secondo passo – “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” – non ha un riferimento preciso perché in Zc 12,10 si legge: “Guarderanno a me che essi hanno trafitto”. Questo particolare è per noi significativo. Giovanni si è premurato di mettere in luce la sostanza dell’evento, incurante dell’esattezza del testo citato, e il messaggio è chiaro: il crocifisso è al centro dell’attenzione del mondo intero, è il centro della storia e tutti, già da ora, volgeranno lo sguardo a lui come alla fonte da cui scaturisce l’acqua della vita. Notiamo che coloro che l’hanno trafitto non sono gli ebrei, bensì i pagani, i romani. Volgeranno lo sguardo a lui non solo come a un innocente perseguitato e messo a morte ingiustamente, ma come a un morto che dona vita. A questa prima interpretazione ne seguiranno altre nella storia della Chiesa: dal fianco di Gesù nasce la Chiesa; sgorgano i sacramenti, primariamente il battesimo e l’eucaristia; esce Spirito e vita (parecchi manoscritti antichi invertono i temi mettendo l’acqua prima del sangue, per indicare appunto che lo Spirito è vita che viene dalla morte). Ancora una volta l’evangelista lascia ai suoi lettori di penetrare, attraverso la preghiera, il senso dei simboli, supponendo che la vita della Chiesa sia talmente ricca di immagini, di aperture di orizzonti, da poter

attingere dalla pienezza di Gesù sempre nuove conoscenze del mistero. Questa pagina ci invita allora a non fermarci qui, a non dire: abbiamo capito. Siamo chiamati a contemplare continuamente il Verbo fatto carne, in particolare il suo cuore trafitto e la manifestazione gloriosa dell’amore di Dio in quella ferita del costato. È la linea interpretativa che, a partire da san Bonaventura53 e poi da santa Margherita Maria Alacoque54, si è sviluppata specialmente verso la metà del secondo millennio, mostrando che la Chiesa sa davvero trarre sempre nuove ricchezze dai simboli biblici. Il quarto Vangelo ci consegna dunque il racconto della passione, crocifissione e morte di Gesù come un testo per una meditazione orante che si apra a coglierne il significato più profondo, conducendoci a mettere al centro della storia umana il Figlio unigenito del Padre, colui che ne rivela la gloria anche nei momenti più oscuri, più foschi e contestati della sua vicenda terrena. Giovanni ci offre così una grande visione unitaria e contemplativa, nel desiderio di insegnarci che il discepolo maturo nella fede sa scoprire, pur nei segni dell’insuccesso, la luce del Verbo fatto carne che risplende nelle tenebre. Donaci, Signore Gesù, di riconoscerti presente nei chiaroscuri della nostra vita, del nostro ministero, del nostro cammino verso di te. Donaci la gioia di guardarti oggi, domani e sempre nella tua bellezza di crocifisso. Te lo chiediamo per intercessione di Maria, tua madre e madre della Chiesa, e del discepolo che tu amavi. Amen.

XII. IL RISORTO E IL CASO SERIO DELLA FEDE Nell’ultima meditazione di un corso di esercizi si concentrano naturalmente molteplici messaggi, perché quanto abbiamo ascoltato, pensato e ripensato in questi giorni, suggerisce riprese e approfondimenti. Invochiamo quindi lo Spirito Santo, che ci ha guidato fin dall’inizio e accompagnato nelle riflessioni, pregandolo di aiutarci a fare unità nel cuore e a operare una sintesi utile anche per il nostro futuro cammino. Vorrei proporre dapprima una scorsa dei testi sulla risurrezione; in un secondo momento la lectio di 20,1-18; accennerò poi una sintesi di questo ritiro; e infine, a modo di conclusione, tornerò sul tema del caso serio della fede.

Ci possiamo subito chiedere come mai Giovanni, che colloca la glorificazione del Figlio nell’evento della morte, racconta le apparizioni del Risorto. Personalmente concordo con la risposta che Léon-Dufour dà alla domanda55. Nei discorsi di addio Gesù ha preannunciato qualcosa sulla nuova condizione dei discepoli, dopo il suo passaggio al Padre; ora che ha raggiunto il termine del suo cammino, vuole mostrare quanto quel passaggio ha loro ottenuto. I testi ci parlano, infatti, dei discepoli in cammino verso la fede nel Signore vivente che li incontra. I racconti della risurrezione: Gv 20-21 I diversi episodi dei capitoli 20-21 sono un po’ slegati tra loro, si accavallano l’un altro perché, probabilmente, attingono a varie fonti. L’ordine con cui Giovanni ce li tramanda non è perciò immediatamente visibile, ma a lui preme soprattutto indicare il passaggio dalla mancanza di fede, o dalla fede iniziale, alla fede piena. Un salto di qualità esemplificato nell’incontro di Gesù con Maria di Màgdala presso il sepolcro; nella figura del discepolo prediletto – e, nella sua ombra, si intravede anche Pietro –; nell’apparizione al gruppo dei discepoli; ed è pure esemplificato in noi, là dove il Risorto afferma: “Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (20,29b). Il capitolo 21 riprende lo stesso ritmo insistendo sul cammino dal non riconoscimento del Vivente al riconoscimento e al mandato missionario. Quale senso globale hanno questi episodi, per noi che li leggiamo, li meditiamo e li contempliamo oggi? A me pare che abbiano lo scopo di attualizzare l’esperienza di Chiesa. Giovanni intende non solo narrare ciò che è avvenuto duemila anni fa, ma pure sollecitarci a vedere Gesù presente e vivo nella Chiesa del nostro tempo. In concreto significa che gli atteggiamenti di titubanza, di resistenza e di lentezza a credere, propri di Maria di Màgdala, di Pietro, dei discepoli, di Tommaso, dei sette pescatori sul lago, sono i nostri. È la nostra fatica di ogni giorno a riaprirci al messaggio del Risorto. Sul lago i discepoli faticano a capire il senso del gettare di nuovo le reti, a riconoscere il Signore. Ma insieme significa che è nostra, ed è nostro diritto, pure la gioia, l’entusiasmo, la fede, l’apertura di orizzonti che vivono Maria di Màgdala, Pietro, Giovanni, Tommaso dopo aver riconosciuto Gesù. È nostra la gioia della scoperta, l’esperienza di fede, la certezza di lui presente in mezzo a noi.

Nei testi della risurrezione leggiamo davvero noi oggi. Penso, in particolare, tra questi atteggiamenti, alla gioia che abbiamo indicato come una delle quattro chiavi del quarto Vangelo. Tutto il Vangelo di Giovanni si può infatti considerare scritto a partire da una straordinaria esperienza di gioia: “E i discepoli gioirono al vedere il Signore” (20,20). Vedere il Signore, incontrarlo vivo, saperlo risorto, è la luce che risplende nella narrazione giovannea, già dal prologo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (1,4). Non è una riflessione astratta, perché gli apostoli ci trasmettono una testimonianza: questa vita l’abbiamo vista in mezzo a noi, una vita che è luce. A dire che Cristo risorto cambia la visione del mondo, lo illumina. San Paolo, in 1Ts 4,13-14: “Non vogliamo lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi, come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo che Gesù è morto ed è risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui”. Il Vangelo è di coloro che hanno speranza, che credono in Gesù vita, vita che diviene luce, gioia, fonte di significato per la Chiesa oggi, non solo per gli apostoli di allora. In tante pagine del testo giovanneo troviamo le tracce di questa espressione: “In lui era la vita e la vita è la luce degli uomini”. Tre volte è ripetuta nel racconto della guarigione del figlio di un funzionario del re – che abbiamo meditato nel libro dei segni –: “Tuo figlio vive” (4,50-51.53). Parola pronunciata prima da Gesù, poi dai servi e che, alla fine, viene ricordata dal padre. “Tuo figlio vive”, colui in cui hai messo il tuo cuore è vivo, costituisce una delle sintesi del quarto Vangelo. Sarebbe anzi bello ripercorrere le 36 occorrenze della parola “vita” fino all’ultima, là dove ci è data una prima conclusione dell’intera opera: “Questi segni sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (20,31). Quello di Giovanni è il Vangelo della vita, di Cristo risorto in mezzo a noi per farci vivere, e questa vita nella quale entriamo credendo nel suo nome si concretizza nell’esperienza dell’incontro con il Signore vivente. Lectio di Gv 20,1-18 Abbiamo cercato di capire il senso globale, la tensione che attraversa i

due capitoli sulla risurrezione e che spiega l’intera opera dell’evangelista. A questo punto propongo la lectio di Gv 20,1-18, per cogliere il cammino di Maria di Magdala e anche, in parte, il cammino del discepolo prediletto. L’incontro della donna col Risorto è narrato in premessa (vv. 1-2) ed esplicitato nella sua pienezza nei vv. 11-18. Mi interessa evidenziare le tappe del passaggio verso quella pienezza del credere che colma di gioia. Maria di Màgdala parte da un’interpretazione precipitosa e riduttiva del sepolcro vuoto: “Si recò al sepolcro di buon mattino, quando era ancora buio – ed era buio anche nel suo cuore – e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: ‘Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!’” (vv. 1-2). L’interpretazione della donna, oltre a essere riduttiva e precipitosa, appare addirittura scettica; non prende nemmeno in considerazione che Gesù possa essere risorto. Guardando però nel suo animo, ci accorgiamo che non è una persona incredula, come sembrerebbe: in lei si muove qualcosa d’altro, una sorta di immaturità dell’amore. Ella ama molto il suo maestro, ma vuole possederlo; non accetta la sovrana libertà di Dio e si irrigidisce sul modo di essere di Gesù da lei conosciuto. Vorrebbe che quel modo si riattivasse, e ripete agli angeli la stessa espressione di scetticismo riguardo alla possibilità della risurrezione: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto” (v. 13). Di nuovo, rivolgendosi a Gesù: “Se lo hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo” (v. 15b). Questa donna è prigioniera di una visione rigida di Gesù. Ed ecco che, di fronte a tanta fatica di riconoscerlo risorto, il Signore si manifesta, sempre nello stile del prologo, pieno di tenerezza, di compassione, di condiscendenza e di fedeltà. Chiamandola per nome: “Maria!”, fa risaltare la sua gloria e le permette di conoscerla. Poi, amabilmente, corregge la voglia di possesso di Maria di Màgdala e le allarga il cuore verso una missione preziosa: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli” (v. 17a). L’episodio è un esempio del cammino di ciascuno di noi, del nostro cammino nella Chiesa. Che cosa c’è dunque in noi di questa donna? Ciò che ci impedisce continuamente di vedere il Risorto in mezzo a noi e nella Chiesa, è l’irrigidimento. Ci fissiamo su un certo modo di intendere il mistero di Gesù o del Regno, di intendere il successo della Chiesa o del nostro apostolato. Quante volte ci domandiamo: ma dov’è il Signore risorto? Dove

l’hanno portato? In realtà Gesù è vivo e ci dona la libertà dello Spirito, Gesù è nei sacramenti, nella Parola, nella comunità, nella tradizione apostolica. Le forme del suo manifestarsi sono però molteplici e spirituali, sciolte, imprevedibili; e lo riconosciamo nella misura in cui ci liberiamo da noi stessi per la grazia dello Spirito e per la parola che il Risorto ci sussurra nel cuore chiamandoci per nome. Il racconto evangelico riguarda il nostro cammino verso il riconoscimento del Signore dentro la quotidianità, così da sentirlo e contemplarlo operante in ogni situazione della vita, in forza della fede. L’atteggiamento del discepolo prediletto e, nella sua ombra, di Pietro, lo leggiamo ai vv. 3-10. “Si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro” (vv. 3-4). Entrambi sono da lodare perché diligenti, pronti a captare i segnali, premurosi. C’è persino una gara di velocità, che indica appunto il loro desiderio di capire, di essere attenti ai segni del Risorto. Vedono la tomba vuota, le bende per terra, il sudario in ordine e il discepolo che Gesù amava, il più intuitivo dei due, accede subito alla fede: “Vide e credette” (v. 8), presagisce che il suo Signore non poteva essere prigioniero della morte. Tuttavia avrebbe dovuto credere senza recarsi al sepolcro, fidandosi della Scrittura, della parola del maestro: “Non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (v. 9). In ogni caso “l’altro discepolo” fa un cammino importante, mentre Pietro resta perplesso e, in Lc 24,12 si dice che “tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto”. Pietro e Giovanni siamo noi che ci affanniamo perché amiamo Gesù e quindi corriamo, talora col fiato grosso, ci diamo da fare, sentendo che i pesi e gli adempimenti sono davvero troppi. Spesso, in questa corsa affannosa, dimentichiamo l’essenziale, cioè la fede nel Risorto che è qui adesso. Si tratta di cogliere i suoi segni, di immetterci in quell’orizzonte di fede piena che ci permette di vivere anche la corsa quotidiana con meno fatica, con più gioia e con maggiore serenità. Il testo di 20,1-18 parla quindi di noi, della Chiesa, delle nostre fatiche e, soprattutto, della gioia. Una gioia che spalanca i nostri sguardi mostrandoci come la risurrezione illumina tutta la nostra esistenza. Vorrei allora richiamare due volti concreti della maturità del presbitero nella fede e nel ministero, così come la propone il quarto Vangelo; una maturità che non è mai qualcosa di raggiunto, ma è una meta verso cui tendiamo con la grazia dello Spirito. Il primo volto l’ho espresso nella prima meditazione del nostro ritiro,

dove ho sottolineato l’importanza dell’equilibrio tra quattro ambiti fondamentali: antropologico, teologico, evangelico, ecclesiale. C’è un secondo volto: la fede è matura quando siamo davvero uomini della risurrezione, preti gioiosi, lieti, non lamentosi, preti che resistono al senso di frustrazione sempre in agguato. Questo frutto della maturità cristiana diventa incoraggiamento per altri, infonde consolazione, conforta le persone che avviciniamo, ci spinge a gettare la luce della vita sugli orizzonti e sulle culture di morte. La maturità cristiana non si spaventa, non si rinchiude in se stessa, non si tura gli orecchi davanti alle catastrofi, ma vive, come i tre fanciulli nella fornace (cfr. Dn 4,24 ss.), cantando, lodando e benedicendo Dio. La sintesi degli Esercizi A questo punto mi sembra utile riassumere ciò che abbiamo tentato di vivere attraverso l’itinerario giovanneo. Lo riassumo con le parole di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte. Alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solo l’esperienza del silenzio e della preghiera offre l’orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente di quel mistero che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell’evangelista Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14)56.

Leggiamo qui il nostro percorso, che ha preso avvio dalla proclamazione di Giovanni – commentata lungo tutto il quarto Vangelo – per contemplare il Verbo fatto carne e lasciarci illuminare in un’esperienza di silenzio, di raccoglimento, di preghiera. Il n. 28 conferma il nostro modo di cogliere il senso delle apparizioni del Risorto come punto di arrivo: È a Cristo risorto che ormai la Chiesa guarda. Lo fa ponendosi sulle orme di Pietro, che versò lacrime per il suo rinnegamento, e riprese il suo cammino confessando a Cristo […] il suo amore […] A duemila anni di distanza da questi eventi, la Chiesa li rivive come se fossero accaduti oggi. Nel volto di Cristo essa, la Sposa, contempla il suo tesoro, la sua gioia. “Dulcis Iesu memoria, dans vera cordis gaudia”: quanto è dolce il ricordo di Gesù, fonte di vera gioia del cuore! Confortata da questa esperienza, la Chiesa riprende oggi il suo cammino, per annunciare Cristo al mondo, all’inizio del terzo millennio57.

Un ultimo passo del documento evoca il “caso serio della fede”, che il

presbitero maturo deve vivere con serenità e realismo: Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. [In tale situazione] chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo58.

Nelle parole del papa cogliamo dunque una sintesi del cammino da noi compiuto e di quello futuro che ci attende. Ci siamo infatti sforzati, nella grazia dello Spirito, di contemplare il volto del Verbo fatto carne, del Figlio unigenito del Padre, che vive in comunione col Padre, per trasmettere agli altri la sua luce, la sua vita, la sua verità. Il caso serio della fede È proprio sul caso serio della fede che ritorno per una riflessione conclusiva. Esso appare in tutta l’opera di Giovanni ed è descritto in 20,3031, un testo che abbiamo citato più di una volta: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”. È la sua stupenda esperienza che l’evangelista vuole comunicarci, trasmetterci. Pur conoscendo la forza delle tenebre egli è sicuro che la vittoria è la vita nel nome di Gesù. Ripensando alle nostre meditazioni che gradualmente ci hanno introdotto nel mistero del Verbo incarnato, comprendiamo che il caso serio della fede si gioca soprattutto sulla domanda: credi a un Dio che si presenta umile, benevolo, pieno di tenerezza, a un Dio crocifisso? Rispetto all’incredulità crescente attorno a noi – lo ammettiamo con dolore –, la risposta non può essere: miglioriamo la catechesi, organizziamoci meglio, preghiamo di più. Bisogna puntare sul caso serio, aiutare la gente a riconoscere e accogliere un Dio che si esprime nella fragilità e nell’umiltà della carne, nel suo avvicinarsi cortese e delicato alle persone, nella potenza di fronte alle tenebre e nella compassione di fronte alla debolezza umana, un Dio che risplende nell’estrema inermità del crocifisso. Credere a un Dio così ha molte conseguenze antropologiche, esplicitate nei Vangeli; sono il succo concreto e quotidiano del caso serio della fede, che ci esorta a entrare in Gesù come figli del Padre, con la forza e la serenità testimoniate dal Signore in ogni momento e in ogni vicenda della sua vita terrena. Nonostante siamo circondati dalla secolarizzazione, dall’indifferenza e

dall’incredulità, la nostra situazione è meno drammatica di quella della comunità giovannea che era una piccola luce in mezzo a grandi tenebre, eppure aveva una fede profonda. Se siamo obbedienti allo Spirito, la grazia dell’oggi ci fa ritrovare la luce delle prime comunità suscitate dal fatto cristiano e ci aiuterà a leggere nel Nuovo Testamento ricchezze straordinarie di ottimismo vissuto in condizioni difficili e oscure. Sono convinto che la gloria di Dio si può manifestare in noi oggi più che nel passato, mostrandoci il carattere provvidenziale delle prove che stiamo attraversando, perché la forza della Parola ci permette di interpretarle con più dovizia di sfondi, di storia, di tradizioni rispetto a quanto potevano fare le povere e modestissime comunità del Nuovo Testamento. 1

Pensiero riassunto da Francesco ROSSI DE GASPERIS, Bibbia ed esercizi spirituali. La Bibbia negli esercizi spirituali e gli esercizi spirituali nella Bibbia, Roma, Borla, 1982, pp. 110-116. 2 Martini si riferisce qui al cosiddetto titolo degli Esercizi spirituali: “Esercizi spirituali per vincere se stesso e ordinare la propria vita…” [21]. 3 Novo millennio ineunte è la lettera apostolica scritta da Giovanni Paolo II e firmata il 6 gennaio 2001, alla conclusione dell’Anno Giubilare del 2000. 4 Firmato il 29 giugno 2001, era il documento che tracciava gli orientamenti pastorali della Chiesa italiana nel decennio 2001-2010. 5 Novo millennio ineunte, n. 29. 6 Ibid., n. 16-17. 7 ORIGENE di Alessandria (185-254), teologo e filosofo della Grecia antica. 8 Cfr. nota 1, p. 44. 9 Luigi GONZAGA (1568-1591), di nobile famiglia, entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù e morì mentre era studente a Roma. 10 Insieme di movimenti e atteggiamenti spirituali, tipici della fine del XX secolo, raccolti attorno ad alcune idee comuni: l’interesse per la religiosità, il benessere dell’uomo, la tutela dell’ambiente e la ricerca di una spiritualità alternativa sia alle religioni tradizionali sia al razionalismo proposto dalla modernità. 11 I pregiudizi che derivano dalle dottrine filosofiche del passato; Martini fa riferimento a uno dei numerosi “pregiudizi della mente” (idoli) identificati dal filosofo inglese Francesco Bacone (15611626). 12 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Principio e Fondamento”, p. 1157. 13 È la lettera che Martini scrisse all’Arcidiocesi di Milano per l’anno pastorale 1981-1982. 14 Karl RAHNER (1904-1984), gesuita e teologo tedesco, fra i protagonisti del rinnovamento della Chiesa che portò al Concilio Vaticano II. 15 Karl RAHNER, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Roma, Paoline, 1984, p. 361. 16 Ibid. 17 Ibid., p. 362.

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Dominus Jesus è una Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede, sull’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa. 19 Jacques MARITAIN (1882-1973), francese, e sua moglie Raïssa OUMANÇOFF (1883-1960), russa, sono stati entrambi filosofi cristiani. La sorella di lei, Vera (1886-1959) visse assieme alla coppia negli anni della maturità. 20 Louis GARDET è lo pseudonimo assunto da André BROTTIER (1905-1986) al momento di divenire piccolo fratello di Gesù e quindi noto islamista. 21 Nora POSSENTI GHIGLIA, I tre Maritain. La presenza di Vera nel mondo di Jacques e Raïssa, Milano, Ancora, 2000, p. 242. 22 Cfr. nota 3, p. 1013. 23 TOMMASO D’AQUINO (1225-1274), sacerdote teologo dell’Ordine dei Predicatori, dottore della Chiesa. Cfr. ID., Summa theologiae, III, q. 47, a. 3. 24 Xavier LÉON-DUFOUR (1912-2007), gesuita francese, teologo e professore di Sacra Scrittura. Il riferimento è a ID., Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1990, vol. I, pp. 215-334. 25 È la celebre frase di sant’Agostino nell’anniversario della sua ordinazione; in AGOSTINO, Discorsi 340,1, in ID., Opere di Sant’Agostino cit., vol. XXXIII, p. 995. 26 Questa meditazione, così come gli altri interventi del cardinale durante quel pellegrinaggio, sono raccolti in Carlo Maria MARTINI, Tomás Alvarez FERNÁNDEZ, Franco BROVELLI, Solo Dios basta: la preghiera nella vita del pastore, Milano, Ancora, 1995. 27 Cfr. Xavier LÉON-DUFOUR, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni cit., p. 239 (più ampiamente, pp. 236-246). 28 Walter KASPER, nato nel 1933, è cardinale, vescovo e teologo tedesco, attualmente membro di vari dicasteri in Vaticano. Il riferimento dovrebbe essere ID., Il Dio di Gesù Cristo, Brescia, Queriniana, 1984, pp. 170-171. 29 ARISTOTELE, Etica a Nicomaco, VIII, 1155a; in ID., Etiche. Etica Eudemea, Etica Nicomachea, Grande etica, a cura di Lucia Caiani, Torino, Utet, 1996, p. 405. 30 Raïssa MARITAIN, I grandi amici, Milano, Vita e pensiero, 1991. 31 Cfr. Nora POSSENTI GHIGLIA, I tre Maritain cit. 32 Cfr. nota 19, p. 1038. 33 Luigi SERENTHÀ (1938-1986), presbitero e teologo della diocesi di Milano. Il testo è in ID., Tu sei i miei giorni. Intuizioni e prospettive di pastorale vocazionale, a cura di don Walter MAGNI, Milano, Ancora, 1996, p. 5. 34 Carlo BUZZETTI (1943-2001), prete della diocesi di Bergamo e docente di Sacra Scrittura. 35 Nuovo Testamento greco-italiano, a cura di Eberhard NESTLE – Barbara ALAND – Bruno CORSANI – Carlo BUZZETTI, Roma, Società Biblica Britannica & Forestiera, 1996, p. 296 (nota a 13,34). 36 Donald B. COZZENS, The Changing Face of the Priesthood. A Reflection on the Priest’s Crisis of Soul, Collegeville (Minn.), Liturgical Press, 2000, p. 28 (traduzione italiana successiva, Queriniana, 2002). 37 Martini citava dal testo di Cozzens in inglese traducendo a braccio. 38 Cfr. “Piccolo lessico ignaziano”, voce “Settimana”, pp. 1158. 39 Cfr. nota 10, p. 498. 40 Nell’enciclica Pacem in terris, pubblicata l’11 aprile 1963, papa Giovanni XXIII si rivolse non solo ai cattolici, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”.

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Cfr. nota 18, p. 1038. René GIRARD (1923-2015), antropologo, critico letterario e filosofo francese. Il riferimento è soprattutto alla sua opera La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980 (ed. or. 1972). 43 Sigmund FREUD (1856-1939), neurologo e psicoanalista austriaco, fondatore della psicoanalisi. 44 Cfr. Donald B. COZZENS, The Changing Face of the Priesthood cit., p. 49 (pp. 85-86 dell’edizione italiana). 45 Raymond Edward BROWN (1928-1998), prete statunitense e docente di Sacra Scrittura, autore di vari commentari del Vangelo di Giovanni. Il riferimento è a ID., A retreat with John the Evangelist. That You May Have Life, Cincinnati, St. Anthony Messenger Press, 1998. 46 Ibid., p. 18. 47 Cfr. Xavier LÉON-DUFOUR, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni cit., vol. III, pp. 28-83. 48 Ibid., p. 28. 49 Giovanni MOIOLI (1931-1984), prete della diocesi di Milano, per lunghi anni professore di teologia spirituale, mancato dopo una lunga e sofferta malattia. Il testamento è stato pubblicato in Giovanni MOIOLI, Preghiere, Milano, Glossa, 2003, pp. 108-109. 50 GIUSTINO, filosofo e teologo, nato in Samaria e martirizzato a Roma nel 164. 51 CIPRIANO, vescovo di Cartagine, dove era nato, e lì martirizzato nel 258. 52 Ut unum sint è il titolo dell’enciclica pubblicata da Giovanni Paolo II il 25 maggio 1995; tratta dell’ecumenismo e in particolare dei rapporti tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. 53 BONAVENTURA da Bagnoregio (1218-1274), santo, filosofo e teologo, generale dell’Ordine francescano e poi vescovo e cardinale. 54 MARGHERITA MARIA ALACOQUE (1647-1690), santa, monaca e mistica francese, a cui è legata la devozione al Sacro Cuore di Gesù. 55 Cfr. Xavier LÉON-DUFOUR, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni cit., vol. IV, pp. 253-254. 56 Novo millennio ineunte, n. 20. 57 Ibid., n. 28. 58 Ibid., nn. 39-40. 42

PICCOLO LESSICO IGNAZIANO

Addizioni: serie di note o consigli pratici, per aiutare chi fa gli esercizi a ricavare maggior frutto dalle singole proposte. Affezione: inclinazione interiore verso una persona o una cosa, che condiziona e orienta le decisioni. Ogni vera trasformazione implica il cambiamento delle affezioni. Annotazioni: note o avvisi posti all’inizio del testo ignaziano [1-20], come suggerimenti utili per chi deve proporre e per chi deve fare gli esercizi. Binario: “tipo d’uomo”. Il termine era usato nel Cinquecento per indicare genericamente l’uomo, in quanto composto di anima e di corpo. L’esercizio dei tre binari o categorie di persone [149-157] delinea tre diversi atteggiamenti riguardo al problema pratico di liberarsi dall’attaccamento a una certa somma di denaro, intesa come simbolo di ogni realtà che, pur dotata di valore, può rischiare di intralciare la libertà nella scelta del bene più universale. Colloquio: preghiera conclusiva delle meditazioni e contemplazioni, sotto forma di conversazione con una Persona Divina o con la Vergine Maria, per ottenere il frutto particolare di ogni esercizio. Composizione di luogo: uno dei passi introduttivi alle meditazioni e contemplazioni. In esso ci si predispone allo svolgimento della preghiera, guardando con l’immaginazione il luogo in cui avviene il mistero della vita di Gesù che si vuole prendere in considerazione. Consolazione: movimento interiore che produce nell’anima gioia spirituale e pace, per cui ci si sente contenti in Dio e si sperimenta facilità e slancio nel credere, sperare, amare, pregare, perdonare e attendere al proprio dovere.

Desolazione: movimento interiore che, opposto alla consolazione, produce nell’animo turbamento, scoraggiamento, disagio, tristezza, oscurità. Discernimento: attività per cui si distinguono tra i molteplici, e talora opposti, sentimenti e desideri che si muovono interiormente quelli che conducono verso il bene e la vita da quelli che conducono verso il male e la morte. Nell’ultima parte del libretto degli Esercizi spirituali si trovano alcune “Regole” del discernimento [313-336] Elezione: processo con cui l’uomo si impegna in una determinata direzione, nel senso di “scelta” di uno stato di vita o di “riorganizzazione” del proprio modo di vivere; è uno degli obiettivi principali degli esercizi. Esercizio: ciascuna delle attività di ordine spirituale, fra loro coordinate, che vengono svolte nelle giornate di preghiera per progredire nella via di Dio. Ordinare: dare unità e ordine alle intenzioni e alle azioni, eliminando le affezioni non libere e orientando tutta la vita al disegno di amore di Dio. Preamboli o Preludi: passi introduttivi alla meditazione o alla contemplazione, che servono a far maturare le disposizioni più adatte per la loro buona riuscita. Ogni esercizio è introdotto da una preghiera preparatoria e, a seconda dei casi, da un breve richiamo del soggetto su cui pregare. Seguono, sempre nella fase introduttiva, la composizione di luogo e la richiesta di grazia corrispondente al contenuto dell’esercizio stesso. Presupposto: indicazione preparatoria al cammino degli Esercizi [22], che suggerisce una via perché la comunicazione tra la guida e l’esercitante sia costruttiva, superando quei pregiudizi che impedirebbero di collaborare nella ricerca della volontà di Dio. Principio e Fondamento: considerazione posta come punto di partenza del percorso degli Esercizi spirituali e come proposta di principi che troveranno sviluppo nel loro seguito [23]. Presenta il senso della vita dell’uomo e di tutto ciò che esiste, in relazione al fine ultimo che è Dio. Regno: esercizio che, all’inizio della seconda settimana, introduce alla considerazione dei misteri del Vangelo [91-100], che vengono contemplati

come la chiamata rivolta da Cristo, Re eterno, all’esercitante di condividere la Sua vita. Regole per sentire con la Chiesa: si trovano alla fine del libretto degli Esercizi [352-370]. Hanno lo scopo di invitare l’esercitante a tenere un giusto atteggiamento nei confronti della gerarchia ecclesiale e a promuovere uno spirito di unione e di armonia nell’edificazione della Chiesa, anche di fronte a sensibilità spirituali differenti dalle proprie. Ripetizione: esercizio in cui si ritorna su una meditazione o contemplazione già effettuata, soffermandosi su quanto avesse particolarmente segnato chi fa gli esercizi. Settimana: ciascuna delle quattro parti in cui si dividono gli Esercizi. Nella forma integrale essi durano circa un mese, anche se ogni parte può variare nella sua estensione a seconda delle esigenze e dei ritmi di chi li riceve. Ogni settimana è orientata alla maturazione di un frutto specifico: dalla liberazione dal peccato attraverso l’esperienza della misericordia di Dio (prima settimana) alla ricerca della sua volontà nella sequela di Gesù (seconda settimana); e infine alla incorporazione/partecipazione alla passione, morte e risurrezione del Signore, come via nella quale compiere la volontà di Dio fino al dono totale di sé (terza e quarta settimana). Umiltà: la sottomissione dell’uomo a Dio per amore; i tre “gradi o maniere di umiltà” proposti nella seconda settimana degli Esercizi [165-168] tendono alla piena adesione affettiva e a una totale disponibilità alla sequela di Cristo crocifisso e risorto; nel testo trasmesso da un esercitante guidato direttamente da sant’Ignazio si trova la dizione “tre modi e gradi di amore”. Vessilli o bandiere: esercizio fondamentale alla metà della seconda settimana [137-147], nel quale si è invitati a immaginare Cristo e Lucifero che si contendono il destino dell’umanità e il cuore di ciascun uomo attorno a due progetti contrapposti. La bandiera di Cristo è la croce, cioè la via della povertà e dell’umiltà evangeliche, che conducono alla vera vita.